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Giovanni Ruffini - Il dottor Antonio (1855)
Traduzione dall'inglese di Bartolomeo Aquarone (1856)
Capitolo I
Avvertenza II


IL DOTTOR ANTONIO



CAPITOLO I.

Grandi e piccoli.


In un bello e splendido giorno di aprile del 1840, una elegante carrozza da viaggio tirata da quattro cavalli di posta correva di pien galoppo nella strada della Cornice, famosa fra gli eleganti giramondo: strada, come ognun sa, che percorre da Genova a Nizza tutta la riviera di ponente.

Poche strade più belle di questa sono in Europa; — e poche certamente, come questa, riuniscono in sè tre condizioni di bellezza naturale: il Mediterraneo da un lato, dall’altro gli Appennini, e di sopra il puro cielo d’Italia. Per sovrappiù, l’industria dell’uomo ha fatto ogni sforzo, se non per superare, almeno per non rimanere inferiore alla natura. Un seguito di città e di paeselli, alcuni graziosamente stesi sulla riva, bagnati ai piedi dalle onde argentine; altri sparsi come una mandra di bianche agnelle sui fianchi della montagna, o pittorescamente elevati sulla cima di una catena di monti sublimi; qua e là qualche santuario sospeso in alto sopra uno scoglio bagnato dal mare, o mezzo perduto sulla collina fra il verde del bosco; palazzi marmorei, e ville dipinte sorgenti fra vigneti aprichi, giardini vagamente fioriti, e boschetti di aranci e di limoni; un’infinità di bianchi casini con gelosie verdi, sparsi per i clivi di quei colli, sterili un tempo, ora coperti di terrazzine, l’una sull’altra elevate a raccorre il poco terreno, e vestiti in cima di oliveti; tutto insomma quanto v’è, creazione della mano dell’uomo, mostra l’operosità e l’industria di una razza di popolo vigorosa e gentile.

Costretta lungo la costiera capricciosamente dentata, la strada va innanzi irregolare e serpeggiante; talora a livello col mare fra spalliere di tamerici, aloè ed oleandri: talora su qualche scosceso fianco di monte, in mezzo a nere foreste di pini, sorgenti in tanta altezza che l’occhio ritraesi spaventato dal guardare l’abisso soggetto; qua nascosta dentro gallerie scavate nel vivo sasso; là scoperta fra una lunga estensione di terra, di cielo e di acqua; talora rivolta verso la terra quasi volesse aprirsi il passo fra il monte; tale altra piegata all’improvviso in opposta direzione quasi volesse precipitarsi a capofitto nel mare. La varietà della prospettiva derivata da quella continua mutazione di punti di vista, richiama all’idea le infinite vedute di una lanterna magica. Se ci venisse fatto dare a questo abbozzo un pochino — soltanto un pochino del reale colorito locale — faremmo una maravigliosa pittura! Ma non possiamo. Ritrarre quest’atmosfera trasparentissima, l’azzurro dilicato del cielo, e l’azzurro cupo del mare, e le dolci graduazioni della tinta di queste montagne ondeggianti, che l’una sull’altra si elevano, vince il potere della parola. Appena vi basterebbe il pennello di D’Azeglio, o di Stanfield.

Per questa contrada correva rapidamente la carrozza di cui cominciammo pur ora a dar notizia al lettore. Era un bel capolavoro, quale può uscire dalle mani del primo carrozziere di Londra: leggiera, elegante, ben sospesa, larga, di bell’apparenza; e cogli altri accessorii tutti che mostrano la nobiltà e la ricchezza del possessore; dallo stemma miniato a numerosi quarti, appena visibile sugli sportelli finamente verniciati a scuro, e sormontato dalla mano insanguinata — distintivo del posto tenuto dal viaggiatore nell’inglese società; sino alla vivace cameriera della signora, e l’uom di livrea un po’ grosso, i quali mostravano la loro ammirazione alla bella natura circostante placidamente dormendo in cassetta.

