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IL

FANTASIMA SPOSO

NOVELLA

DI

WASHINGTON IRVING


traduzione dall’inglese

di

A. F. FALCONETTI.

IN VENEZIA

PER GIUSEPPE PICOTTI TIPOGRAFO EDITORE

MDCCCXXIV


In un viaggio che feci alcun tempo fa nei Paesi-Bassi, giunsi una sera al Pomo d’oro, primaria osteria d’un piccolo villaggio fiammingo. Passata era l’ora della tavola ritonda, sicchè mi fu forza contentarmi di cenar solitario con le reliquie della mensa maggiore. Era il tempo freddoso: sedendo soletto in un angolo d’un grande ed oscuro tinello, finita ch’ebbi la cena, aveva dinanzi a me la prospettiva d’una lunga sera nojosa senza verun mezzo visibile di ravvivarla. Chiamai quindi l’ostiere, e richiesto di qualche cosa da leggere, recommi costui l’intiera letteraria suppellettile della sua casa; una bibbia olandese, un almanacco nella stessa lingua, ed un fascio di gazzette vecchie di Parigi. Siccome scorreva sonnacchioso una di queste, leggendovi per entro antiche nuove, e critiche stantie, mi colpivano di tanto in tanto l’orecchio certi scrosci di risa che sembrava provenissero dalla cucina. Chiunque abbia viaggiato sul continente deve sapere qual favorito rifugio sia la cucina d’un’osteria di campagna pei viaggiatori di ordine mezzano ed inferiore, particolarmente in quella equivoca specie di stagione quando un buon fuoco riesce verso la sera gratissimo. Gettai da banda la gazzetta, e cercata la via della cucina, andai ad esplorare il gruppo che tanto pareva gioviale ed allegro. Composto era in parte da viaggiatori giunti poche ore prima in una diligenza, ed in parte dai soliti addetti e parasiti delle osterie, seduti tutti quanti attorno ad una grande stufa brunita, che poteasi in isbaglio prendere per un’ara, cui fossero coloro intenti, ad adorare. Era coperta di vari attrazzi di cucina risplendentissimi, fra’ quali fumava e fischiava un gran vaso da tè di lucidissimo rame: una gran lampada gettava sopra quel gruppo una forte massa di luce, e ne metteva in forte rilievo molte bizzarre figure, intanto che i giallastri suoi raggi illuminavano parzialmente la spaziosa cucina, foschi morendo negli angoli remoti; eccetto dove percuotevano di molle splendore l’ampia costa di qualche pezzo di lardo, o venivano, riflettuti da’ ben forbiti utensili che scintillavano nel mezzo dell’oscurità. Una fiamminga ragazzaccia, con lunghi pendenti d’oro alle orecchie, ed al collo un aureo monile da cui pendeva un cuore pur d’oro, figurava la sacerdotessa preside del tempio.

Erano molti della brigata provveduti di pipa e la maggior parte poi di qualche sorte di vespertina bevanda. Trovai che la loro allegria prodotta era dagli aneddoti che un piccolo francese nero nero, con secca faccia increspata ed ampie basette, andava raccontando delle sue avventure amorose, al termine di ciascun de’ quali vi avea uno di quegli scrosci d’oneste risa senza ceremonie che l’uomo si permette in quel santuario della vera libertà, l’osteria.

Siccome io non aveva verun modo migliore di passare il tedio d’una sera burrascosa, mi posi a sedere anch’io accanto alla stufa, ed intesi una varietà di novelle da viaggiatore, alcune stravagantissime, e la più parte insipidissime, che però tutte cadute mi sono dalla traditrice memoria, tranne una sola che tenterò di riferire, sebbene io tema che il principale suo brio essa il traesse dalla maniera in che venne narrata, e dall’aria particolare e dall’aspetto del narratore. Era colui un vecchio svizzero corpulento, che avea vista di viaggiator veterano, vestito d’uno scolorato sajo verde da viaggio, con largo pendaglio intorno a’ fianchi, ed un pajo di sopracalzoni tutti abbottonati dall’anca fino alla caviglia. Avea il viso pieno, rubicondo, con doppio mento; naso aquilino ed obbliqua guardatura. Chiari n’erano i cappelli ed arricciati sotto una vecchia berretta da viaggio di veluto verde, piantata in banda sulla testa. Fu egli più d’una volta interrotto dall’arrivo di nuovi ospiti o dalle osservazioni de’ suoi uditori; pausava di tanto in tanto per riempire la pipa; e in tutte le tali occasioni riceveva regolarmente uno sguardo furbesco, o qualche scherzo lascivetto dalla scaltrita fantesca.

Vorrei che il lettore s’immaginasse il vecchio sdrajato sur un immenso seggiolone, con un braccio a sghembo, tenendo sull’altro una pipa da tabacco curiosamente attorcigliata, di genuina écume de mer, e decorata da una catena d’argento e da un gran fiocco di seta — la testa pendente da un lato, e all’occasione un far d’occhi gustosissimo, secondo che riferiva la storia seguente.

IL FANTASIMA SPOSO.

