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Traduzione dall'inglese di Grazia Pierantoni Mancini (1869)
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IL GRILLO DEL FOCOLARE
Il paiuolo incominciò! Nè mi cale di quello che può dirne la signora Peribingle. Io lo so meglio di lei. Ella al più dopo tanto tempo potrebbe dirvi che non sa chi primo incominciasse; ma io vi dico che fu il paiuolo, e non debbo esattamente saperlo? Il paiuolo dunque incominciò cinque minuti segnati dal piccolo orologio olandese, che tutto verniciato brillava nell’angolo, prima che il grillo mettesse fuori un sol grido.
Non aveva ancora l’orologio finito di suonare e su di esso il piccolo mietitore menando a destra ed a manca la sua falce non aveva reciso più d’un mezzo jugero di fieno immaginario, che già il grillo si era fatto anch’esso della partita!
Che io di rado affermi le cose ognuno lo sa nè farei valere la mia opinione contro quella della signora Peribingle se non ne avessi le buone prove: niuno invero m’indurrebbe a tanto. Ma cotesta è quistione di fatto, e il fatto è appunto che il paiuolo incominciò almeno cinque minuti prima che il grillo desse segno di vita! Contradditemi ed io dirò dieci.
Ora lasciatemi narrare come accadde ogni cosa. Avrei dovuto farlo dalla prima parola, ma di grazia, chi deve narrare una storia deve incominciarla dal principio, e come dire dal principio senza parlare del paiuolo?
Ben vi potete immaginare che specie di concerto, che gara di abilità vi fu tra il paiuolo ed il grillo.
Ora vi dirò che cosa li condusse a tale.
La signora Peribingle uscì sul cadere della fredda giornata, e facendo risuonare gli zoccoli sul lastricato del cortile, che cammin facendo tracciavano innumerevoli e rozze orme della prima proposizione di Euclide, se ne andò ad attingere acqua.
Appena tornata si tolse gli zoccoli; e non poco diminuita, perchè quelli avevano alti calcagni ed ella era piccina, mise il paiuolo sul fuoco; ma vi perdette la pazienza, o almeno la smarrì per un momento, chè l’acqua essendo freddissima ed in quello stato di congelazione e fluidità atta a penetrare ogni cosa era scorsa ne’ piedi della signora Peribingle, custoditi prima dallo zoccolo ed aveva inzaccherate le sue gambe. E la cosa gli deve parer dura, a chi con qualche ragione si pregia delle proprie gambe e tiene alla nettezza delle calze.
Inoltre il paiuolo era di più in più ostinato, non voleva saperne di stare in equilibrio, nè di prestarsi gentilmente alla rozzezza del carbone; s’inchinava davanti in guisa di beone e gocciolava sul focolare, da paiuolo idiota suo pari: era querulo e fischiava e borbottava sgarbatamente sul fuoco. Nè bastava; il coperchio resistendo alle dita della signora Peribingle si voltò sottosopra, poi, coingegnosa ostinazione degna di miglior causa, s’immerse da un lato e sparve nel grembo stesso della caldaia. Quando si trattò di estrarre dall’acqua lo scafo Real Giorgio, questo non oppose neanche la metà della mostruosa resistenza che fece il coperchio di quel paiuolo alla signora Peribingle, prima ch’ella ne venisse a capo.
Ciò diveniva per lo meno insopportabile; lo stesso manico assumeva un’aria di sfida, ed il becco rialzandosi in modo impertinente, pareva dire motteggiando: non voglio bollire; nessuno può pretenderlo da me!
Ma la signora Peribingle aveva ripreso il suo buon umore; si fregò le manine e si assise ridendo dinanzi il paiuolo. In questo mentre rallegra fiamma s’elevò e ricadde, subitamente illuminando il piccolo mietitore sulla vetta dell’orologio olandese, sicchè pareva quasi che egli se ne stesse fermo davanti al suo palazzo moresco e la sola fiamma fosse in movimento.
Pure invero egli si moveva ed aveva due scosse al secondo, nè più nè meno. Ma allorchè l’ora fu prossima a scoccare, le sue contorsioni divennero proprio spaventevoli; ed allora un cuculo apparve ad una delle porte del palazzo e cantò sei volte con voce sepolcrale, dimenandosi in modo che pareva un qualche peso lo tirasse per le gambe.
Non fu che dopo violentissime scosse ed infernale fragore di ruote e pesi ad esso ben necessari, che lo spaventato mietitore ritornò in se stesso; nè egli si affannava senza ragione chè quelle rumoroso e dislocate macchine d’orologi sono sconcertate assai nei loro movimenti, ed io mi meraviglio che vi siano stati degli uomini che abbiano trovato un qualche gusto ad inventarle, e che specialmente poi siano stati gli Olandesi; perchè questo è un popolo tranquillo che ama le larghe brache e si cura assai dell’esterna pulizia ed esso avrebbe potuto fare qualche cosa di meglio.
Intanto era tempo che il paiuolo si desse un po’ di moto; ed infatti esso era finalmente riscaldato e diveniva musicale, incominciando a tirar fuori dalla strozza involontari gorgheggi e brevi starnuti, che cercava di frenare alla meglio come se avesse compreso d’essere in buona compagnia.
Ma non essendo riuscito a frenarsi nè la prima ne la seconda volta, gettò via la paura e la riserva e sgorgò in un torrente di armonia così gaia e ciarliera da far invidia all’inebbriante usignuoletto.
Che canto spianato! l’avreste compreso come un libro aperto, meglio forse di certi libri che non voglio nominare. Il suo alito riscaldato mutavasi in luminosa nuvoletta che lieta e graziosa ascendeva alla cappa del caminetto come ai proprio domestico cielo, mentre giù trillava il paiuolo la sua canzone tanto energica e gioconda che il suo corpo metallico tutto ne fremeva e s’agitava sul fuoco; e lo stesso coperchio ora sì ribelle, tanto vale sul mondo un po’ di buon esempio, saltellava anch’esso e portava la battuta in suono dimesso, come un sordo cembalo che nulla sapesse delle rumorose abitudini dei suoi confratelli.
E quel canto del paiuolo non era altro che un invito ed un benvenuto a qualcuno che era di fuori, a qualcuno che andava per la via della sua piccola casetta e del suo fuoco crepitante. Su di ciò non cadeva dubbio e la signora Peribingle ben lo sapeva mentre sedeva pensosa presso il focolare.
«La notte è buia, diceva quel canto, le secche foglie ingombrano la via; in alto tutto è tenebre e nebbia; quaggiù tutto argilla e fango; pure nell’aere perso e mesto vi è un sol punto luminoso; ma non posso dirvi che cosa vi sia, perchè null’altro appare se non uno splendore d’un rosso cupo ed arrabbiato, e forse il sole ed il vento gettano sulle nubi un tizzone acceso a punirle di un simile tempo; per cui la campagna libera e spaziosa non appare se non quale malinconica striscia nera; e si ha ghiaccio al posto delle dita, mentre questo poi si liquefà sotto le ruote. Non è accora la neve, ma neanche acqua sciolta, nè voi potete dire come stanno le cose o come diventeranno; ma egli è là, egli viene, egli giunge!»
E qui, se non vi spiace, lasciamo che incominci anche il grilletto e che si metta anch’esso nel coro con un cinguettìo altero e gagliardo e con una voce sì meravigliosamente sproporzionata alla sua natura, a fronte di quella del paiuolo (ma che dico statura? era impercettibile), che se fosse scoppiato come una bomba, se il suo corpicciuolo si fosse franto ad un tratto in mille pezzi, avreste trovata la cosa naturalissima e degna de’ suoi sforzi.
Benchè il paiuolo non fosse più solo a cantare, pure continuò con lo stesso ardore; ma il grillo prese a fare la prima parte e la sostenne. Buon Dio! che strilli! la sua voce acre, stridula e penetrante intronava la casa e si faceva strada fra le tenebre di fuori come una stella. Ed al punto culminante, eccoti un tremulo ed un trillo da farti credere che nel suo entusiasmo l’animaletto unisse il ballo alla canzone. Ora l’accordo del paiuolo e del grillo era perfetto; il loro ritornello era sempre lo stesso, ed entrambi gli emuli lo spandevano all’aria sempre più gagliardo.
La piccola bionda ascoltatrice, poich’ella era bionda e giovane benchè grassoccia (al che io nulla trovo a ridire) accese un lume; dette un’occhiata al mietitore che sulla cima del suo orologio aveva già fatta una buona raccolta di minuti e guardò dalla finestra, ma le tenebre non le permisero di veder altro se non il proprio visino riflesso sul vetro. E la mia opinione e forse anche la vostra è che ella poteva guardare un bel pezzo prima di veder nulla di così vezzoso.
Allorchè ella ritornò ad assidersi accanto al fuoco il grillo ed il paiuolo non avevano certo cessato, ma parevano invasi da una vera rabbia di emulazione, in cui l’uno non giungeva mai a vincer l’altro.
Pareva un’ansante corsa. Cri, cri, cri, cinguettava il grillo che aveva preso la mano. Bu, bu, bu...m! urlava il paiuolo, raggiungendolo a grossi gorgogli, e cri, cri, cri, da capo il grillo dal suo cantuccio e bu, bu, bu...m il paiuolo; niuno può farsi una adequata idea di tutto ciò.
Ed il grillo più fresco che mai, nè il paiuolo era da meno, sicchè si correvano dietro di meglio in meglio. Alla fine vibrarono d’accordo ed in quel serra serra ci sarebbe voluta una testa migliore della mia per decidere a chi spettasse la palma. Non v’ha dubbio per altro che ad un punto stesso, per un’armoniosa forza ad essi soltanto cognita, entrambi affidarono la loro domestica canzone di conforto ad un raggio della candela, che si faceva strada attraverso la finestra sulla via deserta. E questo raggio salutando un tale che camminava tra le tenebre, in un attimo lo mise al chiaro di tutto gridandogli da lungi: benvenuto al tuo focolare, vecchio amico nostro, benvenuto!
Il paiuolo avendo bollito abbastanza fu tolto dal fuoco. La signora Peribingle corse alla porta e tra il frastuono delle ruote, il calpestìo d’un cavallo, la voce d’un uomo, i latrati del cane di fuori ed i vagiti di dentro d’un misterioso bimbo apparso ad un tratto, ella non sapeva dove dar di testa.
Donde uscisse il bimbo io non so, ma la signora Peribingle lo aveva vezzoso e vivo tra le braccia e ne sembrava un poco orgogliosa, mentre seguiva affettuosamente presso il fuoco una robusta figura d’uomo assai più alto e più attempato di lei. Questi doveva piegarsi in due per abbracciarla, ma ella ne valeva la pena.
— Buon Dio, caro Gianni! il tempo vi ha ridotto in un bello stato!
Egli era infatti malconcio; la densa brina gli pendeva dalle palpebre in candidi stalattiti; ed il contrasto delle tenebre col chiarore del fuoco faceva apparire degli archibaleni perfino sopra i suoi baffi.
— Tu lo vedi, Piccina, rispose Gianni lentamente, mentre si toglieva dal collo una lunga ciarpa di lana e si scaldava le mani; non siamo d’estate e non è meraviglioso che io sia malconcio.
— Non voglio che tu mi chiami piccina, Gianni mio, diss’ella con un tal modo vezzoso che pareva far fede del contrario.
— E che sei tu dunque? replicò Gianni sorridendo nel guardarla, e cingendola col maggior garbo che comportava la sua grossa mano, tu sei un punto, e qui egli contemplò il suo bimbo, un punto e... ma no; ero per dire una buona celia, ma non la dirò per tema di errare; eppure non credo di essere mai stato più vicino a farla.
Egli era sempre sul punto di fare o dire alcun che; ma nulla mai compiva quel lento e dabben uomo di Gianni; quel Gianni dallo spirito pesante e pur luminoso ad un tempo, dalla ruvida scorza e dal core gentile, dall’esterno volgare ma dall’anima raggiante; così semplicione, ma cotanto buono!
Oh! Madre Natura, largheggia a’ tuoi figli la vera poesia del cuore, nascosta nel ruvido petto di quel carrettiere (poichè egli era tale) e noi saremo contenti di sentirli a chiaccherare e vederli vivere di prosa e ti benediremo di averci ammessi nella loro compagnia.
Era piacevol cosa la vista di Piccina, così minuta e gentile col suo bimbo tra le braccia; un vero fantoccino che pargoleggiando contemplava il fuoco quasi pensieroso ed inclinava la sua delicata testolina tanto da poggiarla acconciamente sulla ruvida spalla del carrettiere, come in un bizzarro nido, con atto tra il naturale e il malizioso. Ed egli con che affettuosa malagrazia cercava di adattare le sue membra e far della sua forte e matura età un sostegno non ispregievole a quella fiorente giovinezza. Nè era meno interessante a vedere in che modo Tilda, la bambinaia, detta l’Attonita, la quale aspettava il bambino all’impiedi sotto l’uscio, se ne stesse a contemplare quel gruppo, benchè forse non avesse ancora cambiato i primi denti. Ritta, ritta, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e la testa innanzi ella pareva tutta assorta in quel dolce spettacolo.
Nè bisogna lasciare sfuggire l’atto del carrettiere, quando stesa la mano a carezzare il bambino fu avvertito da Piccina di non spaventarlo, e tosto la ritrasse quasi avesse temuto di farlo a pezzi; inchinandosi poscia a qualche distanza, egli prese a contemplarlo con quella specie di attonito orgoglio che avrebbe mostrato un grosso alano trovandosi ad un tratto padre d’un giovane canarino.
— Quanto è bello, Gianni! non è egli vezzoso quando dorme?
— Vezzosissimo, disse Gianni, egli per lo più dorme, non è vero?
— Ma Gianni, ti pare! non ci mancherebbe altro!
— Oh! disse Gianni in aria meditativa; mi pareva che i suoi occhi fossero abitualmente chiusi. Olà!
— Buon Dio! tu lo fai trasalire!
— Guarda come gira gli occhi, disse Gianni intimorito; vedi, ora li socchiude entrambi. E guarda la sua piccola bocca; ora sbadiglia come un pesciolino dorato!
— Tu non meriti di esser padre, disse Piccina con tutta l’autorità di una sperimentata matrona. Che ne sai tu de’ piccoli malanni dell’infanzia, Gianni? Non li sai neanche per nome semplicione mio!
Ed intanto ella poggiò il bimbo al braccio sinistro, lo percosse leggermente nella schiena e poscia ridendo tirò l’orecchio del marito.
— Tu dici il vero, disse Gianni spogliandosi del pesante mantello; io ne so ben poco di coteste cose. Solamente so che questa notte ho dovuto combattere con una fiera tramontana, la quale soffiava proprio sul carro e non mi ha dato pace per tutta la via.
— Povero il mio vecchietto, esclamò la signora Peribingle diventando ad un tratto più attiva. Prendi, Tilda, il nostro carino, mentre io mi darò da fare. Benedetto bimbo! non posso frenarmi dal baciarlo! Abbasso Boxer, giù, mio buon cane. Ora preparerò una calda tazza di thè al mio Gianni, poscia l’aiuterò a scaricare la carretta. Voglio essere operosa come l’ape, come l’ape piccoletta della canzone che sai. L’hai appresa tu mai, Gianni, quando andavi a scuola la canzoncina dell’ape?
— Non interamente, rispose Gianni, ma quasi tutta. Però non l’ho cantata mai, perchè al certo l’avrei detta male.
— Ah, ah, ah! rise Piccina.
E la sua piccola risata era la più sonora ed allegra del mondo. Tu sei, mio vecchio Gianni, il più caro e diletto babbuino che si possa dare.
Gianni non disputò i suoi titoli, ma se ne andò a vedere se il garzoncello che passava e ripassava dinanzi la porta e la finestra, e che la sua lanterna faceva rassomigliare ad un folletto, prendesse le debite cure del cavallo. Questo, meglio nutrito di quel che a voi sembrerebbe, quand’anche ve ne dessi la misura, era peraltro tanto vecchio che il suo giorno natalizio si perdeva nelle tenebre della antichità. Boxer poi che doveva carezze a tutta la famiglia, cercava di essere imparziale, ed usciva ed entrava con una irrequietezza da stordire. Ora latrando girava attorno al cavallo, mentre questo veniva strigliato alla porta della stalla; ora fingeva di slanciarsi sulla sua padrona e subitamente si arrestava per rotolarsi a’ suoi piedi; ora cogliendo il destro strappava un grido di spavento alla povera Tilda seduta sul suo sgabello presso il fuoco, che ad un tratto si sentiva un muso freddo sulla guancia; poscia bisognava respingerlo perchè troppo tenero del bimbo, ed alla fine fatto un giro attorno al focolare, pareva aver trovato un sito acconcio ed essersi adagiato per l’intera notte; ma in men che non si dica eccolo di nuovo fuori dimenando la coda e correndo a vedere il tempo che fa od a qualche dimenticato appuntamento.
— Ecco, ecco il thè, disse Piccina lietamente affaccendata come una fanciulla che si diverta a farla da massaia; ed eccoti del presciutto attaccato all’osso, del burro, de’ crostini, e non ti basta?
— Recasti dei piccoli pacchi, Gianni? mettiamoli in questo cesto. E tu, Tilda mia, bada almeno che il bimbo non caschi nel fornello. —
Benchè Tilda l’attonita respingesse con vivacità quella raccomandazione, bisogna pur confessare che ella era fatta apposta per mettere sempre il bimbo in frangente, e perfino per far temere della sua debole vita, e tutto ciò con quella calma che le era abituale.
Ella era assai smilza la nostra servetta, sicchè gli abiti erano sempre per cadere dalle sue spalle sulle quali parevano appesi alla rinfusa. Il suo costume era notevole per la grande varietà di forma e di colore de’ pezzi di flanella che lo componevano; sul dosso si scorgevano da alcune lacerature i legacciuoli del busto di un verde sbiadito. Ella era sempre in uno stato di continua ammirazione e sempre assorta a contemplare le perfezioni della padrona e del bimbo, e potevasi ammettere che le sue mancanze di giudizio facevano uguale onore alla sua testa ed al suo cuore; ma facevano meno onore alla testa del povero bimbo, poichè erano frequente cagione di metterla a contatto con l’angolo delle porte e dell’armadio, con il parapetto della scala, le scranne del letto o qualche altra sostanza più o meno eterogenea. E tutto non era se non l’onesta conseguenza del costante sbalordimento dell’attonita Tilda nel vedersi tanto benvoluta e trattata in così confortevole casa. Gli avi paterni e materni di Tilda erano egualmente sconosciuti al mondo: la poverina era una trovatella ed aveva potuto apparare per tempo che differenza passi tra il fanciullo derelitto e quello vezzeggiato fin dalla culla.
Se vi fosse stato concesso di vedere la signora Peribingle andare e venire col marito, affaticandosi intorno al cesto e dandosi molto moto per far nulla (poichè egli portava tutto) vi sareste forse divertito quanto lui. Forse il grillo dovette provarne piacere: il fatto è che esso ricominciò il suo canto a tutta gola.
— Oh! oh! disse Gianni con la solita flemma; egli è più gaio del solito stasera.
— È segno di gioia, caro Gianni; esso sempre ci ha portata buona fortuna. L’avere un grillo sul focolare è il caso più fortunato del mondo.
Gianni la guardò come se avesse voluto dire che ella era il suo grillo e la sua fortuna; ma al solito gli venne meno l’inspirazione e nulla disse.
— La prima volta che io ascoltai il suo allegro canto fu la sera che tu mi conducesti in questa mia nuova casa per qui regnare da assoluta padroncina. S’avvicina l’anno, te lo ricordi?
— Oh! sì; che Gianni lo ricordasse lo giurerei.
— Quel suo grido pareva mi desse il benvenuto; sembrava così pieno di promesse e d’incoraggiamenti, sembrava dire: egli sarà buono ed affettuoso con te, nè si aspetterà (cotesta, Gianni, era la mia maggior paura) di trovare una testa assennata sulle spalle della sua sposa pazzerella.
Gianni pensosamente le accarezzò la spalla ed il capo e pareva dicesse: no, no, io non mi aspettava nulla di simile, ma desiava le cose come or sono. Nè si mostrava difficile, perchè le cose andavano per lo meglio.
— Ed il grillo diceva il vero, caro Gianni, poichè tu sei il migliore, il più affettuoso, il più corrisposto dei mariti. La nostra casetta è un vero paradiso, ed io amo il nostro piccolo grillo per l’amore di questa.
— Anch’io, disse il carrettiere, anch’io gli voglio bene.
— Io l’amo, perchè l’ho inteso tante volte e sempre la sua innocente armonia ha risvegliato nella mia mente tanti dolci pensieri. Sovente sul tramonto, quando io mi sentiva un poco solitaria e mesta di cuore, prima che fosse venuto il nostro bimbo a tenermi compagnia e far gaia la casa; quando m’accadeva di pensare come t’avrei lasciato soletto se fossi morta, ed alla grande pena che avrei provata nel doverti abbandonare, allora dal focolare domestico sorgeva una piccola voce tanto soave, tanto cara, e per essa la mia tristezza svaniva come per incanto. Ed in quel tempo, caro Gianni, io aveva tante paure; era giovinetta assai e dubitava che il nostro matrimonio fosse male assortito. Mi pareva di essere una vera bimba, mentre tu eri tanto assennato da sembrare un mio tutore anzichè mio marito; temeva che non avresti mai saputo amarmi, benché mi sembrasse che tu cercassi di apprenderlo; ebbene! quel dolce cri, cri, mi rincorava, mi ridava coraggio e confidenza. Questa sera mentre ti attendeva, diletto mio, io ripensava a tutte queste cose che mi rendono caro il nostro piccolo grillo!
— Anche a me esso è caro, soggiunse Gianni. Ma tu scherzi! Io cercava, io sperava di poterti amare? Io t’amava assai prima di condurti qui, Piccina mia, e di farti padrona del piccolo grillo.
Ella gli posò la mano sul braccio e lo guardò commossa come se avesse avuto da dire qualche cosa. Un momento dopo era in ginocchio dinanzi la cesta, parlando con voce animata e tutta affaccendata dei pacchi.
— Non sono molti questa sera, ma ho visto di grossi involti sul carro. Se quelli ci danno maggior disturbo danno maggior profitto; in tal modo non abbiamo da lagnarci, non è vero? Del resto ne avrai già consegnato un buon numero per via.
— Infatti rispose Gianni, ne ho consegnati parecchi.
— E che cosa vi è in questa scatola tonda? Scommetto quasi che vi sia una focaccia da nozze.