I due adagiati nell’interno, un gentiluomo di età avanzata e una giovine signora — evidentemente padre e figlia — parevano, se si può giudicare dall’apparenza, come i servi insensibili alla svariata bellezza che aspettava la loro ammirazione. Bianche vele scorrenti come grandi cigni sopra le onde increspate; alberi da frutta carichi di fiori, da parer mazzetti enormi anzi che alberi; campi coloriti in giallo per le gionchiglìe, in azzurrino dagli anemoni, e biancheggianti per le stelle di Betlem dai lunghi stami; grigi scogli armati ad ogni fessura dalle lanceiformi foglie dell’aloè gigantesco, passavano rapidamente sotto agli occhi dei nostri viaggiatori, ugualmente non visti o non curati.

Mezzo seppellita sotto un ammasso di guanciali, cuscini e scialli, la giovine signorina giacea stesa lunga, facendo ogni sua prova per dormire. Benchè fossero le sue gote pallide dalla stanchezza, e un cerchio azzurrino intorno agli occhi manifestasse tristamente gli effetti della insonnia; pure il sonno rifiutava di venire ad essa, come un continuo mutar di posizione, uno scuotersi e agitarsi con impazienza fanciullesca mostravano chiaro al compagno. Ella era il bel modello di un tipo di bellezza, che s’incontra non di rado in Inghilterra, specialmente fra le classi più elevate; — tipo che unisce in sè caratteri apparentemente incompatibili: uno stampo di nobiltà vicino all’alterigia, e una soavità di contorni quasi ideale. Quel velo di languore sparso sulla sua persona dava alla sua amabilità una grazia speciale, una irresistibile attrattiva. La natura facendo si bella questa giovinetta, pareva avesse scritto in tutte le fattezze di lei, fragile. Le sottili vene azzurrine delle sue tempia, quasi venature di marmo; il soave azzurro degli occhi, la bianchezza della pelle tinta di verginal rossore; tutto ricordava, ahi troppo! la fugace e florida beltà di qualche fior dilicato. I capelli, de’ quali alcune ciocche scappavano qua e là dalla ricamata rete che li teneva stretti, avevano quella ricca tinta d’oro, con cui i pittori italiani adornano il capo dei serafini. Nel complesso era di forme graziose e incantevoli tanto, che di più non ne mirò mai occhio d’uomo; e quali un angelo sceglierebbe, condannato a vestire umana carne: — corporee abbastanza per mostrare l’umana natura, e abbastanza trasparenti da lasciar travedere un raggio della origine celeste.

Sir John Davenne — era il nome dell’uomo maturo che stava accanto alla bella creatura — sedeva immerso in una profonda meditazione. Benchè non apparisse piacevole, pure ne lo poteva distrarre soltanto il suono represso di una tosse corte e secca, che destava tutte le sollecitudini del padre affezionato. Volgendosi alla sua giovane compagna, le chiedeva con voce sommessa affettuosissima se si sentisse peggio, e le mormorava qualche parola di amore o di incoraggiamento, e le scuoteva o accomodava i guanciali.

L’esterno del padre era anche in qualche guisa prevenente. La carnagione fresca e quasi femminea nella sua mollezza, l’occhio azzurro chiaro, la fronte altera, scarsamente ombrata da due povere ciocche di lucidi capelli grigi con cura pettinati in avanti; la persona alta e dritta che appena dava segno delle cinquantasei o cinquantasette estati contate da chi le portava; tutto contruibuiva a produrre una gradevole impressione. — Ma una più attenta osservazione, uno sguardo più lungo, rivelava certi nei in quella polita superficie. La fronte pura di colore, e liscia come marmo, era alta ma stretta come la fronte di Giorgio III e Carlo X; fattezza ereditaria nella famiglia da cui il gentiluomo discendeva; e prometteva una ostinazione da disgradarne le teste coronate alle quali veniva rassomigliato. L’occhio di azzurro chiaro era troppo preminente e rotondo; le narici del naso, finamente arcato, erano alquanto arricciate; e le labbra di fino taglio rilevate all’insù: il che indicava, insieme all’angolo acuto delle narici, abito inveterato di superbo spregio. La generale espressione del contegno del gentiluomo parea dicesse che il fango onde son fatti gli uomini erasi posto fra la sua nobiltà e il vento.