In sulla sommità d’una delle alture dell’Odenwald, deserto e romantico tratto della Germania superiore che giace non lungi dalla confluenza del Meno e del Reno, stava, molti e molti anni or sono, il castello del Barone Von Landshort, caduto di presente in totale ruina e quasi sepolto fra melanconici faggi ed abeti, al di sopra de’ quali può peraltro vedersi ancora l’antica sua torre, o specola piuttosto, che si sforza, come quel primiero suo possessore, di portar alta la testa, biecamente guatando la sottoposta contrada.

Era il barone un ultimo rampollo della gran famiglia di Katzenellenbogen, e redato aveva, con le reliquie dei possedimenti, tutto l’orgoglio de’ suoi antenati. Avvegnachè le marziali inclinazioni de’ suoi predecessori avessero di molto diminuito le sostanze patrimoniali, il barone nulla ostante ancor procurava di sostenere qualche apparenza dell’antica grandezza. I tempi erano pacifici, ed i nobili della Germania, in generale, abbandonato avevano gl’incomodi loro antichi castelli, confitti, come i nidi dell’aquila, in mezzo alle montagne, fabbricando più convenevoli soggiorni nelle vallate: ma il barone pur rimaneasi alteramente ristretto nella picciola sua fortezza, careggiando, con ereditaria ostinazione, le nimicizie dell’antichissima famiglia, di maniera che si trovava a mali termini con taluni de’ più prossimi suoi vicini, a ragione di contese insorte tra i loro bisavi e tritavi.

Non aveva il barone che una sola figliuola; ma natura quando non concede che un’unica prole, sempremai ne compensa facendone un prodigio; e tale in fatti si era la figlia del barone. Tutte le balie e le comari e le cugine del contado (e chi vorrà saperne meglio di loro?) assicuravano il padre che non v’era una bellezza eguale in tutta la Germania. Era di più stata allevata con grandissima cura sotto la soprintendenza di due zie pulzelle, le quali, speso avendo alquanti anni della prima loro età in una delle picciole corti Germaniche, erano perite in tutti i rami della scienza necessaria all’educazione d’una bella damina. La mercè delle loro istruzioni, divenne essa un miracolo di perfezione. All’età di dieciott’anni sapeva ricamare a maraviglia, e tessuto aveva in tapezzeria delle intiere storie, con tal forza di espressione nelle fisonomie che pareano tante anime del purgatorio. Sapea leggere senza troppa difficoltà, s’avea compitate parecchie leggende sacre, e quasi tutte le cavalleresche maraviglie dello Heldenbuch. Notabili progressi avea fatto anche nello scrivere; che valeva a segnare il suo nome senza lettera lasciare, e così leggibilmente che le sue zie poteano rilevarlo senza l’ajuto degli occhiali. Era poi famosa per fare delle picciole cosettuccie donnesche d’ogni genere, altrettanto, inutili quanto eleganti; versata era nell’astrusissima danza del giorno; suonava un certo numero d’ariette sull’arpa e sulla chitarra, ed avea tutte le tenere ballatette dei Minnielieder a memoria.

Quelle sue zie non meno, state essendo grandi sfacciatelle e civettuccie a loro anni più giovanili, erano mirabilmente fatte per essere custodi vigilanti e severe censuratrici della condotta della loro nipote; poichè non v’è guardiana tanto rigidamente prudente e così inesorabilmente decorosa, come una civetta straffatta. Di raro si sofferiva che uscisse loro di vista; mai non andava oltre i confini del castello senza essere bene accompagnata, o più veramente, bene osservata; le si faceano continue prediche intorno allo stretto decoro e all’obbedienza implicita; e quanto agli uomini — poh! — gli uomini, le s’insegnava a tenerli in tale distanza ed in così assoluto sospetto che a meno di esservi propriamente autorizzata, non avrebbe essa gettato uno sguardo sul più bel cavaliere del mondo — no, nemmeno se fosse stato per morire a’ suoi piedi.

I buoni effetti di codesto sistema apparivano maravigliosamente; chè la giovane damina erasi un modello di docilità e di esattezza. Mentre altre andavano scialacquando la loro fragranza nello splendore del mondo, e soggette ad essere svelte e gettate da banda da qualunque mano in loro s’abbattesse; ella contegnosamente fioriva in fresca ed amabile femminezza sotto l’egida di quelle zitellone come un bottone di rosa che s’imporpora fra le spine custodi. Guardavanla le sue zie con orgoglio ed esultazione e menavano il vanto che quantunque tutte l’altre giovani traviare potessero, pure, grazie al cielo, nulla di simile accader poteva alla erede di Katzenellenbogen.

Ma per quanto scarsamente provveduto fosse di discendenza il barone Von Landshort, la sua famiglia non era punto fra le più picciole; imperocchè arricchito in abbondanza lo aveva la providenza di parenti poveri, i quali, tutti e ciascheduno, possedeano l’affettuosa indole comune a tutti gli umili parenti; maravigliosamente attaccati al barone, abbracciavano ogni occasione possibile per venire in truppe ad animare il castello; ogni e qualunque solennità della casa commemoravasi da quelle buone genti alle spese del barone; e quand’erano ben bene pasciuti, non cessavano di gridare che nulla vi avea sulla terra di così delizioso come quelle adunanze famigliari, que’ giubilei del cuore.

