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Il libro delle vergini Favola sentimentale




Le Vergini





I.

Il viatico uscì dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le strade era la primizia della neve, su tutte le case era la neve. Ma in alto grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si dilatavano su ’l palazzo di Brina lentamente, s’illuminavano verso la Bandiera. E nell’aria bianca, su ’l paese bianco appariva ora subitamente letificante il miracolo del sole.

Il viatico s’incamminava alla casa di Giuliana: la gente si fermava a veder passare il prete incedente a capo nudo, con la stola violacea, sotto l’ampio ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai clerici accese. La campanella squillava limpidamente accompagnando i salmi sussurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli al passaggio; Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all’angolo della piazza e si scoprì la calvizie inchinandosi. Si spandeva in quel punto dal forno di Flajano nell’aria l’odore caldo e sano del pane recente, quell’odore che éccita il palato.

Nella casa dell’inferma li astanti udirono li squilli, e udirono su per le scale il salire dei vegnenti. Giuliana era su ’l letto, supina, tenuta dallo stupore della febbre, da una sonnolenza inerte, con la respirazione frequente rotta da i rantoli. Su ’l candore del guanciale posava la testa quasi nuda di capelli, la faccia d’un colore quasi ceruleo ove le palpebre erano semichiuse sopra li occhi vischiosi e le narici parevano annerite dal fumo. Ella aveva nelle mani scarnificate certi piccoli moti inconscienti, certi vaghi conati di prendere qualche cosa nel vuoto, certi strani segni improvvisi che davano come un senso di terrore a chi stava da presso; e nelle braccia pallide si producevano a volte certe contrazioni di fasci muscolari, i sussulti dei tendini; e a volte un balbettamento inintelligibile le usciva dalle labbra, come se le parole le si impigliassero nella fuligine della lingua, nel muco tenace delle gengive.

Nella stanza si faceva quel silenzio tragico che suole precedere li avvenimenti supremi, un silenzio dove il respiro dell’inferma e i gesticolamenti incerti e le irruzioni rauche della tosse bronchiale acquistavano una specie di solennità fúnebre. Dalle finestre aperte entrava l’aria pura ed uscivano le esalazioni della malattia. Un vivo bagliore bianco si rinfrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell’arco di Portanova: una efflorescenza cristallina di ghiaccioli scintillava d’iridi all’altezza della stanza. Nell’interno, su le pareti, pendevano grandi medaglie sacre d’ottone; pendevano imagini di santi. Sotto un vetro una Madonna di Loreto tutta nera il volto il seno le braccia, come un idolo barbarico, emergeva glorificata dalla veste d’oro ove le mezze lune salivano. In un angolo, un piccolo altare candido sorgeva con un vecchio Gesù di avorio su una croce intarsiata di madreperla, con due boccali turchini di Castelli pieni d’erbe aromatiche.

Camilla, la sorella, l’unica parente, al letto, pallidissima, tergeva le labbra nerastre e i denti incrostati dell’inferma con un lino umido di aceto. Don Vincenzo Bucci, il medico, seduto, guardava il pomo d’argento della bella mazza, le belle corniole incise ch’egli aveva nelli anelli delle dita, aspettando. Teodora La Jece, una tessitrice vicina, stava ritta, in silenzio, tutta intenta nell’atteggiare la faccia bianca e lentigginosa, li occhi grigi di piombo, la bocca crudele al dolore.

Pax huic domui — disse il prete entrando.

Apparve su l’uscio Don Gennaro Tierno, una figura altissima e smilza, tutta ad angoli, avente talora i movimenti di un bruco che si snodi, poggiata su piedi enormi. Veniva dietro di lui Rosa Catena, una femmina che avea fatto publica professione d’impudicizia al suo tempo verde e che ora si salvava l’anima assistendo i moribondi, lavando i cadaveri, vestendoli e accomodandoli nella bara, senza prender mercede.

Nella stanza di Giuliana tutti erano in ginocchio, chini la faccia. L’inferma non udiva; una stupefazione intensa le teneva ancora i sensi. E l’aspersorio si levò su di lei, lucido nell’aria, aspergendo il letto.

Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor...

Ma Giuliana non sentì l’onda purificatrice che la rendeva più bianca della neve innanzi al suo Signore.

Ella stirava d’avanti a sè con le dita fragili le coperte, aveva un moto tremulo nelle labbra, nella gola il gorgoglio della parola che ella non poteva profferire.

Exaudi nos, domine sancte...

Allora uno scoppio di pianto risonò fra le parole latine, e Camilla nascose su la sponda del letto la faccia rigata di lacrime. Il medico s’era accostato e teneva fra le dita inanellate il polso di Giuliana. Egli voleva scuoterla, apprestarla a ricevere il Sacramento dalle mani del sacerdote di Gesù Cristo, fare che ella porgesse la lingua all’ostia.

Giuliana balbettò, gesticolò ancora vagamente nel vuoto, mentre la sollevavano su i guanciali. Ella doveva sentire un tintinnio nei nervi dell’orecchio perturbati, forse delle grida, forse una musica. Come fu sollevata, subitamente il rossore livido della faccia si mutò in un pallore di cadavere; la vescica di ghiaccio cadde dalla testa su’l lenzuolo.

Misereatur...

Porse ella finalmente la lingua tremante, coperta d’una crosta mista di muco e di sangue nerastro, dove l’ostia vergine si posò.

Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi...

Ma ella non ritirò la lingua a quel contatto, perchè non aveva conscienza di quel che faceva: lo stupidimento non era rotto dal lume dell’Eucaristia. Camilla guardava con li occhi rossi pieni di terrore e di dolore quella faccia terrea dove ogni segno di vita mancava a poco a poco, quella bocca aperta che pareva la bocca di uno strangolato. Il prete seguitava, nella solennità del suo ministerio, le preghiere latine lentamente. Tutti li altri rimanevano genuflessi, sotto il diffuso albore che fuori dalla neve suscitava il meriggio. Un buffo d’odore di pane caldo salì col vento e fece fremere le papille del naso ai clerici.

Oremus!...

Alli eccitamenti del medico Giuliana richiuse le labbra. La riadagiarono supina; poichè il prete entrava nel sacramento dell’Estrema Unzione. Dai clerici genuflessi suonava sommessamente l’antifona dei sette Salmi penitenziali.

Ne reminiscaris.

Teodora La Jece metteva di tratto in tratto un singulto soffocato, coperta il volto con le palme, a’ piedi del letto. Rosa Catena stava ritta, a canto, con un occhio semichiuso da cui le colava di continuo un liquido giallognolo e con l’altro occhio cieco e bianco per un’albùgine; scorreva un rosario, mormorando. E mentre i Salmi sommessamente dal pavimento si elevavano, su quel mormorìo confuso dominava la formula sacra del prete ungente in croce li occhi, li orecchi, le narici, la bocca, le mani dell’inferma inerte.

— .... indulgeat tibi Dominus quidquid per gressum deliquisti. Amen.

Camilla che scoperse i piedi della sorella: apparvero tra le coperte due piedi gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano un ribrezzo di membra morte. E su quella pelle secca le lacrime caddero, si mescolarono con l’unzione estrema.

— Kyrie eleison. Christe eleison. Kyrie eleison. Pater noster....

L’unta del Signore stava ora immobile, respirando, con li occhi chiusi dinanzi alla luce, con le ginocchia sollevate e le mani strette fra le cosce, in quell’atteggiamento abituale alli ammalati di tifo. E il prete, poi ch’ebbe premuto su le labbra di lei per l’ultima volta il crocefisso, fatto il segno della croce alto in mezzo alla stanza con la gran mano, uscì seguito dai clerici. Vagava ancora nella stanza quell’odore svanito d’incenso e di cera che hanno le vesti sacerdotali. Fuori, sotto le finestre Matteo Puriello martellava le suola, canticchiando.


II.


I segni del male declinavano lentamente in favore: succedeva ora il quarto settenario, succedeva al sopore stupido la quiete naturale del sonno, una quiete durevole in cui a poco a poco tutte le perturbazioni della conscienza si sedavano e le facoltà del senso si facevano meno torbide e la frequenza della respirazione diminuiva. Ma una tosse aspra scoppiava a tratti nel petto dell’inferma facendo sussultare le vertebre; una distruzione dolorosa della pelle e dei tessuti molli si compiva ai gomiti, alle ginocchia, all’estremità della schiena, di giorno in giorno. Quando Camilla si chinava su’l letto chiamando: — Giuliana! — la sorella tentava aprire li occhi, volgersi verso la voce. Ma la debolezza la opprimeva; lo stupore torpido le occupava di nuovo il senso.

Ella aveva fame, ella aveva fame. Una bramosìa bestiale di cibo le torturava le viscere vuote, le dava alla bocca quel movimento vago delle mandibole chiedenti qualche cosa da masticare, le dava talvolta alle povere ossa delle mani quelle contrazioni prensili che hanno le dita delle scimmie golose alla vista del pomo. Era la fame canina della convalescenza del tifo, quella terribile avidità di nutrimento vitale in tutte le cellule del corpo impoverite dal lungo malore. Una scarsa onda di sangue restava a pena circolante pei tessuti; nel cervello debolmente irrigato ogni attività ristagnava come in una machina a cui la forza motrice del liquido difetti. Soltanto, in quella materia disordinatamente ora si producevano certe vibrazioni determinanti certi atti che nella vita anteriore erano abituali; nè di quel lavorìo meccanico aveva la convalescente conscienza. Ella per lo più diceva ad alta voce le letanie; divideva in sillabe parole senza nesso; minacciava punizioni a discepoli; cantava le strofe quinarie di un inno a Gesù. Aveva per lo più nell’indice della mano sinistra un moto di indicazione scorrente su l’orlo del lenzuolo, come se ella con quel segno guidasse l’occhio dei discepoli su le righe del libro. Poi, talvolta, la sua voce si sollevava, prendeva una solennità quasi minacciosa, pronunciando le ammonizioni delle sette trombe, ricordando confusamente le parole di fra Bartolomeo da Saluzzo ai peccatori, avendo forse nelli occhi stupefatti la visione di quelle vecchie stampe impresse dal legno piene di deformi angeli tubanti e di demonii debellati. Ma nelli occhi non mai aveva uno sguardo. Le palpebre pesanti coprivano l’iride a metà, quell’iride senza colore spersa nella sclerotica che pareva come velata da un muco giallastro. Ella stava nel suo letto distesa, con il capo su due guanciali. Quasi tutti i capelli le erano caduti nella malattia; un pallor terreo, di quei pallori sotto cui pare non anche possa rimanere la vita, le occupava la faccia, le cavità della faccia; e il teschio ne traspariva e da tutta la restante aridezza della pelle lo scheletro traspariva, e intorno a tutto quell’ossame nei punti di pressione sul letto i tessuti aderenti degeneravano. Solo, un’immensa fame animava quella rovina, torturava gl’intestini ove le ulceri tifose si cicatrizzavano lentamente.

