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Giovanni Ruffini - Il dottor Antonio (1855)
Traduzione dall'inglese di Bartolomeo Aquarone (1856)
Capitolo XXII
XXI XXIII


CAPITOLO XXII.

Napoli.


L’agitarsi delle opinioni nazionali, dalla elezione di Pio IX e dalle prime riforme di lui, andato sempre crescendo lentamente, ma senza interruzione per tutta Italia, non era in alcun luogo divenuto più forte che in Napoli e in Sicilia. Mentre le crescenti domande di riforme non incontravano resistenza nel potere governativo di Roma, Toscana e Piemonte, il caso era molto differente a Napoli e in Sicilia. Quivi, all’opposto, una decisa opposizione ad ogni progresso stava in sulle armi pronta alla battaglia; e più di una volta le grida sincere di «Viva Pio IX! — Viva Ferdinando II e la Riforma!» avevano avuto in risposta scariche di moschetteria, ed erano state seguite da severe carcerazioni. La Sicilia, perduta la pazienza, veduta la sua moderazione, i suoi lunghi patimenti, e la sua fedeltà del pari spregiati, si risolvette alla fine di strappar di viva forza quello che colle petizioni e le proteste avevano fino a quel punto tentato invano di ottenere. Cavalleresca nella sua miseria, ella determinò al Re un giorno, fino al quale avrebbe aspettato l’esito della sua ultima domanda di giustizia; non curata la quale, avrebbe allora ricorso all’ultima ratio dei popoli e dei Re. Come era a prevedersi, la sfida fu trattata colla solita crudele indifferenza; e la Sicilia, esatta in tener parola, si levò in armi. Palermo incominciò; e il dì fissato la Sicilia era in piena insurrezione.

Questa notizia mise tutta Napoli sossopra. Fu come un fiammifero acceso gittato in fuoco latente. A migliaja il popolo si precipitò in via Toledo; a migliaja si accalcò sulla piazza avanti il palazzo Reale. Erano disarmati, è vero, e le loro grida pacifiche erano: «Viva il Re! Viva la Costituzione!» ma l’atto era minaccioso. A giudicarne dalle apparenze, il Re inclinava a riguardare quella effervescenza di opinioni popolari come una sfida personale; e non esitava punto di accettarla. Una grande bandiera rossa, che spiegavasi soltanto quale segno di guerra, fu veduta sventolare dalle torri del Castel Sant’Elmo. La moltitudine tenne la posizione presa, nulla spaurita dal brutto emblema, di cui salutò il color sanguinario con grida che divenivano ognora più fiere. Le coccarde tricolori pareva spuntassero loro sotto i piedi dal pavimento; le quali distribuite rapidamente, decoravano ogni cappello e ogni abito.

Vi sono momenti ne’ quali le bajonette e i cannoni diventano impotenti contro la moltitudine anche inerme e indifesa. Quando il sangue del popolo si solleva, le mani e le braccia di carne gittano giù le mura di pietra e deridono l’artiglieria. La storia moderna, dalla distruzione della Bastiglia in poi, è piena di questi esempi. Una crisi di tal sorta era allora vicina, e se riuscì a finir senza sangue sparso, può attribuirsi al coraggio del general Roberti, il prode e onesto Comandante del Castello, il quale rifiutò di bombardar la città; e piuttosto esibì la sua dimissione. Questo avvenne nella mattinata scura e nebbiosa dei 27 gennajo 1848.

Il Re, trovandosi in un difficil dilemma, chiamò allora a sè la maggior parte degli eminenti personaggi ne’ quali riponeva fiducia. Il conte Statella comandante in capo di Napoli e il general Filangieri erano del numero. Unanimi risposero a Ferdinando, consigliandolo a mutar senza dilazione i ministri, e ad accordar la Costituzione. Fu disciolto in conseguenza il Ministero; e l’anima di esso, l’eroe di Bosco e di Catania, Del Carretto, venne messo senza cerimonia a bordo di una nave a vapore del Governo. Seguito dalle maledizioni de’ suoi concittadini, e accolto con esecrazione in Livorno e in Genova, ove il bastimento dovette fermarsi, il disgraziato ministro fece il meglio che potè il suo viaggio per Marsiglia. L’esilio di Del Carretto fu atto di tarda giustizia, e mite, se si paragona a’ suoi delitti; ma fu nondimeno un atto di nera ingratitudine da parte del Re. Dal momento che Ferdinando cominciò a temer per sè, si condusse come sogliono tutti i tristi volgari, e sacrificò senza esitare colui che egli avrebbe dovuto sostenere, e come suo complice attivo e senza scrupoli, e come suo servo fedele.