Il barone, quantunque piccolo della persona, aveva un’anima grande, e si gonfiava di compiacenza all’idea di essere il maggior uomo del picciol mondo che gli stava d’intorno. Amava di raccontare delle lunghe storie intorno agli antichi rigidi guerrieri, i ritratti de’ quali biechi pendeano dalle pareti circostanti, e in ciò non trovava uditori eguali a quelli che nutrivansi alle sue spalle. Era assai dedito al maraviglioso, fermo credente di tutte quelle soprannaturali avventure che tanto abbondano in ogni montagna e in ogni valle della Germania. E la fede de’ suoi ospiti superava la sua; sicchè ne ascoltavano ogni strano racconto con occhi spalancati e bocca aperta, nè mai mancavano di rimanere ammirati anche se ripetuto per la centesima volta. Tale viveva il barohe Von Landshort, oracolo della sua tavola, assoluto monarca del ristretto suo territorio, e felice, sopra ogni cosa, della persuasione di essere il sapientissimo uomo de’ suoi giorni.

Al tempo cui la mia storia si riporta, eravi al castello grande assembramento domestico per un affare della massima importanza: si trattava di ricevervi lo sposo destinato alla figlia del barone. Dopo lunga negoziazione fra il padre ed un vecchio nobile bavarese, per riunire la dignità delle case loro mediante il matrimonio de’ loro figliuoli; negoziazione i cui preliminari stati erano condotti colla dovuta etichetta; fidanzati si avevano i giovinotti senza che prima si vedessero, ed erasi appuntato il tempo per la ceremonia matrimoniale. Il giovane conte Von Altenburg, stato a tal oggetto richiamato dall’armata, si trovava attualmente in via per recarsi dal barone a prendervi la sua consorte; e lettere di lui s’erano già ricevute da Wurtzburgo, ove accidentalmente era trattenuto, indicanti il giorno e l’ora che poteasi aspettar che arrivasse.

Pieno era il castello del trambustio dei preparamenti per fargli una conveniente accoglienza. La bella fidanzata adorna si era con attenzione non comune. Le due zie sopranteso avevano alla sua toeletta, e contrastato tutta la mane sopra d’ogni minuta parte del suo abbigliamento; onde la damina preso intanto aveva il destro delle loro contese per seguire la piega del suo proprio gusto, e fortuna ch’esso era assai buono. Compariva sì amabile che giovane sposo sappia desiderare, e l’agitazione dell’aspettativa cresceva splendore alle sue attrattive.

I vapori che le si spargevano sul volto e sul collo, l’ondeggiar lieve lieve del seno, l’occhio di tanto in tanto smarrito in una specie di vaneggiamento, tutto scuopriva il soave tumulto che si passava in quel suo cuoricino. Le zie le giravano perpetuamente intorno; poichè le zie pulzelle son sempre disposte a prendere grande interesse in affari di simile natura; e le davano un mare di gravi consigli sul come condursi, cosa dire, e in qual maniera ricevere l’aspettato amatore.

Nè meno occupato di preparativi era il barone. Non avea per verità cosa alcuna precisamente da fare; ma egli era di sua natura un picciolo ometto furioso e sussurrone, che non potea starsi passivo intanto che tutto il mondo s’affaccendava. Correva da cima a fondo il castello con aria d’infinita ansietà; richiamava continuamente i servi dall’opera loro per esortarli ad usar diligenza; e ronzava in ogni sala e in ogni camera così oziosamente irrequieto ed importuno, come un moscone ne’ caldi giorni di estate.

Si era intanto ammazzato il più grasso vitello; aveano le foreste echeggiato del clamore dei cacciatori: la cucina era piena di vivande; le cantine ceduto avevano mari di Rhein-wein e di Ferne-wein; e fino alla gran botte di Heidelburgo erasi posta a contribuzione. Ogni cosa presta per accogliere il nobile ospite con Saus und Braus nel vero spirito della Germanica ospitalità — l’ospite tardava a comparire. Ore ed ore passavano. Il sole che avea versato i cadenti suoi raggi sulle ricche foreste dell’Odenwald, già già raro splendeva lunghesso le cime delle montagne. Il barone, salito sull’altissima torre, sforzava gli occhi nella speranza di pur cogliere qualche lontana vista del conte e del suo seguito. Credette una volta di vederli; già il suono dei corni veniva, ondeggiante dalla valle, prolungato dall’eco della montagna: una mano di cavalieri vedeasi lungi al basso, lentamente avvanzando nella strada; ma quando raggiunto quasi egli ebbero la falda del monte, d’improvviso svignarono in altra direzione. L’ultimo raggio del sole morì — i pipistrelli cominciarono a svolazzare nel barlume — la via si fece più e più buja alla vista; e nulla appariva in quella che si movesse, se non di tempo in tempo un qualche paesano che rivenia poltroneggiando a casa dal suo lavoro.

Nel mentre che in codesto stato di perplessità giaceva immerso l’antico castello di Landshort, altra scena interessantissima si passava in altra parte dell’Odenwald.

