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Favola sentimentale
I.
Galatea levò dalle carte que’ suoi freddi occhi verdognoli, ergendosi al fine su la vita esile e lunga, facendo crepitare le dita esili e bianche. Disse, con un respiro:
— Ho finito.
— Grazie, Galatea. Siete stanca? — sussurrò Cesare con quella sua voce fioca, seguitando a voltar le pagine di un gran libro su ’l leggìo.
— Un poco. Mi riposerò.
Ella s’immergeva così nel silenzio: sul fondo di cuoio scuro della spalliera la capellatura cinerea posava dolcemente e un’ombra attenuava la nitida marmoreità del viso. Intorno la biblioteca pareva dormisse un sonno buono e pacifico di vecchio, metteva un alito di cartapecora e di noce antico nell’aria, metteva turbinii di polvere nelle zone di sole.
Da tempo, Cesare e Galatea passavano le ore così, studiando, in una quiete augusta di monastero. Egli era venuto nella villa dello zio materno a cercarvi la solitudine, a sacrificarvi la bella gioventù, i belli amori: a poco a poco tutte le esuberanze, tutte le irrequietezze della sua natura si agguagliavano in una serenità alta e virile, s’illimpidavano in una veggenza felice; il culto dell’arte a poco a poco gli andava infondendo un non so che di spirituale e di sacerdotale anche nell’aspetto. Fu l’opera lenta della consuetudine, fu l’opera di quella luce mite in cui egli viveva, di quel crepuscolo ove li occhi suoi miopi languivano quasi di continuo, ove su la sua faccia i fiori del sangue impallidivano.
Galatea gli era una compagna taciturna e pensosa, un’aiutatrice, una gentile amanuense che non si sperdeva mai tra i labirinti e li arabeschi delle scritture sapienti. Ella cresceva come uno stelo, cresceva nella grande malinconia di quella casa ove ella non aveva mai veduto sorridere la madre...Povera madre morta! Con che lungo sospiro di amore e di dolore Galatea guardava il velo disteso sul ritratto della povera madre morta! Quel ritratto era in una larga stanza nuda, sopra una parete bianca, là, all’estremità della villa: nessun rumore vi giungeva, la luce penetrava a traverso le tende fievole e triste. Quando Galatea varcava la soglia, un filo gelido di terrore l’assaliva, un ribrezzo le strideva per le ossa; le pareva come d’entrare in un sotterraneo; tutto quel candore le dava la sensazione dell’immenso. Pure ella restava là lungo tempo, in ginocchio, a pregare, a pregare, mentre il lembo del velo ondeggiava a ogni alito di vento sopra quell’effigie di cadavere; ella teneva li occhi smarriti nel vano, e nel vano la preghiera si smarriva con un susurro debole di labbra. Lentamente i chiarori del giorno mancavano. Allora nella penombra pareva che l’ondeggiamento si allargasse, ingigantisse; a poco a poco un immane lembo di sudario si stendeva in tutta la stanza con un soffio impuro. Ella ne sentiva il contatto rabbrividendo; ella diveniva diaccia ed immobile come di pietra, restava là fin che non la traevano fuori tutta pallida, tutta tremante.
Ma tornava poi a quell’adorazione cupa e solitaria, ci tornava con impeti di lacrime, chiamando la morta fra i singhiozzi. Ella voleva vederla, vederla una volta, ma viva, ma con la vita nelle pupille, vederla bella e ridente, una volta sola!
— Era bionda; è vero? bionda come me; è vero? chiedeva al padre, sollevando li occhi umidi, tentando fra la tenerezza delle lacrime un lampo di sorriso.