Fuori, era la novena di Natale, la bella festività de’ vecchi e de’ fanciulli. Erano certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il paese di Pescara si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle zampogne. L’odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell’aria dalle cantine aperte. Lentamente alle finestre, alle porte, nelle vie i lumi apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della casa di Farina, sui comignoli della casa di Memma, su ’l campanile di San Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari su’l paese occupato dall’ombra. Poi, d’un tratto la notte cominciava a constellare i firmamenti; sopra le case di Sant’Agostino una mezza luna si affacciava dal bastione tra il fanale rosso e il pino del telegrafo, crescendo.

Alla stanza di Giuliana tutta quell’animazione di vita saliva in un romorìo confuso di alveare che si sveglia.

Le pastorali delle zampogne si avvicinavano, di casa in casa, di porta in porta; avevano una religiosa e famigliare letizia quei suoni che i ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di canne forate. La convalescente udiva, si sollevava su’l letto; poichè quella sensazione le ridestava i fantasmi di altre sensazioni trascorse, e li occhi le si empivano tutti di visione sacra, di presepi raggianti e di bianchi peregrinaggi d’angeli in azzurri immacolati. Ella si metteva a cantare le laudi, tendendo le braccia, restando talvolta con la bocca aperta mentre la voce nelli organi le mancava; ella si metteva a laudare Gesù con una elevazione ardente e dolce di amore, trasportata dai suoni delle pastorali appresantisi, allucinata dalle imagini sante delle pareti. Ascendeva ai cieli, tra le musiche dei cherubini, tra i vapori della mirra e dell’incenso.

Hosanna!

La voce le mancava; ella tendeva le braccia. Camilla, da presso, voleva riadagiarla su i guanciali; si sentiva come soggiogare da quel cieco entusiasmo di fede; le tremavano le mani, le labbra. Giuliana ricadeva stesa, con il capo abbandonato, scoperta la gola e il petto, mostrando delli occhi solo il bianco nel gran pallore, sorridente a qualche cosa invisibile, in un atteggiamento di vergine martire. Le zampogne passavano; tardi passavano le canzoni del vino gridate dai marinari nella notte tornanti alle barche della Pescara.


III.


L’istinto della fame si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva la conscienza. Quando dal forno di Flajano saliva nell’aria l’odore caldo del pane, Giuliana chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava rapidamente, con un godimento brutale di tutto l’essere, guardando d’intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le mani il cibo, in sospetto.

La convalescenza era lunga e lenta; ma già un senso mite di sollievo cominciava a spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella sana nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si produceva: i pulmoni dilatati ora largamente dall’aria vivificavano il sangue carico di sostanze; e i tessuti irrigati dall’onda tiepida e rapida si colorivano ricomponendosi, si rinnovellavano nelle piaghe di decubito, si ricoprivano di cute a poco a poco; e le attività cerebrali a quell’affluire operavano sicure; e le innervazioni nelli organi sensorii non più perturbate rendevano limpida la sensazione; e su ’l cranio i bulbi capilliferi rigermogliavano densi; e da quel riordinamento delle leggi meccaniche della vita, da quel dispiegarsi di energie prima latenti che la malattia aveva provocate, da quella intensa brama che la convalescente aveva di vivere e di sentirsi vivere, da tutto, lentamente, quasi in una seconda nascita, una creatura migliore sorgeva.

Erano i giorni primi di febbraio.

Dal suo letto Giuliana vedeva la sommità dell’arco di Portanova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l’erbe, i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant’Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano. Il cielo sopra si apriva in una gentile beatitudine di colore; e per l’aria a tratti giungevano dall’arsenale li squilli delle fanfare.

Fu allora che, quasi con un senso di meraviglia, ella riandò l’esistenza trascorsa. Le pareva quasi che quel passato non le appartenesse, non fosse suo: una lontananza smisurata ora la divideva da quei ricordi, una lontananza come di sogno. Ella non aveva più la valutazione sicura del tempo; ella doveva guardare li oggetti che la circondavano, fare uno sforzo della mente, raccogliersi a lungo, per ricordare. Si toccava con le dita le tempia dove i capelli rigerminavano tenui, e un sorriso vago di smemorata le sfiorava le labbra pallide, le fuggiva nelli occhi.

— Ah! — susurrò fioca; e il gesto delle dita alle tempia le ritornava, gentilmente.

Era stata una vita triste ed uguale, in quelle tre stanze, fra tutte quelle piccole statue deformi di Santi, fra tutte quelle imagini di Madonne, fra tutti quei bimbi compitanti in coro ad alta voce per cinque ore del giorno le medesime parole scritte col gesso su la lavagna. Come le martiri gloriose della leggenda, come Santa Tecla di Licaonia e Santa Eufemia di Calcedonia, le due sorelle avevano consacrata la loro verginità allo Sposo celeste, al talamo di Gesù. Avevano mortificata la carne a furia di privazioni e di preghiere, respirando l’aria della chiesa, l’incenso e l’odore delle candele ardenti, cibandosi di legumi.

Avevano stupefatto lo spirito in quell’esercizio arido e lungo di sillabazione, in quel freddo distillio di parole, in quell’opera macchinale dell’ago e del filo su le eterne tele bianche odoranti di spigo e di santità. Mai le loro mani cercarono la dolcezza delle chiome infantili, il tepore di quel biondo così angelico dell’infanzia; mai le loro labbra cercarono la fronte dei discepoli, in una effusione di tenerezza improvvisa. Insegnavano la piccola dottrina, i piccoli canti della religione; facevano prostrare tutte quelle teste gioconde lungamente sotto le ammonizioni quaresimali; parlavano del peccato, delli orrori del peccato, delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei grandi occhi si empivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si aprivano allo stupore. Intorno, per le fantasie vive dei fanciulli le cose si animavano: dal fondo dei vecchi quadri uscivano certi profili giallognoli di santi misteriosi; e il Nazareno cinto di spine e di stille di sangue guardava da ogni parte con li occhi agonizzanti, perseguitando; e su per la gran cappa del camino ogni macchia di fumo prendeva una forma atroce. Così infondevano esse la fede in quelle anime inconsapevoli.

Ora il ricordo di quella sterilità si destò in Giuliana torbidamente. Ella risaliva, risaliva alli anni più lontani, per una naturale tendenza dello spirito, si rifugiava alle fonti; e una pienezza improvvisa di giubilo la inondò come se in un momento tutta la sua infanzia le rifluisse al cuore.

— Camilla! Camilla! — chiamò. — Dove sei? — La sorella non rispose, non stava nell’altra stanza; era forse andata giù, nella chiesa, al vespro. Allora una tentazione prese la convalescente, di mettere i piedi a terra, di provare i passi su’l pavimento, così, sola.

Rideva d’un riso timido di bambina che esiti in un’impresa difficile; socchiudeva li occhi soffermandosi nel nuovo diletto di quel pensiero; palpava con le dita le ginocchia, le caviglie esili, raccogliendosi, come per misurare la forza; e rideva, rideva poichè il riso le insinuava uno sfinimento dolce, una sottile delizia vibrante, in tutto l’essere.

Una freccia di sole strisciava sul davanzale e feriva l’acqua di un bacile in un angolo: il riflesso mobile veniva nella parete, come una fine trama di oro. Uno stuolo di colombi attraversò lo spazio e venne a posare su l’arco; parve un augurio. Ella pianamente scansò le coperte, ebbe ancora un’esitazione: seduta su la sponda del letto cercava con la punta del piede scarno e giallo la pianella di lana. La trovò, trovò l’altra; ma ora una tenerezza l’assaliva e le si empivano di lacrime li occhi, e tutto tremolava dinanzi a lei in un albore indistinto come se le cose in torno si facessero aeree ed evanissero. Le lacrime le rigavano le guance, le si fermavano alla bocca tiepide e salse: ella ne bevve alcune, ne sentì il sapore. Fuori, dall’arco i colombi a uno, a due si rialzavano, frullando. Giuliana con un moto delle fauci respinse il gruppo del pianto; poi si poggiò sulla sponda, premette, si alzò finalmente in piedi; sorrise dalli occhi umidi, guardandosi. Non sapeva di essere così debole, di non potersi così reggere diritta su le gambe; aveva una strana sensazione di formicolio nelli stinchi, di vellicamento nei muscoli, quasi la sensazione d’un ferito che si levi quando l’osso infranto non anche è bene saldato. Tentò di muovere un passo, avanzò il piede, timidamente: ebbe paura, sedette di nuovo su la sponda, guardandosi in torno come per assicurarsi che non la spiava alcuno. Poi cercò un punto di meta, la finestra; e ricominciò, pianamente, con li occhi fissi sul piede che avanzava, in equilibrio, stringendosi lo scialle verde al petto, invasa un poco dal freddo. Un subitaneo spavento la prese, a mezzo: ella barcollò, agitò le mani, si rivolse verso il letto, mise tre o quattro passi precipitosi, ricadde su la sponda. Stette un momento là, in affanno; rientrò sotto le coperte dove ancora restava il tepore, s’avvolse e si raccolse rabbrividendo.

— Come sono debole, Signore!...

E guardava curiosa su’l pavimento il luogo dove ella aveva fatto i passi, quasi vi cercasse le orme.


IV.