Un lungo scoppiettìo della frusta del postiglione, e il selciato di pietre sul quale corre ora la carrozza, annunziano romorosamente il suo ingresso in una città. Un ohè! stentoreo dell’automedonte del cocchio aristocratico avvisa l’invisibile occupante di un misero calessino a due ruote, fermo davanti alla Posta, di ceder luogo. Sia effetto della mano insanguinata, che si fa sentire anche in distanza; sia che il proprietario del calessino avesse i suoi affari di premura, il fatto si è che quella parola di comando fu tosto obbedita; e il polveroso calessino scappò via al galoppo serrato della sua rozza, lasciando padrone del campo non disputato il pesante suo competitore.

La cameriera e il servo saltano dalla cassetta, e si portano agli sportelli della carrozza ossequiosi. La malata chiede un bicchier d’acqua. L’acqua viene sporta; e sir John vi getta da una boccetta alcune gocce di liquore, e la porge alle labbra della sofferente fanciulla. Due accattoni di mestiere, uomo e donna, pittorescamente cenciosi, cominciano intanto una litania di miserie, finita sempre con una carica ripetuta: che la Madonna santissima e tutti i santi del paradiso ripagheranno dieci volte la carità dei buoni benefattori. Miss Davenne cerca la borsa, e pone qualche moneta in mano alla donna, che per sorte trovasi dalla sua parte. Sir John gitta qualche pezzo di argento in terra pel vecchio. Certo ambedue, padre e figlia, sono mossi dallo stesso sentimento meritorio; ma in qual modo differente lo esprimono! Sentono quella differenza anche gli accattoni: che la vecchia mormora un ringraziamento, e accenna sulle labbra un sorriso; il vecchio raccoglie la moneta, e se ne va taciturno.

— «Come si chiama questo paese?» chiese miss Davenne. — «San Remo,» rispondono. Sir John Davenne non approva quel nome; o almeno si può supporre dalla sua alzata di labbro al sentirlo. Guarda la strada all’insù, la guarda all’ingiù, e poi ritira il capo. Se avesse sir John Davenne tenuto un libro di Memorie, probabilmente ci scriveva una nota di questo genere: — «San Remo, paese di aspetto singolare, strade strette, mal selciate, case alte, irregolari, popolo cencioso, sciame di accattoni,» — e via così per tutta una pagina. Fortunatamente per la fama di San Remo, sir John non teneva libro di Memorie.

Intanto quattro cavalli erano di già attaccati alla carrozza; ma la lunghezza della posta a fare, e la natura montuosa della strada, a detta del mastro di posta, richiedevano un cavallo di più. Questo quinto cavallo, che aveva ad essere messo solo innanzi agli altri, manifestava un’assoluta ripugnanza a prendere il posto assegnatogli, ora cacciandosi sotto, ora inalberandosi alternativamente; finchè scioltosi affatto, scappò di gran carriera giù per la stretta via, inseguito da quanti uomini e fanciulli si vedevano per città. Dopo una viva caccia, preso per gli sforzi riuniti, venne riportato trionfalmente, e attaccato alle testa degli altri quattro. Il postiglione, balzato sulla sua sella pesante, scosse la frusta intorno al suo capo: prima a dritta, poi a sinistra, facendo seguir ciascun atto da uno scoppio come di pistola; e la carrozza finalmente si rimise in moto fra uno strepito tumultuoso indistinto.

Di lì a poco riapparve il calessino di già notato a San Remo, affaticantesi su per un lungo e irto clivo: mostra curiosa delle vetture di questo paese; scolorito, consunto, ristretto e quasi informe; tale insomma da far maraviglia che si tenesse intero sulle ruote. La distanza fra i due legni diminuiva a vista, guadagnando spazio le quattro ruote sulle due; quasi come un gran vapore che insegua vivamente un piccolo. Il denso strato di polvere sulla strada ammorzava il rumore delle ruote e de’ piedi dei cavalli, e rendeva più che mai necessario l’usuale avviso dello scoppiettare della frusta. Eppure il postiglione non dava segno di vita. Probabilmente ritenea per certo che il conduttore del calessino dovesse essersi accorto dell’arrivo del magnifico suo vicino, e avrebbe avuto cura conveniente di sè; oppure era tanto occupato nell’accomodar la frusta da dimenticare il suo dovere. Comunque fosse, fatto è che il legno inglese appena arrivato alla cima della salita, lanciatosi a un tratto a tutta corsa, passò innanzi a gran carriera all’inavvertito povero calessino. La piccola rozza, spaventata e adombratasi, fece tale un salto a sinistra, che calessino, cavallo e conduttore sarebbero precipitati nel mare, ove fosse stata men forte ed esperta la mano che teneva le redini.