— Non vi ha che la donna per iscoprire tali cose, disse Gianni con ammirazione. Come un uomo penserebbe a siffatte baie? Se celerete una focaccia da nozze in una scatola da thè, fra le coltri del letto e finanche in un barile di acciughe salate, infine nel più strano sito del mondo, non avrete che a chiamare una donna ed ella la troverà di botto. Ebbene, tu hai ragione. Sono stato io stesso a prenderla dal pasticciere.
— Come pesa! forse cento libbre! sclamò Piccina mostrando di volerla sollevare. Da chi viene, caro Gianni, e dove va?
— Leggi l’indirizzo dall’altra banda.
— Buon Dio! e sarebbe vero?
— Chi l’avrebbe mai pensato, disse Gianni!
— Avresti mai creduto, proseguì Piccina sedendosi sul pavimento e scuotendo la testa, che questa scatola fosse per la ditta Cruff e Tacleton, il fabbricante di balocchi?
Gianni fe’ un cenno negativo. La signora Peribingle continuò a scuotere la testolina, non so bene quante volte, non per assentire, ma per mostrare la sua sorpresa, stringendo le labbra con tutta la sua piccola forza (benché quelle non fossero labbra da star chiuse) e guardando nel suo stupore fiso fiso il povero carrettiere.
In questo mentre l’attonita servetta, dotata della facoltà meccanica di riprodurre a brani i discorsi che udiva per divertire il bambino, togliendo ad essi ogni buon senso e mettendo al plurale tutti i nomi, incominciò a cantarellare con voce sonora, che i Gruffi e i Tacletoni che vendevano i trastulli per i bimbi erano andati a prendere le chicche de’ pasticcieri e che le nostre mamme scoprono ogni cosa quando i babbi portano a casa le focacce, e così di seguito.
— Ella ed io, caro Gianni, eravamo compagne di scuola, e le cose dovranno andare così?
Gianni che nel tempo della scuola già pensava a Piccina o era per pensar di lei, la guardò con tenera compiacenza, ma nulla rispose.
— Colui è tanto vecchio! Così dissimile da lei! Quanti anni ha più di te, caro Gianni?
— Tanti quante tazze di thè berrò questa sera di un fiato, e scommetto che saranno quattro, riprese Gianni allegramente accostando la sedia alla tavola tonda e dando di mano al prosciutto. E mentre mangiava continuò a dire: io mangio poco, Piccina, ma quel poco mi fa pro’, non è vero?
Sempre così; ma questa sua innocente illusione che ad ogni pasto sentiva un robustissimo appetito, non richiamò neanche un sorriso sul pallido volto della giovane sposa, che all’impiedi fra i pacchi spingeva lentamente col piede la focaccia senza alzar mai gli occhi, ma questi non si affissavano sui suoi graziosi calzari, dei quali pur soleva mostrarsi curante e vana. Ella rimaneva là ritta senza darsi pensiero del thè e di Gianni, benchè questi la chiamasse e battesse sulla tavola col manico del coltello per farla scuotere, e così stette finchè egli si levò e le toccò la spalla. Allora ella lo guardò un istante, poi corse al suo posto ridendo della sua distrazione; ma non era più il riso di prima: il ritmo e l’armonia erano affatto diversi.
Il grillo anch’esso taceva; la stanza non era più allegra come prima: tutto pareva mutato.
— Questi sono tutti i pacchi, Gianni? diss’ella dopo lungo silenzio occupato dall’onesto carrettiere all’illustrazione pratica della prima parte della sua favorita affermazione.
Il fatto è che egli mangiava; ma che mangiasse poco non pareva abbastanza provato.
— Dunque, son qui tutti i pacchi?
— Sì, tutti; ma che dico, riprese ad un tratto gettando la forchetta ed il coltello e mandò fuori un grosso sospiro: Per bacco! ho dimenticato il vecchio gentiluomo.
— Un vecchio gentiluomo?
— Sì, nel carro, disse Gianni. Si era addormentato lungo la via l’ultima volta ch’io gli ho posto mente. Sono stato lì lì per ricordarmelo un paio di volte dacché sono giunto, ma me ne sono di nuovo dimenticato. Ehi, laggiù! destatevi alla fine, e siate il benvenuto,
Gianni disse queste ultime parole fuori della casa, dove era corso con la candela in mano.
Tilda sapendo che accadeva alcun che di straordinario per causa di un incognito, ed argomentando chi sa quale superstizione dalle frasi che la avevano turbata, si levò di botto per rifugiarsi presso la padrona; ma come ella attraversava la stanza s’incontrò nel vecchio straniero e l’assalì tosto con la sola arma offensiva che aveva per le mani. Ora quest’arma era il povero bimbo, e ne seguì un grande allarme, che la sagacità di Boxer valse non poco ad aumentare, poiché il buon cane meno dimentico del suo padrone, aveva montato la guardia presso l’addormentato signore, temendo forse ch’egli non fosse fuggito via col carro; e quindi lo teneva da vicino afferrandolo per le ghette e non volendo saperne di lasciarlo.
— Voi siete un gran dormiglione, caro signore, disse Gianni poiché fu ristabilita la quiete; e mentre egli parlava, il vecchio signore stava ritto, immobile, col capo scoperto, in mezzo alla stanza. Ero quasi per chiedervi che ne faceste degli altri sei dormienti. Ma cotesta sarebbe una celia ed io non ardisco dirla; benché questa volta sia stato proprio lì lì, aggiunse ridendo.
Lo straniero aveva lunghi capelli bianchi, lineamenti pronunziati e singolarmente belli per un vecchio, occhi neri, vivaci e penetranti. Guardò attorno con un sorriso poscia s’inchinò gravemente alla padrona di casa.
La foggia del suo bruno vestito era assai antiquata. Teneva nella destra un grosso e rozzo bastone; lo battè sul pavimento ed esso si aprì e divenne un sedile. Egli vi si assise con la maggior flemma del mondo.
— In tal modo, disse il carrettiere rivolgendosi alla moglie, io l’ho trovato sull’orlo della via, immobile come un pilastro e sordo quasi del pari.
– Seduto all’aria aperta?
— Appunto, riprese il carettiere, e quel, che è più sul fare della notte: viaggio pagato, egli mi disse, e mi diè diciotto soldi. Così montò e qui venne.
— Mi pare, Gianni, che voglia andar via!
— Neanche per sogno. Piuttosto vuol dirci qualche cosa.
— Se lo permettete, io rimarrò qui finché mi verranno a prendere, disse lo straniero con dolcezza. Non vi pigliate pensiero di me.
Detto ciò, tirò fuori un paio d’occhiali da una delle sue larghe tasche, un libro dall’altra e si pose a leggere senza sgomentarsi dei latrati di Boxer, come se fosse stato un agnello di casa.
Il carrettiere e la moglie si guardarono perplessi.
Lo straniero levò gli occhi dal libro e guardando l’una e l’altra, chiese:
— È vostra figlia, mio buon amico?
— Mia moglie, rispose Gianni.
— Nipote? ripetè lo straniero.
— Moglie, urlò Gianni.
— Veramente? osservò l’altro, proprio vostra moglie? È molto giovane!
Poscia si rivolse tranquillamente e continuò a leggere. Ma non andò innanzi più di due righe che interruppe nuovamente e dimandò:
— E quel bimbo è vostro?
Gianni fece un gigantesco segno col capo, che valeva un sì gridato attraverso un porta voce.
— Una bimba?
— Un ma...a...schio! urlò Gianni.
— Molto piccoletto, eh!
Qui intervenne la signora Peribingle. Due mesi e tre giorni! Vaccinato da sei settimane! L’innesto ha preso a maraviglia! Una bellezza di bimbo, al dire del dottore! Pare di cinque mesi! capisce tutto, è un portento! Voi non lo credete, ma già sgambetta maravigliosamente.
E la povera mammina senza fiato per aver strillate coteste frasi concise nell’orecchio del vecchio signore fino a far di porpora il suo bel visino, gli presentò il bimbo qual prova trionfante e irrecusabile, mentre l’attonita Tilda gridando con voce melodiosa: — Oh! bello, bello! saltellava come una capretta intorno all’inconsapevole innocente.
— Mi pare che vengano a cercarlo, disse Gianni, qualcuno bussa: Tilda, andate ad aprire.
Ma prima che questa si muovesse già l’uscio erasi aperto da sè, poiché era all’antica e chiuso da un semplice saliscendi, così che chiunque poteva penetrare, e molti infatti entravano, perchè i vicini d’ogni condizione scambiavano volentieri qualche parola col carrettiere, il quale per altro non era un gran ciarlone.
Un omino magro, pensoso, dalla faccia cupa apparve sulla soglia; egli vestiva un pastrano fatto di quella tela di sacco che si adopera per imballatura, e che aveva tolto a prestito a qualche vecchia cassa, poiché nel girarsi che fece per chiudere l’uscio sbattuto dal vento, mostrò sul dorso un G ed un F in grossi caratteri neri, e più sotto un Fragile non meno baldanzoso.
— Buona sera, Gianni, disse l’omino, buona sera, Maria; buona sera, Tilda, e a lei pure, mio incognito signore; come sta il bimbo, e il caro Boxer? Tutti bene, io spero!
— Non c’è male, Caleb, rispose Piccina; in quanto al bimbo guardatelo e il suo visino risponderà per lui.
— Ed il vostro per voi, disse Caleb.
Ma intanto non la guardava; perchè aveva un occhietto incerto e pensieroso che continuamente sembrava errante in altri luoghi ed in altri tempi ed estraneo a ciò che gli era dappresso. Perfino la sua voce pareva venir di lontano.
— Nè Gianni ha cattiva cera, prosegui egli, nè Tilda paffuta come un’oca, e neanche Boxer.
— V’ha di molto lavoro, Caleb? gli domandò il carrettiere.
— Non ne manca, egli rispose con l’aria distratta d’uno dimandasse in cerca per lo meno della pietra filosofale. Ne ho anche di troppo. Le arche di Noè sono in voga oggidì; vorrei perfezionare i personaggi, ma per quel prezzo non si può far di meglio. Sarei pure così contento di far distinguere più chiaramente chi è Sem e Cam e Jafet, e quali sono le loro mogli. Nè si può dire che le mosche conservino le dovute proporzioni degli elefanti. Ma che fare? A proposito, Gianni, non avete voi alcun pacco per me?
Il carrettiere pose la mano nella tasca del pastrano poc’anzi tolto e ne trasse un vasellino di fiori conservato diligentemente tra carta e muschio.
— Eccolo, disse mettendolo fuori con precauzione; non si è guasta neppure una foglia, ed è pieno di bocciuoli.
L’occhio losco di Caleb brillò ad un tratto nel prendere la pianticella, e ringraziò il carrettiere.
— È caro, Caleb, disse questi, molto caro, attesa la stagione.
— Che monta? lo troverei sempre a buon mercato, a qualunque costo, rispose l’omino. E null’altro, Gianni?
— Una piccola scatola, disse il carrettiere. Eccola appunto.
— Caleb Plummer, lesse l’omino sillabando, con somma. Ci vuol del danaro, Gianni? Allora non sarà per me.
— Con somma cura, disse il carrettiere, guardando di sopra la sua spalla; voi non leggete tutto.
— Avete ragione, disse Caleb, con somma cura! Infatti è per me. Ed avrebbe potuto essere del pari anche mia a pagamento se fosse vivo il mio diletto figliuolo partito in cerca d’oro per l’America del Sud. Voi l’amavate come un figlio, non è vero?
— È inutile che mi rispondiate; lo so meglio di voi. A Caleb Plummer con somma cura. Sì, sì tutto sta bene. È una scatola di occhi per le bambole che fa mia figlia. Ah, io vorrei che in quella scatola vi fosse un paio d’occhi per lei, caro Gianni!
– Pensate se non lo vorrei anch’io, esclamò il carrettiere.
— Vi ringrazio, disse l’omino, voi parlate col cuore sulla mano. E dire che ella non vedrà mai le bambole di sua fattura, che pur la guardano tutto il giorno. È una cosa crudele! Quanto vi debbo per il nolo caro Gianni?
— Per il nolo? vado in collera se ne parlate.
— Ebbene, facciamo a modo vostro, ripigliò l’omino; siete tanto gentile! vi pare che io abbia preso tutto?
— No, vi è qualche cosa ancora.
– Per il padrone? disse Caleb, dopo avere alquanto pensato. Lo sapeva ed ero venuto a posta; ma che volete, ho sempre la testa piena di arche e di simili cose. Non è egli venuto qui?
– No, disse il carrettiere, sarà occupato a far cortesie alla sua bella.
— Ad ogni modo verrà, disse Caleb, perchè mi aveva raccomandato di camminare rasente il muro, e detto che scommetteva dieci per uno che mi avrebbe raggiunto. E si che avrei già dovuto andare a casa! Mi permettete, Maria, di tirare per un istante la coda di Boxer?
– Perchè, Caleb, questa curiosa domanda?
— Sia per non detto, e forse Boxer non sarebbe contento di questa prova; ma avevo avuta una piccola richiesta di cani che abbaiano, ed avrei voluto avvicinarmi alla natura quel tanto che si può per sei soldi. Questo è tutto, ma non ne fate caso.
Intanto avvenne che Boxer senza lo stimolo proposto incominciò a latrare fortemente. Ma come ciò annunziava qualche nuova visita, Caleb rimettendo a miglior tempo il suo studio dal vero, caricò sulle spalle la scatola con la focaccia e prese commiato. Poteva risparmiarsi quella pena, perchè il nuovo venuto lo fermò sulla soglia.
— Oh! Caleb, siete qui? Aspettatemi un istante e faremo insieme la via di casa. V’offro la mia servitù, Gianni Peribingle, ma l'offro con più calore alla vostra bella moglie. Sempre più bella e sempre migliore se fosse possibile! E più giovane! soggiunse poi a mezza voce, e questo è il guaio.
— Mi stupisco che voi mi facciate tanti complimenti, signor Tacleton, disse Piccina con un po’ di malagrazia, specialmente poi nella vostra condizione.
— Ah! voi già sapete?
— Ho cercato di persuadermi, disse Piccina.
— Con molta fatica?
— Infatti!
Tacleton, negoziante di balocchi, era generalmente conosciuto sotto il nome della ditta Gruff e Tacleton, benché il primo si fosse già da un pezzo ritirato dagli affari lasciando al compagno il suo nome e qualche cosa della sua natura tutt’altro che benigna. I suoi parenti e tutori avevano sconosciuto affatto la vocazione di costui. Se ne avessero fatto un usuraio, un accanito Pubblico Ministero, uno sceriffo1 o un barattiere, avrebbero forse sfogato i suoi cattivi istinti in giovinezza e stancate le sue maligne inclinazioni, e quindi sarebbe riuscito ad esser buono, forse non peraltro che per amore di cambiamento e di novità.
Ma stabilito e mummificato nel pacifico mestiere di fabbricante di balocchi, pareva un orco domestico nutrito abitualmente di bimbi, e loro implacabile nemico. Egli sprezzava i balocchi, non ne avrebbe mai comprato uno, e pur si dilettava nella sua malizia d’inventare le più orribili smorfie del mondo: contadini di carta pesta che conducevano i porcellini alla fiera, pubblici banditori che solennemente ammonivano le compre coscienze de’ deputati, vecchie signore che mosse da ingegnoso meccanismo rappezzavano calze o trinciavano pasticci, e mille altre simili cose di sua fattura messe in vendita. E che dir poi delle maschere? Aveva pure in alcune scatole scimiotti spaventosi dagli occhi rossi, vampiri volanti e ballerini indiavolati che saltavano su all’impensata e facevano sbalordire i poveri ragazzi. Tali cose rivelavano interamente l’anima sua, esse erano il suo ristoro ed il suo rifugio, nè credo vi fosse chi il superasse in tali invenzioni. Pareva che un genio malefico lo inspirasse. Ultimamente egli aveva gettata non poca moneta in certi trasparenti da lanterne magiche con inoltri accuratezza colorati, che rappresentavano le potenze d’averno con viso umano e rivestite di una squama di pesci soprannaturali. Col solo monopolio de’ giganti si era messo da parte un piccolo capitale. Benchè egli non fosse pittore, sapeva all’uopo indicare col gesso agli artisti da lui occupati certe fuggitive espressioni di sembianze di mostri, che dovevano senz’altro togliere ogni tranquillità di spirito ai giovanetti da sei ad undici anni nelle vacanze estive o natalizie.
Inutile dirvi che quale nei balocchi tale era nelle altre cose. Perciò potete supporre che gradito personaggio fosse avvolto nel gran mantello verde oscuro che gli giungeva a’ polpacci e come egli fosse il più spiacevole compagnone che avesse mai calzato alti stivali a rovesci colorati.
Ciò non pertanto quel negoziante di trastulli era sul punto di prender moglie, e quel che più monta, la sua sposa era giovinetta ed assai bella.
Non si poteva dire in coscienza ch’egli avesse l’aspetto d’un fidanzato, mentre in piedi nella cucina del carrettiere, col viso contorto, la schiena curva, il cappello sul naso, le mani nelle larghe tasche, lasciava sfuggire un non so che di maligno dall’angolo sagliente del suo piccolo occhio, che pareva l’essenza concentrata di un gran numeno di corvi.
E con quella fisonomia era un promesso sposo!
— Fra tre giorni, giovedì prossimo, l’ultimo giorno del primo mese dell’anno, faremo le nozze, disse Tacleton.
Vi ho detto ch’egli aveva un occhio spalancato e l’altro socchiuso, e che il socchiuso era il più espressivo fra i due? Non mi pare.
— Quello sarà il mio giorno nuziale, ripetè Tacleton facendo risuonare il suo danaro nelle tasche.
— Ed è anche l’anniversario del nostro, esclamò il carrettiere.
— Ah! ah! rise Tacleton, noi faremo un’altra coppia come lo vostra; appuntino!
L’indegnazione di Piccina a codesta strana presunzione non sì può descrivere a parole. Qual rassomiglianza, di grazia, vi era tra loro? Forse colui si immaginava di diventar padre un giorno o l’altro di un bimbo come il suo; in tal caso era un matto da catena.
— Ehi! vorrei dirvi una parola, disse Tacleton in tuono dimesso, afferrando il carrettiere per il gomito e tirandolo in disparte. Voi verrete senz’altro alle nozze. Ora corriamo le stesse acque, caro mio!
— Le stesse acque? chiese il carrettiere.
— Eh! sì, una certa differenza di età.... m’intendete, disse Tacleton dandogli un’altra spinta. Volete voi venire a passare una sera con noi prima che accadano le nozze?
— Perchè? disse Gianni maravigliato dell’insolito offerta di ospitalità.
— Oh bella! perchè? ripetè l’altro; cotesto è un modo nuovo di ricevere un invito. Perchè? ma per divertirci, per stare insieme, e tante altre cose simili.
— Io credeva che non foste gran che sociabile, rispose Gianni col suo placido fare.
— Bah! mi avveggo che bisogna essere schietto con voi. La verità è cotesta, che voi avete... insomma voi e vostra moglie siete ciò che suolsi chiamare in società una coppia felice. Noi sappiamo che in fondo, in fondo, ma insomma....
— In fondo non vi è nulla, caro signore, interruppe Gianni, nè capisco di che parlate.
— Sta bene; in fondo non ci sarà nulla; crederò quel che volete, ma di che parlavamo? Ah! sì: dicevo che a ragione di cotesta vostra apparenza la vostra compagnia sarebbe di buon effetto su colei che sarà mia moglie. E benchè mi pare la vostra non essere punto ben disposta per me in cotesto affare, pure suo malgrado ella deve giovarmi; poichè tutta la sua personcina rivela tanta onestà di costumi ed allegria, che ella parla ad ognuno in favore del matrimonio. Dunque verrete?
— Sono più di sei mesi che abbiamo stabilito di celebrare in casa l’anniversario delle nostre nozze per tanti anni per quanti a noi farà ritorno, disse Gianni. Noi crediamo che la nostra casetta....
— Veramente che casa! gridò Tacleton. Quattro mura ed il soffitto!... Ma perchè non uccidete quel maledetto grillo? Io lo avrei già fatto da un pezzo, non li posso soffrire.... La mia casa dunque ha anch’essa un tetto e quattro mura, perciò potete venire.
— Uccidere il nostro grilletto? esclamò Gianni.
— Si schiaccia, continuò l’altro battendo fortemente il tallone sul pavimento. Verrete dunque? È del vostro interesse come del mio che le nostre donne si persuadano a vicenda della loro calma contentezza e che non potevano a nozze capitar di meglio. Io le conosco; quel che una donna dice è sempre ripetuto dalle altre con mille aumenti. E il loro spirito di emulazione è tale, caro mio, che se vostra moglie dice alla mia a mo’ d’esempio: io sono la più felice delle donne, mio marito è il migliore tra tutti ed io l’amo con tutto il cuore, mia moglie dirà lo stesso e più alla vostra, e forse finirà per crederne alcunchè ella stessa.
— Dunque voi credete che la vostra non possa?.... chiese il carrettiere.
— Che cosa? sclamò Tacleton con un riso sforzato e stridente.
Il carrettiere avrebbe voluto aggiungere: amarvi di tutto cuore. Ma gli accadde nel levare il cappello di incontrarsi in un occhio socchiuso che di sopra il bavero dal mantello lo guardava fissamente, e sentendo ad un tratto qual cosa spiacevole e difficile fosse l’amarlo, sostituì alla prima frase cotest’altra: che non possa credersi felice?
— Ah! cane! voi scherzate, disse Tacleton.
Il carrettiere, benchè tardo a comprendere quelle parole, pure gli fissò addosso uno sguardo così pieno di serietà, che l’altro si trovò obbligato a spiegarsi alquanto meglio.
— Ho il capriccio, disse Tacleton alzando le dita della mano sinistra e scuotendo leggermente l’indice ad indicar sè stesso, ho il capriccio, caro signore, io Tacleton qui presente, di tôrre una sposa giovane e bella, e qui scosse il dito mignolo a raffigurare la sposa; ma non lo fece con garbo, bensì duramente e con sentita autorità. Io posso farmi passare cotesta fantasia e lo fo, se così mi piace, ma... ma... guardate da quella parte.
Ed egli indicava Piccina seduta pensierosamente presso il fuoco; il suo picciolo mento a pozzette poggiato sulla palma e gli occhi intenti nella fiamma luccicante.
Il carrettiere la guardò, poi si rivolse a lui e da capo guardò l’una e poi l’altro.
