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Questo testo fa parte della raccolta Versi di Giacomo Zanella


IL LAVORO.

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     Col sole che al monte le cime colora,
Si leva l’artiere che all’opra ritorna.
     Il mantice stride; l’incude sonora
4A’ torpidi intuona: sorgete, chè aggiorna.

     Nell’umida zolla discende feconda
Del sole la luce che il germe matura;
     S’imporpora il grappo: la mèsse s’imbionda:
8Il desco a’ mortali prepara natura.

     Rivale del sole, dell’uomo la mano
Nel pigro elemento trasfonde la vita;
     D’ascosa ragione strumento sovrano,
12L’inerte materia coll’Util marita.

     Levate, fratelli, levate la fronte
Nell’opra compagni dell’astro gigante,
     Che indura la quercia sul dorso del monte
16Che spento carbone ralluma in diamante.

     Da’ colpi domata del vostro scalpello
Il fregio riceve la pietra ritrosa;
     L’indocile acciaio si arrende al martello;
20Tagliata nel legno si schiude la rosa.

     All’opra d’un solo ben ricca mercede
Di mille vien l’opra: di scambio fraterno
     Per lunga catena ciascuno possiede
24Il pane pe’ figli, la veste pel verno.

     All’uopo comune per l’acque lontane,
Anello de’ mondi, la nave cammina,
     Che al vostro telaio riporta le lane
28A’ fiumi deterse dell’ultima Cina.

     Volate, fratelli, volate al lavoro
Che in fervide gare lo spirito affranca;
     Il tempo è ricchezza; le braccia tesoro
32Che abbonda a’ volenti, che usato non manca.

     De’ ferri al rimbombo più larga nel core
Ribolle la vita, com’onda battuta:
     Se taccia dell’arti l’allegro romore,
36In freddo deserto la terra si muta.

     Fuggiasco da’ piani che riga il Missuri,
A stirpi più degne serbato retaggio,
     Sonar ne’ suoi boschi d’Europa le scuri
40Intende dappresso l’ignaro Selvaggio.

     Con fauci fumanti, con ala di drago,
Che il fianco ha precinto di folgori e tuoni,
     Ascender rimira pel trepido lago
44Il nero naviglio de’ lesti coloni.

     Superbo dell’arco, l’aratro e la spola
Meschino respinse che industria gli porse;
     Presago di morte, da’ campi s’invola
48Che in vana contesa cacciando trascorse.

     A’ mari mugghianti d’eterne tempeste,
A’ gialli paduli cruccioso discende:
     Sull’erme scogliere che l’alga riveste,
52Di fame a morirvi, raccoglie le tende.

     All’aure frattanto che corrono Irlanda,
La provvida vela discioglie il piloto
     Che un popol di forti che pane domanda,
56All’isole guida dell’Austro remoto.

     Si tolser piangendo dal vecchio abituro,
Dal rustico altare di nevi coperto;
     La fede nel core, negli occhi il futuro,
60Traversan dell’acque l’immenso deserto.

     Pregato conforto ne’ pavidi esigli
L’antico pastore co’ mesti si asside,
     E dice: dovunque Dio pasce i suoi figli;
64Dovunque a’ gagliardi fortuna sorride.

     A’ greppi divelta dell’alpe natale
In rive migliori la pianta si attrista;
     Ma sotto ogni cielo l’errante mortale
68Con vomero e pialla la patria conquista.

     Pel suolo maligno che il pianto dell’uomo
Feconda per l’uomo torpente nel fasto;
     Per l’aer nebbioso, pel sordido pomo,
72Ne’ squallidi inverni miserrimo pasto;

     Un mare n’attende che splendido ondeggia
Fra mille isolette di palme vestite;
     N’attende un terreno che accoglie la greggia,
76Al gelso benigno, benigno alla vite.

     Intatte miniere perenni alimenti
Ministrano al foco: dall’alte pendici
     Rimbomban cadendo non visti torrenti
80Che attendon la rota de’ nostri opifici.

     Le spesse foreste da’ vergini flutti
Eleva il corallo che al mondo, ch’invecchia,
     Nell’ospite letto di pelaghi asciutti
84D’imperi venturi le sedi apparecchia.

     Da’ pingui novali col volger de’ lustri
Io miro i nepoti discendere al lido,
     Che fieri di cento repubbliche industri,
88Pur memori ancora del nordico nido,

     Ritornano al porto con aurei vascelli,
Al porto cui nudi ier demmo il saluto;
     Ne’ fôri vetusti co’ grami fratelli
92Dividon concordi d’un mondo il tributo.

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