Il contino Von Altenburg andava tranquillamente proseguendo la sua strada in quel sobrio trotterello in cui viaggia un uomo a fin di matrimonio, allorquando i suoi amici tolto gli hanno d’in su le braccia tutto l’incomodo e l’incertezza del corteggiare, e sta una sposa attendendolo tanto certa quanto un pranzo al termine del suo cammino. Aveva egli incontrato a Wurtzburgo un giovane compagno d’armi, col quale era stato alcun poco in servigio sulle frontiere; Ermanno Von Starkenfaust, uno dei valorosissimi per braccio e laudatissimi per cuore della tedesca cavalleria, che se ne tornava allora dall’armata. Non era il castello di suo padre molto discosto dalla vecchia fortezza di Landshort, sebbene una contesa ereditaria nemiche rendesse le due famiglie, e le facesse l’una all’altra straniere.

Nell’espansione del cuore a quel grato incontro, i due giovani amici si comunicarono scambievolmente le passate loro avventure e buone fortune, ed il conte raccontò intiera l’istoria delle divisate sue nozze con una giovane che non avea mai veduta, ma della cui bellezza ricevuto aveva le descrizioni più seducenti.

Siccome la strada che aveano a fare, correva nella medesima direzione, e’ convennero di fare insieme il rimanente del viaggio, e affine di farlo con maggior commodo, partirono di Wurtzburgo assai per tempo, avendo il conte, dato l’ordine a quei del suo seguito di venirgli appresso e di sopraggiungerlo.

Ingannavano essi intanto il cammino con le rimembranze delle loro militari spedizioni ed avventure; ma il conte rendeasi di quando in quando un pochetto tedioso rispetto alle decantate attrattive della sua sposa e alla felicità che lo attendeva.

Di tal guisa entrati erano in mezzo alle montagne dell’Odenwald, e già traversavano una delle più solinghe e più foltamente imboscate sue gole. Ben si sa che le foreste della Germania sono state mai sempre tanto infestate dai ladroni quanto i suoi castelli dai fantasimi; e allora poi erano gli assassini stranamente numerosi per le orde di soldati sbandati che vagabondavano per il paese. Non sembrerà dunque strano, se i nostri cavalieri furono attaccati da una banda di furfanti nel più fitto della foresta. Si difesero essi valorosamente, ma erano presso ad essere sovverchiati allorchè giunsero in loro ajuto i seguaci del conte. Fuggirono al vederli i masnadieri, ma non prima che avesse il conte riportato una ferita mortale. Fu egli adagiatamente e con diligenza rimandato alla città di Wurtzburgo; e chiamato dal vicino conventi un frate, famoso per la sua perizia in assistere l’anima ed il corpo, si trovò l’arte sua superflua per metà, che i momenti dello sfortunato conte erano numerati.

Con l’ultimo respiro di morte scongiurò egli l’amico suo di condursi immediatamente al Castello di Landshort ed ivi esponere la fatale cagione che il faceva mancare all’appuntamento con la sua sposa. Sebbene non ardentissimo fra gli amanti, era però il conte uno de’ più puntigliosi uomini del mondo, ed appariva caldamente sollecito che l’ambasciata fosse speditamente e cortesemente eseguita. “Se non sia ciò fatto,” disse egli, “non dormirò quieto nella mia tomba;” e ripetè queste estreme parole con singolare solennità. Una richiesta in momento di tanta impressione, non ammetteva esitazioni: laonde Starkenfaust procurò di calmarlo, promise fedelmente adempire le sue brame, e gliene diede in pegno sacrosanto la mano. La strinse il moribondo per gratitudine; ma presto cadde in delirio — vaneggiava con la sposa — co’ suoi impegni — con la data parola; ordinava il cavallo per rendersi su d’esso al castello di Landshort, e spirò nell’immaginario atto di volteggiar su la sella.

Starkenfaust, tributato un sospiro ed una lagrima da soldato al fato intempestivo del suo camerata, quindi ponderava il disgustoso dovere che si era imposto. Dolente stava in suo cuore e perplesso nell’animo; perchè aveva egli a presentarsi ospite non invitato fra genti nemiche e troncarne l’allegrie con nuova alle loro speranze funesta. Eppure certi moti di curiosità gli si erano destati nel seno, di vedere codesta rinomatissima bellezza di Katzenellenbogen, tanto cautamente riguardata dal mondo; che per natura tenero ammiratore del bel sesso, avea per di più nel suo carattere un tratto di stravanganza e d’intraprendenza che rendealo appassionato per ogni singolare avventura.

Prima di partire, acconciò debitamente le cose con la santa fraterna del convento per le funebri solennità dell’amico suo, il quale seppellire doveasi nella catedrale di Vurtzburgo presso alcuni suoi illustri parenti; e lasciò all’addolorato seguito del conte l’incarico delle sue reliquie per essi volentieri accettato.

Ma egli è ormai tempo di ritornare all’antica famiglia di Katsenellenbogen, impaziente per l’ospite suo e ancora più per il suo pranzo, ed al piccolo degno barone che abbiam lasciato a prender aria in su la specola.