— Ella onora suo marito e gli obbedisce senza dubbio, disse Tacleton; io non sono sentimentale, e tanto a me basta. Ma credete voi che vi sia qualche cosa di più?
— Io credo, osservò il carrettiere, che getterei dalla finestra chi dicesse che cotesto è tutto.
— Bravissimo! assentì l’altro con una insolita vivacità. Io sono certo che lo fareste come lo dite. Buona notte, e piacevoli sogni.
Il buon carrettiere suo malgrado si sentiva vinto da un certo scoramento e da una inquietudine vaga, che non riesciva a celare.
— Buona sera, mio caro amico, ripetè Tacleton in modo compassionevole. Ora vado via; la nostra sorte sarà consimile, me ne avveggo: dunque non verrete dimani sera? Non monta; so dove andate a far visita nel prossimo giorno e c’incontreremo là con la mia sposa. Ciò le farà del bene; ne siete contento? Mille grazie. Ma che cosa è questo?
Era un forte grido gettato dalla moglie del carrettiere, un grido subitaneo ed acuto che fece intronare la stanza come una campana di vetro.
Ella si era alzata in piedi bianca come una morta per la sorpresa ed il terrore. Lo straniero era ritto innanzi il fuoco e si scaldava a piccola distanza dalla sua sedia, ma appariva tranquillissimo.
— Piccina, gridò il carrettiere, diletta Maria, che cosa t’avvenne?
Tutti le furono d’intorno in un momento, Caleb addormentato sulla scatola della focaccia sorse ad un tratto senz’aver ricuperata la sua presenza di spirito, afferrò l’Attonita per i capelli, ma tosto le fece le sue scuse.
— Maria, sclamò il carrettiere sostenendola fra le braccia, che cosa hai tu? dillo al tuo amico.
Ella non rispose, ma battè insieme le palme e diè in un selvaggio scroscio di riso. Poscia sfuggendo dalle braccia del marito si gettò a terra e coprendosi il viso col grembiale proruppe in amaro pianto. Quindi rise di nuovo e di nuovo pianse; ed alla fine disse che aveva freddo e si lasciò ricondurre presso il caminetto, dove s’assise come prima. Il vecchio le stava sempre innanzi ritto ed impassibile.
— Sto meglio, caro Gianni, diss’ella; sì, mi sento rimessa.
Gianni! e mentre parlava a questo che le stava vicino da un lato, si volgeva verso il vecchio straniero come se parlasse a lui!
Smarriva ella la ragione?
— Fu una visione, caro Gianni, una specie di scossa, un non so che apparso ad un tratto dinanzi i miei occhi. Non so dirti che fu, ma infine ora è passato, interamente passato.
— Sono felice che sia così, mormorò Tacleton girando l’occhio indagatore attorno alla stanza. Vorrei solo sapere che cosa è passato, e da qual via? ehi! Caleb, vieni qui; chi è colui da’ capelli bianchi?
— Non lo conosco, signore, sussurrò Caleb. In tutta la mia vita giammai lo vidi prima d’ora. Bella figura per uno schiaccianoci; sarebbe un modello nuovo: con una vite abilmente nascosta sotto l’abito e che facesse muovere le mascelle sarebbe impagabile.
— Non è abbastanza brutto, disse Tacleton.
— Se ne potrebbe anche fare un portafiammiferi, osservò Caleb assorto in profonda contemplazione. Che bel modello; nel capo un vuoto per porre i fiammiferi e sotto i calcagni il fosforo per accenderli. Sarebbe un bel mobile per caminetto da signore se si potesse copiare ritto come sta ora.
— Eh! via; non è brutto abbastanza, ti dico, ripetè Tacleton. Non vi è nulla da ricavarne: vieni e recami la scatola. Ora vi sentite bene, io spero?
— Sì, sì, tutto è passato, si affrettò a dire la donnetta congedandoli con un rapido: buona sera.
— Buona sera, ripetè Tacleton, buona sera, caro Peribingle. Abbiate cura della scatola, Caleb; se la lasciate cadere, vi ammazzo per lo meno. Il tempo è peggio che mai, è buio come un forno. Di nuovo buona sera.
E dando un’altra rapida occhiata attorno a sè prese finalmente la via dell’uscio seguito da Caleb, che portava la focaccia da nozze sul capo.
Il carrettiere era stato così maravigliato del subitaneo malessere della giovane sua moglie e così intento a prestarle ogni miglior cura, che aveva dimenticato il vecchio straniero e se ne ricordò soltanto nel vederlo solo ospite ormai e sempre ritto innanzi al fuoco.
— Non v’è chi lo reclami, disse Gianni, bisognerà pure ch’io lo induca ad andarsene.
— Amico, vi chieggo scusa, parlò il vecchio andandogli incontro, tanto più che vostra moglie si è trovata, io credo, alquanto indisposta. Ma la persona che la mia infermità mi rende indispensabile, (e qui si tastò le orecchie e scosse il capo) non essendo giunta, senz’altro sarà sorto qualche errore. Il cattivo tempo mi forzò di rifugiarmi nella vostra carretta, e possa io non aver mai peggior ricovero; ma il tempo non migliora; potete voi apparecchiarmi un letto per questa notte?
— Sì, sì sclamò Piccina, senz’altro!
— Oh! disse il carrettiere un po’ sorpreso dalla rapidità di quell’assenso, se tu sei contenta, non ho nulla a dire, ma non mi par cosa tanto chiara...
— Zitto, caro Gianni, ella tosto interruppe.
— Perchè, se è sordo più d’un sasso? replicò questi.
— Lo so bene, ma... signore, siamo ai vostri ordini; io corro a preparargli un letto, Gianni.
E mentre ella usciva dalla stanza, il carrettiere la seguì con lo sguardo confuso e maravigliato da quella insolita agitazione, da quelle strane maniere, che non giungeva a comprendere.
— E le mamme fanno i letti, cantò l’attonita Tilda al suo bimbo, e sotto le berrette vi sono i ricci bruni. E presso il fuoco chi s’è sbigottito? Il mio prezioso bambino.
Con quell’attrazione indescrivibile, che spesso esercitano cose puerili sugli animi dubbiosi e confusi, il carrettiere, che misurava a passi lenti la stanza, accolse a sua insaputa nella mente le assurde parole della fantesca e le ripetè più volte, anzi tante volte, che bentosto le seppe a memoria e le andava ripetendo trasognato a guisa di lezione; mentre Tilda, come usano alcune nutrici, aveva fregata alquanto la nuda testolina del bimbo e gli rimetteva la cuffietta.
— E presso il fuoco chi s’è sbigottito? Che cosa ha sbigottita così lamia Piccina? mormorava il carrettiere passeggiando senza posa.
Egli respingeva da sè con tutto il cuore le insinuazioni del mercante, e nonpertanto esse ritornavano a lui e gli davano un indefinibile tormento; poiché Tacleton era senza altro malizioso, ed astuto, ed egli si stimava uomo di tardo intendimento. Quegli avvisi indiretti gli sembravano una tortura.
Era ben lontano dall’applicare quel che aveva detto Tacleton all’inusata condotta della moglie: ma rifletteva alle due cose in una volta e non gli riusciva di separarle.
Il letto fu pronto in breve, e l’ospite, rifiutato ogni altro ristoro, eccetto una tazza, di thè, se ne andò a dormire. Allora Piccina, affatto rimessa a suo dire, preparò l’antica poltrona del marito nell’angolo del focolare, gli riempì la pipa, gliela diede, e quindi ella pure si assise sull’usato piccolo sgabello.
Quell’era il suo posto di predilezione; invero ella pareva non ignorare che fosse un vezzoso e lusinghiero sgabelletto.
Piccina era, al dire di tutti, abilissima a riempiere una pipa, nè si trovava donna a lei pari in ciò pe’ quattro angoli del mondo. Era piacevole cosa vederla ficcare il dito paffutello nel fornello della pipa e soffiar poscia a vuotare la cannuccia una dozzina di volte, e accostarla poi all’occhio con una provocante smorfietta, per verificare se non vi era neanche più un atomo di polvere. Ella era pur maestra nel tritare il tabacco, e quando il carrettiere aveva tra i denti la sua pipa soleva accenderla maestrevolmente, agitandogli sotto il naso un pezzettino di carta, accesa senza mai bruciarlo. Questa era arte, e d’alta scuola per giunta!
E spesso il grillo ed il paiuolo applaudivano di comune accordo; lo scintillante fuoco crepitava anch’esso; ed il piccolo mietitore dell’orologio nel suo incessante lavoro pareva più lieto che mai. Ma la fronte spianata ed il viso sereno del carrettiere erano il plauso più caro e gradito.
E mentre egli assorto, e meditabondo fumava nella logora pipa, mentre s’udivano i battiti dell’orologio olandese, ed il canto del grillo s’univa al crepitar della fiamma rosseggiante, il genio famigliare di sua casa (tale era il grillo per lui) gli apparve ad un tratto in fantastica forma e lo circondò delle dolci visioni del focolare domestico. Piccine di ogni età e condizione riempivano la stanza. Le une, liete fanciulle, correvano innanzi a lui scegliendo fior da fiore, le altre modeste e pudiche, prima sdegnose, poi commosse, cedevano ai prieghi di un rozzo carrettiere. Piccine, novelle spose, passavano la soglia e con maravigliosa abilità pigliavano possesso delle chiavi di casa; altre già mammine, seguite da attonite servette impassibili, conducevano al battesimo i loro bimbi. Rispettabili Piccine, benché giovani ancora e floride, sorvegliavano le Piccine loro figlie, che danzavano nei rustici baili. Intorno a matronali Piccine facea corona una schiera di rosei nipotini, e finalmente venerande Piccine trottavano allegramente, poggiando l’antico fianco al bastone. Apparivano a loro volta vecchi carrettieri, con decrepiti e ciechi Boxer a’ loro piedi, e nuove carrette condotte da robusti giovani che avevano per iscritta Fratelli Peribingle; poscia un vecchio carrettiere si ammalava e veniva curato da mani gentili e tenerelle: ed infine egli spariva per sempre e sorgeva nel cimitero la sua tomba verdeggiante.
E mentre il grillo gli mostrava chiaramente tutte codeste cose, benché egli tenesse gli occhi intenti al fuoco, il cuore del nostro carrettiere era felice e luminoso, egli benediva i suoi lari, nè si dava pensiero di Tacleton, più di quello che ve ne date voi.
Ma chi era quella giovine figura virile, che lo stesso satirico grilletto mostrava ritta innanzi a lei? Che faceva là, solitaria? Perchè sì vicino a lei e dimentica di ogni cosa, poggiata melanconicamente al caminetto, ripeteva sempre: maritata e non mia?
Oh! Piccina, debole Piccina! Non vi è posto per lui nelle visioni di tuo marito; perchè quell’ombra nel suo focolare domestico?
SECONDO GRIDO.
Caleb Plummer e la figlia cieca vivevano soli soletti e senza compagnia, come si suol leggere ne’ libri che narrano storielle; ed io li benedico que’ semplici libri e voi pure al certo, perchè fanno udire di tanto in tanto una buona parola a questo povero mondo affaccendato.
Caleb Plummer e la figlia cieca vivevano dunque da soli in una specie di crepolato guscio di noce che sporgeva dalle mura del magazzino Gruff e Tacleton con quella stessa grazia di un bernoccolino spuntato ad abbellire il naso prominente e color di mattone del mercatante.
La facciata del gran magazzino era il più bell’ornamento di quella strada, mentre la povera casetta di Caleb si poteva abbattere con un colpo di martello e poscia sgomberarne su d’un carrettino le poche macerie.
Se qualcuno avesse fatta degna di nota la sparizione dell’umile dimora di Caleb, sarebbe stato senza dubbio per approvarne la demolizione come un progresso, poichè essa era aderente al magazzino nello stesso modo d’una conchiglia allo scafo d’una nave, d’un lumacone ad un uscio e d’una famiglia di piccoli funghi al tronco di un albero. Ciò nonpertanto quello era il germe da cui era sorto baldanzoso il magazzino di Gruff e Tacleton; sotto quel tetto crepolato il Gruff, povero allora, aveva primo fabbricato balocchi su modesta scala per tutta una generazione di bimbe e fanciulli, la quale dopo aver scherzato con quelli, frugato nel loro interno ed averli distrutti, giaceva addormentata e dimentica a sua volta.
Ho detto che Caleb e la sua povera figlia cieca vivevano quivi, ma mi sarei espresso meglio dicendo che bensì era l’abitazione di Caleb, non della povera cieca; questa abitava un incantevole palagio adorno dall’immaginazione paterna, dove privazione e miseria erano ignote parole ed il dolore non penetrava giammai. Caleb non aveva altra magia che quella ascosa nel cuore di ciascuno: amore e sagrificio. Natura era stata sua maestra, e da’ suoi insegnamenti scaturivano prodigi.
La cieca non sospettava neppure che il soffitto fosse annerito, le mura crepolate e cadenti, che nuove fessure si aprissero, si allargassero ogni giorno più, e che le curve travi minacciassero ruina. Non sapeva la povera cieca, che il ferro fosse tutto ruggine, il legno un ammasso di fracidume, le tappezzerie tutte a brani: il vero stato, la forma, le dimensioni di quella casa erano per lei un mistero. La cieca non s’accorse mai del grossolano vasellame di terra che appariva sul desco, della mestizia e dello scoramento che abitavano la sua casa; nè poteva accorgersi come i radi capelli di Caleb s’imbiancassero ogni dì più, innanzi a lei priva di luce. La poveretta ignorava del pari che ubbidivano ad un padrone freddo, esigente ed avaro; infine ignorava che Tacleton fosse quel che sappiamo: ma viveva nel beato convincimento che fosse un eccentrico umorista, amante di celiare, e che, mentre era l’angelo custode della loro vita, disdegnasse di udire anche una parola di ringraziamento.
E tuttociò per opera di Caleb, di quel semplice cuore paterno! Ma anch’egli aveva il suo grilletto sul focolare, di cui ascoltava mestamente il canto, quando la povera cieca, orfana di madre, era ancora pargoletta. Questo spiritello gl’inspirò primo il pensiero, che quella grande disgrazia poteva mutarsi in vera benedizione e la fanciulla esser felice nella sua miseria. In fede mia, che tutta la stirpe de’ grilli è composta di genii potenti; benchè vi sia chi frequentemente conversi con loro e non li comprenda. Dal mondo invisibile non vengono a noi voci più affettuose, più fedeli, e che più teneramente consigliano ed invitano alla fede, di quelle che rivolgono all’umana razza cotesti spiritelli del focolare domestico.
Caleb e sua figlia erano intenti al lavoro nell’usata officina dove solevano passare l’intera giornata: dimora invero assai strana. Ivi erano cassette terminate, oppur no, per le bambole di ogni ceto: appartamenti borghesi per bambole di aurea mediocrità; cucine e stanzucce per quelle della classe operaia, ed infine eleganti dimore per le bamboline aristocratiche. Alcune di coteste case erano addobbate in modo da divenire a richiesta più o meno splendide con l'aggiunta di sedie, tavole, letti, divani, ricchi arazzi, in mostra negli armadi. Le future proprietarie di cotesti appartamenti, tanto nobili che plebee, giacevano alla rinfusa ne’ cesti, lo sguardo fisso nel soffitto, ma per classificarle nell’ordine sociale e mantenervele, cosa che l’esperienza ha mostrato così difficile nella vita reale, il fabbricante aveva trovato un mezzo da sorpassare la natura stessa spesso fantastica e perversa; non si era affidato alle distinzioni arbitrarie dei raso, del cotone o dei cenci, ma aveva aggiunto tali disuguaglianze intrinseche da non permettere errori. Perciò le membra artisticamente modellate in cera non appartenevano che alle bambole nobili o presso a poco; l’ordine meno alto le aveva di pelle, il terzo di tela, finalmente la plebe dovea restar contenta di stecchini a foggia di gambe e di braccia, e per tal modo si trovava di botto classificata nella sfera inferiore e nella impossibilità di non mai uscirne. Vi erano altri prodotti dell’arte sua nell’officina di Caleb; non mancavano le arche di Noè piene di uccelli ed altre bestie ammonticchiate fino al tetto alla rinfusa e che chiassavano e si dibattevano alla meglio in quel piccolissimo spazio. Per un volo poetico molte di quelle arche erano provviste di campanelli, strani accessorii che richiamano alla mente le visite del mattino ed i fattorini della posta, ma al postutto non dispregevoli quale ornamento dell’edificio. Ivi erano pure innumerevoli monotoni biroccini, dalle ruote stridenti che girando squarciavano’ le orecchie; non mancavano i violini in miniatura, fischietti, tamburri ed altri istromenti di tortura, nè difettavano i cannoni, gli scudi, le sciabole ed i moschetti. Piccoli saltimbanchi dalle rosse brache si mostravano sempre pronti a saltare l’alta barriera, ed a far capriole il capo in giù, le gambe in aria; vecchi gentiluomini dall’aspetto rispettabile se non venerando, si dimenavano da matti appesi per i piedi dinanzi le porte delle proprie case. Ivi erano animali d’ogni specie e cavalli in particolar modo d’ogni qualità e razza; da un informe barilotto a quattro gambe con una striscia in segno di criniera fino al focoso cavallo da corsa abilmente ammaestrato. Sarebbe stata difficile cosa contare le innumerevoli dozzine di figurine grottesche pronte, ad ogni tirata di spago, a commettere i più assurdi gesti del mondo; nè meno difficile sarebbe stato l’indicare tutte le umane debolezze, le follie, i vizi rappresentati nell’officina di Caleb, da tipi più o meno precisi, nè oltremodo esagerati; poichè piccolissime cordicelle traggono spesso uomini e donne a fare smorfie così strane, che le simili non si videro mai in altri balocchi.
Era nel bel mezzo di codesti oggetti che Caleb e la figlia sedevano intenti al lavoro. La cieca cuciva gli abiti a’ fantocci, mentre il padre dipingeva ed inverniciava il prospetto quadrangolare di una casetta conveniente ad agiata famiglia.
I travagli impressi ne’ lineamenti di Caleb e la sua aria meditabonda, che pareva di alchimista occupato in difficili studii, contrastavano a prima giunta con le sue occupazioni e le frivolezze che lo circondavano; ma quelle frivole cose, inventate a fin di pane, apparivano serie ad un tratto. E poi chi ci dice che Caleb ciamberlano, membro del parlamento, avvocato o speculatore fortunato, non si sarebbe dilettato di trastulli egualmente vani, ma forse meno innocenti?
— Voi dunque, caro babbo, ieri, sera eravate esposto alla pioggia col vostro bel vestito nuovo? disse la figliuola di Caleb.
— Proprio col vestito nuovo, rispose questi e volse lo sguardo al suo abito di tela di sacco, che abbiamo descritto, messo accuratamente ad asciugare.
— Come sono contenta che l’abbiate comperato, caro babbo.
— E da che sarto poi, disse Caleb, da quello che serve la gente aristocratica. Cotesto è troppo per un mio pari.
La cieca depose il lavoro per un istante e rise di contento: Dite che è troppo? Ah per voi non vi è nulla di troppo bello.
— Ho quasi vergogna di portarlo, continuò Caleb spiando l’effetto delle sue parole su quel viso illuminato dalla gioia; in parola d’onore, quando sento i monelli dirmi alle spalle: guardalo, che lusso! — io non so proprio dove nascondermi. L’altra sera un poverello non voleva lasciarmi: invano gli rispondevo che era operaio, egli si ostinava a ripetere: No, Eccellenza, Dio benedica vostra Signoria. Ero tutto vergognoso; in verità mi sembrava di non avere il diritto di vestirmi in tal modo.
Felice cieca! come ella appariva gaia nel suo trasporto!
— Io vi veggo, babbo mio, diss’ella battendo le mani, vi veggo come se avessi quegli occhi, che non desidero mai quando mi siete vicino. Dunque un abito azzurro.
— Azzurro chiaro, disse Caleb.
— Sì, sì azzurro chiaro, sclamò la fanciulla volgendo a lui il volto raggiante, il colore del cielo, quello appunto che ricordo meglio d’ogni altro. Prima mi diceste solo azzurro; dunque è azzurro chiaro.
— E svolazzante, suggerì Caleb.
— Sì, svolazzante, ripetè la cieca ridendo di cuore. E voi, caro babbo, avvolto in esso col vostro sguardo tanto gaio, il vostro bel sorriso, il passo svelto ed i capelli neri, come dovevate sembrar giovane e bello.
— Olà, carina, disse Caleb, tu mi fai invanire.
— Io penso che è già fatto, gridò la cieca, minacciandolo con gaiezza. Io vi conosco, babbo; ah! ah! ah! vi ho scoperto, lo vedete.
Qual contrasto fra l’immagine creata dalla sua mente e quel Caleb che le sedeva di fronte e la contemplava mestamente.
Aveva parlato del suo passo spedito ed aveva ragione. Erano lunghi anni che Caleb non dimenticava mai nel varcar la soglia di mutare il suo passo lento e stentato in altro più acconcio all’udito della cieca. Per quanto fosse oppresso il suo proprio cuore, giammai aveva egli dimenticato il gaio cicalare, che doveva rendere lieto e coraggioso quello della diletta infelice. Iddio sa il vero; per me penso che le maniere stravolte e vaghe di Caleb prendean capo dall’aver egli perduta ogni idea esatta di sè e degli altri per amore della sua cieca. Come non apparire stralunato dopo aver lavorato tanti anni a distruggere la propria identità e quella degli oggetti che lo circondavano?
— Ecco fatto, disse Caleb, allontanandosi alcuni passi, per giudicar meglio del proprio lavoro: così vicino al vero come il dieci sta al venti. Che peccato che debba aprirsi l’intera facciata della casa; se vi si potesse adattare almeno una piccola gradinata ed un usciolino ad ogni stanzetta! Ah! codesto è il guaio del mestiere: bisogna sempre ingannare sè e gli altri.
— Babbo, voi parlate sommesso; sareste stanco?
— Stanco, Berta, ti pare! rispose Caleb animandosi ad un tratto. Io non sono mai stanco; non so che cosa sia stanchezza.
E per non togliere il credito alle proprie parole, represse alla meglio un lungo sbadiglio, involontaria imitazione di due stiracchiate e sonnolenti pitture poste ad ornamento del caminetto, due mezzi busti che parevano l’immagine della eterna stanchezza, ed intuonò un frammento di canzone.
Una vera canzone bacchica, spumeggiante come una coppa di vino; ed egli la cantava con una voce indiavolata che dava maggiore risalto le mille volte a quella faccia allampanata e mesta.