La universale preghiera del popolo doveva alla perfine essere ascoltata: fu promessa una Costituzione, che venne pochi giorni dopo proclamata. Il Re adoperò queste parole nel suo solenne preambolo: — «Aderendo al voto unanime dei nostri amatissimi popoli, abbiamo di nostra piena, libera e spontanea volontà promesso di stabilire in questo reame una Costituzione... E nel nome temuto dell’Onnipotente Santissimo Iddio Uno e Trino, cui solo è dato di leggere nel profondo de’ cuori, e che noi altamente invochiamo a Giudice della purità delle nostre intenzioni, e della franca lealtà onde siamo deliberati di entrare in queste novelle vie di ordine politico, abbiamo risoluto di proclamare e proclamiamo irrevocabilmente da noi sanzionata la seguente Costituzione.»

E il 2 febbrajo, con ogni pompa e apparecchio solenne, questa Costituzione fu giurata dal Re, dai Principi della famiglia reale, dai nuovi Ministri, dai principali ufficiali dell’esercito, dalla Magistratura, e da tutti gli alti Dignitari del Regno. Dopo altri pochi giorni, fu promulgata la legge elettorale; e la convocazione del Parlamento venne fissata per il 1.° maggio.

È nella natura delle cose che in tempi di grandi agitazioni, gli uomini i quali trovansi alla testa degli affari riescano a dare poca soddisfazione a ciascun partito. Quello che esisteva è rovesciato; — quello che deve esser fatto, è solo allo stato di speranza. L’aspettazione è spinta al colmo, e se gli uomini che sono al timone non arrivano all’altezza di quella, è necessario rimangano molto al disotto; e conviene infatti necessariamente che restino di gran lunga inferiori all’aspettazione. Nè i nuovi ministri fecero eccezione alla regola. Si apposero da ogni parte errori nella loro condotta; — nel non trovare immediatamente una soluzione alla quistione siciliana, nodo gordiano in quelle circostanze; — nel non dare alla loro politica un deciso colore italiano; — nel non adottare i tre colori italiani, e via discorrendo. In breve, il Ministero non valse a nulla di bene, e divenne così apertamente impopolare, che dovette dimettersi. L’entrata al potere della nuova amministrazione — dalla data della sua formazione, detto il Ministero del 6 di marzo — fu salutata da un immenso e generale grido di gioja. — Questo era lo stato delle cose quando Lucy, verso la fine di marzo, arrivava a Napoli.

Il gran tumulto e l’agitazione della città, la gioja rumorosa di tutte le classi, in ispecie dell’infimo popolo (gli stessi lazzaroni erano in quel momento adoratori della libertà; e quanto può dedursi dagli eventi posteriori, si è che le arti machiavelliche possono pervertire i sentimenti più naturali dell’uomo), avrebbero dato alla nostra eroina ampia materia di importanti osservazioni, se altre cure non l’avessero esclusivamente occupata. La gente dell’Albergo in via Toledo, ove scese lady Cleverton, spalancò gli occhi e strinse le labbra sentendo che la signora e il suo seguito volevano far vistare il passaporto per Palermo. — Forse Milady ignorava che Palermo era in aperta ribellione, e tutta la Sicilia insorta? — Milady lo sapeva, ma era determinata ad andarvi; ed essi dovevano fare ciò che loro era ordinato. In quel mentre arrivò Mr. X, — un giovane addetto all’Ambasciata inglese, ove i passaporti erano stati presentati a segnare. Questo gentiluomo era cugino di lord Cleverton, al quale doveva il suo impiego diplomatico; e veniva da Sua Signoria per dissuaderla dal tentare ciò ch’egli chiamava una folle spedizione. I due paesi erano in guerra aperta, — il mare non era sicuro, — le navi di crociera napoletane vegliavano apposta per impedire a qualunque straniero lo sbarco nell’isola. Senza alcun pericolo attuale, lady Cleverton poteva venire a ritrovarsi in qualche spiacevolissima condizione. Lady Cleverton sembrava ostinatissima... — «L’Ambasciatore di S. M. Britannica,» continuò a dire l’addetto, «non voleva autorizzare Sua Signoria a correr siffatti pericoli. Correndo voce che lord Minto potesse essere inviato fra pochi giorni a portar condizioni ai Siciliani; se lady Cleverton persisteva nella sua determinazione, si sarebbe potuto allora procurarle passaggio nel regio vapore.» Lucy non poteva persuadersi che fossero necessarie tutte quelle precauzioni per una signora inglese viaggiante per salute. Sua Eccellenza venne in persona la sera a parlare alla sua reluttante compatriota; e tanto insistette per farle adottare quella proposta, che ella dovette cedere. Non osava dichiarare il motivo per cui ella preferiva l’aria di Palermo a quella di Napoli; non già perchè sentisse punto vergogna di quel che faceva; chè nessuna Sorella di Carità era stata mossa mai da più puri motivi. Ma Lucy aveva adesso bastante esperienza di mondo per capire che esso rare volte ammette la spiegazione migliore ad atti che possono interpretarsi in due modi; ed ella per rispetto mondano serbò il proprio segreto.