Di questo primo tentativo non disse nulla alla sorella. Quando sentì Camilla rientrare, chiuse li occhi, stette immobile come una dormiente, provando uno strano piacere in sè di quell’inganno, ricacciando a forza indietro il riso che la vellicava a sommo del petto e le saliva alle labbra. Ella gioiva di quel piccolo segreto: tutti i giorni aspettava con un desiderio inquieto l’ora in cui Camilla scendeva le scale; restava un momento in ascolto, seduta su’l letto, fin che giungeva il rumore del lento discendere; poi si levava, soffocando li scoppi di riso, appoggiandosi alle pareti, ai mobili, mettendo gridi di paura sommessi ogni volta che le ginocchia minacciavano di piegarsi, ogni volta che l’equilibrio mancava.

Dal forno di Flaiano a quell’ora saliva quasi sempre l’odore del pane ad irritarla. Ella si avvicinava alla finestra per cercare il vento; provava una tortura mista di voluttà nell’aspirare quella emanazione sana, con la lingua nuotante nell’acquolina e li occhi vivi di cupidigia. Allora la prendeva una furia di frugare da per tutto, di mettere da per tutto le mani, traendosi di quà di là con minore lentezza, facendo sforzi inutili e irosi su le serrature di cui Camilla aveva portate seco le chiavi. Una volta, in fondo al repostiglio di un tavolino trovò una mela e ci ficcò i denti golosamente. Da tempo, nel regime severo della convalescenza, ella non assaporava un frutto. In quello era un fresco profumo di rosa, il profumo accolto che certe mele aggrinziti e scolorite hanno. Cercò di nuovo nel repostiglio, sperando; ma non trovò che una specie di siliqua verdognola, chiusa, che doveva contenere forse un gruppo di semi; e la prese, la guardò curiosamente, la nascose sotto il guanciale.

Passava quell’ora, in segreto, con il godimento acre che danno ai fanciulli in guarigione le cose proibite, le infrazioni delli ordini dottorali, i piccoli furti. Solo testimone era un micio, tutto maculato come una pelle di serpente, che girava talvolta intorno a Giuliana con un miagolìo familiare o si fermava teso invano a ghermire se fuori volavano su l’arco i colombi. A poco a poco Giuliana prendeva amore a quel compagno discreto. Ella lo accoglieva nel tepore del letto, gli sussurrava parole senza nesso, lo guardava lungamente leccarsi con la lingua rosea la zampa, porgere la gola di lucertola alla blandizia, una gola gialliccia che palpitava d’un suono rauco e dolce simile al tubare delle tortore nei boschi. Ella, forse per un naturale ricorso di quel suo misticismo anteriore, amava i bagliori tralucenti dalli occhi dell’animale nella penombra, quelli sprazzi di fosforo, che emanavano da una forma misteriosa e silenziosa nella penombra.

Camilla vedeva tutte queste strane predilezioni della sorella, con una specie di diffidenza ed anche di rammarico sordo, ma taceva. E lentamente, quasi insensibilmente, quelle due anime si distaccavano, si allontanavano per repulsa.

Erano prima vissute in una comunione di abitudini e di sentimenti continua, perchè in loro ogni diversità d’indole e ogni insorgimento si agguagliava e placava nell’unica fede, nel culto infrangibile della deità di Cristo, in quel contemplamento ch’era divenuto lo scopo della vita loro. Ma come il culto le assorbiva intere, in loro i legami della consanguineità a poco a poco erano stati, direi quasi, coperti e sopraffatti da quelli della comune religione; quindi non mai una espansione di tenerezza, non mai un abbandono di confidenza o di ricordi o di speranze, come tra sorelle. Erano correligionarie, erano membri della grande famiglia di Gesù spersi su la terra e agognanti il cielo.

Così che a pena, per la rinnovazione operata prima dalla malattia e dopo dal regime, in Giuliana si manifestarono inaspettati atteggiamenti d’indole e modi inconsueti, la repulsa avvenne inevitabile e la voce del comun sangue sopita non si potè levare a contrasto.


V.


I discepoli tornarono: fu la prima volta una mattina del marzo nascente. Giuliana s’era levata dal letto; stava seduta su la sponda, col calore del sole alla nuca ed alli omeri. Nella stanza si sentiva l’odore agro dell’aceto che Camilla aveva versato nei calamai muffiti; e dalle finestre raramente il vento recava li effluvii delle viole già fiorite su l’arco.

Fu allora una irruzione d’infanzia nella stanza. Fu prima sull’uscio un sospingersi tumultuoso di piccole teste che volevano sollevarsi le une su le altre per vedere; poi una esitazione, una timidità, una specie di meraviglia ingenua dinanzi alla maestra pallida pallida e scarna che i discepoli riconoscevano a pena.

Ma Giuliana sorrideva, sotto un turbamento improvviso di tutto il suo sangue; Giuliana li chiamava a sè, confondeva i loro nomi che le si affollavano alle labbra, tendeva loro le mani. A uno, a due, a tre, i bimbi si avanzavano, volevano prenderle le mani per metterci la bocca sopra, ridicevano le parole di augurio imparate a casa, ingoiando per la furia le sillabe.

— No, no, non più! — esclamava Giuliana, sopraffatta, ma abbandonando le mani a quelle bocche tiepide e molli. Si sentiva quasi mancare.

— Camilla, tienili, tienili.

Ogni bimbo recava un dono: erano fiori, erano frutta. Le violette avevano subito sparso il profumo nell’aria, e in quel profumo, in quella luce tutte quelle faccie infantili invermigliate dal buon sangue plebeo sorridevano.

Poi la scuola, nell’altra stanza, cominciò. La prima classe diceva a voce alta le vocali e i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro chiarissimo a tratti si levava l’ammonimento di Camilla.

La, le, li, lo, lu...

Nelli intervalli di silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le suola o il telaio della Jece sbattere.

Va, ve, vi, vo, vu...

Allora il fastidio oppresse Giuliana. La monotonia de’ rumori e delle voci le dava al capo una pesantezza ingrata, le conciliava il sonno, mentre ella voleva essere desta, mentre ella sentiva ancora intorno a sè la respirazione dei fanciulli, il soffio giocondo di quelle vite.

Bal, bel, bil, bol, bul...

Prese i fiori, li mise in un bicchiere pieno d’acqua per conservarli. Li fiutò poi lungamente, stette con le narici tra quel fresco, chiudendo li occhi, raccogliendosi tutta in quel peccato d’olfatto.

Gra, gre, gri, gro, gru...

Una gran nuvola bianca velò il sole. Giuliana si accostò alla finestra, si sporse al davanzale per guardar giù nella piazza. Di fronte, Donna Fermina Memma in una roba rosata stava su ’l balcone, tra i vasi dei garofani; e un gruppo di ufiziali passava sotto a lei ridendo e facendo un tintinnio di sciabole su ’l lastrico. Più in là, nel giardino publico le piante di lilla erano su ’l fiorire, la punta del gigantesco pino si piegava al vento. Dalla cantina di Lucitino usciva Verdura, l’eterno ubriaco, barcollando e vociferando.

Giuliana si ritrasse: era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava su la piazza. Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la prese una leggera vertigine.

Nar, ner, nir, nor, nur...

Il coro dentro seguitava, ancora, ancora, ancora.

Pla, ple, pli, plo, plu...

Giuliana si sentiva soffocare, venir meno, a quella tortura: i suoi poveri nervi indeboliti cedevano. Il coro seguitava, al ritmo della bacchetta di Camilla battuta su ’l tavolino, implacabile.

Ram, rem, rim, rom, rum...

Sat, set, sit, sot, sut...

Allora un impeto subitaneo di singhiozzi squassò Giuliana, l’abbattè su ’l letto. Ella singhiozzava, bocconi, a braccia aperte, premendo la faccia su i guanciali, scossa dai sussulti, senza potersi frenare.

Tal, tel, til, tol, tul...


VI.


Le erano ricresciuti tutti i capelli, crespi e castanei, come prima. Ella aveva ora una curiosità grande di guardarsi nello specchio; perchè Rosa Catena, con uno di quei lezii che sempre svelavano in lei l’ antica femmina impudica, passandole la mano su ’l corpo le aveva detto: — Bellezza!

Aspettò dunque che Camilla uscisse; poi scese dal letto, staccò dalla parete uno di quelli specchi rococò a cornice d’oro appannati di macchie verdi; con un lembo della coperta tolse la polvere e si guardò dentro, sorridendo. Ella aveva tutto il collo nudo e pe ’l collo certe vene azzurrognole quasi in rilievo, e nella testa piccola e lunga qualche cosa di caprino, la bocca fine, il mento acuto, li occhi castanei come i capelli, ma più tendenti al giallo. Il pallore trasparente e il sorriso davano una grazia nuova, una nuova giovinezza ai suoi ventisette anni.

Ella restò a guardarsi a lungo; e godeva allontanare lentamente lo specchio e veder sparire l’imagine in quella luce un po’ glauca come in un velo d’acqua marina, e quindi riemergere. La vanità la conquistava, la occupava. Ella si accorse di tante piccole cose a cui prima non aveva badato mai; per esempio, di un neo simile a una lenticchia, che le macchiava la pelle su la tempia sinistra, e di una cicatrice leggera che le attraversava l’ arco di un sopracciglio. Restò a lungo. Poi, assalita da una gioia repentina cercò in torno un diletto.

Quella capsula vegetale, ch’ella aveva trovato in fondo a un repostiglio, s’era aperta come in due valve scoprendo un grappolo denso di semi nerastri. Ogni seme pareva legato a filamenti sottilissimi d’una lucidità argentea; e il grappolo si manteneva compatto. Ma a pena Giuliana vi mise un soffio, un nuvolo di piumoline bianche si levò nell’aria e si sparpagliò qua e là brillando: erano le spie. I semi parevano alati, parevano insetti ésili ed evanescenti che si dissolvessero incontrando i raggi del sole o parevano lanugini di cigno a pena visibili; ondeggiavano, ricadevano, si mescolavano ai capelli di Giuliana, le sfioravano la faccia, la coprivano tutta. Ella rideva, difendendosi da quell’invasione, cercando di scacciare quella pelurie che le vellicava la pelle e le si attaccava alle mani; ma le risa le impedivano i soffii.