Ella era cresciuta così, nel dolore. Ella aveva in sè qualche cosa di quelle piante bianche, vissute al buio, che sembrano germogliare dal morbo di un corpo umano e ombreggiano della loro tristezza i sepolcri. Il gran sole, la gran luce la fastidivano: ella socchiudeva le lunghe ciglia, ella difendeva dalla ferita que’ poveri occhi infermi. Pure, amava i fiori. Dietro la villa, in un pezzo di terreno, una vegetazione malaticcia e pingue sonnecchiava nell’ombra: erano grosse foglie carnose di un bruno tendente al violetto, cosparse di pelurie come di una muffa; erano ramificazioni nane, ignude, simili a rettili morti o a bruchi enormi; erano lame piatte di un verde pallido, rigate di bianco e macchiate come dorsi di rane. Certi grandi fiori paonazzi si aprivano a coppa, sorgevano da terra su lunghi tubi, senza fogliame; certi calici di un roseo di pelle umana si gonfiavano su li steli contorti; certe bocche di uno scarlatto cupo emettevano stami simili a piccole lingue giallicce. I petali avevano come il viscidume dei funghi, gl’involucri sparsi di cavità erano favi di cera. Qualche tulipano si schiudeva pigramente in una striscia di sole; qualche peonia vinceva co’ larghissimi fiori carichi di carminio; e in torno, nell’autunno, le vitalbe sembravano viluppi di ragni pelosi o mazzi di piume grigiastre. Solo il sambuco odorava dalle ampie antele candide, fresco e mite, là entro. Le farfalle passavano fuggevoli; gruppi di chiocciole andavano qua e là strisciando tra le piante succose, lasciando le righe lucenti.
Galatea amava quel luogo: quella trista plebe di vegetali aveva per lei un incanto; come lei soffriva, come lei pareva inferma. Ella, diritta in mezzo, nell’abito bruno, faceva pensare a un gran fiore solitario. Ella provava allora un sentimento malsano di tenerezza per quelle povere esistenze che languivano senza un’occhiata di sole; ella si accasciava, udiva come un gemito sollevarsi, udiva il gemito delle cose morenti. Perchè nel suo organismo pieno di umori acquei un senso misterioso della morte pareva influisse fin dal giorno natale che fu l’ultimo alla madre.
II.
Ella viveva così, quando Cesare giunse. Da principio provò quasi un disgusto; le pareva che quel giovine venisse a turbarle la quiete alta e gentile della casa, venisse a interromperle la malinconia muta ove ella voleva adagiarsi, ove ella credeva di sentire la presenza invisibile dell’estinta. Ma a poco a poco ella vinse il disgusto, fu buona e cortese. Cesare era dominato lentamente dal silenzio, dal raccoglimento profondo di tutto ciò che lo circondava; e si obliò nell’arte.
Passavano lunghe ore nella biblioteca del vecchio conte. Nella gran sala rettangolare la luce entrava dai vetri opachi dei finestroni, avvivando i fregi d’oro matto su li scaffali di noce, perdendosi nelli angoli. Li stemmi gentilizi intagliati nel legno coronavano la sommità; e nel mezzo della volta cava rosseggiavano i larghi svolazzi di un affresco secentista a fondo di nuvole giallognole. In penombra le file dei libri parevano come una muraglia piena di screpolature, inverdita qua e là dai muschi, chiazzata dalle pioggie, solcata dalle lumache.
Galatea leggeva, o trascriveva; od ascoltava Cesare parlare, con i freddi occhi aperti, abbandonata alla spalliera di cuoio. Pure, tra le ecloghe fragranti e fiorenti di Virgilio e le liriche alate e sospirose del dolce stil novo, il loro idillio non sbocciò.
Galatea non aveva che un austero e verginale sorriso di vestale antica; ella voleva esser tutta del suo mesto dio lare, che la vigilava di sotto al velo funerario.
E una volta sola Cesare sentì le sue fibre di artista vibrare dinanzi a lei. Era un pomeriggio caldo di giugno; ma la biblioteca taceva immersa nella frescura azzurrognola delle tende calate su i vetri.