Chiusa s’era la notte e l’ospite non per anco giungeva; sicchè il barone discese disperato della torre. Il banchetto, differito d’ora in ora, più non poteasi protrarre: i cibi già passavano di stagione; il cuoco in agonia, e l’intiera famiglia avea sembiante d’una guarnigione stremata per la fame. Fu dunque il barone costretto a dare contro voglia gli ordini per andare a tavola senza la presenza del principal convitato. Già tutti seduti erano alla mensa e appunto nell’istante di far de’ cucchiaj, quando il suono d’un corno da fuori la porta diede il segnale dell’accostarsi d’uno straniero. Un altro lungo suono riempì l’antiche corti del castello del suo rimbombo, e risposto gli fu dalla guardia delle mura. Il barone s’affrettò dunque ad incontrare il futuro suo genero.

Abbassato il ponte levatoio, lo straniero si stava davanti alla porta. Era un galante cavaliero, grande della persona, montato su d’un cavallo morello: pallido in volto, ma d’occhio scintillante, romantico, avea l’aria di maestosa malinconia. Rimase il conte un poco mortificato che venuto fosse in codesto semplice stile, così solo soletto: sturbata ne rimase per un momento la sua dignità, e si sentia inchinato a considerarla come una mancanza di proprio rispetto per l’importante occasione e per la famiglia importante cui era per congiungersi: si achettò non pertanto nella conclusione, che stata esser dovea la giovanile impazienza, la quale indotto lo avesse a così spronare innanzi, sollecito più de’ suoi seguaci.

“Mi duole”, disse lo straniero, “mi duole di dovere così inopportunemente — ”.

Qui il barone subito l’interruppe con un mondo salutazioni e di complimenti, perchè a dire la verità ei si piccava assaissimo di cortesia e di eloquenza. Tentò lo straniero una volta o due d’arrestare il torrente delle parole, ma invano; cosicchè, inchinata la testa, lasciò che scorresse. Quando il barone fu giunto ad una pausa, eran già entrati nella corte interna del castello; ed il forastiero sta di nuovo per parlare allorchè fu ancora una volta interrotto dalla comparsa della parte femminina della famiglia conducente fuori con seco la ritrosa sposina tutta coperta di rossore. Ei l’affissò per un momento estatico; sembrava come se tutta l’anima gli uscisse del corpo a quel mirare e si riposasse su quelle amabili forme. Una delle zie le mormorò qualche cosa all’orecchio; fece ella uno sforzo per parlare; l’umidetto occhio cilestro s’alzò timidamente: diede una schiva occhiata indagatrice allo straniero, e si fisse nuovamente al suolo. Le morirono le parole sul labbro; ma un dolce sorriso che scherzava su quel labbro medesimo, ed una lieve fossetta della guancia pudica mostravano non essere quel suo sguardo rimasto male soddisfatto. Era impossibile ad una ragazza dell’appassionata età di dieciotto anni, altamente predisposta all’amore ed al matrimonio, era impossibile non compiacersi di sì galante cavaliere.

La tarda ora in cui era l’ospite arrivato, non lasciava tempo a parlamenti. Il barone suoleva esser perentorio, e differendo ogni conversazione particolare, fino alla mattina susseguente, tosto l’introdusse all’intatto banchetto.

Era questo servito nella gran sala del castello. Pendeano dalle circostanti pareti gli arcigni ritratti favoriti degli eroi della casa di Katzenellenbogen, in un co’ trofei per essi acquistati nel campo od alla caccia. “I rotti scudi e gli smagliati usberghi”, con le lancie spezzate e le stracciate bandiere, misti andavano alle spoglie delle silvestri battaglie; le ganascie del lupo e le zanne dell’orso digrignavano orribilmente in mezzo a dardi e ad accette, ed uno smisurato pajo di corna cervine spandeva i rigogliosi suoi rami appunto appunto sopra la testa del giovane sposo.

Poco attese il cavaliere alla compagnia ed al trattamento: poco o nulla gustò del banchetto, e sembrava tutto assorto nella contemplazione della sua sposa. Conversava a bassa voce per non essere sentito — perchè forte non è mai il linguaggio degli amanti; eppur dov’è l’orecchio femminino ottuso cotanto che non sappia afferrare il lievissimo mormorar dell’amore? V’era un misto di tenerezza e di gravità nelle sue maniere, il quale parea che avesse un potentissimo effetto sulla giovine dama. Arrossiva essa ed impallidiva secondo che ascoltava con profonda attenzione; di quando in quando faceva timidamente qualche risposta, e se voltava egli l’occhio un momento, tosto ella dava di volo uno sguardo furtivo a quel suo romantico contegno, e mandava un gentile sospiro di tenera voluttà. Era manifesto che la giovane coppia già si amava caldissimamente. Le zie profondamente versate nei misteri del cuore protestavano che caduti erano in amore l’uno con l’altro, a prima vista.