Alla fine si distese lunga su ’l letto, lasciò che tutta quella molle nevicata le scendesse sopra lentamente. Teneva li occhi semichiusi per prolungare la dolcezza; e a mano a mano che il sopore la invadeva, si sentiva come sommergere in un giaciglio alto di piume. La luce che entrava nella stanza era una di quelle pallide chiarità pomeridiane del mese di marzo, ove la rosea letizia solare ride modestamente estinguendosi come un indizio di aurora in un gran cielo albeggiante.

Camilla trovò la sorella ancora addormentata con accanto lo specchio, con ne’ capelli le spie.

— Oh, Signore Gesù! oh Signore Gesù! — mormorò tra i denti, congiungendo le mani, in atto di compassione amara.

La cristiana veniva dalla chiesa, dove aveva cantate le litanie per l’Annunciazione e aveva ascoltata la predica su’l messaggio dell’Arcangelo all’ancella di Dio. Ecce ancilla domini. L’eloquenza sonora del frate predicante l’aveva inebriata; le restavano ancora nelli orecchi certe parole ammonitrici.

Giuliana si destava in quel momento con un lungo sbadiglio voluttuoso, e stirava le membra.

— Ah! sei tu, Camilla? — disse ella un po’ confusa di quella presenza.

— Sono io, sono io! tu ti perderai, sciagurata, tu ti perderai — irruppe la devota, additando lo specchio su ’l letto. - Tu hai tra le mani lo strumento del demonio...

Ed eccitata dalla prima irruzione, ella seguitava, sollevava la voce, gittava le frasi ardenti della predica con de’ grandi gesti nell’aria, incalzava nelle minacce dei castighi eterni, non si rivolgeva soltanto a Giuliana, assorgeva ad ammonire l’universo dei peccatori.

Memento! memento!

Giuliana non intendeva più nulla poichè tutta quella vociferazione l’avena stordita.

D’un tratto dall’angolo della piazza scoppiò la fanfara militare in uno squillo di venti trombe.


VII.


L’ultima stanza della casa era stretta e bassa, con le travi del soffitto annerite dal fumo, piena d’un lezzo di cipolle, di rigovernatura e di carbone spento. I vasi di rame pendevano alla parete in ordine, senza luccichìo; i piatti di Castelli stavano in ordine su la mensola con le loro gioconde pitture di fiori, di uccelli e di teste d’uomini; le antiche lucerne di ottone, le bottiglie vuote, le foglie di erbaggio non più fresche erano sparpagliate per le tavole; e su tutto dominava proteggitore San Vincenzo effigiato con il gran libro in una mano e la fiamma rossa in mezzo al cranio.

Là, nel vecchio tempo, Giuliana stando in mezzo ai vapori dell’acqua bollente e alle esalazioni dei cibi vegetali, spesso aveva sentito giungersi su’l capo dalla piccola finestra alta i ritornelli d’una canzone libertina e certi larghi schiamazzi di risa che s’inseguivano. I canti e le risa crescevano nelle sere di estate, tra i passagalli delle chitarre, fra li urti della danza su’l terreno. Tutti i romori della vita d’una suburra infima salivano, in certe ore, a quella altezza e facevano tremare d’orrore le povere spose di Gesù chine in umiltà su i tegami d’argilla pieni dell’eremitica innocenza dei legumi e delle verdure. Ma ora, al novel tempo e gaio, come un giorno udì Giuliana le voci, una voglia nell’animo le corse di spinger la vista fuori.

Camilla non stava nella casa; era la domenica quinta di Lazzaro. Urgeva nell’aria, dopo le brevi piogge, con un più dolce alito di calore l’imminenza dell’aprile; e in quell’aria la pulzella più aveva pieno e chiaro il senso del suo rinascimento. E, in ozio, girando per le stanze, ebbe ella naturalmente la curiosità di guardare, presa al fascino malsano che li spettacoli di lascivia esercitano anche su li animi verecondi.

Ella salì su una sedia all’altezza dell’apertura; ma prima di spingere lo sguardo innanzi, fu invasa da un turbamento di tremiti, e ritta su la sedia si volse intorno temente se non qualcuno la sorprendesse nell’atto.

Intorno tutto era quieto: ogni tanto una gocciola d’acqua cadeva dall’alto in un bacile, sonando. Di fuori salivano le voci ed allettavano.

Giuliana, rassicurata, guardò. Nel vicolo, sotto la pioggia il fracidume aveva fermentato come un lievito; una melma nera copriva il lastrico, ove spoglie di frutta, residui di erbe, stracci, ciabatte marce, falde di cappello, tutto il ciarpame sfatto che la miseria gitta nella strada, si mescolavano. Su quella cloaca, in cui il sole suscitava insetti e miasmi, una fila di case nane soffocava addossata alla Caserma. Da tutte le finestre però, da tutti li spiragli si riversavano le piante dei garofani non più contenute nei vasi; e i grandi fiori rosei e rossi penzolavano al sole aperti magnificamente. E tra quei fiori apparivano le facce flosce e dipinte delle meretrici, passavano le oscenità delle canzonette, le risa gutturali; e giù su’l lastrico, sotto le inferriate della caserma, altre femmine si tendevano verso i soldati parlando a voce alta, provocandoli. E i soldati, che sentivano nel sangue alla primavera rifiorire i mali di Venere, allungavano le mani di tra le sbarre pur di brancicare qualcosa, divoravano con li occhi in fiamme quelle femmine usate già per anni dalla lascivia di tante ciurme briache e di tanti facchini fradici.

Giuliana stette lì stupidita allo spettacolo di tutta quella corruzione di lupanare fermentante pe’l buon sole di quaresima e salente fino a lei. Non si ritraeva ancora; ma come alzò li occhi, vide in un abbaino su’l tetto della caserma un uomo biondo che la guardava e sorrideva. Ella scese dalla sedia a precipizio, più pallida di prima, credendo di sentire la voce di Camilla. Corse nella sua stanza, e si gettò su’l letto, sbigottita, senza respiro, come se l’avesse perseguitata qualcuno minacciandola.


VIII.


Da quel giorno, tutte l’ore, tutti i momenti in cui Camilla non era nella casa, una sollecitazione violenta di desiderio la trascinava a quello spettacolo. Ella prima pugnava, vanamente, senza forze, lasciandosi vincere. Andava là con l’ansia sospettosa di chi va a un ritrovo di amore; ci restava lungo tempo, dietro la persiana quasi cadente, mentre i miasmi del lupanare la turbavano e la corrompevano.

Ella spiava tutto, acuendo lo sguardo, cercando di penetrare nelli interni, cercando di scoprire qualche cosa tra i garofani che chiudevano le finestre. Il sole era caldo e pesante: sciami d’insetti turbinavano nell’aria. Ad intervalli quando entrava nel vicolo qualche uomo, venivano dalle finestre i richiami delle aspettanti; femmine discinte, con il seno scoperto, uscivano fuori ad offerirsi. L’uomo spariva in una delle porte oscure con l’eletta. Le deluse gittavano scherni e risa dietro la coppia, e si rimettevano all’agguato tra i garofani.

Così in Giuliana si accendeva la brama. Il bisogno dell’amore, prima latente, si levava ora da tutto il suo essere, diventava una tortura, un supplizio incessante e feroce da cui ella non sapeva difendersi.

Un fiotto di sanità caldo la riempiva; certe sùbite gioie di vivere le muovevano il sangue, le mettevano nel petto quasi dei battimenti d’ale, le mettevano de’ canti nella bocca. A volte un soffio, uno di quei piccoli fremiti dell’aria che si dilata sotto il sole, una canzone di mendicante, un odore, un nulla bastava a darle smarrimenti vaghi, abbandoni in cui le pareva di sentire su tutte le membra come il passaggio carezzevole del velluto d’un frutto maturo. Ella era così librata e perduta in abissi ignoti di dolcezza. L’irritazione della continenza, la sovrabbondanza insolita de’ succhi, quel distendersi continuo dei nervi sotto li stimoli la tenevano in una specie di stordimento simile al primo stadio dell’ebrezza; pareva come de’ vapori le salissero al cervello dal cuore e le dessero una visione rossa. Il passato si dileguava, si assopiva in fondo alla memoria, non risorgeva più. E in ogni ora, in ogni luogo il desiderio le tendeva insidie; i santi delle mura, le madonne, i cristi crocefissi ignudi, le piccole figure di cera deformi, tutte le cose in torno, prendevano per lei apparenze impure. Da tutte le cose l’impurità emanava e le alitava su la persona, affocantemente. Era allora una suprema pugna, in cui la conscienza si curvava, la volontà si piegava, i sensi sopravvincevano.

— Ecco, ora scendo nella strada — diceva ella a se stessa, non reggendo più.

Poi le mani le tremavano su la porta, nell’aprire: il chiavistello scorrente nelli anelli le dava ancora un’immagine oscena. Ella tornava in dietro, si gettava su ’l letto quasi svenendosi, livida, sotto un fantasma d’uomo.


IX.


La domenica delle Palme ella uscì dopo tanti mesi, per la prima volta; poichè Camilla voleva condurla a render grazie della guarigione al Signore. Quando le campane si misero a squillare, Giuliana s’affacciò. Tutto il paese era ridente nel grande riso pasquale del sole d’aprile. Tutto il contado invadeva le vie con il segno pacifico dei rami di olivo.

Ella ora doveva vestirsi in festa: la gente nelle vie l’avrebbe guardata passare. Una furia di vanità sùbito la prese: si chiuse nella stanza, cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro per anni; erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette e cangianti, che nel vecchio tempo la crinolina avea forse gonfiate in torno alle anche di una sposa novella; erano lunghi busti con màniche ampie, mantelline color di tortora orlate di merletti bianchi, veli intrecciati di fili di argento, collari di tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per l’uso, goffe, macchiate dall’umido.

Giuliana sceglieva, come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di canfora le mani nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli la irritavano; non trovava alfine nulla che le andasse alla persona. Chiuse la cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del piede. Le campane suonavano per la terza volta. Ella si mise in furia il consueto abito triste color di cenere, in conspetto di Camilla, mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime.