Egli entrò: la fanciulla dormiva dolcemente nelle pieghe ricche e fluide di una tunica, poggiata il capo alla grande sfera delle costellazioni. La sfera pareva di avorio ingiallito, pareva come un enorme teschio umano intorno a cui strane figure di animali giravano; i capelli di Galatea sciolti ricadevano con riflessi sottili giù per le spalle; ricoprivano le gote; e un nastro aureo di sole traversando la frescura illuminava su’l capo di lei una fila di libri in cartapecora verdastra simile a rame ossidato. Ella aveva cinte le braccia alla sfera; le larghe maniche lasciavano scoperte la carne bianca e diafana che trame di vene fiorivano.
Cesare guardava, pensando alle Norne scandinave e alle vergini merovinghe; quando ella si destò pel ferire del sole e gli sorrise viva dalle iridi ove il fulgore novo e il torpore del sonno e la meraviglia per un istante pugnarono.
— Perchè vi destate, Galatea? Siete così bella nel sonno! — disse egli con un accento ingenuo di ammirazione.
Ella gli sorrise ancora, annodandosi i capelli: la guancia destra era suffusa di vermiglio, dal premere sulla sfera.
Ma quel germe d’idillio rimase chiuso in un sonetto, per sempre, come un fiore o una farfalla nella nitida prigione dell’ambra.
III.
Un giorno il conte, prima del pranzo, annunziò la venuta della baronessa De Rosa, seconda moglie del fratello Federico, reduce dai trionfi estivi di Rimini e di Livorno. Egli mostrò a Cesare una lettera azzurrina stemmata in oro.
— Leggi — disse.
Cesare la prese; e l’odore acuto emanante dal foglio gli mise nell’anima un turbamento strano, gli suscitò come una inquietudine. Pe’l foglio saliva una volata di piccole cicogne bianche, e fra le cicogne i caratteri piccoli e nervosi s’incalzavano in violetto, squisitamente.
— Quando arriverà? — chiese Galatea.
— Domani.
Giunse, in fatti. Ella era una ben giovine zia, una splendida figura di andalusa dalle nerissime iridi piene di desiderii e di misterii.
— Oh, mia bella bionda! oh, mia bella bambola bionda! — esclamava, stringendo fra le braccia Galatea, sconvolgendole i capelli su la fronte, tormentandola di baci.
— E voi, Cesare? Anche voi siete qui, nel castello solitario, paggio, trovatore, cavaliere... come?
E rideva in certi piccoli tintinni di cristalli e di metalli vibranti, piegando il capo in dietro, mentre le gengive rosee le si scoprivano un po’ crudelmente e il petto le sussultava sotto la corazza di raso.
— Non temete gl’incantesimi, Cesare?
Ella era così; parlava con una volubilità petulante e cinguettante, con un adorabile brillìo di erre. Contro li erre l’onda fresca della voce pareva che si frangesse e s’increspasse.
— Sempre qui, sempre qui, Galatea? Non vorrai mai rompere il tuo cerchio magico, dunque? Ve la rapirò, conte, ve la rapirò questa vostra Jolanda dalli occhi pensosi... Ma tu hai proprio due smeraldi per occhi, Galatea! Perchè mi guardi così? Ti piaccio?...
E s’impazientiva nel togliersi i lunghi guanti di camoscio nero che le serravano le braccia fino al gomito.
— Andiamo. Conducimi.
A quell’irrompere improvviso di allegria li echi della sala si svegliavano, le sonorità cupe delle vôlte fremevano: un solco di profumo seguiva il fruscìo di Vinca sopra i pavimenti di mosaico antico, a traverso le stanze piene di legno scolpito e di tappezzerie sfiorenti.
Accanto a quella donna, Galatea prima si sentì sorpresa come da uno stordimento; poi come una irritazione sorda l’assaliva contro quella mobilità nervosa, contro quelle onde acri di odore che a lei davano la nausea, contro quelli scoppî di risa che a lei ferivano i timpani acutamente. Ella avrebbe voluto ribellarsi a certe furie di baci, a certe carezze vivaci, a certe lusinghe svenevoli.
— Bambola bella! — susurrava spesso Vinca, a denti stretti, a labbra aperte, con un piccolo vezzo felino, mentre serrava le tempia della fanciulla tra le palme e se l’attirava alla bocca.