Procedeva intanto il convito allegramente, o almeno rumorosamente; perchè i convitati graziati erano di quel buon appetito che suol accompagnare le borse vuote e l’aria di montagna. Il barone raccontò le sue migliori e più lunghe storie, nè mai le aveva dette così bene o piuttosto con effetto maggiore. Se qualche cosa vi avea di maraviglioso, gli uditori si perdevano nella maraviglia; e se qualche cosa di faceto, certo che ridevano precisamente al giusto suo luogo. Il barone, è vero, come il più de’ grandi uomini, era troppo sublime per lasciarsi fuggine alcuno scherzo che scipito non fosse; venia però sempre afforzato da un bicchiere di eccellente Hochheimer; ed anche uno scherzo scipito, detto alla propria tavola, e servito con l’accompagnatura d’un vino vecchio elettrizzante, diventa irresistibile. Molte buone cose furon dette da’ più poveri e sottili ingegni, che non meriterieno d’esser ripetute fuorchè in simili occasioni; molti discorsi equivoci si tennero all’orecchio delle signore da metterle quasi in convulsione per la fatica di sopprimere le risa; ed una canzone o due, mugghiate da un povero ma giubilante cugino del barone, di faccia rotonda, ebbero a far giuocare alle zie zitelle il ventaglio riparatore.

In mezzo a tanta baldoria, l’ospite straniero mantenne singolarissima ed inopportunissima gravità. Prese il suo volto un più profondo getto di abbattimento siccome avvanzava la sera; e per quanto strano e’ possa comparire, gli stessi scherzi del barone parea non valessero ad altro che a renderlo viemaggiormente melanconico. Talvolta era immerso in meditazioni; tal altra un torvo ed irrequieto vagare dell’occhio mostrava un’anima sì, ma un’anima in grandissima perturbazione. Il suo colloquio con la sposa divenne di più in più fervente e misterioso: tetre nubi cominciarono a spargersi sulla bella serenità del ciglio di lei e a scorrerle de’ tremori pel dilicato suo corpicino.

Non potè tutto ciò sfuggire le osservazioni dei circostanti. L’allegria ne rimase agghiadata per l’inintelligibile tristezza dello sposo; infetti ne furono tutti gli spiriti; cambiavansi bisbigli ed occhiate, e chi stringeasi nelle spalle, e chi scuoteva equivocamente la testa. Il canto e le risa divennero sempre meno frequenti; v’erano lacune spaventevoli nella conversazione che furono alla fine succedute da fieri racconti e da leggende soprannaturali. Una terribile istoria ne produceva un’altra ancor più terribile, ed il barone spaventò fin quasi all’isterismo alcuna delle signore con quella del folletto a cavallo che si portò via la bella Leonora; terribilissima storia ma vera, che posta poi in ottimi versi, si legge e si crede dall’universo mondo.

Ascoltò lo sposo codesto racconto con attenzione infinita. Teneva gli occhi costantemente fissi nel barone, e come il discorso procedeva alla sua conclusione incominciò egli ad alzarsi dalla sedia, facendosi più grande e via via più grande, finchè all’occhio estatico del barone pareva che torreggiasse gigante. Nel momento che terminò la narrazione, trasse un profondo sospiro e prese solenne congedo dalla brigata. Rimasero tutti stupefatti: il barone all’intutto come percosso dal fulmine.

“E che! lasciare il castello a mezzanotte! Perchè! ogni cosa era preparata pel suo ricevimento; presta era una stanza per lui ove gli piacesse di ritirarsi”.

Scosse lo straniero la testa, lugubre e misterioso; “È forza che riposi il capo in stanza ben diversa questa notte!”

V’era un certo che in codesta risposta e nel tuono in cui fu pronunciata, che fece mancare il cuore al povero barone; ma raccolse egli le forze, e ripetè le ospitali sue istanze.

Lo straniero crollava la testa in silenzio, ma positivamente, ad ogni proferta; e in fine, dando co’ cenni un addio agli astanti, uscì lentamente fuor della sala. Le zie zitelle assolutamente petrificate — la sposa abbassava la testa, ed una lagrima le cadde nascosta dagli occhi.

Il barone seguì lo straniero fino alla gran corte del castello, ove il nero corridore l’attendeva battendo il suolo e sbuffando per impazienza. — Giunti che furono alla porta, la cui profonda arcata illuminava un affumicato lanternone, fermossi lo straniero e addrizzandosi al barone in cupo tuono di voce, dalle volte soprastanti reso vieppiù sepolcrale:

“Ora che siam soli,” gli disse, “vi parteciperò la ragione del mio partire. Ho un solenne, indispensabile impegno — ”

“Ebbene,” rispose il barone, “non potreste mandare alcuno in vece vostra?”

“Non si ammettono sostituti — bisogna che il tenga in persona — bisogna che mi sia alla cattedrale di Wurtzburgo — ”

“Sì,” replicò il barone, prendendo fiato, “ma non prima di domani — domani condurrete con voi la vostra sposa.”

“No! no!” riprese lo straniero con centuplicata solennità: “non è con ispose l’impegno mio — i vermi! i vermi mi attendono! Io son morto — mi hanno ucciso i masnadieri — giace il mio corpo a Wurtzburgo — a mezza notte devo là essere seppellito — la tomba mi aspetta — mi è forza tenere l’impegno!”

Balzò sul suo destriero, passò di corsa il ponte levatoio, ed il calpestio del suo cavallo presto si confuse col fischiare del notturno venticello.