La tirata di parole con cui il galantuomo del calessino salutò l’improvviso arrivo de’ suoi compagni di viaggio (dal tono risentito col quale erano pronunciate non si potevan prendere per benedizioni) attestò abbastanza il suo risentimento per lo scortese procedere del postiglione. Per buona sorte, miss Davenne, benchè sapesse discretamente l’italiano, non intendeva punto il dialetto della Riviera; altrimenti avrebbe avuto uno strano e spiacevolissimo saggio della eloquenza appassionata di quei paesi.

Se l’incontro inaspettato aveva messo la povera rozza e il suo padrone fuor di sè, il famoso cavallo di rinforzo della vettura di sir John non riuscì punto più quieto. Forse era contagioso l’ombrare, o forse l’animale aveva speciale antipatia per lo scendere in giù: e qui proprio cominciava la scesa. Comunque fosse, appena passato il calessino, la sua corsa divenne un misto variato di galoppare, di cacciarsi sotto, di arrestarsi. Sir John che seguiva, colla testa fuori dello sportello, con ansietà ognor crescente le strane evoluzioni della bestia, avrebbe immediatamente chiamato il postiglione; ma lo riteneva il duplice timore di destar sua figlia da quella specie di sonno nel quale pareva immersa da quando avevano lasciato San Remo, e di arrestare troppo di repente i cavalli in piena corsa. Arrivata la carrozza al fine della discesa, che non era lunga, ed essendosi intanto ridesta miss Davenne, sir John ordinò al postiglione di fermarsi; e disse a John, il compagno della cameriera in cassetta, di scender giù a vedere che cosa fosse. John discese, e tra servo e postiglione cominciò un dialogo che non prometteva probabilmente alcun esito soddisfacente: dacchè non intendeva il postiglione una sola sillaba delle domande e degli ordini di John, espressi in pessimo italiano; nè comprendeva John una sillaba delle spiegazioni date dal postiglione nel dialetto della Riviera. Ciascuno ripeteva più volte le sue parole, senza comunicar all’altro un’idea. Insisteva l’inglese John, perchè il cavallo restio si mettesse dentro le guide, e uno dei più quieti al suo posto; mentre il postiglione, con la natìa facondia, persisteva in asserire che non c’era pericolo, che il cacciarsi sotto e l’indietreggiare del cavallo alla testa era cagionato dal batter della stanga contro le gambe, e che la avrebbe riassettata in un momento.

Alla fine la rigorosa pantomima del giovane italiano — chè il postiglione non passava i venti anni — dette a John un lampo dell’idea del suo interlocutore. Il fatto indicato dal giovane era tanto evidente, essere gli urti della stanga, se non la sola, una delle cause della inquietezza del cavallo, che John lieto di vedersi risparmiata maggior contesa per sì piccola cosa, e pure con qualche perdita di sua dignità, accettò prontamente la spiegazione. E avendo riferito al padrone, che v’era solo un guasto da nulla negli arnesi, risalì gravemente il suo comodo seggio presso a miss Hutchins.

Il postiglione aveva intanto provato di accorciar la catena del timone, sì che non battesse contro il cavallo; e fischiava forte nello stesso tempo: quando il calessino lasciato indietro, venne e gli si fermò accanto senza essere sentito e veduto. — «Evviva Prospero!» disse una voce che fece tutto a un tratto balzar il giovinetto, che voltò gli occhi e si levò frettolosamente il cappello; «che diavolo ti accade quest’oggi? sai tu, monellaccio, che mancò un pelo tu non mi gettassi in mare?»