— Ma bravo! cantate se non erro? disse Tacleton aprendo l’uscio. Animo! Io non canto, io.
E niuno l’avrebbe contraddetto: il suo viso non era di cantante, siatene certi.
— Io non ho tempo di cantare, aggiunse egli, ma sono contento che voi altri lo troviate; spero che non ne soffrirà il lavoro. È un po’ difficile che le due cose vadano di conserva, eh?
— Se tu potessi vederlo, Berta, come ammicca, mormorò Caleb; che uomo amante della celia! Se tu non lo conoscessi, crederesti dal tôno della sua voce che egli sia in collera, non è vero?
La cieca sorrise e fece cenno di sì.
— Si dice che vi sono uccelli che san cantare e non vogliono e bisogna obbligarli con la forza, borbottò Tacleton; ma che dire di quelli che non possono e non debbono e pure vogliono cantare? qual rimedio ciò?
– Oh! bella mia, non puoi immaginare quanti segni mi fa ora, mormorò il povero padre all’orecchio di sua figlia.
— Sempre gaio, sempre affabile con noi, sclamò sollecita la sorridente Berta.
— Oh! siete lì voi, disse Tacleton, povera sciocca!
Egli realmente la credeva idiota; non saprei dirvi con quanta ragione l’argomentasse dall’affetto che sempre gli addimostrava.
— E poiché siete lì, come vi sentite? soggiunse Tacleton sempre burbero.
— Oh! bene, perfettamente bene, e felice come voi desiderate che io sia, felice come vorreste rendere ognuno se dipendesse da voi.
— Povera insensata! neanche un’ombra di ragione, mormorò Tacleton, neanche un’ombra.
La cieca gli prese la mano e la baciò; la ritenne alquanto nelle sue, poscia vi poggiò sopra dolcemente lo guancia prima di lasciarla. Vi era in quell’atto tanta inesprimibile affezione e tale fervente gratitudine che lo stesso Tacleton fu commosso e disse in tuono più dolce dell’usato: ebbene, che cosa avete ora?
— Ieri sera andando a letto l’ho collocata presso il mio guauciale e l’ho ricordata nei miei sogni. E quando il giorno è spuntato, e il sole risplendente e rosso... è rosso il sole, babbo?
— Rosso la mattina e la sera, Berta, rispose il povero Caleb implorando con lo sguardo la pietà del padrone.
— Ebbene quand’esso è spuntato ed i fulgenti raggi contro i quali ho quasi paura di urtare ad ogni passo, sono penetrati nella stanza, ho volta la pianticella verso la luce ed ho benedetto Dio per aver creato cose tanto belle, e voi, che le inviate a sollevare il mio cuore.
— È pazza davvero, disse Tacleton tra sè e sè. Bisognerà ricorrere alla camicia di forza ed alle manette: non ci sarà rimedio.
Caleb colle mani alle cintola guardava nel vuoto con un’aria smarrita, mentre la figliuola così parlava. Io credo che egli quasi sperava che Tacleton meritasse davvero que’ ringraziamenti affettuosi. Se libero di sè, il poveretto fosse stato obbligato sotto pena di morte o di schiaffeggiare il mercante di trastulli o di prostrarsi a’ suoi piedi, secondo i suoi meriti, credo che per decidersi avrebbre dovuto tirare a sorte. Eppure Caleb sapeva che con le proprie mani ed ogni maggior cura aveva recato a lei il piccolo rosaio, sapeva che con le proprie labbra aveva asserito l’innocente menzogna per togliere dall’animo della figliuola qualsiasi sospetto delle innumerevoli privazioni che imponeva a sè giornalmente e quindi renderla più felice.
— Berta, disse Tacleton mostrando maggiore cordialità per conseguire l’intento, venite qui.
— Oh! ci verrò difilato e senza guida, dissella accostandosi.
— Volete ch’io vi dica un segreto?
— Se vi piace, rispose con premura.
E quel volto offuscato s’animò ad un tratto, mentre un dolce splendore parve circondare quel capo inchinato ad udire.
— È il giorno che quella piccola non so chi, quella testolina matta, la moglie di Peribingle infine vi fa la sua visita abituale e si toglie qui il gusto di una fantastica merenda? domandò Tacleton con un’aria d’alto dispregio.
— Sì rispose Berta, è appunto il giorno.
— Lo sapevo, disse Tacleton: ebbene vorrei essere anch’io della compagnia.
— L’udite, babbo? sclamò la cieca che pareva in estasi.
— Sì, l’ascolto, mormorò Caleb con lo sguardo fisso d’un sonnambulo: ma non oso credere: sarà senz’altro una delle mie solite invenzioni.
— Ecco, io desidero che la coppia Peribingle s’incontri qui con Marina Fiding, disse Tacleton, poiché sapete che debbo sposare cotesta fanciulla
— Sposarla! gridò la cieca retrocedendo.
— Costei è talmente stupida che temo non possa comprendermi, disse Tacleton a mezza voce! Vediamo, Berta, vi sarà un matrimonio, la chiesa, il curato, il sagrestano, una bella carrozza, le campane, la colezione, la focaccia della sposa, i nastri, i fiori e tutte le altre follie di uso, insomma celebreremo le nozze. Non sapete che cosa sono?
— Lo so, rispose la cieca con mesta voce, ho compreso.
— Voi? mormorò Tacleton, è più ch’io non credeva; dunque io sarò de’ vostri e condurrò meco Marina e sua madre. Invierò alcune coserelle prima di sera, un cosciotto di montone rifreddo o qualche altro intingolo. Mi aspetterete?
— Sì, ella rispose ed inchinò la testa sul petto e si rivolse altrove con le mani piegate in atto dolente.
— Mi pare, disse Tacleton fra i denti, che ella abbia già dimenticato ogni cosa. Ehi, Caleb!
— Posso arrischiarmi a dire che son qui, pensò Caleb e rispose: Signore!
— Fate in modo che ella non dimentichi ciò che or ora le ho detto.
— Dimenticare, signore? è una delle poche cose a cui non riesce.
— Ognuno piglia le proprie oche per cigni, osservò il mercante sogghignando. Povero diavolo!
E contento di sè per tale maliziosa osservazione l’antico Tacleton se ne andò per la sua via.
Berta, in preda ad una profonda meditazione, era rimasta immobile dove egli l’aveva lasciata. Ogni gaiezza era sparita dal suo volto ora mestissimo. Tre o quattro volte scosse la testa come se la vincesse memoria d’alcuna cosa perduta; ma le sue dolorose riflessioni non irrompevano in parole.
Solo quando Caleb sempre operoso ebbe terminato di attaccare i cavalli ad un biroccio col metodo assai spiccio d’inchiodare i finimenti sui fianchi dei pacifici animali, la cieca si accostò all’usato sgabello e sedendosi presso il padre, gli disse:
— Io sono sola nelle tenebre, babbo mio, e desidero i miei occhi tanto buoni e pazienti.
— Eccoli sempre pronti, disse Caleb, sono più tuoi che miei, Berta, così di giorno come di notte. Che cosa desideri dai tuoi occhi, figlia cara?
— Guardate intorno, babbo.
— Ecco, rispose Caleb, detto fatto.
— Ditemi ciò che vedete.
— Ogni cosa è come l’usato semplice, ma decente. Gaie tappezzerie coprono le mura, sulle stoviglie sono dipinti allegri fiori ed ovunque sono usci e cornici di un bel legno verniciato; infine il nostro è proprio un bell’appartamento adorno di quella nettezza che lo fa anche più splendido.
Ogni cosa infatti era accurata e netta fin dove giungevano le mani di Berta, ma più oltre ogni cura diveniva superflua in quella vecchia casipola, che l’immaginazione di Caleb così trasformava.
— Voi ora avete la giubba da lavoro, babbo, e non apparite così elegante come col vestito nuovo, diss’ella toccandolo.
— Precisamente, rispose Caleb, pure non istò male neanche con questa.
— Babbo, continuò la cieca, avvicinandosi più a lui e gettandogli le braccia al collo, ditemi alcunchè di Marina; è bella, non è vero?
— Sì, rispose Caleb, ed era vero. Per una volta tanto non dovette ricorrere alla fervida fantasia.
— I suoi capelli sono neri, proseguì Berta fatta pensierosa, più neri de’ miei; la sua voce è armonica e dolce, lo so perchè mi è caro l’ascoltarla, il suo portamento....
— Non vi è bambola in tutto il magazzino fatta meglio di lei, disse Caleb; i suoi occhi poi...
Ma s’arrestò, perchè le braccia di Berta più fortemente lo stringevano; ed egli comprese quella trepidante stretta.
Tossì, martellò per un momento e poi ricorse al mezzo che credeva infallibile, la canzone della coppa spumante.
— E il nostro amico, babbo, il nostro benefattore? non mi stanco dall’udir di lui. Ho mai trovato che ne diceste troppo? diss’ella con vivacità.
— No, certo e con ragione, rispose Caleb.
— Sì, tanta, tanta ragione! sclamò la cieca con tal fervente affetto, che Caleb, malgrado la purezza de’ suoi fini, non osò guardarla in faccia, ma chinò gli occhi come se ella vi avesse potuto leggere le sue innocenti menzogne.
— Parlatemi dunque di lui, caro babbo, proseguì Berta; oh! sì, parlatene spesso; il suo viso è tutta benevolenza, cortesia, tenerezza; è onesto e leale, ne son certa, e quel cuore generoso che tenta di nascondere i benefizii sotto una veste rude e burbera rifulge in ogni suo sguardo.
— E lo rende più nobile, aggiunse Caleb con rassegnata desolazione.
— Sì, nobilissimo, aggiunse la cieca con animo: egli è più attempato di Marina, babbo?
— Sì, rispose Caleb esitando, un pochino, ma ciò non fa difetto.
— Oh! no, babbo, essere la sua paziente compagna nelle infermità della vecchiaia, la sua gentile assistente nelle malattie, la sua amica fedele nelle sofferenze e nel dolore; incontrar lieta ogni fatica per amor suo; vegliarlo, amarlo sempre; assidersi al suo capezzale; e se desto rivolgergli parole di conforto, se dormente pregar per lui: qual felice destino, quante occasioni per mostrargli la intensità del proprio affetto! Oh! ditemi, babbo, ch’ella farà tutto ciò!
— Senza fallo, disse Caleb.
— Allora io l’amo, io posso amarla con tutta l’anima mia, sclamò la cieca.
E si dicendo abbandonò il povero volto privo di luce sulla spalla del padre e tanto pianse e tanto, ch’egli si sentì rammaricato di averle creata una felicità che ora le costava amare lagrime.
In quel mentre vi era stato un grande va e vieni nella casa di Gianni Peribingle. Piccina naturalmente non poteva uscir di casa senza il bimbo, e perchè questi fosse all’ordine, ci voleva del tempo, non per colpa sua nè per peso o misura, ma perchè richiedeva tante e tante cure e tutto doveva esser fatto appuntino. A mo’ d’esempio, quando il bimbo tirato a quattro spille pareva ragionevolmente pronto ad uscire, e che un ultimo tocco dovesse farne un bambino modello da essere mostrato al mondo intero, allora appunto era avvolticchiato in un cappuccio di flanella e messo nel letto, dove il poverino si sfiatava a mo’ di dire un’oretta almeno. Poi ritolto da quello stato d’inazione tumido e strillante, bisognava ammannirgli... preferisco, se lo permettete, dire in termini generali... una leggiera colazione; e dopo di nuovo a dormire.
La signora Peribingle profittò di quell’intervallo per adornarsi a sua volta e vi riuscì a maraviglia; mentre l’attonita Tilda si metteva indosso una casacca di forma bizzarra e nuova, che non s’adattava a lei, nè credo ad altra persona. Era questo un oggetto poco acconcio, con ornamenti che parevano orecchie da cane, ma parato a continuare il suo solitario viaggio senza un rispetto al mondo per l’opinione altrui.
Intanto il bimbo, rifatto vivo e allestito dalle forze riunite della Peribingle e di Tilda, ebbe il corpo fasciato in altra mantellina color di crema e sul capo una specie di berretta d’un bel giallo.
E così poco alla volta tutti e tre uscirono fuori di casa, dove il vecchio cavallo impaziente aveva stampato la via maestra di pesanti autografi e forse l’aveva disselciata più di quello che ad esso spettasse computando la quota giornaliera d’imposta comunale, che pagava per il mantenimento delle strade. E assai più lungi si scorgeva Boxer fermato nella sua corsa guardando indietro in atto di eccitare l’amico a partire senz’altri ordini con lui.
Se poi mi parlate di sedia o di altro per aiutare la signora Peribingle a salire sul carro, mi forzate a dire che conoscete assai poco il nostro Gianni, se credete necessario nulla di simile. Prima che vi foste accorto ch’egli l’aveva sollevata dal suolo, già ella era al suo posto fresca come una rosa, dicendo: — Ma Gianni, che fai? e Tilda, dunque?
Se non fosse vietato, anche a buon fine, qualunque allusione alle gambe d’una signorina, osserverei che quelle di Tilda l’attonita avevano una singolare facilità a scorticarsi e ch’ella non poteva scendere o salire senza registrarlo sopra la sua tibia con un intacco, in quel modo appunto che usava Robinson Crusoè per segnare i giorni nel suo calendario di legno; ma si direbbe che sono indiscreto e nulla dico.
— Gianni, disse Piccina, hai preso il paniere col vitello, il pasticcio di prosciutto e le altre coserelle, comprese le bottiglie di birra? Bada che se non vi è tutto, devi all’istante tornare indietro.
— Tu vuoi celiare, carina, disse il carrettiere, quando parli di tornare addietro; non sai che per aspettarti sono in ritardo di un buon quarto d’ora?
— Ne sono dolente, rispose Piccina con grande inquietudine, ma non voglio andare da Berta senza il vitello, il pasticcio e le altre coserelle.
Oh! Oh!
Questi monosillabi erano diretti a fermare il cavallo, che non ne tenne conto.
— Di grazia, Gianni, fa oh! disse Piccina carezzevolmente.
— Sarebbe tempo di farlo quando avessi dimenticato qualche cosa, rispose il marito; eccoti lì il paniere sano e salvo.
— Sei un mostro dal cuore di pietra, Gianni, per non avermelo detto subito e così risparmiata questa pena. Ti assicuro che per nulla al mondo sarei andata da Berta senza il vitello, la birra, il pasticcio e le altre coserelle. Ogni quindici giorni, da che siamo sposi, abbiamo fatto colà questa piccola merenda; e se qualche cosa non andasse a modo, crederei finita la nostra felicità.
— Tu ne hai avuto il primo pensiero, disse il carrettiere, e fu un’idea gentile che mi fa onorare la mia piccola moglie.
— Caro Gianni, replicò Piccina fatta rossa in volto, tu parli d’onorarmi, ma ti pare!
— A proposito, osservò ad un tratto il carrettiere, che cosa ne avvenne del vecchio gentiluomo?
Perchè a tali parole ella apparve cotanto imbarazzata?
— Gli è che colui mi pare un certo pesce, continuò il carrettiere guardando sempre la via dinanzi a sè, non mi va tanto a genio; non vorrei ci fosse qualche magagna.
— Neanche per sogno! Io sono.... son certa che non vi è nulla.
— Veramente? disse il carrettiere rivolgendosi a guardarla nell’udire la sua vivacissima risposta. Son contento di sentire che ne sei certa, perchè ciò rassicura anche me. Ad ogni modo, è strano ch’egli abbia deciso di alloggiare da noi, non ti pare? Avvengono cose stravaganti davvero.
— Sì, stranissime; aggiunse ella debolmente con voce appena sensibile.
— Del rimanente mi è sembrato un vecchio di buona indole, paga da gentiluomo, e perciò mi pare che come tale bisogna crederlo in ciò che dice; abbiamo favellato lungamente questa mattina; egli ora mi intende meglio, perchè più abituato alla mia voce, e mi ha contato una buona parta de’ fatti suoi. A mia volta gli ho narrato i miei ed ho risposto fil per filo alle molte domande che mi ha rivolte. Gli ho detto come sai, che fo traffico da due parti, un giorno battendo la via che corre a destra della nostra casa e l’altro prendendo quella a sinistra; ho dovuto spiegargli tutto appuntino perchè è straniero in questi luoghi, e mi è sembrato compiacersi di tali discorsi.
Così, diss’egli, questa sera posso far la strada con voi, mentre credeva che vi toccasse di prendere dal lato opposto. È un caso fortunato; ma vi prometto di non addormentarmi più. Il fatto è che l’altra volta dormiva della grossa. Ma Piccina, a che pensi tu dunque?
— Io, Gianni? a nulla; ti ascoltavo soltanto.
— Allora sta bene, continuò l’onesto carrettiere; che vuoi? mi pareva di scorgere dal tuo sguardo che avendo chiacchierato troppo ti avessi fatto perdere il filo del discorso, che se ciò non è avvenuto io l’ho scappata bella.
Piccina non replicando nulla, si andò innanzi un bel pezzetto in silenzio, ma non era facile il tacere a lungo nel carro di Gianni Peribingle, che ognuno della via voleva dir la sua, e se non altro un semplice: come state? Era poca cosa invero, ma per rispondere degnamente a quei convenevoli non bastava il sorrisetto o l’accennar del capo, ma ci volevano polmoni altrettanto robusti di quelli richiesti a pronunziare un elaborato discorso parlamentare.
Spesso un passeggiero, pedone o cavaliere che fosse, misurava il passo con l’andare del carro per il solo gusto di un po’ di ciarla ed allora si faceva un gran vociare dall’uno e dall’altro lato. E poi vi era Boxer che da sè solo attirava più gente attorno al carrettiere di quel che non avrebbe fatto una dozzina intera di buoni cristiani. Lunghesso la via lo riconoscevano tutti, segnatamente i polli ed i porci, che all’apparire di quell’agile corpo già messi in guardia, con le orecchie ritte e la coda all’aria, immediatamente si rintanavano senz’agognare l’altissimo onore di una più intima conoscenza. Esso del resto non aveva poco da fare; fiutando ad ogni cantonata, guardando ne’ pozzi, entrando ed uscendo da casini che erano su quella via, gettandosi fra le gambe delle scolaresche in passeggiata, facendo levare a volo i colombi, stizzendo i gatti che arruffavano la coda ed entrando nelle osterie con l’aria di un abituale consumatore.
E dovunque entrava era un affaccendarsi, un gridare: Ecco Boxer! E tosto una o più persone si facevano sull’uscio a dare il buon giorno a Gianni Peribingle ed alla moglie tanto vezzosa.
Sul carro vi erano molti pacchi tra grossi e piccini, e bisognava fermarsi spesso per prenderli o consegnarli, nè si potea dire che fosse questa la parte meno ricreativa del viaggio. Vi era chi aspettava con impazienza, chi riceveva ammirando, chi non aveva parole bastanti a raccomandare la propria merce, e quel dabbene di Gianni metteva ad ogni cosa una tal viva cura che era proprio una commedia. Tal fiata vi erano oggetti che richiedevano lunghe discussioni tra il mittente ed il carrettiere sul modo di collocarli e che so io. Boxer soleva assistere a questi ragionari con lampi di seria attenzione e lunghi accessi di turbolenza ne’ quali latrava a squarciagola. Piccina dall’alto del carro pigliava diletto a quelle piccole fermate; là seduta ella appariva come una vaga miniatura incorniciata dalla tenda, e non mancavano cenni, sguardi e bisbigli intorno a lei, specialmente fra i giovani. Ma Gianni il carrettiere gioiva di quell’ammirazione, e andava orgoglioso di una tal moglie, sapendo che non dava retta a nessuno, benchè forse non le spiacesse poi tanto di essere ammirata.
Era un giorno di gennaio freddo e nuvoloso, e la brigata camminava fra la nebbia, ma chi si dà pensiero di simili baie? Non già Piccina di certo, nè tanto meno l’attonita Tilda, perchè quando la poverina era adagiata in un carro si credeva senz’altro al sommo delle gioie umane e non osava sperare più in là. Del bimbo, inutile discorrere; giurerei quasi non potersi ritrovare altro bimbo al mondo meglio coperto e meglio addormentato del beato piccolo Peribingle lungo la via, benchè tutti i bimbi si dilettino assai del caldo e del sonno.
Al certo niuno potrà dirmi che a traverso la nebbia si possa veder molto lungi, eppure si vede ancora attorno per un bel tratto, ve l’assicuro; anzi è meraviglioso il por mente a tutte le cose che si veggono nella nebbia più fitta da chi sa guardare intorno a sè. E vi par poco intravedere le ridde delle fate attraverso i campi e luccicare nell’ombra dei diamanti che la gelata appende agli alberi? E questi poi di quali forme maravigliose si rivestono per l’ondeggiare della nebbia, mostrandosi ad un tratto, poi dileguandosi del pari. Le siepi anch’esse sono nude e brulle e le loro appassite ghirlande pendono mosse dal vento; ma non è già uno spettacolo desolante, anzi può dirsi piacevole da chi possiede a ricovero il focolare domestico e sogna le verdi prospettive della migliore stagione.
Il fiume sembra rappreso, ma più sotto scorre ancora veloce, cotesto è l’importante; il canale all’incontro già s’intorbida e rallenta il passo, ma non ci fate caso, ben tosto al primo bel freddo sereno sarà tutto gelato e pronto allo sdrucciolare; allora le antiche pesanti barcacce prese dal ghiaccio se ne staranno immobili e si daranno buon tempo, mentre i tubi di ferro de’ loro arrugginiti fornelli ogni giorno eleveranno all’aria colonne di fumo.
In un punto si era appiccato il fuoco ad un ammasso di sterpi e di paglia, ed i viaggiatori contemplarono la fiamma, che di giorno suole apparir quasi bianca, fatta risplendente dalla nebbia, e qui e là screziata da una tinta porporina; ma tosto, al dire di Tilda, il fumo le salì al naso ed ella starnutò sì fortemente che ne fu desto il bambino, nè volle più riaddormentarsi.
Intanto Boxer correva innanzi un buon quarto di miglio, già aveva oltrepassato le porte della città, e voltando il canto della strada abitata da Caleb e dalla figliuola, li attirava sulla soglia a ricevere i suoi padroni, assai prima che questi apparissero nella via.
E qui cade acconcio di notare che Boxer usava nell’accostarsi a Berta certe delicate distinzioni, quasi sapesse benissimo che ella era cieca; non sollecitava mai la sua attenzione guardandola, come era solito con altri, ma soleva toccarla sempre. Che esperienza esso potesse avere di uomini o cani ciechi non so; al certo non era mai stato tale il padrone, nè il vecchio signor Boxer e la signora Boxer, nè alcun altro della sua rispettabile famiglia. Forse l’aveva compreso da sè; fatto è che lo sapeva e perciò tenne ferma Berta per il lembo della veste finchè la Peribingle ed il bimbo, Tilda ed il paniere furono entrati in casa sani e salvi.