I giorni seguenti riuscirono lunghissimi per la nostra Viscontessa. Nulla è tanto difficile quanto l’aspettare. Mr. X, — l’addetto, che nella sua qualità di cugino, reclamava il diritto di divertirla, — era estremamente assiduo nelle sue attenzioni, e proponeva tutte le solite corse alle più belle località da vedersi. Lucy non voleva accettare alcun divertimento; non poteva soffrire di esser disturbata ne’ suoi pensieri. Bensì, per il naturale di lei grato e gentile, non disse mai al suo visitatore, che gli sforzi di lui accrescevano anzichè diminuire la febbre della sua impazienza.

Un giorno, il giovane diplomatico venne con un fare di affannone più pronunciato del solito: pareva, anche nelle ore di ozio, che egli portasse il peso del mondo sulle spalle. Quel giorno egli era pieno della notizia, che vi aveva ad essere la sera seguente un gran ricevimento a Corte, il primo dopo lo stabilimento del Governo costituzionale: e valeva però la pena di andarci, non foss’altro per il ridicolo della cosa.

— «Che intendete dire?» domanda lady Cleverton.

— «Per san Gennaro, come dicon qui,» risponde il diplomatico ridendo, «ci verranno tutti i veterani della Carboneria, tutte le celebrità del partito progressista. Un’infornata di rancidi Avvocati e di Medici, faranno ora le prime parti in Corte. Dio mio, come li sberteggerà bene Ferdinando!»

— «Non capisco, come voi, dovendo intendervene meglio d’ogni altro, quale Inglese, abbiate da mettere in ridicolo le dotte professioni,» osserva seccamente lady Cleverton.

— «Ma qual uomo al mondo, mia dolce signora cugina, pensa di mettere gli Avvocati e i Medici napolitani a paragone cogli Inglesi?»

— «E perchè no?» domanda la signora in tono egualmente secco.

— «Non mi fate la ciera sì arcigna,» risponde il bel gentiluomo ridendo, ma non troppo soddisfatto; «perchè realmente io faccio eco alla opinione di tutti. Di questa classe alla quale par vi interessiate tanto, non conosco alcuno, salvo di vista. Sua Eccellenza ha, per buona sorte, messo il nome vostro sulla lista dei forestieri da esser presentati domani. Sarà meglio che ci andiate, e ne giudichiate voi stessa.»

— «Credo che ci andrò,» rispose lady Cleverton; «credo che per veder uomini, il cui nome figurerà in una pagina della storia, valga la pena di andarci.»

Il diplomatico fu assai imbrogliato dalla vedova del suo illustre parente. In fin dei conti, pensò, le migliori del suo sesso direbbero di no, invitate ad andare a Pompei, al Vesuvio e al San Carlo, sotto pretesto di salute e mancanza di animo; ma elleno andrebbero a Corte anche fossero moribonde.

I pronostici dell’intelligente diplomatico non dovevano verificarsi. Quando lady Cleverton entrò nel Real Circolo, trovò ogni persona e ogni cosa che avevano molto l’aspetto che hanno generalmente in siffatte straordinarie occasioni: non si poteva dire nemmeno che vi fosse alcuna mancanza di araldica in quell’assemblea. Forse, grazie ai nuovi elementi introdottivi, v’era più vivacità, v’era certo meno pesante gravità del solito. Se eravi alcuna deviazione dall’etichetta di Corte, l’esempio era dato dal Re stesso, che passava di crocchio in crocchio, parlando e stringendo la mano a ognuno cortesemente, e rappresentando al naturale la parte del Re cittadino. Era vestito semplicemente di nero; senza la gran croce di san Gennaro, la cui fascia portava a tracolla, e senza il rispetto mostratogli, si sarebbe potuto prendere per uno degli ospiti, e non dei meglio appariscenti. Alto, colle gambe lunghe, la testa piccola, i capelli grigi e di vista corta; con poco di prevenente o d’imponente nella sua persona, eccetto ciò che doveva al suo ritto portamento e alla deliberata andatura; Ferdinando II aveva piuttosto l’apparenza di un uffiziale anziano di cavalleria in ritiro, che di un Re di trentotto anni.