— No; non mi chiamate più così, zia, vi prego — ruppe una volta Galateo, con un lieve tremito d’ira nella voce.
— Bambola bella! — ripetè Vinca. E gittò all’aria una di quelle fresche risate scampanellanti, abbandonata su’l divano con tutta la persona, in un atteggiamento provocatore. Su’l divano il sole, entrando dalla finestra, rinvermigliava i fiorami di seta smorti nel vecchio tessuto di argento: e da quel fondo emergeva il bel corpo femineo chiuso nell’abito di casimiro, avvolto nel pulviscolo dei raggi. Era un quadro di tinte dolci: dalla parete pendeva un arazzo scolorito ove due cavalieri inseguivano una cerva fuggiasca. Vinca rideva; le risa nel sole pareva brillassero. Quando apparve su la soglia Cesare.
— Entrate, dottore, entrate — esclamò la zia, ergendosi e tendendo le mani verso il giovine. — Placate Galatea, per carità!
Ma la fanciulla ora sorrideva sottilmente. Cesare, senza volere, aspirò il profumo fine di violetta che s’insinuava per l’aria, il profumo stesso della lettera con le cicogne; al senso del piacere le narici gli trepidarono. Egli veniva dal tanfo grave dei volumi tarlati, dal silenzio della biblioteca ove il richiamo della risa di Vinca era giunto. Era giunto nel silenzio, mentre egli curvo su le pagine sentiva dalle pagine liberarsi la sana giocondità delle canzoni goliardiche precipitanti con un crosciar vivace di rime latine nella fuga del ritmo.
O! o! totus floreo.
Egli aveva teso l’orecchio; e nell’orecchio gli squillarono per un istante le risa con i chicchiriamenti d’una strofe pazza.
Veni, veni, venias,
ne me mori facias,
hyria hysria nazaza
trilliriuo.
Tutti li ardori e le cupidige della giovinezza parvero ridestarsi d’un tratto nel sangue di lui, come a una musica di battaglia e di vittoria, e rigerminare con nuova violenza. Gli parve di sentire in tutte le membra come un crepitio d’involucri spezzati e di gemme rompenti, sotto la grandine allegra di quelle risa e di que’ ritornelli.
O! o! totus floreo.
Egli scattò in piedi. Quella fredda solitudine l’opprimeva; egli la odiava, quella solitudine...
— Entrate, dottore, entrate — fece la voce cristallina della baronessa.
Con che felice audacia il torso della baronessa si staccava dal vecchio fondo biancastro a fiorami rossi! Dai fini lobi delle orecchie i cerchi d’argento a contrasto del tôno bruno delle gote le pendevano zingarescamente; e su le gote una pelurie lievissima le fioriva, ombreggiando anche il labbro superiore, lievissima.
— Senti, Galatea, bambina; facciamo la pace — sussurrò ella con un accento pieghevole e carezzevole. — Andiamo giù, nel viale; andiamo al sole, con Cesare... Vuoi venire?
— No, zia; lasciami qui. Non posso andare al sole, io — rispose Galatea, sommessa.
— Venite voi, Cesare? — Chiese Vinca al giovine; Cesare le offrì il braccio, inchinandosi.
IV.
S’inoltrarono pe ’l viale delle robinie, soli. Su la coppia era un gialleggiamento floscio di foglie; e un odore di fiori morti esalava dai grappoli flosci, un odore indistinto, nella crescente malinconia.
L’ora non penetrava l’anima di Vinca: ella veniva cantarellando un’arietta di Suppé, con certi ondeggiamenti spavaldi del capo.
— Dio mio, parlate un poco; ditemi de’ versi, fatemi pure de’ madrigali — ruppe ella finalmente. — Ma parlatemi di qualche cosa! volete che ascoltiamo il lamento delle foglie moribonde e le voci del vespro e le avemarie languide, sospirando? Ah!...
Ed ella sospirò, con una grazia adorabile, levando il bianco delli occhi al cielo.