Marina Filding era giunta di già con sua madre, vecchia signora dal viso arcigno, querula come un frusto secco, e che si credeva imponente perchè era alta e magra come una colonna. Ella si spacciava per donna d’alto grado, il che non era, ma avrebbe potuto essere se fossero accadute alcune cose, nè possibili nè probabili, e sognando di queste si atteggiava da gran dama e dispensava protezioni. Anche Tacleton era giunto e faceva l’amabile con quel garbo e con quella certezza del proprio elemento, che potrebbe mostrare un luccio fresco e giovinetto sull’alta cima della maggior piramide.
— Marina, amica diletta e prima, sclamò Piccina correndole incontro, qual gioia di rivederti!
E l’amica si mostrò per lo meno affettuosa, felice quanto lei: era, credete a me, piacevole cosa vederle abbracciate e Tacleton si disvelava proprio un uomo di gusto, perchè Marina era bella davvero.
Alcune volte accade che essendo noi abituati ad un bel visino lo confrontiamo con un altro bello altrettanto, e tosto il primo ci sembra monotono ed appassito e quasi maravigliamo dell’alta opinione che già n’avemmo. Ma cotesto non è il nostro caso, perchè la bellezza dell’una faceva spiccare quella dell’altra in modo tanto semplice e naturale che Gianni Peribingle fu sul punto di esclamare entrando in camera che meritavano di esser nate sorelle, e voi pure avreste detto lo stesso.
Tacleton aveva recato il cosciotto di montone e, prodigalità maravigliosa, anche una torta dolce; ma è permesso qualche sciupìo quando si è fidanzati, chè al certo non si sposa ogni giorno. Aggiungete a queste ghiottornie il vitello, il pasticcio di prosciutto e le altre coserelle della nostra Peribingle, che eran poi noci, arancie, biscottini e simili delicature. Quando tutto fu apparecchiato sul desco, compresa la contribuzione di Caleb, che si riduceva ad una grande scodellata di patate lesse e fumanti, poichè gli era impedito solennemente di offrir altro, Tacleton condusse la futura suocera al posto d’onore. Per apparire più degna di quel posto e dell’alto banchetto quell’anima antica e maestosa aveva ornato il proprio capo di tal cuffia che ispirava soggezione anche a’ più scapati, nè aveva scordato di calzarsi i guanti. Sembrar chi siamo o la morte!
Caleb sedette vicino alla figlia, le antiche compagne di scuola l’una allato dell’altra ed il buon carrettiere all’un capo della tavola. La sedia su cui sedeva la nostra attonita servetta era isolata da ogni oggetto o mobile, sicchè si viveva sicuri in quel momento per la testa del bambino; ed ella metteva a profitto quella sua inazione per contemplare maravigliata i balocchi e le bambole, che alla lor volta fissavano lei e la bella compagnia. Danzatori d’ogni fatta e venerabili vecchi in piedi dinanzi le loro case, tutti in movimento, tutti in azione addimostravano il loro rispetto alla comitiva facendo una pausa prima del pericoloso salto come se avessero prestato orecchio alla conversazione; poi slanciandosi in modo selvaggio facevano capriole senza posa e senza fiato, quasi quella festa ispirasse loro una frenetica gioia.
Certo se que’ maliziosi vecchierelli prendevano un maligno piacere a mirare la stizza di Tacleton, potevano dirsi contenti, poichè più esso vedeva la gioia della sua fidanzata nel trovarsi in compagnia di Piccina più se ne adontava, benchè avesse immaginato egli proprio di farle trovare insieme; essendo un cagnolino stizzoso, che se vedeva ridere alcuno, tosto riteneva che si parlasse di lui burlescamente.
— Marina mia, disse Piccina, quanti cambiamenti! Nel parlare de’ beati tempi della scuola mi sento ritornata giovanetta.
— Chè, siete vecchia ora? chiese Tacleton.
— Guardate il savio e grave marito che ho là, rispose Piccina; la sua vicinanza mi fa parere più attempata di vent’anni almeno; che ne dice il mio Gianni?
— Anche di quaranta, rispose quegli.
— E voi, continuò Piccina ridendo, quanti anni aggiungerete a quelli di Marina? Non so dirlo ma al suo prossimo natalizio apparirà almeno di cento.
— Ah! ah! rise Tacleton, ma era una risatina secca ed a fior di labbra, e dagli sguardi pareva che avrebbe torto il collo a Piccina volontieri, se la cosa fosse stata lecita senza proprio danno.
E questa continuò a dire: Ti ricordi quando alla scuola facevamo un gran parlare dei mariti che un giorno avremmo scelti? Il mio doveva essere giovane, bello e spiritoso; ed il tuo, Marina? Poveretta me! non so se debba piangere o ridere pensando che pazzerello eravamo allora!
Marina non esitò nella scelta, il rosso le salì al viso e gli occhi le si riempirono di lagrime.
— E non erano tutte fantasie le nostre, chè noi facevamo i conti su giovani che realmente esistevano, che cosa potevamo noi sapere del volgere degli eventi? In quel tempo io non parlavo nè pensavo di Gianni, e se ti avessi detto, Marina, tu sposerai il signor Tacleton, mi avresti percossa per lo meno. È vero sì o no?
Se Marina non disse sì, mancò anche di animo per pronunziare il no, e tacque.
Tacleton rise e per giunta smoderatamente; egli rideva sempre tanto forte. Gianni Peribingle rise anch’egli con quel suo fare candido e calmo, ma il suo poteva dirsi l’ombra d’un riso in confronto di quello sonoro di Tacleton.
— Ciononpertanto non avete saputo resistere e sfuggirci, disse Tacleton, e mentre noi siamo qui, dove ne andarono i vostri bellimbusti d’una volta?
— Alcuni sono morti, rispose Piccina, altri furono dimenticati; e tra questi ve ne ha che se ad un tratto qui apparissero non ci riconoscerebbero più e dubiterebbero de’ loro occhi e delle loro orecchie, anzi che crederci colpevoli di tanto obblìo. No, vi assicuro che essi non potrebbero prestar fede a tali cose.
— E perchè ciò, Piccina, mia piccola moglie?
Infatti ella aveva parlato con tale indignazione, con tal fuoco che abbisognava di chi la richiamasse in sè. Il tono di suo marito nel riprenderla era affettuoso e dolce, perchè se egli aveva detto parola era solo per venire in aiuto del vecchio Tacleton, ma bastò ad interromperla e farla tacere. Pure nello stesso silenzio eravi un’insolita agitazione che lo astuto Tacleton osservò attentamente ad occhio socchiuso e ricordò poi a tempo e luogo, come vedrete.
Marina non profferì parole nè buone nè cattive, ma rimase tacitamente seduta con gli occhi al suolo come estranea alle cose che si dicevano attorno a lei. Allora intervenne quella buona signora di sua madre, e fece osservare che le fanciulle sono fanciulle, gli assenti, assenti; e che sino a quando vi saranno teste giovani e stordite al mondo avverranno storditezze e fanciullaggini, ed aggiunse due o tre altre sentenze di simile fattura, innegabili. Fece osservare devotamente che sempre ringraziava il cielo di averle dato in Marina una figliuola rispettosa ed obbediente; nella qual cosa, senza tirarne vanto, poteva credere di aver la sua parte di merito. Parlò del signor Tacleton e lo disse moralmente un partito onorevolissimo ed un genero desiderabile da chiunque avesse occhi da guardare. Poscia pigliò un tuono enfatico e proseguì dicendo che il Signor Tacleton non ignorava quale fosse la famiglia alla quale tra breve sarebbe strettamente unito dopo non poche sollecitazioni. Che se fosse in più prospera fortuna, potrebbe parlare delle sue pretese di nobiltà, e che senza alcune circostanze relative al commercio dell’indaco, e delle quali era meglio tacere, oggi forse sarebbe posseditrice di grandi ricchezze; ma tosto ripetè che non voleva alludere al passato, nè ai rifiuti in prima opposti dalla figliuola alla richiesta del Tacleton; e così pure disse di voler tacere tante e tante altre cose delle quali nondimeno ragionò lungamente.
Per metter fine poi al suo dire ella affermò che ultimo risultamento della sua osservazione e della sua esperienza, era la certezza che que’ matrimoni solevano riuscir più felici ne’ quali meno entrava ciò che romanzescamente chiamasi amore e che perciò augurava cento felicità alle stabilite nozze, non felicità fallaci e fuggitive, ma di quelle durature e di buona lega. Conchiuse assicurando la compagnia che ella era vissuta soltanto per assistere alla solennità del domani, e che dopo non le sarebbe rimasto altro desiderio che di essere convenevolmente sepolta in qualche cappella gentilizia.
A queste belle frasi non vi era che rispondere, ed è cotesta una felice proprietà d’ogni discorso che non ha senso nè scopo.
Così fu mutato argomento e la generale attenzione fu recata al vitello, al pasticcio, al castrato ed alla torta. Perchè poi fosse fatto onore alle bottiglie di birra, Gianni Peribingle propose di bere al domani, grande giornata di nozze, e riempì le coppe in giro per trincare con gli amici, prima dì riporsi in cammino.
Ora rammenterete che il nostro Gianni poteva far breve sosta, mentre il vecchio cavallo mangiava la sua biada, e doveva percorrere ancora quattro o cinque leghe: la sera di ritorno, si fermava un altro pochino e poi continuava con Piccina per la via di casa. Cotesto era l’ordine stabilito; nè mai si era mutato in nulla dal giorno che quelle riunioni, erano state immaginate.
Due persone oltre i fidanzati si mostrarono indifferenti all’onorevole brindisi: Piccina, perchè troppo esaltata e commossa per mostrarsi attenta ai convenevoli d’uso, e Berta che si levò ad un tratto prima della fine del pranzo.
— A rivederci, disse Gianni vestendo il grosso mantello impermeabile, sarò qui all’ora solita. Buona sera a tutti.
— Addio, Gianni, rispose Caleb, che ripetè queste parole a fior di labbra e salutò con la mano come uomo inconsapevole di ciò che facesse, mentre teneva fissi gli attoniti sguardi su Berta, con una inquietudine che appena si manifestava su quel suo viso privo di espressione.
— Addio, piccolo toso, disse allegramente il carrettiere curvandosi a baciare il bimbo, che Tilda, l’attonita, ora intenta a menar la forchetta ed il coltello, aveva deposto addormentato e per buona sorte senza disgrazie in una piccola culla, allestita da Berta. Addio, verrà tempo, io spero, che anche tu, povero piccino, farai il callo al freddo e lascerai il vecchio babbo a godersi la pipa e i reumatismi accanto al fuoco. Ma dove sei tu, Piccina?
— Qui, Gianni, rispose ella trasalendo.
— Vieni dunque, continuò egli battendo palma a palma in modo lieto, e dammi la mia pipa.
— Ho dimenticato di prepararla, Gianni.
Ella dimenticar la pipa? ma che cosa dunque aveva per il capo?
— È cosa presto fatta, la riempisco in un istante.
Ma non fu cosa di sì lieve momento per lei; la pipa era al solito posto nella sacca del mantello con la piccola borsa del tabacco, lavoro di quelle mani, che ora tremavano in modo da non riescire a nulla, nè a scioglierne i nodi, nè, benchè piccolissime, a penetrarvi. Quella prontezza a riempir la pipa e gli altri vezzi, che se ben ricordate io aveva provato piacere a vantarvi, le vennero meno. Tacleton osservava maliziosamente que’ tardi movimenti con l’occhio socchiuso, ed incontrando quelli di Piccina, non in modo leale ma di sbieco, poichè il suo sguardo sembrava un lacciuolo teso agli occhi altrui, crebbe la sua confusione in notevole grado.
— Che Piccina disadatta se’ tu oggi. Quasi quasi mi pare che avrei fatto meglio da me.
Fatta questa benevola osservazione, Gianni uscì, e poco di poi risuonò nella strada la sua voce unitamente a quella di Boxer, del vecchio cavallo ed al cigolìo del carro.
In quel mentre il pensieroso Caleb, sempre in piedi, continuava a contemplare la figlia.
— Berta, diss’egli dolcemente, che cosa ti avvenne? perchè in poche ore sei tanto mutata, diletta mia? Dimmi che ti angoscia e ti fa così mesta e silenziosa da questa mane?
— Oh! babbo, babbo! gridò la cieca, e ruppe in pianto; oh! mio crudele, crudele destino!
Caleb si coprì gli occhi con la mano, poi rispose:
— Ma tu eri lieta, tu eri felice, Berta mia; sei tanto buona, tanto amata da ognuno!
— Mi scoppia il cuore, caro babbo, nel sapervi sempre in pensiero per me, voi tanto amorevole.
Caleb l’ascoltava perplesso.
— L’essere.... l’esser cieca, Berta, mia povera figlia, è grande afflizione, balbettò egli, ma pure...
— Io non ho mai patito di ciò; sclamò la cieca, no mai! Pure qualche volta ho desiderato veder voi o lui una volta sola, caro babbo, e per pochi minuti soltanto per conoscere i tesori che serbo qui; e sì dicendo ella spiegò le mani sul petto, per chiedere al cuore se le desse ragione. Qualche volta, fanciulletta, ho pianto nella mia preghiera della sera, pensando che quelle care immagini che salivano dalla mia anima al cielo forse non somigliavano nè a voi nè a lui. Ma io non durava a lungo in questi pensieri; essi volavano via e mi lasciavano calma e contenta.
— Anche questa volta passeranno, disse Caleb.
— Babbo mio, buono; affettuoso babbo, non vi adirate se vi sembro cattiva; disse la cieca; non è questo il dolore che tanto mi opprime.
Il padre non avrebbe voluto e pur piangeva senza intendere il senso delle parole ch’ella profferiva con voce animata e commovente.
— Menatela a me, disse Berta; non posso, non voglio più tacere, menatela a me, babbo.
Ma si accorse che egli esitava ed aggiunse: Marina, voglio Marina!
La giovanetta udì il suo nome, le si avvicinò quietamente e le pose la mano sul braccio. La cieca trasalì, si rivolse e le afferrò le mani.
— Mirami in viso, anima bella e gentile, disse Berta, mirami con i tuoi begli occhi e leggimi in volto: vi trovi scritta la verità?
— Ma sì, cara Berta!
La cieca levò al cielo la faccia pallente e priva di luce sulla quale scendevano rapide lagrime e le rivolse queste parole. Non vi ha nell’anima mia un desiderio, un pensiero che non sia per il tuo bene, o Marina! Non ho nel cuore una rimembranza più grata e profonda del pensiero che nel pieno possesso della luce e della bellezza pur tante volte ti sei data cura di Berta, la povera cieca, quando eravamo entrambe fanciulle, o quando Berta era quale l’aveva fatta la sua miseria. La benedizione del cielo piova sul tuo capo e irradii il felice viaggio della tua vita. E nondimeno, diletta Marina (e dicendo ciò le si fece più dappresso e la strinse più forte), e nondimeno oggi, sapendo, che sarai sua moglie, ho sentito spezzarsi il mio povero cuore. Babbo, Marina, Maria, perdonatemi per ciò che egli aveva fatto ad alleggerire la miseria di questa mia oscura vita, ed in nome di que’ benefizi credetemi quando io chiamo Dio a testimone che non poteva desiderargli una moglie più degna!
Mentre parlava, ella aveva lasciato le mani di Marina Filding e preso un lembo della sua veste in atto tra supplichevole ed amoroso; e continuando in quella strana confessione sì chinava a poco a poco finchè alla fine cadde a’ piedi dell’amica e le nascose in grembo l’orbato sembiante.
— Gran Dio! sclamò il padre in travedendo il vero, l’ho ingannata dalla culla per ferirla nel cuore.
Fu grande ventura per ognuno che ivi fosse la vivace ed operosa Piccina, e benchè forse voi apparerete presto ad odiarla per le sue colpe, pure vi ripeto che senza di lei non so come sarebbe finita!
Ma ella sollecitamente rientrò in sè stessa e si frappose prima che Marina pensasse a rispondere, o Caleb pronunziasse altre parole.
— Vieni, vieni meco, cara Berta; dàlle il braccio, Marina. Così! eccola già più tranquilla. Perchè darti affanno per noi? proseguì l’intelligente donnetta baciandola in fronte. Andiamo, cara Berta, che il tuo buon padre ci seguirà tosto; non è vero, Caleb?
Bene davvero! Piccina appariva di cuore nobilissimo in tali cose e bisognava essere d’indurita natura per resistere alla sua dolce influenza. Allorchè ebbe condotto via il povero Caleb e la sua Berta, perchè tentassero di confortarsi l’un l’altro, ben sapendo che essi soli poteano venirne a capo, ritornò tosto briosa e fresca come la margheritina dei campi, forse più fresca, e si mise in sentinella presso la notabile e ringalluzzita matrona in cuffia e guanti ad impedire che la cara vecchietta nulla scoprisse dell’accaduto.
— Tilda, recatemi il mio tesoro, disse Piccina accostando la sedia al fuoco; e mentre lo terrò in grembo, la signora Filding avrà la bontà di insegnarmi le cure necessarie a’ bambini e mi spiegherà una ventina di cose per me dubbiosissime. Lo farete, buona Signora Filding?
Quel gigante, che al dire della favola fu così sciocco, che messo in impegno da un astuto nemico si fe’ tanto piccino da esser divorato in un sol boccone, cadde meno ratto nella trama ordita che non la vecchia signora. Tacleton era uscito, e rimasta ella sola, mentre gli altri parlavano a qualche distanza, poteva abbandonarsi liberamente alle solite fantasticherie sulla sua dignità e sulle misteriose circostanze del commercio dell’indaco. Ma quel commovente appello alla sua esperienza fatto da una giovine madre era irresistibile, e dopo un breve esordio di affettata umiltà ella incominciò a rischiararla dei suoi consigli con la maggior grazia di questo mondo. Seduta immobile e ritta come un palo in faccia alla maliziosa Piccina, le diè per buone più ricette da donnicciuola di quel che non abbisognasse, se spedite per mandare all’altro mondo il piccolo Peribingle, fosse pur stato un Sansone in fasce.
Per passatempo Piccina cavò di tasca la borsetta da lavoro che sempre aveva seco. Non so come facesse, il fatto è che un po’ lavorava, un po’ ninnava il bimbo e trovò anche il tempo di susurrare alcune parole all’orecchio di Marina, mentre la vecchia signora incominciava a sonnecchiare: così quel dopo pranzo a lei sempre intenta ai lavoro non sembrò soverchiamente lungo.
Ella aveva fatte sue con solenne patto tutte le piccole noie domestiche che gli altri giorni disbrigava Berta; perciò sul far della sera attizzò il focolare, preparò l’occorrente per il thè, chiuse le imposte ed accese il lume: poi si avvicinò alla rustica arpa che Caleb aveva fabbricata per Berta e suonò alcune ariette veramente bene: la natura le aveva largito una delicata e piccola orecchia fatta per la musica ed anche per i gioielli, se ne avesse avuti.
Era l’ora in cui solevasi apprestare il thè, e Tacleton tornò per prenderlo in compagnia e passare la restante serata. Caleb e Berta avevano fatto ritorno da qualche tempo, ed il primo già aveva messo mano all’usato lavoro della sera: ma il povero uomo non riusciva a nulla, tanto l’assediavano i rimorsi e l’inquietudine. Era commovente vederlo inoperoso sullo sgabello da lavoro, sempre gli occhi fissi nella figliuola, e quasi pareva che quello sguardo ripetesse: l’ho dunque ingannata dalla culla per ferirla nel cuore!
A notte buia fu preso il thè e Piccina lavò tosto le tazze e le rimise in ordine. Ma perchè tacere ciò che va detto? Si avvicinava l’ora della partenza e ad ogni lontano muovere di ruota si supponeva che fosse il ritorno del carrettiere; perchè i suoi modi apparivano ora tanto diversi, perchè mutava colore e non trovava più requie? Non era quella l’agitazione d’una buona moglie che aspetti il marito; no, no! Ben altra cagione la faceva cotanto inquieta.
Le ruote risuonano; ecco i passi del cavallo, i latrati del cane; que’ vari suoni gradatamente si accostano: ecco Boxer che raspa all’uscio.
— Di chi sono cotesti passi? gridò Berta che si levò tutta tremante.
— Questi passi? ripetè il carrettiere apparendo sulla soglia, il viso rosso dal freddo come una bacca selvaggia; e di chi dunque se non miei?
— Gli altri passi, disse Berta, quelli dell’uomo che vi segue.
— Non vi è modo d’ingannarla, osservò ridendo il carrettiere; entrate, signore, voi sarete senz’altro il benvenuto.
Nel dire queste ultime parole a voce assai alta il vecchio sordo entrò.
— Per te non è uno sconosciuto, Caleb; l’hai già visto da noi, disse il carrettiere. Vuoi dargli un posticino finchè non andremo via?
— Oh! certo, Gianni, è un onore per noi.
— Dà poco fastidio, continuò l’altro, e non paleserà a chicchessia i vostri segreti. Ho robusti polmoni, ma egli li mette a dura prova. Sedete dunque, signor mio; siete fra gente amica, contenta di vedervi.
Quando gli ebbe trasmessa cotesta assicurazione con voce che avvalorava gli elogi fatti a’ propri polmoni, aggiunse con tuono ordinario: fatelo sedere presso il camino e lasciate che se ne stia silenzioso a guardare, attorno; non è difficile a contentare.
Berta ascoltava con attenzione; quando Caleb ebbe apprestata la sedia lo chiamò a sè, e lo richiese con timidezza di descriverle l’aspetto dello straniero. Il padre lo fece assai fedelmente ed allora sopirò e si mosse per la prima volta dacchè l’incognito era giunto, nè parve darsi altro pensiero di lui.
Il carrettiere da buon compagnone appariva lietissimo e più affettuoso del solito per la sua piccola moglie.
— Piccina quest’oggi fu invero una disadatta (diss’egli cingendola col suo robusto braccio, mentre ella si levava da sedere), ma con tutto ciò io l’amo sempre. Guarda da quel lato, Piccina, ed accennava il vecchio. Ella guardò; credo che tremasse.
— Egli è, mi vien da ridere, egli è pieno d’ammirazione per te, continuò il carrettiere, non mi ha parlato di altro per la via. Ebbene, è un buon vecchiotto e gliene sono riconoscente.