Le campane chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un mobile luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva di ramoscelli; e una candida clemenza di benedizione cristiana si diffondeva per tutta l’aria da quelle selve, come se si appressasse il Galileo, il re povero e dolce sedente su l’asina fra la turba dei discepoli, in contro alli osanna del popolo redento. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis!

Nella chiesa la folla era immensa, la selva delle palme era immensa. Per una di quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse di popolo, Giuliana fu divisa da Camilla; restò sola in quel rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quelli urti, a tutti quelli aliti. Ella tentava aprirsi un varco: le sue mani incontravano delle schiene d’uomini, delle altre mani tiepide il cui tocco la turbava. Ella si sentiva sfiorare il volto da una foglia d’olivo, contrastare il passo da un ginocchio, spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. Sotto l’odore dell’incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica, in tutto quell’ammasso di cristiani e di cristiane piccole scintille erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si congiungevano. Passavano accanto a Giuliana fanciulle della campagna con palme su ’l petto, con un riso fuggente nel bianco delli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano; ed ella sentiva in torno a sè così passare l’amore, ella si trovava così a mettere il suo corpo tra quei corpi che si cercavano, ella era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi, ella separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia. Ma qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel sangue. In un punto ella s’incontrò a faccia a faccia con un soldato biondo; quasi gli posò il capo su la tunica, perchè una colonna di gente dietro la spingeva. Ella levò li occhi; e il giovine sorrise come aveva sorriso un giorno dall’abbaino della caserma. Dietro, l’urto seguitava: il vapore dell’incenso si spandeva più denso, e il Diacono dal fondo cantò:

Procedamus in pace.

E il coro rispose:

In nomine Cristi. Amen.

Era l’annunzio della processione, che mise un sommovimento enorme in tutto il popolo. Per una violenza d’istinto, senza pensare, Giuliana si attaccò all’uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi sollevare da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si ne’ capelli quel fiato virile che sapeva lievemente di tabacco. Ella andava così, indebolita, sfinita, oppressa da quella voluttà che l’aveva colta d’improvviso, non vedendo che un barbaglio dinanzi a sè.

Allora dall’altare maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli di fumo cerulo e dolce su ’l popolo; e una processione candida si svolse nel mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d’olivo e cantavano.


X.


Tutta la settimana santa protesse delle sue complici ombre l’amore di Giuliana. Le chiese erano immerse nel crepuscolo della passione, i crocifissi su li altari erano coperti di drappi violacei; i sepolcri del Nazareno erano circondati di grandi erbe bianche cresciute ne’ sotterranei; un profumo di fiori e di belgiuino caricava l’aria.

Là Giuliana, inginocchiata, attendeva, fin chè un passo leggero dietro di lei la faceva trasalire. Ella non poteva volgersi, perchè Camilla la vigilava; ma ella si sentiva tutta abbracciare dallo sguardo di quell’uomo, come da un fuoco sottile, e una tenerezza di desio le scendeva nella carne. Allora fissava i ceri ardenti in scala su un triangolo di legno presso l’altare. I preti cantavano dinanzi a un gran libro; e ad uno ad uno i ceri venivano spenti. Non ne rimanevano che cinque, non ne rimanevano che due; l’oscurità si avanzava dal fondo delle cappelle su la gente in preghiera. L’ultima fiammella finalmente spariva; tutte le panche risonavano sotto le battiture delle verghe. Giuliana nel buio, a pena si sentiva toccare da due mani cercanti, scattava dal pavimento, con un sussulto, smarrita. Poi, quando usciva dalla chiesa, il pensiero d’aver violato un luogo sacro la empiva di rimorso: subitamente, dal sostrato della sua conscienza l’idea del castigo risorgeva. Era poi come un sogno dove la figura livida di Gesù morto e lo scroscio delle battiture e i brividi della carne sollecitata e l’odor grave dei fiori e li aliti di quell’uomo biondo si mescolavano in un senso dubbio di dolore e di piacere.


XI.


Ma come Gesù trionfante risalì alla gloria dei cieli, li aromi pasquali non più confortarono l’amore di Giuliana. Scena dell’amore fu allora il dominio dei gatti randagi e dei colombi torrajuoli. Dall’abbaino alla finestra i dolci segni correvano: tra mezzo il lupanare si sprofondava come un fossato d’acque limacciose a’ cui cigli crescessero fiori alimentati dalla putredine. I colombi sorvolavano con il luccichio verde e grigio delle loro piume.

L’amadore aveva un bel nome antico, si chiamava Marcello, e aveva un bel fregio rosso e d’argento su le maniche della tunica. Scriveva delle epistole piene di fuoco eterno, con frasi impetuose che davano all’amadrice deliquii di tenerezza e fremiti di voluttà mal contenuta. Giuliana leggeva quei fogli in segreto, li teneva notte e giorno nel seno: pe’l calore la scrittura violetta le s’imprimeva su la pelle, ed era come un gentile tatuaggio d’amore, di cui ella gioiva. Le risposte di lei non finivano mai: tutta la sapienza grammaticale di una maestra, tutto il tesoro delle apostrofi psalmistiche di una devota, tutta la fluente sentimentalità di una pulzella tardiva si riversava su la carta de’ quaderni scolastici rigata di turchino. Ella scrivendo si obliava, si sentiva trascinare in un’onda di verbosità sonora: pareva quasi che una facoltà novella si esplicasse in lei e prendesse forme maniache, d’improvviso. Quel gran sedimento di lirismo mistico accumulato per la lettura de’ libri di preghiera in tanti anni di fidelità allo Sposo Celeste, ora, scosso dal tumulto dell’amore terreno, si levava sù confusamente e attraversando recenti strati di conscienza e unendosi ad elementi estranei assumeva, quasi direi, sapori di profanità nuovi. Così le lacrimose implorazioni a Gesù si mutavano in sospiri di speranza verso letizie d’amplessi non eterei, le offerte del fior dell’anima al Sommo Bene si mutavano in tenere dedizioni della carne al disio del biondo amante, e il lume afrodisiaco della luna si cingeva di tutti li epiteti per cui va radioso lo Spirito Santo, nè li zefiri della primavera mancavan di rapire li aromi alle mense del paradiso.


XII.


Era messaggero uno di quelli uomini che paion cresciuti sù, come funghi, dall’umidità della strada immonda ed hanno in tutta la figura quasi una nativa tinta di fango; di quelli uomini bigi, che s’insinuano per tutto, che si trovano per tutto ov’è un centesimo da guadagnare, un po’ di untume da leccare, uno straccio da sottrarre, oggi rigattieri e domani procaccianti in atto di serve o di male femmine, oggi falsi sensali di mercatanzia e domani accalappiatori di cani erratici.

Costui aveva un nome melodrammatico, si chiamava Lindoro: dal quartiere dell’Ospedale al bastione di Sant’Agostino una popolarità grande s’era fatta in torno a questo nome. Nasceva costui dall’accoppiamento d’un suonatore ambulante di clarinetto con una piazzaiuola rivenditrice di fruttaglia, ereditando l’istinto nomade del padre e la natural cupidigia di lucro della madre. S’era prima strascicato per li immondezzai di tutte le case, con la scopa e il canestro; aveva poi fatto il guattero in una bettola, dove soldati e marinai gli gettavano su’l viso li sgoccioli del bicchiere e le spine del pesce mal fritto. Dalla bettola era caduto in un forno, dove spingeva i pani con la lunga pala dentro le fiamme, tutta la notte, in sudore, accecandosi. Dal forno era passato all’uffizio di accenditore pubblico de’ fanali, logorandosi una spalla sotto il peso della scala portatile. Scacciato da quell’uffizio perchè sottraeva il petrolio dalle grandi casse di zinco bianco, si mise alla ventura della strada, comprando e rivendendo abiti vecchi, facendo in tutte le case popolane i servigi più vili, offrendo ai soldati e ai forestieri i suoi ruffianesimi, lottando così per il tozzo.

Nel suo corpo e nella sua anima ogni mestiere aveva impresso una traccia, aveva lasciato un gesto abituale, uno sviluppo di singoli muscoli, l’indebolimento di un organo, una callosità, una cadenza di voce, una frase del gergo. Egli era di piccola statura, magro, con una testa enorme e quasi calva, con delle chiazze di peli radi su le guance, con delle pustole tra i peli. Il suo vestito era ibrido e mutevole; tutte le logge passavano su la sua persona, si sovrapponevano a contrasto: nobili zimarrine verdognole e calzoni carichi di toppe, cappelli di feltro arrossenti e ciabatte servili, bottoni di metallo lucido, formelle d’osso bianco, galloni militari, trine, quel miscuglio di ricchezza osata e di miseria ignobile, che ingombra i fondi d’una bottega di rigattiere ebreo.


XIII.


Ora costui fu il galeotto. Portava le epistole di Marcello con le conche piene d’acqua della Pescara sú alla casa di Giuliana, e tornava giù con le conche vuote e con epistole di risposta. Giuliana, quando lo sentiva salire le scale, si faceva pallida; cercava pretesti per allontanare Camilla, per essere sola con l’uomo portatore d’acqua e di gioia. Avvenivano allora dei contatti rapidi, nel sotterfugio; passavano allora tra lei e il galeotto quelli sguardi obliqui d’intesa, quei fuggevoli accenni dei muscoli faciali, quei monosillabi sommessi, che son li aiuti dell’astuzia umana e che a lungo andare stringono dei legami tra li ingannatori, ove sieno essi differenti di sesso, determinando certe singolari corrispondenze di moti nel corpo, le quali in taluni casi possono esser causa di risvegli sensuali. Per il che, a poco a poco nell’amore di Giuliana qualche cosa dell’influenza di Lindoro penetrava; una specie di domestichezza a poco a poco si stabiliva tra l’amadrice e l’ambasciadore. Ella, se costui giungeva nell’assenza di Camilla, lo incalzava di domande, gli parlava da presso facendogli sentire l’alito, qualche volta inavvedutamente gli posava su la spalla una mano. Lindoro scioglieva i freni alla sua loquacità di piazzajuolo, intramezzando parole di gergo, reticenze impudiche, furbi sorrisi rivelatori, gesti ambigui, piccoli schiocchi di lingua e di labbra.