— No, no, signora — fece ridendo Cesare; e nel riso gli si scoprirono le file nitide ed eguali dei denti, sotto i baffi castanei. Egli non era brutto: un pallore gentile gli occupava la faccia, onde le linee irregolari si attenuavano. Su quel pallore i chiari occhi miopi, quasi sempre socchiusi, talvolta si dilatavano smisuratamente e le iridi vinte dalla pupilla parevano talvolta due buchi neri.
— No, no signora zia - ripetè con uno strascico di voce.
— Sentite, nipote, che odore?
— Sento l’odore della violetta - disse Cesare con una dolcezza melodiosa.
Le risa scampanellarono vivamente sotto la tranquilla volta vegetale.
— Ah, nipote; voi avete fatto il primo verso d’un sonetto o un principio di dichiarazione? Che ingenuità audace! Voi cominciate a farmi tremare. Scostatevi.
Ed ella voleva liberarsi dal braccio di lui, con un’aria di canzonatura e di paura; ma Cesare la tenne prigione sotto la stretta.
— Restate, zia. Io sono innocente.
Facevano così, per gioco. Però Cesare, quando nel trattenerla la prese la mano senza guanto, sentì un brivido fine salirgli le ossa; e guardò quella piccola mano dalle dita lunghe, dalle unghie di ónice, che. aveva una emme profonda su la palma.
Dal polso, di sotto ai braccialetti d’oro e d’argento niellato, certe vene verdognole si diramavano perdendosi nel misterio del casimiro, simili a infiltramenti di rame in un pezzo di alabastro.
— Restate, zia.
Erano dinanzi a una grande vasca solitaria. Su le acque inerti galleggiavano chiazze giallastre di putredine e certe foglie rossigne di cuoio si stendevano in greggia presso alli orli erbosi. Nel mezzo, un gruppo di tritoni dalle code di pesce invigilava que’ silenzii che non più lo scroscio delli zampilli rompeva, da tempo: su la vecchia pietra i muschi e i licheni facevano come un manto tigrato; alla base le borracine si allungavano in verdi filamenti.
— Sediamo qui — disse Cesare, scoprendo un pezzo di rude bassorilievo atterrato fra le erbe. Egli si sentiva inquieto, mentre Vinca sedendo lo guardava con i vivi occhi pieni di misericordia.
— Qui, ai miei piedi, o Cesare - ella impose, con un tono scherzevole d’imperio.
— No, mai.
— Qui, ai miei piedi - ripetè.
— Eccomi, Vinca; tu vinci.
Facevano così, per gioco. Ma Cesare co’l capo quasi le toccava i ginocchi; ed ella vedeva la nuca bianca del giovane, una nuca di Antinoo modellata squisitamente.
— Guardate, Cesare, le farfalle che cadono.
Ella indicava le foglie pioventi a una a una su le acque; ella voleva parlare, cominciava a temere il silenzio, cominciava a perdere l’arguzia a poco a poco. Non aveva saputo dire che quella frase, comune e sentimentale in quel luogo, in quel momento.
— Guardate...
Ella respingeva dolcemente i tentativi timidi di carezze che Cesare faceva con le dita malferme su i nastri della veste; e quella timidezza la seduceva. Cesare non guardava le foglie; perchè una piccola scarpa di lei luccicava in mezzo all’erba e su quella pelle iridata egli osservava i leggeri movimenti che Vinca ci metteva a tratti con le dita del piede stretto. E il pallore gli cresceva sul volto, perchè, gualcendo egli uno dei nastri, le dita urtavano a lei un ginocchio.
— Si fa tardi; andiamo - fece la signora alzandosi. Le tremavano le parole.
Ma quando si sentì le gambe avviluppare dalle braccia di Cesare che era rimasto prostrato come uno schiavo e tendeva in alto la faccia smorta ove un conato di riso pugnava co’l brividìo del desiderio,
— Traditore! - sussurrò ella, piegandogli flessuosamente su la bocca.
V.
Tornarono.