— Avrei desiderato che avesse scelto un miglior soggetto, diss’ella volgendo intorno uno sguardo inquieto e posandolo su Tacleton.
— Miglior soggetto? sclamò Gianni giovialmente, e dove avrebbe potuto trovarlo? Su via, giù il pesante mantello, la ciarpa di lana ed i grossi guanti e godiamoci una lieta mezz’oretta presso il fuoco. Vostro servo, signora Fiding; vi piacerebbe giuocare una partita? Reca il tavolino da giuoco con le carte, Piccina, ed anche un bicchiere di birra, se ne resta.
La vecchia signora accettò la sfida, con degnevole prontezza e tosto incominciò la partita. Da principio il carrettiere guardava attorno sorridendo, chiamava, Piccina ed ora le mostrava le proprie carte disopra la spalla, ora le chiedeva consiglio, ma l’avversaria era formidabile e per giunta, forse involontariamente, segnava più punti che non ne facesse: ed egli allora divenne vigilante, nè ebbe più occhi nè orecchie per ciò che accadeva nella stanza. Inconscio di ogni altra cosa, era tutto alle carte quando una mano si posò sulla sua spalla, la mano dello scrupoloso Tacleton.
— Dolente di distogliervi; una parola subito.
— Spettano a me le carte, rispose il carrettiere è il momento decisivo.
— Decisivo infatti, disse Tacleton; uomo, seguitemi.
Vi era un non so che nella sua pallida faccia che fece levar l’altro immantinente in chiedere spaventato che cosa fosse avvenuto.
— Silenzio, Gianni Peribingle, mi duole, mi duole davvero; ma l’avevo sospettato fin dal principio.
— Che cosa dunque? chiese il Carrettiere mutato in volto.
— Silenzio vi dico! Seguitemi e vedrete.
Il carrettiere lo seguì senz’aggiungere altro; essi attraversarono un cortile sul quale luccicavano le stelle e penetrarono per una porticina nello scrittoio di Tacleton diviso dal magazzino da una semplice invetriata. Lo scrittoio era oscuro, ma nello stretto e lungo magazzino vi erano lumi che riflettevano sui vetri.
— Un momento! disse Tacleton; avrete la forza di guardare là dentro?
— Perchè no? rispose il carrettiere.
— Un momento ancora, non commettete violenze; sarebbe inutile, forse pericoloso: voi siete robusto, in men che non si dice un assassinio è commesso.
Il carrettiere lo guardò fisso negli occhi e diè un passo indietro come se fosse ferito al cuore; in un attimo fu presso l’invetriata e vide....
Quale ombra oscura il focolare domestico! Oh! povero grillo fedele, perfida moglie! Egli la vide con quel vecchio, non più vecchio ora, ma giovine svelto che teneva in mano quei falsi capelli bianchi che gli avevano aperta la loro casa miserabilmente contaminata. La vide ascoltare attentamente quel giovane che chinato verso di lei le parlava all’orecchio, e soffrì di vederla prendere il braccio di colui e attraversare lentamente lo scrittoio movendo verso l’uscio dal quale erano entrati. La vide fermarsi, poi rivolgersi... Oh! doveva quel viso tanto amato apparirgli in tal modo? La vide riporre con le proprie mani l’inganno su quella giovine testa in atto ridente. Rideva forse della sua semplice natura ignara dei sospetto?
Egli serrò il pugno destro e l’alzò con tal violenza che pareva volesse abbattere un leone, ma riaprì tosto la mano e la mantenne sugli occhi di Tacleton finchè que’ due furono scomparsi, come se avesse voluto ancora amante involarla a quello sguardo; poscia più debole d’un imbelle fanciullo si appoggiò ad una tavola.
Quando ella uscì preparata per il ritorno lo trovò ravvolto sino al mento nel mantello e tutto intento a’ suoi pacchi ed al cavallo.
— Ora andiamo, caro Gianni; Marina, Berta, buona notte.
Ella poteva baciarle? Poteva partirsi tanto vispa ed allegra?, Osava levare il viso senza arrossire? Tacleton che l’osservava, attentamente ben vide che ne aveva l’ardimento.
E Tilda l’attonita addormentava il bimbo e passeggiando su e giù per la stanza passò ben dodici volte dinanzi a Tacleton, mentre canticchiava con voce monotona: nel vedere le lor fidanzate tutti i cuori si sono spezzati, ed i babbi le hanno ingannate per vederle coi cuori spezzati!
— Tilda, datemi il bimbo, buona sera signor Tacleton; ma bontà del cielo, dov’è mai Gianni?
— Dice che vuol camminare a piedi presso il cavallo, rispose Tacleton, aiutandolo a salire.
— Ma, caro Gianni, camminare a piedi con questo tempo?
L’avvolta figura del marito fece un rapido segno di affermazione; il bugiardo, straniero e la servetta salirono ed il cavallo si mosse. Boxer, l’insciente Boxer girava attorno al carro ora correndo innanzi ora indietro, latrando più gaio e trionfante del solito.
Tacleton prese commiato a sua volta per ricondurre a casa Marina e la madre, ed il povero Caleb, rimasto solo, sedette presso la figlia accanto al fuoco; l’anima ansiosa e divorata dal rimorso, ripetendo sempre nella sua tacita contemplazione: l’ho dunque ingannata dalla culla per ferirla nel cuore?
Da lungo tempo i balocchi messi in moto per divertire il bambino erano tornati nella loro immobilità. In quella debole luce, in quel silenzio, l’imperturbabile calma delle bambole, i mobili cavalli dall’occhio ardente e dagli irti crini, i vecchi gentiluomini malamente ritti dinanzi le loro case sulle deboli ginocchia, i rompinoci dalle strane fogge, le bestie moltiformi a due a due per la via dell’arca, come scolari in passeggiata, parevano tutti presi da un fantastico stupore all’idea che Piccina potesse essere traditrice e che Tacleton fosse amato.
TERZO GRIDO.
L’orologio olandese suonava appunto le dieci quando il carrettiere si assise presso il proprio focolare, così afflitto e smarrito che il cuculo, spaventato a quella vista, affrettò i dieci melodiosi tocchi e rientrò nel palazzo moresco tirando a sè l’usciolino, come se non avesse cuore di assistere al miserando spettacolo. Se il piccolo mietitore avesse avuto in mano la più affilata falce e ad ogni colpo avesse ferito il cuore del povero Gianni, certo non l’avrebbe piagato così crudelmente come aveva fatto Piccina.
Quel cuore così pieno di affetto per lei, avvinto da innumerevoli seducenti rimembranze, lavoro giornaliero dei suoi vezzi e delle sue virtù, quel cuore così schietto e tenace nella sua fede, forte al bene, debole al male, in cui ella si era insinuata così profondamente, sulle prime non seppe accogliere in sè l’ira e la vendetta: ivi non era spazio che per l’idolo infranto.
Ma a poco a poco, com’egli sedeva presso il focolare ora freddo e buio, altri pensieri e minacciosi gli sorsero in mente a mo’ di uragano che lentamente si desta nella notte. Lo straniero respirava sotto il suo tetto oltraggiato, tre passi lo separavano dalla porta della stanza di lui, una spinta e quella cederebbe.
Un assassinio è presto commesso, detto aveva Tacleton; ma egli non sarebbe stato assassino, perchè avrebbe dato il tempo al miserabile di lottare corpo a corpo, e l’altro era più giovane.
Ecco un pensiero pauroso e fatale per quella sua disposizione di spirito, pensiero di collera che tentava spingerlo al passo maledetto e che avrebbe cangiata quella lieta casa in dimora di spettri, fuggita ogni sera da solitario viandante, e nella quale, velata la luna, i timidi vedrebbero ergersi ombre combattenti presso le rovinate finestre o udrebbero nelle tempeste selvaggi clamori.
L’altro era più giovane! Sì, sì, qualche amante che aveva conquiso quel cuore che egli mai non aveva commosso, forse l’oggetto del suo primo amore di cui pensava e sognava. Ella aveva penato, penato assai, mentre la credeva così felice al suo fianco. Che agonia in tali pensieri!
Piccina era salita per mettere a letto il bambino, e mentre il marito sedeva curvo presso il focolare e inabissato nella sua miseria non percepiva alcun suono, ella discese non vista ed accostò lo sgabello ai suoi piedi. Gianni non si accorse di lei se non quando ne sentì la mano sulla propria e la vide levare lo sguardo al suo viso. Con sorpresa?
No, così aveva creduto; e riguardò desioso per farsene certo, ma no, non vi era alcuna sorpresa in quello sguardo inquieto ed interrogatore, che da principio apparve grave e dolente, poi, nel darsi ragione di tutto, si trasformò in uno strano, timido, indefinibile sorriso. Quindi null’altro vide che la fronte celata sulle mani giunte e la testa china sui capelli sparsi.
Quand’anche l’onnipotenza gli fosse stata concessa in quell’ora, il suo cuore era troppo misericordioso per far pendere la bilancia contro di lei, ma gli doleva di vederla umiliata su quel piccolo sgabello dove spesso l’aveva contemplata con orgoglio ed amore, tanto gaia ed innocente; perciò quand’ella si levò singhiozzando e lo lasciò, egli sentì ristoro nel veder vuoto quel posto, anzicchè occupato da lei un giorno tanto diletta. L’angoscia di quell’istante fu la più amara; essa gli ricordava quanto fosse misero e derelitto ora che l’unico legame della sua vita era spezzato.
Nel suo dolore più lo signoreggiava il pensiero che avrebbe preferito vederla morta ai suoi piedi col loro bimbo sul gelido seno, e più si accendeva di furore contro il nemico.
Cercò intorno a sè un’arme; un moschetto pendeva dal muro, lo afferrò e mosse alcuni passi verso la porta del perfido straniero. Ben sapeva che il moschetto era carico e l’idea tenebrosa che ucciderlo come belva era suo diritto, invadendolo bentosto s’ingigantì qual mostruoso demonio signore dell’anima sua, fugando ogni antico pensiero mansueto. Ma che dico? non fugò i pensieri mansueti, ma li trasformò con artifizio in tanti stimoli che lo spingevano innanzi. L’acqua si mutava in sangue, l’amore in odio; la cortesia in cieco furore. Quella immagine dolente ed umile che piegata innanzi a lui gli parlava di pietà e di amore non lo lasciava, ma anzi lo traeva verso la porta, gli alzava l’arma al livello della spalla, stringeva il dito sul griletto e gli gridava: uccidilo, uccidilo nel letto.
Egli rovesciò l’archibugio per abbattere la porta, ma lo tenne levato in aria con una segreta velleità di avvertire colui che fuggisse saltando dalla finestra per amor di Dio!
Quand’ecco la fiamma quasi spenta si rianima illuminando l’interno del focolare, ed il grillo intuona l’usata canzone.
Egli non avrebbe udito altro suono: niuna voce umana, neanche quella di Piccina l’avrebbe commosso, rabbonito così. Le semplici parole con le quali aveva narrato il suo affetto per il piccolo grillo gli tornarono a mente; la rivide tremante a lui dappresso come poc’anzi, udì nuovamente la sua cara voce. Oh! qual voce, quale armonia domestica presso il focolare dell’onesto! Ed un’eco di quella vibrò nella miglior parte di sè; lo richiamò alla vita ed a quel che faceva.
Retrocedette simile a chi si desta da sogno spaventevole, e depose il moschetto; poi celò il volto fra le mani, riprese l’usato posto presso il fuoco e cercò ristoro nelle lagrime. Ed una volta ancora il grillo del focolare si mostrò nella stanza in fantastiche forme.
— Io l’amo, diceva una voce di fata, ripetendo ciò che Gianni ben ricordava, l’amo perchè l’ho udito tante volte e perchè la sua musica gentile mi ridestò tanti pensieri.
— Ella così diceva, sclamò il carrettiere.
— La nostra casetta, Gianni, è un vero paradiso, ed io amo il grillo per l’amore di essa!
— Sì, ripetè il carrettiere, Dio sa se ella ne faceva un paradiso, finchè ora...
— Così graziosa, così dolce, piccola massaia, affettuosa, sempre lieta ed in faccende, diceva la voce.
— E perciò appunto l’amava cotanto! rispose Gianni, e la voce lo riprese e suggerì: l’amo tanto.
Il carrettiere ripetè: l’amava; ma con voce meno decisa, parendo quasi la lingua rifiutasse di obbedirgli e volesse intercedere appo lui. Ed il genio levò la mano in atto di preghiera e disse: per il tuo focolare....
— Ch’ella ha oltraggiato, soggiunse Gianni.
— Ch’ella ha benedetto tante volte e rallegrato; che senza lei non è che un ammasso di mattoni e sassi e consumata cenere, ma ch’ella mutò in altare della tua casa, sul quale ogni sera tu immolavi qualche meschina passione, egoismo o travaglio, e facevi l’offerta d’un’anima tranquilla, d’una natura confidente e d’un cuore traboccante di affetto. Ed il fumo di questo povero focolare s’innalzava al cielo pieno delle maggiori fragranze, degl’incensi più preziosi bruciati nei più splendidi templi del mondo. Per il tuo proprio focolare, per questo quieto santuario pieno di gentili influenze e di tenere rimembranze, ascoltami! Presta l’orecchio al linguaggio del tuo focolare domestico.
— Preghi per lei? chiese il carrettiere.
— Tutto prega per lei nelle pareti domestiche, rispose il grillo, e la verità detta la loro prece.
E mentre il carrettiere con la testa fra le mani sedeva meditando, la visione gli stava ritta dinanzi, governava i suoi pensieri e li rifletteva come in uno specchio. Quella visione era sterminata: dalle pietre del focolare, dalla cappa del camino, dallo orologio, dalla pipa, dal paiuolo e dalla culla, dal pavimento, dalle mura, dal soffitto e dalla scala, dal carro di fuori, dalla credenza di dentro, da ogni utensile domestico, in una parola, da tutto ciò che parlava in lei all’anima dell’infelice marito, scaturivano miriadi di fate. Esse non si fermarono innanzi a lui come il genio di prima, ma si affaccendarono in varia guisa onorando in ogni cosa l’immagine di Piccina. Esse circondavano Gianni per mostrargliela, poi correvano a lei, la abbracciavano, gettando fiori dov’ella passava e delle loro mani intrecciate facevano corona alla sua bionda testa. In ogni atto mostravano il loro affetto per lei, come se fra esse non vi fosse una sola creatura maliziosa o calunniatrice, ma tutte fossero vogliose di lodarla, di proteggerla.
Egli non sapeva più distogliersi dall’immagine di Piccina. Ella lavorava presso il fuoco canterellando. Quale ridente lavoratrice, quale ordinata Piccina! La schiera delle fate la circondò in un istante per comune consenso come le stelle circondano il sole, e pareva dire: è questa la moglie leggiera di cui deplori i traviamenti?
Si odono grida di gioia, musici strumenti, lingue ciarliere e scoppii di risa; un’allegra brigata si precipita nella stanza; Marina Filding e molte altre vaghe fanciulle erano in quella, ma Piccina appariva la più bella di tutte e giovane quanto le altre. E la brigata pregava le si unisse; che andava ad un ballo. Se mai piedini gentili furono creati per la danza erano al certo quelli di Piccina; ma ella sorrise, scosse la testa, e mostrando le pietanze sul fuoco e la tavola già imbandita, congedò tutti con un’aria di trionfo che la rendeva più vezzosa, salutando ad uno ad uno con comica indifferenza, la quale doveva spingere quelli che avevano sperato di danzar con lei ad impiccarsi, se erano veramente suoi adoratori; ed eranlo tutti più o meno.
Ma l’indifferenza non era nel suo carattere; oh no! perchè poco di poi apparve sulla soglia un certo carrettiere, e Dio la benedica per la lieta accoglienza che gli fece.
E di nuovo gli occhietti fulgenti delle piccole fate si posarono tutti su lui e parevano dire: è questa la donna che ti ha tradito?
Ma un’ombra oscurò la visione che gli era dinanzi: l’ombra gigantesca dello straniero, come la prima volta, era apparsa sotto il suo tetto e tosto ogni altro oggetto si dileguò.
Ma le agili fate simili ad api diligenti lavorarono tanto che quell’ombra si dissipò e Piccina ricomparve pura e bella quanto prima. Ella cullava il bimbo, ninnando con voce soave, inchinando la testa, grazioso contrapposto di quell’altra pensosa che sedeva presso il fatidico grilletto.
La notte, dico la notte vera, non quella segnata dall’orologio delle fate, era profonda; e mentre il carrettiere giaceva immerso in tali pensieri ad un tratto la luna si mostrò luminosa in cielo. Qualche luce serena e quieta spuntò forse anche nell’anima sua; ed egli pensò più pacatamente a ciò che era avvenuto.
Di tanto in tanto l’ombra dello straniero offuscava nuovamente, sempre distinta e cupa, ma non più oscura come la prima volta, la visione; appena quella ricompariva, le fate gettavano un grido di generale costernazione e menando le braccia e le gambe con attività meravigliosa la ricacciavano, mostrando poscia a Gianni la sua Piccina più pura e bella che mai con trasporti di gioia.
Custodi del focolare domestico, spiriti che ignoravano la falsità, non potevano mostrarla in altra guisa che quale era veramente, attiva, risplendente, cara creaturina, delizia e sole della casetta del carrettiere.
Le fate più e più si esaltavano mostrandola col bimbo in collo fra vecchie matrone, affettando di essere ella stessa vecchierella e venerabile, poggiata con aria grave al braccio dello attempato marito e sforzandosi ella, donnina in bocciuolo, di persuadere ognuno che da lungo tempo aveva abiurato le vanità del mondo e che non era al certo strano che già fosse una mamma. Poi in un istante il quadro mutò, ed eccola ridente a motteggiare il carrettiere perchè sgarbato, ora tirandogli il colletto della camicia per farlo più baldanzoso, ora saltellando vezzosamente attorno la stanza con la scusa d’insegnargli il ballo.
Si rivolsero le fate e fissando Gianni con pertinacia fecero apparire Piccina presso la giovane cieca; poichè recando ella con sè la gioia e la vita dovunque, aveva sparse coteste benefiche influenze nell’umile dimora di Caleb. L’amore, la confidenza, la gratitudine della giovane cieca per lei, i suoi modi gai e cortesi per ischivare i ringraziamenti di Berta, i suoi maliziosi artifizi per fare buon uso d’ogni istante della visita occupandosi in cose utili a’ suoi ospiti, e così lavorando assai mentre fingeva di darsi buon tempo, la sua maestria nell’imbandire delicature come il vitello, il pasticcio e la birra, il suo raggiante sorriso all’arrivo ed alla partenza, una non so quale espressione meravigliosa, che la circondava dal seducente piedino alla splendida treccia e la faceva padrona ovunque appariva, come se nulla potesse farsi senza di lei, di tutto fu menato vanto dalle fate che per questi pregi l’amavano.
Ed una volta ancora esse tutte con lo sguardo espressivo se ne appellarono allo stesso Gianni, e mentre alcune si facevano un nido nelle pieghe della veste di Piccina e teneramente l’abbracciavano, quello sguardo pareva dire: è questa la moglie che ti ha rotta la fede?
Una, due o tre fiate in quella notte lunghissima ed affannosa esse mostrarono sullo sgabelletto favorito le mani giunte, la testa china, i capelli sparsi, come l’aveva veduta l’ultima volta. Ma se allora ella appariva desolata, le fate, senza darsi altro pensiero di lui, la circondavano, confortandola di baci e disputando chi le mostrerebbe più simpatia e tenerezza.
Così scorse la notte. Disparve la luna, impallidirono le stelle, un freddo giorno irruppe e spuntò il sole. Il carrettiere sempre meditabondo sedeva ancora all’angolo del camino con la testa fra le mani. Tutta la notte il grillo fedele aveva fatto udire il suo cri cri sul focolare ed egli aveva ascoltato il piccolo canterino; tutta la notte le domestiche fate si erano affaccendate intorno a lui per mostrargliela cara e senza labe nello specchio, dissipando l’ombra fatale che di tanto in tanto l’offuscava.
Quando fu giorno chiaro, egli si levò, rassettò i suoi panni e si lavò il viso. Perchè non avrebbe potuto lavorar lietamente come soleva, essendo troppo preoccupato, aveva di già trovato un supplente; tanto più che in quel giorno si celebravano le nozze di Tacleton ed egli si riprometteva di recarsi allegramente alla chiesa con Piccina; ma questo disegno era vano.
Ed era anche l’anniversario delle loro nozze: come poco egli prevedeva una tal fine ad un tale anno!
Il carrettiere aspettava con certezza la visita mattutina di Tacleton e non s’ingannò. Da pochi minuti egli passeggiava su e giù dinanzi la propria porta, quando apparve sulla via il carrozzino del negoziante di giuocattoli, e man mano che questo si avvicinava egli distingueva Tacleton vestito ed attillato a nozze ed il cavallo tutto adorno di nastri e fiori, che aveva l’aria d’un fidanzato più dello stesso padrone. L’occhio socchiuso di Tacleton era più maligno che mai, ma il carrettiere non vi badò: i suoi pensieri erano altrove.
— Gianni Peribingle, incominciò Tacleton con tuono di condoglianza, mio caro amico, come vi sentite stamane?
— Ho passato una notte cattiva, rispose il carrettiere scuotendo la testa; aveva l’anima agitata, ma ora è finita. Potete ragionare meco privatamente una mezz’ora?
— Son venuto a bella posta, disse Tacleton saltando giù dal carrozzino: non ponete mente al cavallo; se volete dargli un pugno di fieno, se ne starà tranquillo.
Il carrettiere ne recò dalla stalla, lo mise dinanzi al cavallo ed entrambi poscia entrarono in casa.
— Voi vi sposerete nel dopo pranzo, non è vero?
— Al certo, rispose Tacleton; abbiamo dunque il tempo.
Quando entrarono nella cucina Tilda l’attonita picchiava all’uscio dello straniero; uno dei suoi occhi arrossiti (ella aveva pianto tutta notte, perchè piangeva la padrona) era appuntato al buco della toppa; e più bussava, più appariva spaventata.
— Non posso farmi sentire, disse Tilda guardando attorno; spero, se così vi piace, che niuno sia entrato e rimasto morto. Ed ella accompagnò il filantropico voto con nuovi calci e pugni che non ebbero migliore risultamento.
— Entrerò io? chiese Tacleton; la è curiosa!
Il carrettiere che evitava di guardare a quell’uscio gli fe’ cenno che andasse pure.