Egli ruffianeggiava con arte, sapeva insinuare sottilmente la corruzione nell’animo di Giuliana, sapeva trascinare lentamente all’insidia di Marcello quella preda. E Giuliana stava ad ascoltarlo intenta, con in fondo alli occhi una fiamma che cresceva, con in bocca l’aridezza prodotta dall’orgasmo lascivo, senza più interrompere. Lindoro s’accorgeva subito di aver suscitato nella femmina la brama; e dinanzi a quella figura tutta protesa e tutta sconvolta si risvegliava in lui la mascolinità d’un tratto e una tentazione l’assaliva di cogliere quel fiore ch’egli apprestava al piacere di un altro; ma la paura sorgente dal fondo della sua viltà lo tratteneva e gli ghiacciava l’ardore.

Così Giuliana al fine aveva concesso a Marcello un ritrovo. Sarebbe stato in una casa remota del sobborgo, in fondo a un vico deserto, dove nessuno li avrebbe spiati; sarebbe stato per una domenica di giugno, stando Camilla nella chiesa lungo tempo, facendo buona guardia Lindoro.

Nei giorni precedenti quel gran fatto, Giuliana era tenuta da una eccitazione amara, da una specie di febbre che a volte le dava il battito dei denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei capelli, alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più star seduta; poichè una furia di mobilità le sollecitava tutte le membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in mezzo a quello stillicidio continuo di sillabe, una demenza di ribellione le abbagliava la vista all’improvviso, ed ella avrebbe voluto balzare tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte quelle capigliature, rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche, gittare delle grida, spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo sguardo freddo e scrutatore di Camilla, poco mancava che ella non svenisse per lo spasimo, per la bile, per l’immenso sforzo interiore di dissimulazione.

Poi, quando Camilla usciva, ella si agitava per tutte le stanze, moveva le sedie, morsicchiava dei fiori, beveva d’un fiato de’grandi bicchieri d’acqua, si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l’irrequietudine, l’esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel tardivo fermento della verginità, si era arricchito ed espanto; era come una di quelle sanguigne fioriture autunnali che la pianta esplode al sentirsi da un’ultima corrente di forza vegetativa investir le radici quasi morte nel letargo del terreno. Tutti i pori del suo corpo esalavano, irradiavano la voluttà mal contenuta; in tutti i suoi gesti, in tutti i suoi atteggiamenti, in tutti i suoi minimi moti uno spontaneo fascino afrodisiaco, una procacità involontaria e inconscia si esplicava indipendentemente dalla presenza di un uomo. Ella era tutta sátura di désio: le fibrille giallognole delle sue iridi, dilatandosi, sprizzavano bagliori; il labbro inferiore, tormentato dalle morsicchiature, sporgeva umido e più vermiglio; pe ’l collo salivano le trame glauche delle vene e nei movimenti repentini talora certi gruppi di nervi guizzavano. La sua testa non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore olivastro di certe razze d’Abruzzo, quelle pure linee del naso e del mento svolgentisi grecamente nella latina ampiezza della faccia. Ma ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti grige, sotto la cascaggine delle pieghe incomposte, celava una magnificenza statuaria di torso e di gambe.

Erano i giorni primi di giugno: sorgeva l’estate dalla primavera, come da un campo d’erbe un áloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di Pescara godeva nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale, come distendendo le braccia verso quei naturali confini d’acqua amara e d’acqua dolce. Salivano alla stanza di Giuliana allora le blandizie della temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e rimbalzavano, come una grandine d’oro.

Giuliana, se era sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare lungi le vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella blandizia ignota che fluttuava nell’aria.

Cominciava lentamente a spogliarsi, con una pigrizia di gesti molli, indugiando con le dita in torno alle allacciature e ai fermagli, facendo de’ piccoli sforzi svogliati nel cacciar fuori le braccia dalle maniche, fermandosi a mezzo e abbandonando in dietro la testa dai capelli crespi e corti, quella sua testa di efébo. Lentamente, sotto l’amorosa fatica, dalla informità delle vesti, come dalla scoria del tempo una statua diseppellita, il corpo ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela vile era ai piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio ella come da un piedistallo sorgeva nella luce coronandosi con le braccia, mentre al contatto dell’aria una vibrazione a pena visibile le correva i contorni, il fior della pelle. In quell’attitudine momentanea tutte le linee del torso si distendevano e salivano verso il capo ricinto; si appianava la leggera onda del ventre non anche deturpato dalla concezione; li archi delle coste si designavano. Poi, se un insetto entrava nella stanza, il ronzìo aliante in torno ed accennante ad attingere la nudità, il ronzìo sbigottiva Giuliana; ed era allora un difendersi dalla puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti di muscoli sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei malleoli non bene forti al gioco, balzi, guizzi, tutti quelli sviluppi improvvisi di agilità e quei raggricchiamenti di pelle provocati in una donna dal ribrezzo.

Poi, così eccitata dal moto e calda, ella aveva delle voglie nuove. Apriva l’uscio, cáuta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando nell’altra stanza. C’era un’odore di chiuso, quello squallore inanimato che hanno le scuole senza fanciulli: nelle tabelle quadrate l’alfabeto cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti dominatori del luogo. Giuliana si avanzava evitando co’ piedi nudi li interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza di chi cammina scalzo per la prima volta su un piano aspro e la confusione di una donna che non sente più in torno al suo passo l’impedimento abituale della veste. Andava così fino alla terza stanza, dov’era l’acqua, dove l’umidità le metteva una sensazione di fresco sotto i piedi e dove ella sentiva dei brividi nei capelli al pensiero che l’amante poteva essere là poco lontano. Allora intingeva le mani nell’acqua, si spruzzava tutta, coraggiosamente, con de’ sùbiti arresti di respiro quando una gocciola più grossa le rigava l’epidermide. Usciva di là, tutta sparsa di rugiada: lo specchio alto di un antico mobile la tentava.

Era una specie di canterano a cui restavano ancora frammenti d’intarsio quà e là; lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno fregi misti d’oro e di colori e in alto due puttini decapitati. Giuliana saliva fin là, attratta da una irresistibile curiosità femminile di vedersi nuda. La sua persona tutta ancora fresca di gocciole sorgeva nell’offuscamento dell’antico specchio suffusa d’un’ombra di pallidezza argentea, addolcita d’impercettibili apparenze di azzurro e di verde dove il cristallo più era alterato dal tempo. Ella si guardava; mentre l’istinto sessuale della bellezza svegliandosi le faceva ora salire alla bocca una viva spontaneità di sorriso. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli pareva far tremolare tutte le linee della nudità nello specchio come quelle di una imagine dentro le acque. Allora ella cominciava una specie di mimica vanitosa, guardando riprodursi tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra per mostrare i denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle, presentando la schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro; fin che un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sè, le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna, si rifletteva dalla parete avversa una tabella di alfabeto.


XIV.


Ora avvenne che in uno di quei momenti battesse alla porta della scala Lindoro venuto sù con le conche. Giuliana gridò:

— Aspetta!

E raccolse da terra le vesti, in furia; se le mise addosso, in furia; andò ad aprire. Erano le sei di sera: il reverbero bianco del palazzo di Brina entrava nella stanza; tutto il paese di Pescara, grande ospizio di rondini, cantava.

I due, in mezzo, ritti, parlarono del ritrovo imminente. Lindoro cercava con la sua loquacità vincere le estreme esitazioni della pulzella; poichè egli già teneva una parte della mercede, e l’adescava il resto. Li artifizi persuasori gli avvivavano le parole, li occhi, i gesti. Egli aveva nel fiato l’odore del vino, e nella faccia, su le tempia, pe ’l passaggio recente del rasoio, piccole macchie rosse e violacee. Mentre parlava, gli si scopriva la fila dei denti eguale e schietta, una di quelle forti chiostre che spesso armano le bocche plebee: la singolarità emergeva vivacemente dalla generale turpitudine dell’uomo.

Giuliana opponeva dubbii, paure, ad interrompere: ma già, poi che l’impudicizia a mano a mano sorgendo più calda dal fòmite del vino bevuto si insinuò nelle persuasioni del galeotto, ella cominciava a sentire quel calore d’afflusso in torno alli occhi, quell’intorpidimento della lingua, quei sordi colpi del sangue, che sono i sintomi dell’orgasmo amoroso. S’era ritirata a poco a poco verso il muro, appoggiandovisi. Dalle aperture, lasciate quà e là nell’abito per la furia del rivestirsi, si intravedevano lembi della biancheria sottostante, quei candori di lino che paiono essere qualche cosa della nudità femminile. La gola era tutta scoperta, bianca e rigata dalla collana di Venere; i piedi senza calze nascondevano nelle babucce soltanto le dita.

Ma ella, a un punto, involontariamente, per quel cieco istinto da cui una donna è avvertita d’essere innanzi a un uomo bramoso, corse con la mano a chiudere sotto la gola, su ’l petto li uncinelli. Quell’atto, col quale Giuliana così riconosceva nel mezzano l’uomo, quell’improvviso atto fece scattare dall’abbiezione di Lindoro un impeto di orgoglio maschile. - Ah, egli dunque aveva potuto per sè stesso turbare una donna? - Ed egli si fece più da presso; e, come il coraggio del vino lo animava, quella volta nessun ritegno di viltà lo trattenne.

E intieramente, sopra la pulzella smarrita e senza forse, si manifestò allora il bruto.


XV.


Giuliana rimase inerte, nella prima impressione violenta e divina di quel fatto naturale compiuto, in una specie di rapimento che non poteva esalarsi. Rimase lunga su i mattoni, con nelle vesti, con in tutta la figura lo scompiglio osceno della donna violata.

A tratti nel bianco dei suoi occhi naufraganti appariva come un tremolìo; nelle sue braccia passavano dei sussulti, delli stiramenti di nervi irritati; fremiti nervosi le increspavano la fronte, le facevano battere le palpebre, curvare in sù li angoli della bocca, muovere in piccoli moti vaghi il pollice dei piedi scalzi.

Ella, quando udì i passi di Camilla nella scala, dal fondo della sua languidezza si levò su un gomito; rapidamente passò le mani su le vesti sconvolte; ritrovò le parole per dire alla sorella che una sùbita mancanza di forze l’aveva fatta cadere nel mezzo della stanza.