Pure lady Cleverton lo guardava con piena ammirazione. Tutto ciò che aveva udito dire dal dottor Antonio di Ferdinando, e della sua razza, in quel momento era dimenticato; e le ombre gittate sulla sua fronte da tristizie antecedenti, sparivano agli occhi di lei nell’aureola di popolarità che cingevalo come capo delle riforme; — Principe che filosoficamente aveva ceduto alla voce della pubblica opinione; — Principe che aveva paternamente esaudite le preghiere del suo popolo. Non meritava forse benedizioni e gratitudine chi aveva sparsa la felicità da per tutto in un regno intero?

Ma il giovane diplomatico, che le serviva da Cicerone, non voleva abbandonarla alle sue riflessioni solitarie.

— «Guardate que’ due signori,» dissele, «fra i quali passeggia Sua Maestà: quello a sinistra del Re è Bozzelli, Ministro dell’interno, pur jeri emigrato; l’altro col capo grosso, arruffato e statura mezzana, è Carlo Poerio Ministro della Pubblica Istruzione. Tutto quello che si sa sul conto loro, è che sono entrambi avvocati, ricchissimi di facondia, e sono stati spesso imprigionati per accuse politiche, che non poterono bensì esser provate. E ora eccoli qui l’entusiasmo di Napoli, e riputati le due grandi colonne del Ministero.»

Quel signore dal diplomatico nominato Poerio, attirò grandemente l’attenzione di Lucy. Egli aveva la fronte potentemente ampia, come quella tanto ammirata del dottor Antonio; l’occhio chiaro e nitido della gazzella, e il labbro sottile e fortemente serrato, che dava chiaro indizio di volontà invincibile.

— «Quel giovane sottile, dai capelli biondi, pensieroso all’aspetto,» continuò il diplomatico, il quale, pur di parlare, non si curava molto di essere o non essere ascoltato, «è il professor Settembrini, editore di uno de’ principali giornali, un utopista solenne. Doveva avere un portafogli; ma, credo, qualcuno facesse opposizione contro di lui, per la sua troppo giovanile apparenza. Tuttavia potete tener per sicuro che è segnato come uno dei futuri legislatori di questo paese. E così quel vecchio con occhiali d’oro, che ci passa vicin vicino, qualche fungo della Magistratura e di cui ho dimenticato il nome. Paron..., — qualcosa di simile; ah! Pironti, proprio lui, un intrigante di prima sfera. Tutta gente uscita jeri dal nulla. Solo il cielo sa da dove spuntino! Quell’alto e dignitoso signore nel vano della finestra di faccia,» disse l’Inglese abbassando la voce in rispettoso bisbiglio, «è il fratello del Re, S. A. R. il Conte di Siracusa, una volta Vicerè di Sicilia. Mi fa maraviglia, ma non so chi sia quello a cui sta parlando! È una faccia a me ignota, — qualch’altro parvenu, suppongo.»

Lucy non potè tenersi dal fare un atto di stupore, il sangue le salì alla faccia, e grosse gocce di sudore spuntarono sulla sua fronte. — «Cos’è?» esclamò l’inesperto diplomatico. «Vi sentite male?»

— «Non è nulla — un’improvvisa vertigine.»

— «Volete forse uscire? — Sarà effetto del caldo che fa nella sala.»

— «Probabilmente,» rispose Lucy con voce tremante. Per buona sorte recossi da lei in quel punto lo stesso Ambasciatore inglese, e il diplomatico fece il suo inchino senza altro commento. — A Sua Eccellenza dispiaceva molto, ma aveva ragione di credere che la missione di lord Minto in Sicilia sarebbe stata rimessa di lì a un’altra quindicina di giorni almeno. Nuove complicazioni erano sorte. La viscontessa accolse con molta freddezza questa notizia. Ella non si curava di una piccola dilazione, era anzi possibile che potesse rinunziare affatto al suo progetto. Era troppo ben educato Sua Eccellenza, per fare altro atto che alzar le ciglia a questa dichiarazione inaspettata. Egli che realmente si era preso non poco fastidio per quell’affare, si trovava ora messo da parte senza nemmeno un «vi ringrazio.» Dopo un breve dialogo inconcludente, l’Ambasciatore seguitò a fare la sua serie d’inchini usati, e Lucy alla fine rimase sola.