Così Tacleton accorse in aiuto di Tilda ed alla sua volta picchiò, ma inutilmente. Infine gli venne il pensiero di sperimentare il saliscendi che cedè subito; egli spiò nella stanza, entrò e ne riuscì correndo.
— Gianni Peribingle, disse Tacleton parlandogli all’orecchio, io spero che non è avvenuto nulla di strano in questa notte.
Il carrettiere si rivolse vivamente.
— Perchè quegli non vi è e la finestra è aperta. Invero non veggo niun segno e la finestra è quasi al livello del giardino; ma infine ho paura che non sia avvenuta qualche baruffa, eh?
Egli chiuse anche più l’occhio a farlo più espressivo, e tutta la sua persona parve torcersi come un lacciuolo pronto a strappargli la verità.
— Tranquillatevi, disse il carrettiere, egli è entrato ieri sera in quella stanza senza che io l’offendessi con atti o parole, e niuno è poi penetrato colà. Se è partito, lo ha fatto liberamente, ed io consentirei a lasciar lieto questa casa ed accattare un frusto di porta in porta per tutta la vita, se potessi cancellare il passato, e far che egli non fosse venuto; ma è venuto ed è andato via, e non è di ciò che ora mi do pensiero.
— In fede mia l’ha scampata a buon mercato, disse Tacleton prendendo una sedia.
Ma il suo sogghigno fu vano per il carrettiere, che a sua volta sedette e tenne il viso celato alcun tempo nelle mani prima di parlare.
— Voi mi avete mostrato ieri sera, disse egli alla fine, mia moglie, mia moglie che amo tanto, segretamente...
— E teneramente, insinuò Tacleton.
— Occupata a mascherare un uomo e parlandogli da sola; io penso non esservi spettacolo al mondo ch’io non avessi a quello preferito, nè uomo a voi per mostrarmelo.
— Confesso di aver sempre dubitato di lei, disse Tacleton; perciò non era accolto qui con piacere, lo so.
— Ma poichè voi me l’avete additata, proseguì il carrettiere senza porgli mente, e poichè l’avete vista, mia moglie, mia moglie che amo... e, mentre ripeteva queste parole, la voce, l’occhio, la mano esprimevano con maggior calore la presa risoluzione; poichè l’avete veduta in un momento tanto sfavorevole a lei, è conveniente, è giusto che la vediate ora con gli occhi miei, che leggiate nel mio cuore e conosciate tutta l’anima mia e sappiate che ho risoluto, continuò guardandolo fisso, e nulla può essere più mutato.
Tacleton mormorò alcune parole di volgare applicazione sulla necessità di vendicarsi di qualche cosa, ma si sentiva vinto dai modi del compagno, che rozzi e sgarbati avevano una nativa dignitosa nobiltà e rivelavano tutto l’onore e la generosità dell’anima sua.
— Io sono rozzo, ignorante, proseguì il carrettiere, nulla mi raccomanda, non sono astuto come voi, ben lo sapete, non sono giovane. Amai Piccina perchè l’aveva veduta crescere da bimba nella casa paterna, perchè sapeva che era un tesoro ed era stata la mia vita per anni ed anni. Non voglio paragonarmi ad altri, ma niuno, io credo, avrebbe amato come io l’amai la mia Piccina. Fece pausa per alquanti minuti e battè pian piano il suolo col piede prima di proseguire. Spesso pensai che poco degno di lei, pure sarei stato un buon marito e forse l’avrei avuta in miglior pregio d’un altro; e così a poco a poco osai credere possibile che ci saremmo sposati; ed alla fine così fu.
— Ah! sclamò Tacleton scuotendo il capo in modo significativo.
— Aveva studiato me stesso, e per esperienza mi conosceva; sapendo quanto l’amava, giudicai che sarei stato felice; ma non avevo pensato, lo sento ora, non avevo abbastanza pensato a lei.
— Certamente, disse Tacleton, non avevate considerato la storditezza, la vanità, la civetteria del suo carattere. Ah! sì, tutto ciò vi era sfuggito.
— Fareste meglio di non interrompermi, disse con gravità il carrettiere, specialmente quando non mi comprendete neanche alla lontana. Se ieri non feci a brani l’uomo che osò mormorare una parola contro di lei, oggi gli metterei il piede sul viso, fosse anche mio fratello.
Il mercante di giuocattoli lo guardò trasognato, mentre egli continuava in tuono più mite: — Ho forse riflettuto che giovane e bella io la rapiva alle compagne ed alle feste, di cui era decoro, nelle quali brillava come stella nel firmamento, per racchiuderla nella mia monotona casa, nella mia noiosa compagnia? Ho forse riflettuto che mal si univa la mia calma alla sua vivacità? Ho considerato mai qual titolo poco valevole fosse il mio amore, poichè tutti quelli che la conoscevano l’amavano del pari? No, mai. Ho profittato della sua natura confidente e gaia e l’ho sposata; vorrei non averlo fatto, non per me! ma per lei!
Il mercante lo guardò senza batter palpebra: finanche l’occhio semichiuso erasi spalancato.
— Dio la benedica, continuò il carrettiere, per la costanza con la quale ha saputo celarmi ciò che soffriva, e perdoni a me di non aver saputo col mio tardo ingegno scoprirlo più presto. Povera fanciulla! povera Piccina! Non ho saputo indovinar nulla quando ho visto i suoi occhi pieni di lagrime all’annunzio di un matrimonio simile al nostro; ho veduto cento volte quel segreto tremore sulle sue labbra senza sospettarlo mai prima di ieri sera. Povera fanciulla! Ed ho sperato che ella mi avrebbe amato, ho creduto che ella già mi amasse.
— Ben ne faceva le mostre, disse Tacleton, e con tale evidenza che a dirvi il vero fu quella la prima radice de’ miei sospetti.
E qui fe’ notare la superiorità di Marina Filding, la quale certo non mostrava di amarlo.
— Ella faceva forza a sè stessa, disse il povero carrettiere con maggiore emozione di prima. Oggi solo comprendo come dovesse durar fatica a mostrarsi buona ed affettuosa moglie. Come è stata coraggiosa, qual nobile cuore! La felicità che ho gustata sotto questo tetto ne fa testimonianza, e questo pensiero mi sarà di conforto quando resterò solo.
— Solo? chiese Tacleton; dunque voi menerete innanzi le cose?
— Voglio, replicò Gianni, offerirle Tunica riparazione che sia in mio potere e liberarla dalle pene giornaliere d’un matrimonio ineguale e dalla necessità di celare ciò che sente. Voglio renderle tutta quella libertà che è in mio potere.
— Offerirle una riparazione? sclamò Tacleton stropicciandosi le lunghe orecchie con le mani; m’inganno, non diceste così al certo.
Il carrettiere afferrò per la giubba il negoziante di giuocattoli e lo scosse come un debole giunco.
— Ascoltatemi, e badate di non ingannarvi su quel che dico; non parlo chiaro forse?
— Chiarissimo, rispose Tacleton.
— Come un uomo che pensa ciò che dice?
— Proprio così.
— Ho passato l’intera notte presso questo focolare, sclamò il carrettiere, qui dove spesso ella usava sedersi a me dinanzi, i dolci occhi ne’ miei. Ho riandata la sua vita giorno per giorno, ho evocata la sua cara immagine in ogni azione della sua esistenza, e sull’anima mia ella è innocente dinanzi a Colui che giudica l’innocenza e la colpa!
Sincero grillo del focolare, leali fate custodi della casa!
— Lo sdegno e la diffidenza mi hanno lasciato, proseguì egli; non altro mi rimane che il dolore. In un’ora fatale qualche antico amante più consimile a lei nei gusti e negli anni, forse a malincuore abbandonato per me, è ritornato. Vinta dalla sorpresa, senza riflettere ciò che faceva, ella si è resa complice di sua perfidia occultandolo; e ieri sera ebbe con lui quel colloquio che noi sorprendemmo. Era male; ma eccetto questo, ella è innocente, se vi fu mai verità sulla terra.
— Se questa è la vostra opinione... incominciò Tacleton.
— Ch’ella parta proseguì il carrettiere, parta con la mia benedizione per le ore di gioia che le devo, col mio perdono per quest’angoscia che mi opprime; parta e s’abbia quella pace che le desidero. Ella non mi odierà, forse più tardi imparerà a meglio amarmi quando non sarò più un peso per lei, ed allora la catena che ci lega le sembrerà più leggiera. Oggi ha un anno che senza darmi pensiero della sua felicità la involai dalla casa paterna, oggi ella ci farà ritorno, io non la turberò mai più. I suoi genitori debbono venire, perchè avevano immaginato di festeggiare insieme questo giorno; ora invece la ricondurranno con loro, ed io ho fede in lei ovunque ne vada: mi lascia senza colpa e tale ognora vivrà, ne son certo. Se morrò, e forse morrò lasciandola giovane ancora, perchè ho speso tanta forza, tanto coraggio in poche ore, saprà che sempre ho pensato a lei e che sempre l’ho amata. Cotesto è il risultamento di ciò che mi avete mostrato; ora tutto è finito.
— Oh! no, Gianni, non dire ancora che tutto è finito; ho udito le tue nobili parole, non ho potuto tacere, nè posso celare la commozione di una profonda gratitudine; no, non dire che tutto è finito, finchè l’orologio non abbia suonato nuovamente, disse Piccina che era entrata poco tempo dopo Tacleton ed era rimasta in ascolto, e che senza badare a lui teneva gli occhi fissi nel marito, a cui non si accostò, benchè parlasse con tuono commosso e sincero. Come appariva diversa da quella di una volta!
— Niuna mano può formare un orologio che risuoni per me le ore passate, replicò il carrettiere con debole sorriso; ma sia fatto come volete, mia cara. Suonerà presto! Chiedete una cosa di poco momento; ho cercato di contentarvi in più difficili prove.
— Bene, mormorò Tacleton, ora posso andarmene, chè quando suonerà l’orologio sarò in via per la chiesa. Addio, Gianni Peribingle, desolato di non avervi alle mie nozze e più della cagione che vi trattiene.
— Ho parlato chiaramente? disse il carrettiere accompagnandolo fino all’uscio.
— Più chiaro non si poteva.
— Rammenterete ciò che vi ho detto?
— Ebbene, poichè volete saperlo, disse Tacleton mettendosi prudentemente al sicuro nel carrozzino, posso rispondervi che la vostra condotta è talmente meravigliosa, che non sarà facile dimenticarla.
— Meglio per entrambi, rispose il carrettiere; addio e siate felice.
— Vorrei potervi dire lo stesso, disse Tacleton, ma non è il momento; dunque grazie. Sia detto tra noi, ho imparato a non augurar male della mia vita coniugale solo perchè Marina non si mostra meco troppo amabile ed espansiva. Addio, abbiatevi cura.
Il carrettiere lo seguì con lo sguardo finchè divenne un punto nero nell’orizzonte; allora diè un profondo sospiro e con l’andatura di chi è stanco ed oppresso penetrò nel vicino viale degli olmi, poco desideroso di ritornare a casa prima che l’orologio avesse suonato.
Piccina rimasta sola singhiozzò in modo da far pietà; di tanto in tanto levava il capo, si asciugava gli occhi ed esclamava che era buono, eccellente! Due o tre volte scoppiò anche a ridere e così di cuore ed incoerentemente, che la povera Tilda ne inorridì.
— Non fate ciò, per amor di Dio! disse ella: vi ha di che ammazzare e sotterrare il bimbo.
— Lo porterete qualche volta a vedere suo padre, Tilda, domandò la padrona asciugandosi gli occhi, quando io non sarò più qui ed abiterò la casa paterna?
— Oh! se vi piace, non dite tali cose, gridò Tilda mandando un urlo che sembrava uscito dalla gola di Boxer, non dite così! Che cosa si è fatto, che cosa si è mai detto per rendere tutta la gente tanto cattiva? oh! oh!
La sensibile, attonita servetta diè un altro forte grido, tanto più forte quanto più a lungo l’aveva contenuto. E forse continuando avrebbe desto il bambino spaventandolo sul serio, se i suoi occhi non si fossero scontrati in Calleb Plummer e la figlia. Quella vista richiamandola al sentimento delle convenienze la fece rimaner muta alcuni istanti con la bocca aperta; poscia si accostò al letto sul quale dormiva il bambino, e sepolto il capo fra le coltri menò le gambe a destra ed a manca come se presa dalla tarantola e sembrò trovar sollievo in quello strano esercizio.
— Maria, disse Berta, non vai alle nozze?
— Avevo pensato che non sareste andata, disse Caleb con voce dimessa; ne ho udite tante ieri sera, ma Dio sa, continuò egli prendendole teneramente le mani, che non curo ciò che si dice, nè lo credo. Non sono un gran che, ma per quel poco che valgo mi farei mettere in pezzi prima di prestar fede ad una parola contro di voi; e le passò le braccia al collo e la strinse a sè come un fanciullo avrebbe stretta una bambola della sua officina; poi continuò: Berta non trovava pace in casa; ella si spaventava di udire il suono delle campane e di essere troppo vicina a quelle nozze, perciò siamo usciti per tempo ed eccoci qui. Ho pensato a quel che aveva fatto, proseguì Caleb dopo breve pausa, ho rivolto a me stesso amari rimproveri ed ho concluso che il meglio è svelarle tutto, purchè voi, buona Maria, non mi lasciate solo. Resterete con me, non è vero? chiese di nuovo tremando da capo a piedi; non so quale impressione le faranno i miei detti, non so quel che vorrà pensare di me; potrà ella amare d’ora in poi il suo povero padre? Ma debbo disingannarla per il suo meglio e sopportare le conseguenze del mio agire.
— Maria, disse Berta, dov’è la tua mano? Ah! eccola qui, e la strinse sulle sue labbra con dolce sorriso; poi la mise sotto il suo braccio. Ieri sera si parlava male di te sottovoce; avevano torto, non è vero?
La moglie del carrettiere tacque, ma Caleb rispose per lei: è certo che avevano torto.
— Lo sapeva, sclamò Berta con orgoglio, e l’ho detto ben forte; mi sarei vergognata di udire una parola di più. Chi può biasimarla con ragione?
Ella strinse la sua mano nelle proprie e posò la rosea guancia su quella di Piccina.
— No, riprese, non sono tanto cieca.
Suo padre le si avvicinò da un lato, mentre Piccina la teneva per l’altra mano, e Berta continuò:
— Vi conosco tutti, meglio che non pensiate ma niuno tanto bene quanto lei; neanche voi, babbo. Intorno a me nulla vi ha di leale, di sincero quanto ella; se ora mi fosse ridonata la vista, io le correrei incontro prima che si pronunziasse una parola e perfino nella folla riconoscerei la mia buona sorella!
— Berta, interruppe Caleb, ho qualche cosa che mi pesa sul cuore e voglio dirtelo mentre siamo noi tre soli. Ascoltami benignamente, ho una confessione da farti, o mia diletta.
— Una confessione, babbo?
— Mi sono allontanato dalla verità e mi sono perduto, figlia mia, disse Caleb con dolorosa espressione: mi sono allontanato dalla verità, credendo farti del bene, e sono stato crudele.
Ella si rivolse costernata e ripetè: crudele?
— Egli si accusa con troppa severità, cara Berta, disse Piccina; or ora lo comprenderai e sarai la prima a dirglielo.
— Egli crudele con me? ripetè Berta con incredulo sorriso.
— Sì fui, diletta figlia, disse Caleb, ma senza premeditazione: fino a ieri lo ignorai io stesso. Odimi e perdona, mia povera cieca; il mondo nel quale tu vivi, cuor mio, non è quale te lo mostrai, gli occhi ai quali ti affidasti ti hanno ingannata.
Più costernata di prima ella si rivolse nuovamente verso il padre, poi retrocedette e si strinse all’amica.
— La tua vita mortale era aspra, poverella mia, continuò, ed avrei voluto spianarla innanzi a te. A farti meno infelice ho alterato gli oggetti, cangiato il carattere delle persone, inventato cose che non furono mai; ti ho circondata di misteri, d’illusioni, di varie fantasie.
— Ma le persone viventi non sono fantasie, sclamò ella precipitosamente e pallidissima, mentre più si stringeva a Piccina, e voi non potete cangiarle!
— Le ho cangiate, Berta, insistè Caleb; una persona specialmente che tu, mio tesoro, ben conosci....
— Oh! babbo, non dite che io conosco, rispose ella in tono di straziante rimprovero. Che cosa o quale persona posso conoscere io senza guida? io così miseramente cieca?
Nell’angoscia del suo cuore stese le mani per cercare a tentoni la via, poi le piegò sul viso in atto mestissimo di profondo abbandono.
— L’uomo che oggi prende moglie, disse Caleb, è superbo, spietato, duro padrone per me e per te da molti anni; brutto d’anima e di corpo, freddo ed incallito al male. Oh! come dissimile da quello che ti aveva dipinto, figlia mia!
— Perchè, sclamò la cieca nell’angoscia indicibile che la padroneggiava, perchè aver riempito il mio cuore di affetto, e venir dopo, come la morte, a strapparne l’oggetto del mio amore? Povera me, come sono cieca, come sono derelitta!
Il padre desolato chinò la testa, senz’altra risposta che il suo pentimento ed il suo dolore.
E mentre ella da alquanti minuti era immersa in quel profondo affanno, il grillo del focolare, udito da lei sola, incominciò a cantare in suono non lieto come l’usato ma flebile, lento e doloroso, tanto che le sue lagrime sgorgarono. E quando lo stesso genio che aveva vegliato l’intera notte col carrettiere le apparve e le additò il padre, il suo pianto divenne più dirotto.
Il dolce canto del grillo le fe’ nota ogni cosa, e benchè cieca ella ebbe coscienza del genio benefattore librato sul padre suo.
— Maria, disse la cieca, dipingimi la mia casa quale essa è veramente.
— È una povera casa, Berta mia; misera, nuda e tale che mal vi preserverà dal vento e dalla pioggia un altro inverno. Essa è tanto mal riparata dalle intemperie, continuò Piccina con voce chiara ma lenta, quanto il tuo povero babbo nel suo abito di tela di sacco.
Agitatissima la cieca si levò in piedi e tirò da banda la moglie del carrettiere.
— Quei doni carissimi che mi giungevano a seconda de’ miei desideri e de’ quali prendevo tanta cura, disse ella tremante, da chi erano inviati, da te forse?
— No.
— Da chi dunque?
Piccina vide ch’ella già lo pensava e tacque; la cieca nuovamente si celò il volto nelle mani, ma con animo già mutato.
— Cara Maria, un momento, un momento! Vieni qui, parlami sommesso. Tu sei veritiera, tu non puoi ingannarmi, non è vero?
— No, Berta; sta sicura.
— Mi affido in te che sempre ti sei mostrata meco pietosa. Guarda da quel lato, ivi è mio padre, mio padre tanto compassionevole ed amoroso per me, e dimmi ciò che vedi.
— Io veggo, disse Piccina, un vecchio abbandonato sopra una seggiola, nascondendo il viso tra le mani in atto dolente, come se attendesse a conforto le carezze della figlia.
— Sì, sì lo consolerà, ma continua.
— È un vecchio consunto dai travagli, magro, sparuto, pensieroso, dai capelli bianchi. Ora lo veggo abbattuto e curvo per crudele tenzone; ma l’ho visto lottare altre volte e con più coraggio per conseguire una meta nobile e sacra. Io onoro, Berta mia, quel capo canuto e lo benedico.
La cieca si mosse, cadde in ginocchio e strinse al suo seno que’ capelli bianchi: ecco, gridò, eccomi ridonata la vista; era cieca ed i miei occhi si sono aperti. Io non lo conosceva, ed ora penso che avrei potuto morire e non aver contezza di mio padre che tanto ha fatto per me.
L’emozione di Caleb non si esprime a parole.
Ed ella continuò tenendolo stretto al cuore: non vi è umana creatura, fosse pur giovane e bella, a me tanto cara, tanto diletta quanto questo mio povero babbo desolato e canuto. Che niuno mi chiami più la cieca; nelle mie preci riconoscenti non obblierò una sola delle sue rughe, un solo di que’ suoi bianchi capelli. E Caleb trovò modo di balbettare: oh! mia Berta!
— Nella mia cecità, continuò ella con lagrime di delicata tenerezza, io lo credeva ben diverso! Ho avuto continuamente al mio fianco un’anima tutta piena di me e non l’ho neanche immaginato.
— Il tuo babbo elegante e disinvolto dal bel pastrano azzurro è andato via per sempre, disse il povero Caleb.
— Nulla è andato via, diss’ella, no, babbo dilettissimo, nulla è mutato per me. Il padre che io amava tanto e pur non abbastanza perchè mi era ignoto, quel benefattore che io circondava di riverenza e di amore per la tenera simpatia che mi mostrava, tutto io ritrovo in voi, nulla è morto per me. La miglior parte di ciò che mi fu caro è qui, qui con questo volto mesto e questa testa bianca. Oh! babbo, babbo, io non sono più cieca!
Tutta l’attenzione di Piccina era assorta dal padre e dalla figliuola, ma guardando ad un tratto il piccolo mietitore della prateria moresca, vide che tra breve l’orologio avrebbe suonato, e tosto fu presa da una agitazione nervosa.
— Babbo, disse Berta, esitando, dove è Maria?
— È qui, mia cara, rispose Caleb.
— Non vi ha nulla da mutare in lei? Non mi avete detto alcuna cosa di lei che non fosse vero?
— L’avrei forse fatto, ne ho paura, rispose Caleb, se avessi potuto dipingerla meglio di ciò che veramente appare, ma me ne astenni perchè solo a suo svantaggio si potrebbe mutare.
Benchè la cieca nel chiedere fosse sicura della risposta, pure nell’udirla abbracciò Piccina con gioia ed orgoglio più e più volte.
— Altri cambiamenti possono avvenire, o mia diletta, disse Piccina; ma cambiamenti in meglio, che forse arrecheranno grande gioia ad alcuni di noi. Ma qualunque cosa avvenga non ti commovere troppo: odo un romorìo nella strada, tu hai l’udito finissimo, Berta mia, sono ruote?
— Sì, esse corrono velocissime.
— Io.... io, ben so che hai l’orecchio fino, disse Piccina mettendosi la mano sul cuore a comprimerne i palpiti e parlando con volubilità; lo so per averlo sovente notato e perchè ieri sera riconoscesti con tanta prontezza quel passo straniero; non so bene il perchè, ma udendolo esclamasti: di chi è quel passo? Perchè ti aveva colpito più di un altro? Ma, come appunto vi diceva, accadono grandi, grandissimi cambiamenti in questo mondo, e quel che possiamo far di meglio è di essere preparati ad ogni evento.