Fuori, annottava: su’l paese si spandeva la grande frescura glauca della sera di giugno, originante dall’Adriatico. Voci e risa empivano la piazza; giù pe ’l casamento cantava la gioia sabatina delli abitanti sollevati. Dal secondo pianerottolo Teodora La Jece gridò:

— Comare Camilla, comare Giuliana, venite?

Giuliana seguì la sorella, senza parlare, senza pensare. Durava fatica a sovvenirsi: una specie di ebetudine le teneva ancora la memoria. Teodora La Jece le empiva li orecchi del suo chiacchierio di femmina maldicente e petulante.

— Sapete comare, la figlia di Rachela Catena si marita.

— Ah.

— Sapete, piglia Giovannino Speranza, quel rosso che tiene locanda alla Pesceria e ha il mal di San Donato, liberanosdòmine.

— Ah.

— Sapete, comare; Checchina Madrigale se n’è scappata un’altra volta a Francavilla. Voi la conoscete: quella grassa che sta di casa a Gloria, nera, col naso a becco... quella.

Teodora La Jece seguitando aveva preso il passo di Giuliana. Camilla veniva un poco in dietro, a capo chino, senza badare ai peccati di mormorazione che la lingua della tessitrice commetteva contro il prossimo. Per le vie tutta la gente godeva l’aria; gruppi di donne passavano, in vesti di tela, con braccia nude sino al gómito.

— Comare, guardate Graziella Potavigna che falbalà s’è messo. Guardate Rosa Zazzetta, con un sergente avanti e uno dietro... Ah, voi non sapete?

E qui una storia d’amorazzi piena d’indiscrezioni salaci, sussurrata quasi all’orecchio. Per una di quelle obliosità che sono il rifugio di certe nature deboli e dubbie, Giuliana si immerse nel pettegolezzo intieramente, con una specie di furia convulsa, non dando a sè stessa il tempo di ripensare, interrogando, eccitando Teodora alla chiacchiera, temendo li intervalli di silenzio, riempiendo perciò li intervalli con de’ piccoli sussulti di riso. Ella aveva quasi un godimento amaro a sentire i vituperii delli altri.

— Oh! ecco Don Paolo!

Veniva in contro con la sua bella placidezza Don Paolo Seccia, un ottuagenario ancora aspro e verde come un ginepro, giocondo e saggio come Pantagruele.

— Venite con noi, Don Paolo; usciamo fuori.

Tutti i macelli per la via di qua, di là, avevano i loro manzi freschi penzolanti in mezzo alla porta: l’odore della carne bovina si spandeva dalle ventraie aperte e assaliva le nari. Più in su, lunghe file di maccheroni stavano attelate al lume della luna che le guardava dalla cima di un’antenna soperchiante la caserma. Gruppi di soldati si affollavano in torno alle rivenditrici di frutta, vociferando.

— Andiamo alla Bandiera — disse Teodora, dando la precedenza a Don Paolo ed a Camilla.

Giuliana passò in mezzo a tutti quei romori e quelli odori forti, stordita. Cominciava alfine uno sbigottimento vago a sommuoversi dal fondo, a torcerle la bocca nel riso, nelle parole, a impedirle la lingua. Anche certi piccoli tormenti fisici la molestavano e la richiamavano alla realità delle cose. Ella non sapeva più sfuggire: le moriva la voce fra i denti, l’angoscia le sollecitava la gola, il fantasma di qualche cosa d’enorme e d’irrimediabile le si drizzava dinanzi. Ella ora si sentiva morire dalla fatica di reggersi in piedi, di mettere i passi: si sentiva percossa dalla fischiante animazione della vita nella strada che è di tutti.

— Dunque, comare mia, quel guercio del marito senza saper nulla di nulla... — diceva Teodora riannodando la maldicenza interrotta.

Andavano per la Bandiera. Il ponte a battelli, su la sinistra, cavalcava il fiume. Dall’altro lato, la mole cupa e grave del bastione si disegnava nel chiarore. I vecchi cannoni di ferro, piantati con la bocca nel terreno, si dilungavano in fila trattenendo le gómene; grandi áncore di ferro ingombravano lo scalo. Nelle tolde, a riva, i marinari sotto le tende mangiavano e fumavano: le tende illuminate contrastavano con un rossore sanguigno l’albore della luna. Intorno alle proe, su l’acqua larghe chiazze come di materia liquefatta fluttuavano lentamente.

— ..... mandò a chiamare Don Neréo Memma, figuratevi! seguitava Teodora, implacabile.

— Chi parla del dottor Dulcamara? — fece Don Paolo, a cui era giunto quel nome, ridendo dalla franca bocca ancora armata di avorii.

Giuliana non sentiva più: ella era pallida come la faccia della luna. Da prima, tutta quella gran pace luminosa piovente dal cielo su ’l fiume e tutte quelle lunghe vene di odore marino ruscellanti pe ’l fresco le avevano dato un’impressione di sollievo quasi gioconda; poichè dinanzi a quello spettacolo di dolcezza i fantasmi vagheggiati dell’amore in fondo a lei si risollevavano e le sommità del sentimento al raggio lunare riscintillavano. Fu, súbito dopo, come una soffocazione, come un tumulto confuso in cui ella aveva conscienza di sè solo per il battere delle arterie alle tempia, per quel sussurrìo assordante che parve dilatarsi e riempire tutta l’aria d’un tratto. Le mancava sotto i piedi il suolo fermo: il limite delle acque si confuse, per la vertigine; il fiume invase la strada; acque acque acque si spársero in torno. Poi, d’un tratto, uno scintillìo di bagliori si accese dentro li occhi di lei, un tremolìo crescente di fiammelle fatue che rompevano, si intrecciavano, si allontanavano, e si fondevano e perdevano serpentinamente in una mezza ombra. In quella illuminazione la figura di Marcello compariva e spariva, con una rapidità e una mutabilità di sogno. La vertigine cessò. Giuliana riconobbe i riflessi della luna nel fiume placido; continuò a camminare, stupefatta, indebolita, quasi presso a svenirsi.

— Stanca, eh? comare; voi non siete abituata, si sa. Appoggiatevi a me, appoggiatevi - diceva Teodora. - La figlia di Donna Mentina Ussoria, quella più piccola, butterata, stava proprio innanzi alla bottega, sapete, su la piazzetta....

Erano alla caserma dei finanzieri. Grandi mucchi di carrùbe mandavano un odore forte come di pelli conciate; e la strada seminata di scaglie d’ostriche scricchiolava sotto i passi. Due sciàbiche, presso la riva, facevano pesca d’anguille, in silenzio, con la luna propizia. Ma la sonorità del mare empiva di grandezza il silenzio: si annunziava la foce con l’ondeggiamento del sale superante il lieve fiore dell’acqua dolce.

— Torniamo in dietro, belle figliuole - disse Don Paolo, prendendo una carruba dal mucchio vicino.

Giuliana si lasciava condurre. Ella durava fatica a rattenere l’ansia del respiro; poichè ora il suo stato, con una terribilità incalzante, le si ripresentava dinanzi e schiacciava tutti li aneliti e i tumulti del sentimento suscitati dalla voluttà della notte lunare. Ella vedeva, nella fissazione del suo pensiero, la figura di Lindoro levarsi e vivere; si sentiva un’altra volta afferrare e palpare da quelle mani aspre, soffocare da quel fiato caldo di vino e di libidine, violare su i mattoni della stanza. Ma in quel momento, pensava, ella non aveva resistito, non aveva gridato non aveva fatto nessun moto per opporsi; ella aveva soggiaciuto, senza forze, non distinguendo più nulla, non sentendo che una gran gioia mista di dolore inondarle le fibre, non sentendo che da tutto il suo essere la violenza della natura compressa insorgere. Allora quel riflesso di sensazione mise nella carne di lei un nuovo turbamento, una tenerezza di languore infinita; e in quel disordine della conscienza la volontà delle sue idee si estinse. Le parve che tante cose della notte, come avessero voci ed ali, venissero a batterle contro le tempia, venissero a tentarla, a darle dei trémiti e a suggerirle delle parole. Guardava innanzi a sè, pallida e con li occhi ingranditi e più neri. Ella era così: debole, incerta, incapace di determinare con la volontà uno stato d’animo e di cose, oscillante miseramente tra le Suggestioni del mondo esterno e il travaglio interiore.

— Sentite come il vino canta — disse Don Paolo, soffermandosi.

Nelle barche i marinai stavano distesi tra i cordami, in mezzo al fumo del tabacco di Dalmazia, e cantavano di femmine belle, in gran coro.


XVI.


Camilla, su l’inginocchiatoio, pregò a voce bassa, co’l capo prostrato, con giunte le mani, lungamente; poi accese la lampada votiva a Maria Vergine, per la notte; piegò poi nel sonno tenendo il dolce cuore di Gesù tra i fiori vizzi del seno. Il suo respiro di dormiente era religioso come se sfiorasse l’ostia sacra su la paténa d’argento. Nella volta le ombre seguivano le oscillazioni della fiammella alimentata dall’olio; quei romori secchi del legno che si dilata e dei tarli che ródono, li scriocchiolii misteriosi che hanno i vecchi mobili nella calma notturna, ronzii di zanzare rompevano il silenzio.

Giuliana stava nello stesso letto, a fianco di Camilla, distesa, senza muoversi, senza chiudere li occhi, poichè una grande stanchezza insonne le occupava le membra e la vigilanza assidua dell’angoscia le martoriava l’anima tapina. Ella ascoltava il silenzio; spiava se stessa con una curiosità ansiosa, come per sentire qual mutamento si fosse compiuto nell’essere suo.

A un tratto, Camilla nel sonno cominciò a mormorare delle parole vaghe, de’ frammenti di parole incomprensibili, movendo appena le labbra, mettendo lunghi respiri dentro cui si sentivano de’ suoni semispenti, si sentivano i gorgogli rochi delle voci non formate e li accenti delle voci infrante. La testa di lei, scarna, affilata, quasi direi scolpita e cesellata rigidamente dalla penitenza e dal digiuno, ingiallita dal lume della lampada, posava su la bianchezza del guanciale come una effigie mal dorata di santa sopra una raggiera. Piccole ombre violacee segnavano l’interno delle narici, i solchi del collo teso e pieno di corde, le fosse delle gote, le occhiaie d’onde sporgeva grande il globo coperto dalla pelle molle della pálpebra. Ella pareva così il cadavere di una martire, dentro cui scendesse lo spirito di Dio.