— «Gittare in mare Vossignoria?» esclamò Prospero con un tono singolare d’ira e di dispiacere ad un tempo. «Sa vossignoria, che piuttosto vorrei annegarmi da me cento volte? Ma questo non è il calessino di vossignoria. Come potevo credere che vossignoria vi stesse dentro?»

— «E che c’entra tutto questo?» replicò in tuono severo la voce del signore cui era diretto il discorso; «che importa che ci sia io o il Gran Kan dei Tartari? Come osate farvi giuoco della vita di chicchessia? È vostro affare, e vostro dovere, di badare che i cavalli da voi guidati non ammazzino un pacifico cittadino. Avete inteso?»

Prospero, profondamente umiliato, disse che ne provava un vero dispiacere; e avrebbe fatto di tutto, perchè più non accadesse nulla di simile.

— «Benissimo, ma che sorta di cavallo è codesto?» continuò la voce; e una mano stesa fuori da sotto la coperta del calessino indicò il cavallo di rinforzo.»

— «È un cavallo nuovo, signore, venuto proprio jeri alla stalla. È una bestia ombrosa.»

— «Ombrosa, la chiamate? bagattella! È una bestia viziosa quant’altra ne abbia mai veduto, e che il vostro padrone non avrebbe dovuto attaccare a un legno dentro cui siano cristiani. È un quarto d’ora che osservo il vostro ombroso cavallo. Ascoltate un buon consiglio, mentre è ancor tempo, Prospero: invece di stringere quella fibbia, scioglietela: e lasciate che il cavallo se ne torni in San Remo.»

Se Prospero fosse stato un uomo di cinquant’anni, con una riputazione stabilita di buon postiglione, c’è molta probabilità che avrebbe accettato il buon consiglio; ma era, per dir così, proprio un ragazzo pieno di coraggio e di fiducia nella forza delle sue braccia, e ardentemente avido di farsi conoscere sulla strada per un cocchiere di prima riga. Ora il rimandare in simili circostanze il cavallo indietro, era una confessione della sua incapacità a guidarlo; — confessione ripugnante del pari all’ambizione e all’amor proprio di Prospero. Hanno i postiglioni il loro punto d’onore come la gente che essi conducono.

E Prospero rispose astutamente: — «Lasciarlo sulla strada, voleva dire, signore? E come potrebbe tornarsene da sè addietro, avendolo noi preso solamente jeri, e dall’interno del paese? Mi troverei per benino in faccia al padrone, se lasciassi qui sciolto il calvallo! Ma non v’è pericolo,». continuò Prospero con la solita aria rispettosa e allegra. — «Qualunque cavallo si inalbererebbe battendogli un gran pezzo di legno ad ogni passo contro le gambe. Vedrete, signore, se rilascio un poco i finimenti, e scorcio la catena da tener immobile il timone, andrà quieto come un agnello.»

— «Bene, te ne hai ad intendere meglio di chicchessia,» rispose la voce: «in ogni modo, stagli coll’occhio addosso; e bada, trovandomi di nuovo, di non ribaltarmi, nè mi far prendere un bagno freddo se è possibile.»

Le ultime parole furon dette in tono di scherzo. Il postiglione mostrò due file di bianchi denti nella risata cordiale con cui accolse la raccomandazione; e salutò rispettosamente, mentre il calessino correva via.

Questo dialogo, naturalmente non compreso dai viaggiatori inglesi, durò appena due minuti; essendo rapido e incisivo il modo di parlare de’ due interlocutori. La voce dell’uomo invisibile era notevole per il tono melodioso e per l’uso naturale di ciò che potrebbe ben dirsi il chiaroscuro della parola. Dicendo noi l’uomo invisibile, s’ha a intendere per quelli che stavano dentro in carrozza; i quali, trovandosi i due legni l’uno avanti all’altro e quasi nella stessa linea, non potevano vedere della persona che era nel calessino coperto, se non la mano colla quale aveva indicato il cavallo.