— Così presto? - disse Galatea, con un tono crudele d’ironia nella voce, fissandoli con i freddi occhi indovini.
Ella non aveva pregato il dio lare, quel giorno, per la prima volta! Allora che li squilli di Vinca si persero giù per le scale e i passi della coppia su la sabbia del viale si attenuarono, d’un tratto un’angoscia cupa l’aveva invasa, uno sgomento cupo l’aveva oppressa. Fa come un assalto inaspettato, contro cui ella si sentiva debole, contro cui ella si sentiva inerme; fu come il divampare improvviso di un incendio ch’ella portava dentro di sè, da tempo, inconsapevole. Da prima ella non credette, ella non volle credere, non volle penetrare quel sentimento nuovo che la sopraffaceva e la prendeva tutta; ella provò a distendervisi, senza gemere, con un abbandono cieco.
Ma no; ma dal suo cuore, ma dal fondo dell’anima sua l’immagine di Cesare prorompeva, vittoriosamente. — Dunque era vero? Dunque ella lo amava? Dunque ella sarebbe stata infedele alla sua povera morta?
— O mamma! o mamma! - singhiozzò allora, affranta, torcendosi le braccia, nascondendo tra i cuscini la faccia riarsa dalle lacrime.
A poco a poco quel dolore cedette; sorgeva una passione più umana, sorgeva uno strazio più umano. Le risa di Vinca parea vibrassero ancora nella vuota sonorità della volta. Era là Vinca dianzi, abbandonata su quel divano, tutta odorosa e luminosa. Cesare la involgeva tutta del suo sguardo avido: egli non aveva mai avuto quel luccicore nelle pupille, mai. Erano andati soli, nel viale, la giù, sotto li alberi, soli.
Ella si tormentava così, da se stessa; aspettando. — Povera Galatea, come ti sarai tediata! - disse Vinca accarezzandole i capelli, insinuandole fra le ciocche le dita gemmanti di anelli. - Ma tu ardi, Galatea... Sentite, Conte; ha la febbre.
— No, non ho nulla, babbo; nulla.
Ed ella teneva fitti li occhi su Cesare, li occhi ardenti nel mortale pallore del viso. Poi si passò una mano su la fronte: provava uno sfinimento, un affievolimento, per tutto il corpo, un freddo sottile sottile.
— Ho tanto sonno; mi pesa tanto il capo.... Ma la febbre no! Sento che dormirei tanto tanto — sussurrava con una lentezza stanca, socchiudendo le ciglia, come se le venisse meno il respiro. - Dormirei... si... tanto...
Ella si abbandonò su la spalliera: un sopore invincibile le occupava quelle povere vene esauste, le intorbidava la vita.
— Galatea! Galatea!
Le uscì un gemito dalle labbra bianche, come un soffio.
— Galatea!
VI.
Fu un lungo letargo. Quando ella aprì li occhi ove ancora la nebbia del letargo fluttuava vide la testa calva del padre curva su di lei in un muto atteggiamento di timore e di dolore.
— Dov’è Cesare? - gli chiese con una voce che le moriva nella gola.
— Di là, figlia; con Vinca.
Ella richiuse le palpebre, come per affievolire l’intensità della fitta; le parve che le giungesse come un rumore lieve di risa soffocate.
Vinca e Cesare empivano tutta de’ loro amori e delle loro giovinezze la vecchia casa austera; i segreti dei loro amori si nascondevano all’ombra delli arazzi scolorati ove nella rosea lucidità della seta un bel popolo ignudo di ninfe e di cacciatrici aveva fiorito un giorno. Cesare in braccio a quel piacere si abbandonava con tutto l’impeto oblioso delle nature represse; egli se la vedeva sempre dinanzi quella bella e perversa maliarda a cui la gengiva vermiglia si scopriva sempre nel riso e nel sorriso; egli se la vedeva sorgere tra gl’immani candelabri di noce scolpito, tra i seggioloni stemmati, tra li specchi appannati e macchiati, sotto i baldacchini rigati d’oro, sotto le portiere pesanti, in mezzo a tutte quelle cose morte, da per tutto, erta e procace e sfidante.