Tornato il barone estremamente costernato nella sala, vi riferì l’accaduto. Due dame caddero subito in deliquio, altre si svennero all’idea d’avere banchettato con un fantasima. Era opinione d’alcuni che fosse quello il selvaggio cacciatore famoso nella leggenda germanica: parlavano altri di spiriti montani, di demoni boscherecci, di altri esseri soprannaturali, da’ quali fu un tempo il buon popolo della Germania aspramente defatigato. Uno de’ poveri parenti si avventurò a suggerire che poteva ben essere qualche scherzosa evasione del giovane cavaliere e che la medesima tetraggine del capriccio sembrava convenientissima ad un personaggio cotanto melanconico. Ciò peraltro gli tirò adosso l’indignazione dell’universa brigata, e specialmente del barone, il quale lo riguardava per poco meglio d’un infedele; cosicchè fu egli costretto ad abjurare al più presto possibile la sua eresia e tornare alla fede de’ veri credenti.

Ma quali si fossero i dubbi mantenuti, furono essi tolti compiutamente di mezzo dall’arrivo, il giorno appresso, di lettere formali, le quali confermarono la notizia dell’assassinio del conte e del suo interramento nella cattedrale di Wurtzburgo.

Si può ben immaginare la desolazione del castello. Il barone si rinchiuse nella sua camera. I convitati, venuti a stare seco lui in allegria, non istimarono di abbandonarlo nel suo abbattimento. Vagavano pei cortili, o s’accoglievano in gruppi nella sala, dimenando la testa e stringendosi nelle spalle agli affanni del dabben uomo; e’ sedevano più a lungo che mai alla mensa, e trincavano più che mai valorosamente, e tutto per tenersi di buon animo. Ma la condizione della vedovata sposa era deplorabilissima. Aver perduto un marito prima eziandio d’averlo abbracciato — e tale un marito! se lo stesso fantasima n’era così grazioso e tanto nobile, che sarebbe stato vivente! Riempiva essa la casa di gemiti e di querele.

La sera del secondo giorno di sua vedovanza, ritiratasi nella sua camera con la men vecchia delle zie, la quale insisteva a voler dormire con lei; la zia, una delle migliori narratrici di storie di spiriti e di folletti della Germania intera, appunto raccontandone una delle sue più lunghe e più belle, vi si era nel bel mezzo addormentata. Remota era la stanza e dava sur un piccolo giardinetto. La nipote giaceva pensosa affissando gli occhi nei raggi della luna nascente sì come tremolavano in sulle foglie d’un alberella posta davanti alla gelosia. L’oriuolo del castello aveva allora allora suonato la mezzanotte; quand’ecco un dolce preludio musicale sollevarsi dal sottoposto giardino. S’alza essa frettolosa dal letto, e corre in punta di piedi alla finestra. Un’alta figura stava infra l’ombre degli alberi. Come alzò la testa e un raggio di luna gli cadde sul volto, cieli e terre! vede essa il fantasima sposo! Un alto strido viene in quell’istante a ferirle l’orecchio, e la zia, che svegliata dalla musica, l’aveva in silenzio seguita alla finestra, le cade in fra le braccia tramortita. Guarda essa di nuovo, ed il fantasima è sparito.

Delle due donne, la zia chiedeva allora le massime cure, perchè affatto fuori di se per lo spavento. Quanto alla giovane, eravi qualche cosa anche nel fantasima dell’amante, che sembrava renderglielo caro. Portava tuttavia la sembianza di maschia bellezza: e quantunque l’ombra d’un uomo atta non sia che poco a soddisfare gli affetti d’una spasimante ragazza, pure, ove aver non se ne possa la sostanza, anche quell’ombra riesce di consolazione. Protestò la zia che non avrebbe mai più dormito in quella stanza; la nipote, per la prima volta disubbidiente, protestò invece con altrettanta forza che non avrebbe dormito in alcun’altra del castello: conseguenza ne fu ch’ebbe a dormir sola: ma trasse dalla sua zia la promessa di non raccontare la storia del fantasima se pure negarle non voleva l’unico melanconico piacere a lei rimasto sopra la terra — quello d’abitare la stanza su cui l’ombra custode dell’amante diletto faceva le notturne sue vigilie.

Quanto a lungo la buona vecchia mantenesse la sua promessa, è cosa incerta, poichè amava essa caramente il parlare di maraviglie, ed avvi una specie di trionfo nell’essere il primo a raccontare una storia spaventosa. Si cita però tuttavia nei dintorni, sì come esempio memorabile di femminina segretezza, che tenne in se la faccenda per un’intiera settimana, al capo della quale fu essa d’improvviso disciolta da ogni ulteriore riserva per la nuova recata una mattina alla tavola della colazione, che la giovane damina più non si trovava. Vuota era la sua stanza — sul letto non avea dormito — era aperta la finestra, e l’ucello volato via!

La maraviglia e l’interesse con cui ricevuta fu la nuova, può solo immaginarsi da coloro che stati sono testimoni dell’agitazione che le disgrazie d’un grande cagionano fra i suoi amici; perfino i poveri parenti avean dato un momento di triegua agli indefessi lavori del tagliere: ma finalmente la zia, rimasta alla prima senza parola, storcendosi le mani, gridò: “Il fantasima! il fantasima! è stato certo il fantasima che l’ha portata via”!