Allungati i finimenti e scorciata la catena, non corse molto tratto che la grande carrozza inglese passò ancora una volta innanzi al dimesso calessino: questa volta bensì di passo veramente discreto, e dopo avere il ravveduto Prospero fatto risuonar nell’aria ogni sorta di fischio, grido, o chiamata, e ogni sorta di segno che con una frusta si possa dare. Sir John Davenne respirò di contento quando lo passarono. Strano invero! Il baronetto si era abbassato sino a prendere una personale avversione per il calessino, e sperava averlo veduto per l’ultima volta. Oh! sir John Davenne, v’ha una leggenda o una parola anche più antica delle crociate: L’uomo propone, e Dio dispone. Il restìo cavallo si conduceva bene in questo tempo; miss Davenne dormiva tranquillamente; e però allontanata ogni causa di fastidio e d’inquietezza, sir John ricadde nella primitiva astrazione: la quale, da lì a pochi minuti, a dispetto di uno o due sforzi virili, divenne un bel russare.

Poco dopo che sir John ebbe chiusi gli occhi, la strada, che per un tratto era andata salendo, cominciava a discendere. Per un buon miglio correva ripiegandosi a zig-zag intorno a un declivio nudo e sassoso e rossiccio, che andava a finire nel mare; poi, svoltando rapidamente a dritta, appariva l’ultima parte, ma la più rapida della scesa, e quindi per un tratto al livello col mare. Qui la strada cominciava di nuovo a salire; e presto si biforcava: il minor ramo salendo su dritto per un piccolo promontorio che chiudea l’orizzonte a ponente — uno spazio di terra verde ridente, con un campanile e dei tetti qua e là illuminati dal sole; — la strada principale costeggiando la base dello scoglio a sinistra.

Chiamato Prospero a stare all’erta dall’avviso del padrone del calessino sulla gravità del conto che aveva a rendere, si avventurò giù per la china con tutta l’attenzione possibile, e con l’occhio addosso al cavallo restìo. Ma non valse la sua abilità e la sua vigilanza a prevenire una conseguenza inevitabile in simil caso: cioè, che le tirelle del cavallo davanti, tese alla salita, non si trovassero necessariamente più lenti e quasi ciondoloni alla scesa; e, che per conseguenza, la stanga per cui il cavallo era attaccato al timone, non cominciasse a battergli di nuovo sul di dietro; e un ripetuto ricalcitrare dette avviso del pericolo sopravvegnente. La cosa diveniva sempre più grave; e come la china, dolce da principio, proprio presso la svolta su menzionata si faceva più rapida, e l’inconveviente causato dalla stanga cresceva in ragion diretta della celerità del moto della vettura, la furia e lo spavento del cavallo urtato cresceva ad ogni passo; mentre gli sforzi dell’ansioso conduttore per calmarlo servivano invece a spaventar gli altri quattro. Sentendo che tutti cinque ormai stavano lì lì per fuggirgli di mano, Prospero subitamente allentò le briglie, e con lo schiattir della lingua li lanciò di carriera, mirando attento la strada per evitar ogni sorta d’intoppo, che, quantunque piccolo, nella rapidità terribile colla quale la carrozza precipitavasi, avrebbe potuto metterla a rischio di ribaltare. Naturalmente confidava di poter ripigliare la mano a’ cavalli, giunti che fossero a piè della discesa.

Era infatti la sola probabilità di salvezza che rimanesse; e, ancora un minuto, la prova gli sarebbe riuscita. Ma sir John si svegliò. La realtà delle cose aveva agito sul suo sonno, avendo sognato sin allora cavalli fuggenti; e nel primo destarsi con turbamento naturalissimo aveva cacciato la testa fuori, gridando al postiglione di fermarsi; il rumore destò miss Davenne, che sveglia anch’essa, e grandemente impaurita, cominciò a gridare. Al comando e alle grida, il disgraziato Prospero voltò il capo un momento, e perdette di vista la strada per un istante; ma anche un istante era troppo in così critica circostanza.