Galatea sentiva quell’anelito nuovo; col maraviglioso istinto che a lei dava il morbo, aveva indovinato.
— Fammi morire! fammi morire! - ripeteva ella fra i singulti, gittata come uno straccio dinanzi all’effigie della madre, guardando con li occhi stravolti dallo spasimo quel velo muto, là giù, nella stanza lontana. - Fammi morire!
Ma al fine Vinca partì: il marito la voleva. Fu una partenza improvvisa, in una mattina fredda e grigia di ottobre.
— Addio, Galatea. Addio, Conte. Addio, Cesare.
Ella non era triste; ella era solo un po’ pallida, a traverso il velo nero. Baciò Galatea tante volte; tese la mano a Cesare che stava lì ritto senza parlare.
— Ci rivedremo a primavera - gridò ancora affacciando la testa allo sportello della carrozza, agitando le dita. E il trotto dei cavalli si perse pel viale, sotto le robinie che si accasciavano nella grande umidità nebbiosa.
Allora Galatea sentì un sollievo dolce penetrarle a poco a poco nell’anima; sentì li antichi silenzi ridiscendere lenti e solenni a regnare su la casa; sentì co’l sollievo anche uno sfinimento placido ove la sua povera vita si estingueva come sommergendosi. Erano i giorni limpidi e tepidi dell’estate di San Martino; un velo di sopore aleggiava su la campagna godente in quelli ultimi abbracci del sole.
Ella amava ora il sole; ella voleva che i raggi benigni la involgessero tutta come in una veste fluida di oro; ella dava la faccia al calore pieno, chiudendo le palpebre, provando un senso fine di piacere nella gola a quella blandizia.
— Com’è gentile! - diceva ella, sommessa. Cesare, da canto, la guardava con un sorriso pieno di malinconia.
— Cesare... - ruppe ella un giorno al fine; con un impeto, tendendogli le scarne braccia. Ma tacque poi; ricadde nella muta stanchezza donde invano tentava di sorgere. Il petto esile aveva un alenare fioco, sotto le pieghe della tunica.
Ella salì all’organo che dormiva, da tempo, in un angolo della biblioteca. Cesare tirava i mantici polverosi: i mantici ansavano con un respiro ampio di gigante umano, nel silenzio, suscitando le anime dei suoni entro le lunghe canne metalliche. Galatea ricordava su i tasti un’armonia di Bach, incertamente.
Nella biblioteca, dai finestroni aperti, entravano zone vive di luce. Le file dei libri, a quella irruzione insolita, rivivevano, gittavano anch’esse le loro note deboli dai curvi dossi tarlati. Era tutta una gamma di colori: li Annali di Baronio e di Raynaldo nella cartapecora verdognola prendevano riflessi dubbii di bronzo antico; li Acta sanctorum gialleggiavano e biancicavano in una tinta di tonache domenicane, occupando quasi intero uno scaffale altissimo; in quel biancicore Strykius faceva una macchia vivace di azzurro e il piccolo Fréret vibrava quasi uno sprazzo audace di scarlatto. Erano poi toni scialbi e varii di tappezzerie usate; erano vecchiumi di cuoio, chiazze di un rossastro di ruggine, di un violaceo livido, di un arancio sbiadito. Ma il sole avvivava quei toni, destava luccichii nuovi nell’oro morto, infondeva un aria di giovinezza a quelle carte che la polvere e la muffa di tanti lustri copriva.
Dalle canne dell’organo li accordi di Bach si spandevano pe’l vano timidamente; sotto le dita diafane di Galatea i tasti cedevano appena. Ella sentiva il fremito sonoro correrle pe’ i nervi con un senso quasi di dolore; ella si sentiva mancare il respiro.
— Cesare - mormorò con un filo di voce, abbandonata su la spalliera, vinta dallo stesso mortale sopore di quella volta.
E, come tese le braccia, esalò al fine l’anìmula blandula in un sospiro.