Il compagno del Conte di Siracusa era un uomo alto, coi capelli e gli occhi neri, che a prima vista mostrava appena di aver passata la trentina. Il suo contegno era pensieroso e sereno; il suo sorriso molto simpatico, il suo portamento nobile ed eretto; in una parola, era il contegno, il sorriso, la figura del dottor Antonio. Invece della sua barba lunga, portava ora dei folti baffi sul suo labbro superiore. Eccetto questa piccola differenza, e un’ombra di pallidezza maggiore di quella di prima, non c’era in lui alcun cangiamento. Pareva giovane e bello a suo modo, come pareva otto anni prima.

Il Re, essendo venuto vicino ad essi, il Conte e Antonio lasciavano la finestra avvicinandosi a Sua Maestà; che scambiava alcune parole col fratello, e subitamente prendeva il braccio del dottore, e portandolo sotto il suo continuava la passeggiata. Lucy non aveva perduto una sola particolarità di quella piccola scena, e tanto meno si era lasciato sfuggire il subitaneo lampo di que’ neri occhi ben noti, quando s’incontrarono ne’ suoi, e il rossore che fece di fuoco quel pallido aspetto. Quale sentimento fece rivolgere altrove il capo alla bella viscontessa, e le fece cercare di nascondersi dietro alcune signore? Fu timore di una augusta presenza, o fu apprensione di sentirsi tristamente mutata da quella di prima? Lucy appena lo sapeva. Il moto era stato istantaneo, meccanico, irresistibile; e trovavasi in agitazione di spirito troppo grande per volere scandagliare o analizzare i segreti motivi di quell’atto.

Durante una mezz’ora, gli occhi di Lucy si volsero più d’una volta verso la porta, per cui aveva veduto uscire il Re e il dottor Antonio. Più d’una volta, vedendo venire per quella porta alcuni signori alti, con baffi e capelli neri, ella aveva sentito battere forte e rapido il suo cuore. Egli viene alla fine — non in fretta, ma col suo lungo passo usato, gentile e senza presunzione della mutata fortuna, come quando, povero medico del villaggio, faceva il giro delle visite ai suoi umili malati di Bordighera. Egli viene, e con occhi scintillanti si dirige verso di lei.

— «Voi qui!» esclama, mentre ella gli stendeva la mano. «Che fortuna imprevista! Chi avrebbe sognato, otto anni fa, che ci saremmo incontrati in Napoli, e nientemeno che in Corte!»

— «Chi l’avrebbe pensato davvero!» Fu tutto quello che Lucy potè dire. La sua anima era estatica per il dolce e magico suono della voce di lui risuonante di nuovo alle sue orecchie.

— «Come state voi, e come sta il mio buon amico sir John?» domanda Antonio dopo una breve pausa.

— «Papà, quando io lasciai l’Inghilterra, era impedito da un attacco di gotta! Deve raggiungermi presto qui. Intanto mi diede una lettera per voi, credendo che vi avrei trovato a Bordighera. L’avrete domani mattina prima di ogni altra cosa.»

— «Grazie,» disse il Dottore; «quanto mi piacerà dar di nuovo una stretta di mano al cortese sir John!»

— «Come mai vi trovate in Napoli?» domanda Lucy. «Credevo foste in Palermo, e per di più malamente ferito.»

— «Che ne sapete voi della mia ferita?» disse vivamente Antonio.

— «Vidi la signora Eleonora in Genova, che me lo disse. Ella è tanto contenta adesso — ha tutte e due i figli con sè. Mi fece leggere la vostra lettera. Era inquietissima sul conto vostro, e anch’io.»

— «Davvero? Benedetto il suo bel cuore!» disse Antonio. «E che ho fatto per meritare due tali amiche? Due come voi, formano per me un’oasi nell’ampio deserto del mondo.»

— «Io non voglio sentirvi dir male del mondo,» risponde Lucy con un pochino dell’antica sua aria fanciullesca.

— «Benissimo, e nemmeno io lo voglio — adesso,» dice Antonio.

— «Ditemi della vostra ferita — come sta?»

— «Guarita perfettamente. Era una mera scalfittura.»

— «E perchè tardar tanto a scrivere alla signora Eleonora? Quale scusa per avere lasciati i vostri amici nell’ansietà?»

— «La continua occupazione e i fastidi di ogni sorta. Tuttavia, ebbi torto davvero. Domani, ve lo prometto, spedirò una lettera a Genova,» disse il Dottore.