Una delle ruote di dietro passò su di una pietra, la carrozza fece un balzo in aria, oscillò un momento sull’orlo della strada, poi cavalli e carrozza, tutto andò sossopra. Per quanto tristo, il caso avrebbe potuto esser peggiore. Era la strada sol di pochi piedi rilevata sopra la spiaggia; e felicemente in quel punto era un profondo letto di arena, che addolcì la caduta. Fortuna che non siasi sir John risvegliato prima; che sarebbe stata la caduta troppo grande anche per un uomo della sua importanza.

Mentre miss Hutchins tutta agitata d’animo e di vesti nel suo subitaneo aereo volo, cerca racconciarsi come meglio può, maravigliata di trovarsi giù tutta in un pezzo; — mentre John, serio e dignitoso al solito, a dispetto di un terribile capofitto e di un lungo taglio a traverso il naso che fa sangue in abbondanza, tira per una finestra sir John, che per sorte si era trovato al disopra e non pare abbia sofferto alcun danno; — mentre tutti e tre, unendo i loro sforzi, cercano liberare dalla caduta carrozza il corpo esanime di miss Davenne; — mentre Prospero, per l’eccesso stesso della disperazione, guarda attonito, prima l’uno poi l’altro; lasciando i suoi cavalli scalpitare e agitarsi a lor voglia: restando come chi fosse caduto dalle nuvole anzi che dalla strada; si sarebbe potuto veder l’odiato calessino, correndo sulle ruote come un fulmine, precipitarsi furiosamente giù per la collina. Che forse la piccola rozza ha vinto anch’essa la mano? o il conduttore appartiene alla piccola classe di persone, sulle quali la possibilità di ajutare altrui fa l’effetto di un liquore inebbriante, che li rende insensibili al proprio pericolo? — Lo vedremo fra poco.

— «S’è fatto male nessuno?» sclamò il signore del calessino nell’atto di correre sul luogo ove il caso era occorso. «Vi posso servire a nulla? Io son medico.»

Uscì nello stesso tempo dal calessino, e si avanzò verso il gruppo intorno a miss Davenne, un uomo alto, bruno, con barba nera, con un cappello a larga falda e a pan di zucchero; insomma, proprio un viso che incontrato da sir John in altre circostanze, gli avrebbe fatto impostare le due pistole portate invariabilmente da quando viaggiava nella classica terra dei banditi. Stando così le cose, l’inglese Baronetto, che non capiva una parola della lingua di quell’italiano, si contentò di fissare il nuovo venuto in atto mezzo fra la maraviglia e il dispiacere; quasi dicesse: che razza di uomo è costui? Niente affatto intimidito da quell’atto, lo straniero si spingeva avanti a sir John, s’inginocchiava a lato della giacente fanciulla, e si provava a tastarle il polso; quando sir John, non comprendendo la sua intenzione, balzava avanti quasi per cacciarnelo.

— «Siete matto?» gridò lo straniero in italiano: poi in francese: — «Je suis médecin, vous dis-je;» e tosto indi aggiunse in buono e chiaro inglese, come nella faccia del Baronetto avesse veduto sventolar la bandiera dell’Inghilterra: — «Non avete sentito che vi ho detto che sono medico?» Il suono della lingua natia recò alla fine una distinta idea nell’intelletto di sir John, e un raggio di consolazione penetrò nel suo animo. Perchè avere un dottore alla mano in tale stretta, e un dottore che parla inglese, quantunque la sua apparenza possa contrastare con tutte le nozioni preconcette di un inglese sul carattere di medico, sir John si permette di convenire seco stesso che sia pur qualcosa.

Quasi la sua risposta non ammettesse ulteriori osservazioni o domande, il Dottore procedette a sentire il polso della signorina, le tolse il cappello e le esaminò adagio il capo. Non c’era ferita, nè scalfittura. Il petto anche era intatto, dacchè il suo respiro, benchè debole, era regolare. — «Purchè non siavi contusione nel cervello,» mormorava fra sè e sè il Dottore: e proprio, mentre tentennava il capo a questa spiacevole congettura, i suoi occhi incontravano quelli di sir John Davenne. La cupa ansietà del suo viso non poteva non vedersi immediatamente. — «Non c’è nulla a temere per vostra figlia,» disse il Dottore rispondendo alla tacita domanda. E quasi supponendo ammessa la sua interpretazione di parentela: — «Gli è un semplice svenimento; la signorina si riavrà in un istante.» E tuttavia parlando trasse di saccoccia un astuccio; e prese un paio di grosse forbici, le pose nelle mani tremanti di miss Hutchins, dicendole: — «Cercate di aprir le vesti della vostra padroncina, che io corro a prendere dell’acqua in mare. Tagliate tutto; ma, badate ve’! di non muoverla.»