Caleb chiedeva maravigliato a sè stesso ciò ch’ella volesse intendere con quelle parole dirette a lui ed alla figlia, e con grande sbalordimento la vide poi agitata e quasi priva di respiro appoggiarsi ad una sedia per non cadere.
— È proprio il rumore delle ruote, sclamò ella anelante; si avvicinano di più in più: eccole giunte. Udite! Si fermano al cancello del giardino, riconoscete quel passo, il passo di ieri, Berta, ed ora....
Ella diè un grido acuto di irrefrenabile gioia, e correndo a Caleb gli pose la mano su gli occhi, mentre un giovane si precipitava nella stanza e gettando in aria il cappello si slanciava verso di loro.
— È fatto? gli gridò Piccina.
— Sì.
— Felicemente?
— Sì.
— Vi rammentate di questa voce, caro Caleb? Non l’avete intesa per lo innanzi? sclamò Piccina.
— Se mio figlio dell’America del sud vivesse..., disse Caleb tremante.
— Vive! gridò Piccina, togliendoli la mano dagli occhi e battendo palma a palma con giubilo; guardatelo, eccolo innanzi a voi sano e robusto. Il vostro proprio e diletto figlio; il tuo vivo, amato fratello, Berta!
Onore ai trasporti di gioia della gentile creatura, onore alle sue lagrime ed al suo riso quando que’ tre furono allacciati in un medesimo amplesso. Onore alla cordialità con la quale corse incontro all’abbronzato marinaro da’ neri capelli e non rivolse altrove la rosea guancia, ma si lasciò con tutta franchezza baciare e stringere sul cuore palpitante. Ed onore anche al cuculo, e perchè no? Esso uscì precipitosamente dall’usciolino del palazzo moresco come un ladro in flagrante e singhiozzò dodici volte innanzi la compagnia come se fosse ebro di gioia.
Il carrettiere entrò, poi retrocesse, stupito non senza ragione di trovarsi in sì numerosa compagnia.
— Gianni, guarda, disse Caleb con aria di trionfo; guarda il mio figliuolo di America, il mio proprio figlio! Tu lo accompagnasti quando s’imbarcò e sempre gli sei stato amico.
Il carrettiere si avanzò per stringergli la mano, ma trepidò parendogli di riconoscere i lineamenti del sordo del carro e disse:
— Edoardo, sei tu?
— Ora ditegli tutto, esclamò Piccina, ditegli tutto, Edoardo, e non mi risparmiate, non voglio più nascondergli nulla, no, no!
— Io era quell’uomo, disse Edoardo.
— Ed hai potuto penetrare travestito nella casa del tuo vecchio amico? rispose il carrettiere. Eravi altra volta un giovane leale.... quanto tempo è Caleb, che l’abbiamo creduto morto e pensammo averne le prove? Quel giovane era incapace di simile azione.
— Aveva altra volta un amico generoso, più padre che amico, disse Edoardo, che non avrebbe giudicato me od altri senza difesa. Tu eri quell’amico e sono certo che ora vorrai darmi ascolto.
Il carrettiere gettò su Piccina, che rimaneva in disparte, uno sguardo pieno di turbamento e rispose:
— È giusto, vi ascolto.
— Dovete sapere, disse Edoardo, che quando partii, benchè quasi fanciullo, già era innamorato e corrisposto. Voi forse mi direte che ella era ben giovinetta per sapere quel che facesse, ma io conosceva l’anima mia e l’amava appassionatamente.
— L’amavate, voi? sclamò il carrettiere.
— Sì, l’amava, riprese l’altro, ed ella mi corrispondeva; prima lo sperava, ora ne sono certo.
— Dio mi aiuti, disse il carrettiere, che cosa mi spetta di udire!
— Dopo tante fortunose vicende torno fedele e pieno di speranze nei patti del nostro amore, quando a venti leghe da casa so che mi ha tradito, dimenticato, e si è data ad altro più ricco. Non penso a rimprocci, ma voglio vederla, convincermi del vero con gli occhi miei. Sperava che l’avessero a ciò forzata contro sua voglia; era un debole conforto, ma infine tal mi sembrò e venni. Per conoscere la piena verità, osservarla liberamente e giudicarla da me senza che altri potesse respingermi e ella commoversi alla mia vista, mi travestii, come sapete, ed attesi Gianni sulla via. Egli sa dove! Niuno mi riconobbe, neanche colei, ed indicò Piccina, finchè le ebbi mormorato all’orecchio una parola presso il fuoco, ed allora mancò poco che non mi tradisse.
— Ma quando ella seppe che Edoardo era vivo e ritornato, interruppe Piccina, parlando per conto proprio come aveva anelato di fare durante tutto quel racconto, ella gli consigliò di serbare il segreto, perchè il suo vecchio amico, Gianni Peribingle, era, per sua natura, assai leale e del tutto straniero ad ogni astuzia per tenere a freno la sua lingua, continuò essa tra il pianto ed il riso. E quando ella, cioè io, Gianni, gli ebbi tutto narrato, come la sua amata l’avesse pianto per morto, come infine la madre l’avesse persuasa a contrarre un matrimonio che quella povera vecchia suol chiamare vantaggioso; e quando ella, sempre io, Gianni, gli narrai che il matrimonio non era ancor fatto, benchè assai prossimo e che sarebbe un vero sacrifizio, perchè la giovanetta non amava l’altro, Edoardo divenne ebro di gioia. Allora ella, sempre io, promisi di scandagliare il cuore della fidanzata ed assicurarmi se avessi detto il vero. Aveva detto il vero, Gianni; essi si rividero e da un’ora sono marito e moglie. Ecco qui la sposa; Tacleton morrà celibe, ed io sono una felice e piccola moglie, Marina, Dio ti benedica!
Se mai vi fu al mondo una donnetta irresistibile, tale appariva Piccina in que’ trasporti di gioia. Non furono mai uditi auguri più sinceri e deliziosi di quelli che faceva piovere sovra sè medesima e sulla nuova sposa.
L’onesto carrettiere rimaneva muto, confuso, mentre tante emozioni tumultuavano nel suo seno. Alla fine corse a Piccina, che lo arrestò con la mano indietreggiando.
— No, Gianni, ascolta prima ogni cosa. Non amarmi di nuovo se prima non hai udito tutto. Ebbi torto di serbare un segreto con te e me ne dolgo. Non pensai che stava male se non ieri sera quando assisa a’ tuoi piedi sullo sgabelletto, lessi nel tuo volto che mi avevi veduta nel magazzino con Edoardo: indovinai ciò che pensavi e compresi quanto era stata colpevole. Ma oh! caro Gianni, e come osasti sospettare di me?
La poverina singhiozzò di nuovo. Gianni si provò a stringerla tra le sue braccia, ma ella non lo permise.
— Abbi pazienza, non mi amare ancora, Gianni; aspetta un altro minuto. Se all’annunzio di quel matrimonio mi vedesti afflitta, amico mio, era appunto perchè io ricordava i giovani amori di Marina e di Edoardo, e sapeva quanto il cuore della mia compagna fosse alieno da Tacleton; mi credi ora, Gianni?
A questo appello Gianni tentò un nuovo assalto, ma ella lo fermò ancora una volta.
— No, non ti muovere, Gianni. Qualche volta io ti motteggio, Gianni; ti do del rozzo, del vecchio semplicione e simili titoli, ma lo fo perchè ti amo assai, perchè prendo piacere di quelle tue maniere che non vorrei veder mutate neanche se domani ti facessero re.
— Urrà! gridò Caleb con inusata energia, anch’io la penso così.
— E se parlo di persone attempate e tarde, se dico che siamo una coppia male assortita e che va a sghembo, lo fo perchè sono un po’ cattivella ed amo di celiare per divertire il bimbo; credilo, Gianni.
Ma vide che si slanciava verso di lei e lo arrestò di nuovo, quasi troppo tardi questa volta.
— No, aspetta per amarmi altri due o tre minuti, Gianni; ciò che mi sta a cuore l’ho serbato per la fine. Mio caro, buono e generoso Gianni, quando l’altra sera parlavamo del grillo, mi venne sulle labbra la confessione che appena fatta sposa io non ti amava come ora. Temeva quasi di non riuscire ad amarti come desiderava, come chiedeva a Dio; era tanto giovanetta! Ma, caro Gianni, ogni giorno, ogni ora, ho appreso a meglio amarti; e se il mio amore avesse potuto crescere ancora, si sarebbe aumentato stamane mentre udiva le tue nobili parole, ma esso non può crescere, perchè da tanto, tanto tempo ti ho consacrate tutte le forze amanti dell’anima mia. Ora, diletto marito, stringimi sul tuo cuore; questa è la mia casa, Gianni, e non pensare mai più di mandarmi altrove. —
Anche se avete vista altre volte una leggiadra donnetta teneramente abbracciata dal marito, non potreste immaginare il sentimento che vi avrebbe destato nel petto il vedere Piccina fra le braccia del carrettiere. Era uno spettacolo commovente, animato, il più bello forse di quanti ne abbiate visti finora.
Inutile dirvi che il carrettiere era fuori di sè per la gioia; che Piccina vi era quanto lui; e che anzi vi erano tutti, compresa l’attonita Tilda, che nel suo tra sporto gridava a squarcia gola; e volendo che il bimbo pigliasse parte anch’egli alla contentezza comune, lo faceva passare di mano in mano come una coppa ricolma.
Ecco poco di poi si udì un nuovo muover di ruote e qualcuno annunziò che Tacleton era di ritorno, e tosto il degno uomo apparve affannato e rosso nel volto.
— Ebbene, che diavolo accade, Gianni Peribingle, gridò egli, vi è un malinteso. Avevo data la posta in chiesa alla futura signora Tacleton, e mentre mi recava colà, mi è sembrato vederla diretta da voi. Oh, eccola! Vi chieggo scusa, signor mio, non ho il bene di conoscervi, ma vogliate cedermi il braccio di questa signorina che ha per stamane un impegno solenne.
— Non voglio cederla neanche per sogno, rispose Edoardo.
— Che pretendete dire, vagabondo? disse Tacleton.
— Che posso permettervi di sfogare il vostro malumore, replicò l’altro con un sorriso, e che desidero rimanere sordo alle ingiurie questa mattina, come finsi ieri di essere ad ogni discorso.
Che sguardo bieco gli lanciò Tacleton!
— Sono dolente, signore, proseguì Edoardo, mostrandogli la mano sinistra di Marina ed in ispecie il dito anulare; ma la signorina non può accompagnarvi alla chiesa per la semplice ragione che vi è stata già questa mattina: tenetela dunque per iscusata.
Tacleton guardò con dispetto quella mano, poi si tolse di tasca un pezzetto di carta inargentata che probabilmente conteneva un anello.
— Tilda, diss’egli, siate tanto gentile da gettarlo nel fuoco, e vi ringrazio.
— Solo una promessa antecedente e molto antica, disse Edoardo, impedì che mia moglie fosse fedele all’appuntamento.
— Il signor Tacleton vorrà almeno farmi la giustizia di confessare che io l’aveva lealmente prevenuto, dicendogli più e più volte che non avrei mai dimenticato... l’altro, disse Marina arrossendo.
— Non lo nego, disse Tacleton, è finalmente la verità. Ella è dunque la signora Plummer, non è vero?
— Appunto, replicò la sposa.
— Ebbene, non vi avrei riconosciuto, disse Tacleton osservando Edoardo da vicino e facendogli un profondo saluto. Ricevete i miei complimenti.
— Vi ringrazio.
— E voi, signor Peribingle, disse egli volgendosi ad un tratto a Piccina ed al marito, vogliatemi perdonare. A dire il vero, non mi avete reso un gran bel servizio, e nonpertanto mi spiace di avervi giudicata male. Sono dolente, Gianni Peribingle; voi comprendete il perchè. Ogni cosa essendo avvenuta per la maggior soddisfazione di ciascuno, non mi resta che augurarvi il buon dì.
Con queste parole egli tolse commiato ed uscì, nè si fermò dinanzi l’uscio di casa se non quel tanto che fu necessario a ritorre al cavallo i nastri ed i fiori, ed a dare al povero animale un calcio nel ventre per metterlo al corrente del mutamento avvenuto ne’ suoi destini.
Ora bisognava pensare al grave dovere di celebrare quel giorno festivo in modo che rimanesse memorando ne’ fasti della famiglia Peribingle. Piccina si mise dunque all’opera decisa ad apprestare un banchetto degno di mostrare la sua felicità, e bentosto i suoi gomiti sparvero nella farina che più d’una volta imbiancò la giubba del carrettiere, perchè ella, ogni volta che passava, lo fermava per abbracciarlo. Il dabbene uomo lavava l’insalata, nettava le carote, rompeva i piatti, rovesciava l’acqua del paiuolo nel fuoco e si rendeva utile in cento altri modi, mentre due cuochi presi a prestito in tutta fretta dal vicinato, come per un caso di vita o di morte, si urtavano a vicenda per tutti gli usci ed in ogni canto. Ma chi dava più a temere era Tilda l’attonita, col suo bamboccio; ella era dappertutto, giammai la sua abilità era sembrata tanto grande, e la sua ubiquità formava l’ammirazione di tutti. All’una e venticinque minuti ella bloccava completamente l’entrata, alle due e mezzo le sue gambe figuravano un trabocchetto nel bel mezzo della cucina, ed alle due e quaranta minuti faceva inciampare chiunque penetrasse nel granaio. La testa del bambino era, per mo’ di dire, la pietra di paragone di ogni sostanza animale, vegetale o minerale che si fosse, e niuna cosa messa in uso in quel giorno trascurò di far conoscenza con quella povera testolina.
Fu nominata una deputazione per esprimere alla signora Filding il pentimento di ognuno e ricondurla o di buon grado o per forza, perchè perdonasse e fosse felice con gli altri, ma allorchè la deputazione pervenne a lei, la buona signora dichiarò di non volere udir nulla e ripetè interminabili volte: perchè son vissuta fino a questo giorno? nè fu possibile strapparle altra frase infuori di questa: chiudetemi nella tomba! parole tanto più assurde, chè ella non era morta, nè vicina a morire. Dopo qualche tempo ella cadde in una spaventevole calma ed osservò che da quando disastrose cagioni avevano menato a male il commercio dell’indaco, aveva bene immaginato che nella restante vita sarebbe di sovente esposta alle contumelie, ed ora vedeva con piacere avverarsi la sua predizione. Poscia pregò che non le si ponesse mente; chi era ella mai? Un nulla, uno zero! Dimenticassero che viveva ancora e menassero pure senza di lei quel genere di vita che credessero il migliore. Ma dall’amaro sarcasmo ella tosto passò all’ira e pronunziò questo memorabile detto: che il verme si raddrizza sotto il piede che lo calpesta; poi dolcemente commossa soggiunse che se l’avessero creduta degna d’una confidenza, avrebbe forse dato buoni suggerimenti!
Profittando di quell’istante di tenerezza la deputazione le saltò al collo, l’aiutò a mettersi i guanti, ed ella vedendo così immacolata la sua dignità consentì alla fine di pigliar la via della casa Peribingle portando avvolta nella carta la sua cuffia di parata quasi alta quanto una mitra e tesa del pari.
Ora attendeva in un carrozzino i genitori di Piccina, e perchè ritardavano già si mormorava e si temeva. Tutti interrogavano la via, ma qualcuno fece osservare alla signora Filding che ella guardava sempre dal lato opposto a quello dal quale potevano giungere; al che rispose la buona signora che sperava conservare tanta libertà da guardare dove più le piacesse. Alla fine essi giunsero; era una allegra e piccola coppia che trottava sveltamente in un modo tutto proprio alla famiglia di Piccina. Era poi maraviglioso veder questa presso la mamma, tanto si rassomigliavano entrambe.
La madre di Piccina ebbe a rinnovare conoscenza con quella di Marina, e mentre l’una se ne stava dignitosamente sulla sua, l’altra saltellava con le svelte gambette.
Ed il vecchio Piccino, padre di Piccina (a dir vero non è questo il suo nome, ma non monta) pareva fuori di sè, distribuiva strette di mano, pareva credere che una cuffia di parata non fosse altro che mussola ed amido, poco si curava de’ rovesci del commercio dell’indaco, ed anzi disse che era inutile parlar sempre d’una cosa alla quale non vi era rimedio, sicchè la signora Filding ebbe a giudicarlo una buona pasta d’uomo, ma volgare, immensamente volgare.
Non avrei rinunziato per un milione al piacere di veder la nostra Piccina far gli onori di casa in vesta da sposa, il volto illuminato dalla gioia, nè il buon carrettiere ora gioviale e sereno a capo della tavola, nè l’abbronzato marinaro e la sua bella sposa, nè alcuno di loro. Mancare a quel banchetto sarebbe stato privarsi del più abbondante, del più appetitoso desinare che immaginar si possa, ed il non fare onore alla coppa ricolma che si vuotava in quel giorno di nozze sarebbe stata la maggiore delle omissioni.
Dopo pranzo Caleb intuonò la sua bacchica canzone! Proprio così, come è vero che son vivo, e spero di esserlo un altro anno o due! E come appunto giungeva all’ultimo verso avvenne uno strano incidente. Si picchiò all’uscio ed un uomo entrò senza chieder licenza, portando in testa alcunchè di pesante, che depose nel bel mezzo della tavola a far simmetria con le noci ed i pomi, e poi disse: con mille complimenti del signor Tacleton, che non avendo potuto decidersi a mangiare da sè cotesta focaccia, la manda alla compagnia: e detto ciò se ne andò come era venuto.
Come ben potete immaginare la compagnia non fu poco meravigliata, e la signora Filding, dotata di raro discernimento, suggerì che la focaccia poteva essere avvelenata, e narrò di una certa focaccia che aveva decimato un collegio di giovinette; ma le fu imposto silenzio per acclamazione, e Marina fece a pezzi il dono fra i complimenti e l’allegria. Intanto, prima che se ne gustasse, ecco un’altra picchiata all’uscio e lo stesso messaggiero con un grosso pacco di carta bruna fra le mani, che detto: con mille complimenti del signor Tacleton il quale invia al bimbo alcuni giocattoli, che non gli spiaceranno, partì come l’altra volta.
La compagnia, anche volendo, non avrebbe avuto il tempo di esprimere a parole la profonda sua maraviglia, perchè appena il messaggiero ebbe tirato l’uscio dietro a sè udissi un altro picchio e Tacleton entrò in persona.
— Signora Periblingle, disse il mercante di giocattoli, scoprendosi il capo, ricevete le mie scuse; se stamane era dolente, ne sono anche più ora che ho avuto il tempo di riflettere sull’accaduto. Gianni Peribingle, io sono aspro per natura, ma non ho potuto trovarmi da solo con un cuore come il vostro senza sentirmi alcun poco commosso. E tu, Caleb, ascoltami: quella inconscia servetta canticchiava ieri sera una enigmatica canzone di cui forse ho scoperto il senso ed arrossisco pensando come facilmente avrei potuto affezionarmi due cuori come il tuo e quello di tua figlia, che io da vero idiota credeva tali. Amici, questa sera la mia casa mi è sembrata tanto mesta, tanto solitaria; neanche il grillo rallegra il mio deserto focolare, perchè ho sempre scacciati da me quei poveri animaletti: siate generosi e lasciatemi un posticino nella vostra felicità.
In meno di cinque minuti egli fu all’unissono con gli altri; che compagnone! Che cosa aveva fatto per ignorare fino a quel giorno la propria giovialità, o quali erano le fate che avevano saputo mutarlo così completamente?
— Gianni, mormorò Piccina, tu non mi rimanderai questa sera?
E pensare che fu sul punto di mandarla via.
Mancava un essere vivente perchè la compagnia fosse completa e non andò guari che giunse. Esso era lì tutto affannato per la rapida corsa cercando invano di ficcare il muso in una stretta ampolla; aveva accompagnato il carro fino al termine del viaggio quantunque assai indispettito per l’assenza del padrone ed in aperta rivolta contro chi ne faceva le veci. Giunto alla rimessa di fermata aveva tentato ogni mezzo per eccitare il vecchio cavallo a prender la mano e tornarsene con lui, poi stanco si era adagiato presso il fuoco di quella locanda: ma cedendo tutto ad un tratto al convincimento che quel supplente fosse un ciarlatano che si poteva di leggieri abbandonare, si levò agitando la coda e tornò a casa.
La sera si danzò, ma forse non ne avrei fatto parola, se non avessi le mie buone ragioni per credere che quella danza avesse un non so che d’originale e di notevole.
Edoardo il marinaio, buono e gaio giovanetto, mentre narrava maraviglie dei pappagalli, delle mine, dei messicani e della polvere d’oro, immaginò ad un tratto di slanciarsi nel mezzo della stanza e di aprire la danza. Avevano recato l’arpa di Berta ed ella la suonava con maestrevole mano, ma Piccina che da maliziosa creatura ben sapeva dissimulare, dichiarò che il ballo era finito per lei, forse perchè il carrettiere fumava la sua pipa accanto al fuoco ed ella preferiva starsene con lui. La signora Filding che non aveva la scelta dichiarò a sua volta che non era in età da ballare, e così dissero gli altri, eccetto Marina, che si levò pronta a danzare, ed i due sposi si slanciarono da soli fra gli evviva della compagnia ed al suono animato dell’arpa di Berta.
Ebbene, credetemi se volete, non avevano ballato cinque minuti quando ad un tratto il carrettiere gettò via la pipa, cinse Piccina e partì con tallone e punta saltando a meraviglia. Appena Tacleton lo vide, si slancia a sua volta verso la signora Filding e la trascina al seguito delle altre coppie; il vecchio Piccino, che è tutto fuoco, afferra la vecchietta Piccina e si getta nel più caldo della mischia, mentre Caleb e l’attonita Tilda, tenendosi per mano, corrono anche essi e la nostra servetta dà calci e pugni a destra ed a manca, credendo questo l’elemento del ballo.
Evviva!... ecco il canto del grillo canterino, a cui fa êco il rumoreggiante paiuolo.
Ma che avvenne? Mentr’io girava gli occhi cercando Piccina per rimirare l’ultima volta quel visino raggiante, ecco tutto è svanito ed io son solo; e della cara visione null’altro rimane che un balocco infranto sul suolo ed un grillo che canta sul mio focolare.
fine.
- ↑ Magistratura elettiva in Inghilterra, che presiede specialmente alla esecuzione delle sentenze capitali.