— «Badate di non dimenticarvene; e fate conoscere alla cara vecchia signora il mio più vivo affetto. Or dunque parlatemi di quello che vi è accaduto dopo che ci separammo; — della rivoluzione, della Sicilia, di ogni cosa. Non vi siete dimenticato, n’è vero, della mia antica predilezione per le domande?» aggiunse ridendo.

— «E ora, come prima, le vostre domande saranno sempre le ben venute,» rispose egli. «Saprete tutto di me e della Sicilia; ma prima convien ch’io sappia di voi e della vostra famiglia, bella signora,» continua Antonio, che era stato osservando con qualche ansietà la tanto a lungo desiderata amica sua. Lucy gli disse della sua salute, proprio come era solita far prima; ed egli l’ascoltò con quella stessa premura e attenzione con cui soleva ascoltarla nella vecchia osteria del Mattone.

— «Rimetteremo tutto in regola nuovamente, coll’ajuto di Dio,» disse Antonio allegramente quando ella ebbe finito. «Aria fresca, abitudini quiete e metodo — voi conoscete da lungo tempo il mio amore pel metodo — e una conveniente obbedienza agli ordini del vostro Dottore (egli sorrise e gli occhi di Lucy l’assicurarono che non gli avrebbe mancato), faranno prodigi per voi come fecero in Bordighera.»

Toccava ora ad Antonio di dar conto di sè, e lo fece molto brevemente. Seguiremo il suo esempio, riprendendo solo il racconto un po’ più indietro; e toccando di uno o due punti da lui omessi, indispensabili per chiaramente intendere la nostra storia.

Destatosi dal suo breve sogno amoroso in Bordighera, Antonio, come abbiam detto, aveva giurato in cuor suo di più non avere altra amante fuorchè la sua patria, e di consacrare a lei, a lei sola, le forze dell’animo e della mente sua. Dicendo noi la sua patria, intendiamo naturalmente l’Italia; chè il patriottismo di Antonio non si limitava all’isola in cui era nato, ma abbracciava tutto il bel paese. Ad effettuare quella idea, non aveva posto tempo in mezzo; e subito erasi messo in relazione con i capi dell’emigrazione italiana: non tanto per farsi agente di propaganda e procurar nuovi elementi al partito liberale, quanto per accordare insieme quelli già esistenti, e dare ad essi quell’unità di fine e di direzione, che poteva solamente assicurarne il buon successo nel dì della prova. I beni eredati da sua madre davano al Dottore una modesta indipendenza; e perciò i mezzi di poter proseguire senza interruzione, e promuovere con più efficacia l’oggetto che si era proposto. Un viaggio a piedi in Isvizzera, intrapreso per salute nella primavera del 1843, gli diede l’opportunità di conoscere e di essere conosciuto da molti dei principali esuli italiani; e siccome le idee e le speranze loro erano d’accordo colle sue, fu cosa facilissima l’intendersi. Dal 1843 al 1847 passò la maggior parte del suo tempo in Torino: ove, curando gratuitamente i poveri, guadagnossi una riputazione ben meritata di carità e di scienza; e scrivendo inoltre varie operette di medicina, il nome di profondo ed elegante scrittore. Verso quel tempo, cioè nella primavera del 1847, le notizie di Sicilia cominciarono a divenir seriamente importanti. Il governo napolitano, come già osservammo, lungi da dare alcuna soddisfazione alle esigenze popolari, grandemente eccitate dalle riforme accordate in Torino, Firenze e Roma, le combatteva nel modo più brutale. Una insurrezione era imminente in Palermo, così dicevano le corrispondenze private. Antonio con pochi amici s’imbarcò per Malta, da dove, al principio del gennajo 1848, passò in Palermo. Egli e i suoi compagni nascosti fin dal 12 di gennajo, quel giorno con una bandiera tricolore in pugno presentaronsi nella piazza della Fiera Vecchia. Si corrispose da tutte le parti al grido di all’armi! e l’insurrezione cominciò vigorosa. Il combattimento fu lungo e ostinato, che durò dal 12 al 29 gennajo. Ma non ostante un rinforzo di truppe fresche sbarcate il 15 dalla flotta napolitana, e di un vivo bombardamento della città dal forte di Castellammare, l’impeto popolare fu irresistibile. Quasi per incanto prese tutte le fortezze una dopo l’altra: il Palazzo Reale fortificato venne assalito con tale ardore (quivi fu ferito Antonio), che la guarnigione lo abbandonò il 25; e le truppe cacciate dalla città furono inseguite da ogni parte vigorosamente e vittoriosamente.