Senza aspettar risposta, il medico corre via, empie il suo cappello di acqua, e ritorna in un batter d’occhio. In ogni suo atto è pronto, ma calmo; e benchè appaia la sua apprensione, quanto fa e dice, lo fa e lo dice in un certo suo modo risoluto, celere, tranquillo, senza furia e senza agitazione. Nel tornare indietro, i cavalli agitantisi e Prospero stupido attraggono la sua attenzione. E con un tono che comanda immediata obbedienza: — «Taglia i finimenti ai cavalli; intendi?» gli grida; e gli tien l’occhio addosso, finchè gli vede girare intorno il capo colla pantomima di un arlecchino disperato, e cominciare a frugarsi nelle tasche in cerca di un coltello.

Il Dottore spruzzò abbondantemente di acqua la faccia e la gola di miss Davenne, le pose sulla fronte un fazzoletto bagnato, mentre la Hutchins le teneva una boccettina d’odore alle nari e le bagnava le mani con acqua di Colonia. Malgrado ogni sforzo, ella rimaneva insensibile. Diveniva pertanto manifesto all’occhio del medico, che rimedii più forti occorrevano a farla tornare in sè. Il Dottore, cavato di nuovo l’astuccio di strumenti, a grandissima costernazione di sir John si mise a scegliervi una lancetta. Felicemente in quel punto, miss Davenne riaprì un tantino gli occhi, e mormorò: — «Papà.» Sir John si chinò amorosamente su lei: — «Che hai, mia cara?»

— «Ah! il mio piede! un dolore orribile al piede.»

— «Qual piede?» domandò l’Italiano.

Ella lo guardò alquanto maravigliata; poi, indicandogli il piede destro: «questo,» disse. Pronunziate appena quelle parole, in un minuto secondo colle sue grandi forbici il Dottore aveva abilmente tagliato l’elegante stivaletto e la fina calzetta, e messo a nudo un piede di alabastro degno di una scarpetta da Cenerentola, ma stranamente slogato. Nè era tutto. La gamba era rotta proprio sotto la caviglia. Questo, col rapido colpo d’occhio di medico, piuttosto indovinò che non vide; e con un movimento rapido quanto il pensiero, gittò uno scialle sopra la parte ferita da nasconderla ad entrambi, padre e figlia, e disse in tono calmo: — «Ah, una caviglia slogata! una cosa un po’ dolorosa, ma niente di pericolo. Mi bisognano tutti i fazzoletti che potete darmi,» aggiunse guardando intorno. Fazzoletti di tutte le grandezze e qualità furon tratti dalle saccocce degli astanti. — «Basta, basta,» diss’egli sorridendo in vedere quella pioggia inaspettata. «Questi serviranno intanto di fasciatura provvisoria, che allevierà il dolore della signorina.» E legato il povero piede accuratamente, disse: — «Ora, signorina, permettete che vi faccia notar bene l’importanza di restar più quieta che potete. Vi ho a lasciare un momento, per cercar l’occorrente a rimettervi bene il piede: e ciò dee esser fatto prima che siate tolta dalla incomoda positura. Promettete di non muovervi sino al mio ritorno?»

— «Sì,» disse miss Davenne, forzandosi a un lieve sorriso di ringraziamento.

Il Dottore si levò ratto in piedi, e già stava per correr via, quando, rivolgendosi subitamente a John che stavagli vicino in atto di profonda compassione quasi comica a vedersi nella sua faccia livida e turchina:

— «Se voi teneste,» gli disse, «un ombrello sul capo della signorina? Il sole batte in pieno su di lei.» Poi, continuando il cammino, saltò nel calessino, e mise la rozza al galoppo.

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