Raccontò in brevi parole la tremenda scena del giardino, e conchiuse che dovea il fantasima essersi portata via la sua sposa. Due de’ domestici corroborarono la opinione deperendo che udito avevano lo scalpitar del cavallo giù per la montagna verso la mezzanotte, e dubbio non avevano che stato non fosse il fantasima, il quale sul suo destriero nero se la portava con seco nella tomba. Tutti i presenti furono colpiti dalla fiera probabilità; poichè avvenimenti di tal natura estremamente comuni sono in Germania, come ne rendono ampia testimonianza le moltissime storie che se ne hanno, bene autenticate.

Che miseranda condizione non era mai quella del povero barone! Qual doloroso dilemma per un tenero padre, e per un ultimo membro della grande famiglia di Katzenellenbogen! L’unica sua figliuola o stata era rapita per ridurla vivente al sepolcro, o era egli per avere a genero un qualche demone dei boschi, e forse forse un branco di folletti per nipoti. Secondo il solito, ne rimase intieramente soprafatto, e tutto il castello in disperazione. Fu ordinato agli uomini di salire a cavallo, e scorrere ogni via, ogni sentiero, ogni macchia dell’Odenwald. Il barone medesimo s’era già posti gli stivali da groppa, e, cinta la spada, stava per montare sul suo Veloce per sortire anch’egli all’incerta ricerca, quando una nuova apparizione sopraggiunse ad arrestarlo. S’era veduta avvicinarsi al castello una dama, montata sur un pallafreno, e accompagnata da un cavaliere. Venne galloppando alla porta, balzò di sella, e cadendo a piedi del barone, ne abbracciava le ginocchia. Era la smarrita figliuola col suo compagno — il fantasima sposo! Rimase attonito il barone: guatava la figlia, quindi il fantasima, e quasi dubitava della testimonianza de’ suoi propri sensi. Quegli poi, il cavaliere, avea maravigliosamente migliorato nell’aspetto da poi della sua visita al mondo degli spiriti. Splendidi n’erano gli abiti, ed abbellivano una nobile figura d’atletica simmetria: non più pallido nè malinconico, il suo bel volto colorivasi del fuoco della gioventù, e la gioja brillava in que’ suoi grand’occhi neri vivacissimi.

Fu presto chiarito il mistero. Il cavaliere (perchè, in verità, che dovete esservi oramai accorti, ch’egli non era altrimenti un fantasima) il cavaliere si annunciò per Ermanno Von Starkenfaust. Narrò l’avventura del giovane conte. Disse come si era affrettato al castello per recarvi le dolenti novelle, ma che la eloquenza del barone interrotto lo aveva in ogni tentativo di fare la sua esposizione. Come la vista della fidanzata lo aveva del tutto cattivato, sicchè per passare poche ore presso di lei, avea tacitamente tollerato che continuasse l’errore. Come stato era gravemente perplesso intorno alla maniera di ritirarsi decentemente, finchè le storie de’ folletti e degli spiriti dette dal barone, gli suggerirono quello strano espediente. Come temendo della feudale ostilità delle due famiglie, avea ripetuto le sue visite di furto — frequentato aveva il giardino sottano alle finestre della giovine — aveva amoreggiata — vinta — portata via in trionfo — e, in una parola, sposata la bella.

In tutt’altre circostanze sarebbe il barone restato inflessibile, chè geloso egli era della paterna autorità e piamente ostinato in tutte le contese di famiglia; ma amava egli la figliuola, ne aveva pianta la perdita, godeva di trovarla sana e salva; è quantunque di casa nemica ne fosse il marito, nulladimeno, grazie al cielo, non era alla fin fine nè un fantasima nè un folletto. Eravi qualche cosa, bisogna confessarlo, che non s’accordava esattamente con le sue idee d’una rigorosa veracità, nello scherzo fattogli dal cavaliere di passare per un uomo morto; ma parecchi vecchi amici presenti che servito avevano nelle guerre, lo assicurarono che scusabile si era in amore qualunque stratagemma, e che il cavaliere diritto aveva a special privilegio, avendo da sezzo anch’egli servito come soldato a cavallo.

Furono quindi felicemente acconciate le cose, avendo il barone perdonato alla giovine coppia sul momento; si ripigliarono nel castello le gozzoviglie; i poveri parenti oppressero il nuovo membro della famiglia di affettuose cordialità; era egli così galante, così generoso — è così ricco! Le zie, a vero dire, rimasero alquanto scandalezzate in vedere il loro sistema di stretta reclusione e passiva obbedienza così sinistramente cimentato dall’esperienza; ma tutto attribuirono alla negligenza loro, di non aver fatto porre un’inferriata alla finestra. Una di esse poi rimase in particolar modo mortificata perchè guasta così le venia la sua stupendissima istoria, e che l’unico fantasima per essa mai veduto non fosse poi che una contraffazione; ma la nipote apparriva perfettissimamente beata d’averlo trovato sostanziale, di carne e d’ossa — E così ha fine l’istoria.



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