L’insurrezione si estese su tutta la faccia dell’isola: Girgenti, Catania, Messina, Caltanissetta, Trapani, Siracusa, l’una dopo l’altra seguirono tutte l’esempio di Palermo. I soldati di guarnigione deposero in alcuni luoghi le armi, in altri furono pienamente disfatti, in altri si ritirarono nei forti, come a Messina, dalla cittadella mantenendo contro la città il fuoco. L’ultima città di qualche importanza unitasi a quel movimento, fu Noto. L’adesione di essa avvenne il 4 febbrajo; e lo stesso giorno la bandiera tricolore sventolava sulle mura della fortezza di Castellammare. Allora il Comitato Generale di Palermo, costituito per dirigere convenientemente l’insurrezione, assunse i poteri e il titolo di Governo Provvisorio della Sicilia; e ne era Presidente il venerando Ruggiero Settimo.

Come abbiamo già detto, un nuovo ordine politico di cose era stato intanto inaugurato a Napoli: circostanza che dava belle speranze di un pronto accomodamento fra i due paesi. Poco tempo dopo furono infatti cominciate le trattazioni — sotto gli auspici di lord Minto — fra il Governo napolitano e quel di Sicilia, intorno alle quali vogliamo soltanto osservare che, per parte del Governo di Napoli, esse furono cominciate e proseguite senza quello spirito di rettitudine e di conciliazione, per cui solo, se non interamente dissipata, potevasi diminuire la diffidenza da deplorabili fatti antecedenti radicata nell’animo dei Siciliani. La verità di questa asserzione apparisce chiara a chiunque si voglia prender l’incomodo di percorrere la corrispondenza ufficiale tenuta in quel tempo da lord Minto col visconte Palmerston. «Io comincio,» scrive lord Minto a lord Mount Edgecumbe in Palermo, «comincio a credere molto seriamente che qui (in Napoli) non si abbia intenzione di venire ad amichevole accordo; e tutto quello che è stato fatto o si fa, non tenda ad altro che a prepararsi per le ostilità, e assicurare gli ajuti stranieri.» Questo è il senso della lettera di Sua Signoria data in febbrajo 1848.

Stanchi di esser tenuti a bada, e conoscendo la necessità di sottrarre sè stessi e l’isola dai pericoli della posizione provvisoria, il Comitato Generale di Palermo pubblicò alla fine una dichiarazione. Era in essa detto chiaramente, che non si sarebbe continuato a trattar sulle condizioni della pace, a meno che fosse accettato il patto sine qua non, che nell’isola non avesse a tener guarnigione se non l’esercito siciliano. Furono nello stesso tempo convocati i Collegi elettorali per il 15 di marzo, e fissato il 25 per l’apertura del Parlamento.

Il Ministero napolitano, disperando interamente vincere le difficoltà dello stato delle cose, rinunziò allora al potere, e gli successe l’Amministrazione del 6 di marzo. La venuta al potere di uomini della qualità di Carlo Poerio, Salceti e Savarese, prometteva di portare a final composizione l’ardua quistione siciliana. Il 7 di marzo si tenne Consiglio di Gabinetto in presenza del Re — e v’intervenne, invitato lord Minto; nel quale Consiglio fu preparata una serie di atti e venne segnata una quantità di decreti, per i quali si credette potessero essere soddisfatti i Siciliani. La convocazione del Parlamento, già fissata dal Comitato di Palermo, fu dichiarata legale con un Atto di convocazione emanato dal Re per lo stesso giorno. Il Governo napolitano accordava alla Sicilia Parlamento separato, separati Ministri, ad eccezione del Ministro degli Affari Esteri; e l’uomo più popolare di que’ giorni, la personificazione, per così dire, della rivoluzione siciliana, Ruggiero Settimo, fu nominato Luogotenente Governatore dell’isola in nome di Ferdinando II. L’ufficio di Ministro speciale per la Sicilia, da risiedere in Napoli, e servir di mezzo di comunicazione fra il Governo dell’Isola e il Re, fu creato; e venne nominato a quella dignità il commendatore Scovazzo, siciliano. Ma il punto difficile e di sommo momento, che nessun altri fuori dell’esercito siciliano avesse a tener guarnigione nell’Isola, senza il consenso del Parlamento siciliano, fu lasciato interamente da parte. Dee parer cosa strana, come lord Minto, alla cui presenza quelle decisioni furono prese, non abbia messo in campo questa vitale questione. Pure, solo pochi giorni prima, cioè il 1.° di marzo, egli ne aveva scritto a lord Palmerston: — «I Siciliani, cercando porre le loro libertà sotto la garanzia de’ loro concittadini, sono giustificati dalla propria esperienza: chè difatti nel carattere e nella condotta del Governo attuale (di Napoli) non c’è nulla che meriti la loro fiducia.»

Quel silenzio inesplicabile intorno all’esercito — punto essenziale da risolvere — fu considerato dalla maggior parte de’ Siciliani come cosa piena di malaugurio; e annullò i buoni effetti che avrebbero potuto produrre le altre concessioni. Tale era la diffidenza prevalente contro il Governo napolitano, e il timore del suo tradimento, che l’unica probabilità di far tranquille le menti irritate stava nella rimozione di un esercito da cui la Sicilia era stata per trentatrè anni tenuta schiava, e contro cui Messina ancor combatteva. L’opinione popolare dichiarossi tanto fortemente avversa alle condizioni del 7 marzo, che decise il Comitato Generale, essere «inaccettabili come contrarie alla Costituzione del 1812.» E lord Minto allora insistette, che il Comitato facesse altre proposizioni. Furon fatte; ma addusse il Governo di Napoli l’impossibilità di discuterle senza il concorso del Parlamento napolitano, non ancora riunito. E il giorno precedente l’apertura del Parlamento siciliano, fu pubblicata una protesta del Re, nella quale erano accusati i Siciliani «di mettere in pericolo il risorgimento d’Italia, e a rischio l’indipendenza e i destini gloriosi della patria comune.» La quale protesta dichiarava inoltre nullo e vano, anticipatamente, ogni Atto che potesse esser fatto in Sicilia. Così ai due paesi non rimaneva altro mezzo che la fortuna delle armi.

Empieva la tremenda previsione di una guerra fratricida di orrore e di costernazione molti nobili cuori di qua e di là del Faro. — «Come! gridava il Dottore nostro amico; mentre l’antico grido di guerra: Fuori il barbaro! risuona per tutta la penisola; — mentre la guerra coll’Austria è divenuta inevitabile per l’eroica insurrezione di Milano, — è egli possibile che ci siano due nobili Stati italiani, occupati non ad adoperare le loro forze contro il comune nemico, ma sì l’uno contro l’altro?» E Antonio si cacciava le mani nei capelli. Forse che non c’era modo di allontanare questa orribile calamità? Forse c’era; nè conveniva accasciarsi e disperare. Se il Governo napolitano si fosse potuto trarre ad accedere alla sola condizione che nessuno esercito, fuor del siciliano, tenesse guarnigione nell’isola, è certo che i patti del 7 di marzo sarebbero stati accolti, e la pace ristabilita fra i due paesi. Almeno tale era la ferma opinione di Antonio e di molti suoi amici del partito moderato, coi quali dibatteva questo punto. Risolvettero pertanto di fare un grande sforzo per ottenere questo desiderabile effetto. Antonio stese un Memoriale, nel quale con gran forza di logica esponeva le ragioni che avevano a persuadere il Governo napolitano di cedere nella quistione dell’esercito; e nel quale estendevasi largamente enumerando i benefizii certi, che dalla concordia fra Napoli e Sicilia sarebbero per derivare alla causa comune invocata dallo stesso Re nella sua protesta. Questa Memoria lesse a’ suoi amici; e colla piena loro approvazione la spedì a Napoli; e fu rimessa poi in mano di uno de’ Ministri; fra il quale e Antonio esisteva stima e benevolenza scambievole — frutto di una lunga e importante corrispondenza antica. Dopo pochi giorni venne in risposta una breve Nota, di cui il contenuto era:

«Se potesse l’autore della Memoria venire in Napoli, e far valere di viva voce gli argomenti esposti in carta, stavano dieci probabilità contro una, che gli sarebbe riuscito. Sua Maestà non era mai stata, come ora, disposta a far concessioni. Non un giorno da perdere.»

E Antonio, non perdette un giorno, e recossi in Napoli. Sapeva pur bene a che lo esponesse un tal passo. Sapeva che le sue intenzioni sarebbero state male interpretate per ispirito di parte; e che sarebbe stato lacerato il suo nome; che sarebbe stato chiamato un fuggitivo, un rinnegato, un traditore, ma non se ne curava. Finchè sperasse di far del bene alla sua patria, non era uomo da lasciarsi spaventare da personali riguardi. Recossi in Napoli. Vide i Ministri, vide Sua Maestà, e caldamente perorò la causa che aveva presa a difendere. — Se ciò facesse con esito, o inutilmente, lo vedremo dappoi.

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