Benchè quello dei soliloquii notturni non fosse il primo, Giuliana sentì freddo in mezzo ai capelli: un terrore improvviso l’assalì e la oppresse. Ella istintivamente si rannicchiò, cercò di allontanarsi dal corpo della sorella ritraendosi su l’orlo della sponda; stette immobile, sospesa nelli intervalli di silenzio, con li occhi fissi su la bocca della dormiente, provando un sordo balzo in mezzo al petto se quelle labbra si muovevano a profferire nuove parole. Ella non comprendeva; ma qualche cosa di lontanamente profondo e di solenne era in quel mormorio interrotto, quasi un mistero di fenomeno soprannaturale si levava da quel corpo inerte e inconsapevole che parlava senza udire la propria voce. Nella stanza passava come un alito di sepolcro; per la fantasia sconvolta di Giuliana, le ombre oscillanti prendevano forme spaventose e minacciose di spettri; l’aria pareva solcata da romori ignoti Tutte le cose su cui l’allucinata si rifugiava con lo sguardo, tutte le cose si trasformavano e si animavano ed andavano verso di lei. Allora l’idea del castigo e della pena eterna ancora una volta le risorse nella conscienza e la incalzò. Ella si abbattè sotto l’incubo del suo peccato, mettendo in croce le braccia su’l petto per difendersi dalle minacce dei demoni, tentando di dire delle preghiere con la lingua impedita dal terrore, aggrappandosi con un supremo slancio all’áncora del pentimento, all’ultima salvezza. Ella si sentiva perduta, ella chiedeva ora misericordia dall’intimo del suo cuore al divino Sposo tradito, a Gesù buono e grande, a Colui che perdona.

La voce di Camilla si esalava in sospiri, si confondeva in un borboglìo tremulo, si spegneva del tutto nella respirazione lenta ed eguale, a mano a mano che l’entusiasmo del sogno mistico si andava placando. Le ombre seguitavano ad oscillare. Non ancora il Crocefisso discendeva dalla parete a raccogliere con le dolcissime braccia la pecorella tornante all’ovile.


XVII.


Ha detto il Signore per bocca del profeta Gioele, figlio di Petuel: «Avverrà che io spanderò il mio Spirito sopra ogni carne, e i vostri figliuoli e le vostre figliuole profetizzeranno; i vostri vecchi sogneranno de’sogni, i vostri giovani vedranno delle visioni.»

Questo Spirito di cui li Apostoli ebbero le primizie e la beatitudine, fu per essi e per noi uno Spirito di Verità, uno Spirito di Santità e uno Spirito di forza.... O divino amore, o sacro legame che unisci il Padre e il Figlio, Spirito onnipotente, fedele consolatore delli afflitti, pénetra nelli abissi profondi del nostro cuore e infondici la tua gran luce.

Così predicava Don Gennaro Tierno nella Pentecoste, dall’altare maggiore, volto al popolo ascoltante. Sopra di lui, in alto, la terza persona della SS. Trinità apriva l’arco radioso delle ali d’oro, e nella chiesa l’illuminazione dei ceri spandeva un rossore simile a un riflesso d’incendio. Li enormi pilastri di pietra sostenenti le due navate, coperti di barbare sculture cristiane, cavalcavano verso l’altare pesantemente; su le pareti li avanzi dei mosaici mettevano larghe macchie di colore scuro; qualche testa di Apostolo, qualche braccio rigido di santa, qualche ala d’angelo emergeva ancora nell’offuscamento e nello scrostamento operato dai secoli. Tra i mosaici piccole navi ex-voto pendevano, una intiera flottiglia di barche veliere pendeva dedicata al tempio dai naufraghi supérstiti. E in mezzo a tutta questa rude solennità primordiale si elevava agile un gruppo di colonne rosee a spira sorreggenti il pergamo anche marmoreo fiorito di acanti e animato di bassorilievi.

— Spandi la tua dolce rugiada su questa terra deserta, a fin che cessi la sua lunga aridità. Manda i raggi celesti del tuo amore fino al santuario dell’anima nostra, a fin che penetrandoci accendano fiamme consumatrici delle nostre debolezze, delle nostre negligenze, dei nostri languori! — seguitava il prete, salendo ai supremi culmini della sua eloquenza e della sua potenza vocale.

Giuliana, da presso, ascoltava, tutta raccolta. Ella si era rifugiata nella casa del Signore, ella era tornata al talamo; voleva che il Signore la purificasse e la ricevesse un’altra volta nella benignità del suo grande abbracciamento. Quel barbaglio subitaneo di fede la abbacinava, le faceva quasi dimenticare ogni fallo anteriore. Le pareva che subitamente dalla sua anima le macchie si cancellassero e dalla sua carne cadessero le scorie della impurità terrena. Giammai ella si era accostata all’altare di Dio con un più profondo tremito di speranza; giammai aveva ascoltato la parola di Dio con una più lunga ebrezza.

Dall’istante in cui l’orrore della dannazione le si levò nella conscienza, ella si compresse in una specie di raccoglimento cupo, quasi direi sorvegliando se stessa, sorvegliando i proprî atti, i proprî pensieri, i minimi moti pe’l timore che quella veemenza di pentimento si esalasse, per l’ansia di conservare intatto dentro di sè quel fiore di fede rigermogliato d’improvviso. Fu una specie d’assunzione verso Gesù; fu una specie di isolamento geloso dalla vita circostante, un ripudio di ogni legame umano. Ella si esaltò nella lettura dei libri sacri; si gettò nella contemplazione delle imagini e dei misteri; lottò contro le molli viltà della carne, contro i calori della giornata, contro l’insidie della notte; contro i profumi che le portava il vento, contro il soffio che saliva dai suoi ricordi impuri, contro le voci che parevano vellicarle l’udito e susurrarle segreti nuovi di piacere. Dopo quella settimana solitaria di passione, ella ora deponeva il sacrificio ai piedi dell’altare; beveva il balsamo della parola di Dio, fissando li occhi in alto alla colomba radiosa e sentendosi a poco a poco naufragare nel pélago dell’estasi.

— Vieni dunque, vieni, dolce consolatore delle anime desolate, rifugio nei pericoli, protettore nella sventura. Vieni, o tu che purifichi l’anime da ogni macchia e ne guarisci le piaghe. Vieni, forza del debole, appoggio di quegli che cade. Vieni, stella dei naviganti, speranza dei poveri, salute di chi è per morire — incalzava Don Gennaro Tierno, alto nella pianeta d’argento, vermiglio in volto, con occhi forzanti le órbite, con gesti che parevano toccare il cielo.

Nella chiesa una calura grave si era addensata su i cristiani. Le navate si schiacciavano su i pilastri; in una vetrata la testa di San Luca evangelista raggiava percossa dal sole e il gran manto metteva nell’aria una zona di crepuscolo verde. Il púlpito marmoreo si levava come un miracoloso fiore mistico, in quel vapore di luce.

— Vieni, o Spirito, vieni ed abbi misericordia di noi!...

Giuliana teneva li occhi all’alto: sull’onda di tutte quelle invocazioni ella ascendeva verso il nimbo, penetrata dalla ineffabile soavità che attira l’anime all’odore delli aromi spirituali. Le parve un istante di vedere la colomba d’oro balenarle un lampo di assentimento, e il cuore le balzò di giubilo nel seno come San Giovanni nelle viscere d’Elisabetta alla visita della Vergine Maria.

— Per nostro signore Gesù Cristo. Amen.

Il prete, tutto d’argento, si volse verso la custodia, dicendo a voce bassa un credo. Due turiferarii bianchi ai lati cominciarono a scuotere i turiboli fumanti e odoranti. Un nuvolo di incenso avvolse Giuliana che stava da presso, e subitamente un invincibile fiotto di náusea dal fondo della maternità le salì alla gola e le fece torcere la bocca.


XVIII.


Non c’era dunque scampo? — Più giorni ancora ella oscillò nel dubbio, aspettando l’ultima prova. Vertigini la prendevano al levarsi, quand’ella metteva a terra i piedi; sfinimenti vaghi la invadevano su la sera, fievolezze in cui il pensiero, la volontà, i ricordi parevano quasi avere la confusione, la sonnolenza fluttuante delle prime ore mattutine. Ella faceva le cose per abitudine, con de’ gesti di sonnambula, con una lentezza di donna stanca. Nella scuola, se veniva su’l vento l’odore del pane caldo dal forno, ella si sentiva morire, sentiva come tutte le viscere montarle d’un tratto alla bocca: un sapore di lisciva le si spandeva nella lingua. Un giorno, mentre un bimbo succhiava delle ciliege, una voglia violenta di quel frutto la fece contorcere su la sedia, impallidire e sudare. Poi, ella, dopo il pasto, tutta amara di nausea, si metteva lunga su’l letto, si lasciava occupare dal sopore: il caldo era pesante, le mosche ronzavano, le grida d’un venditore di occhiali passavano sotto la finestra, rauche nel silenzio.

Sfiduciata, ella non cercò più la chiesa: l’incenso anche la ributtava.

Ella non pensò più a Marcello; non lo vide più, non ebbe di lui che un ricordo incerto, come d’un sogno remoto: l’ansia presente l’assorbiva tutta.

Lindoro saliva a portar l’acqua, come prima. Egli giungeva sù rosso e stillante di sudore; posava le conche, lanciando sguardi di sbieco a Giuliana. Giuliana si ritirava nell’altra stanza o si curvava su’l lavoro: nelle sue guance le strette convulse dei denti mettevano piccoli moti di collera repressa; i suoi occhi si intorbidavano. Lindoro se ne andava, come un cane frustato; ma il pensiero di aver seduto quella donna gli turbava il sangue: avrebbe voluto ora trascinarsela con sè, tenersela, esserne il padrone come di una merce da usare e da vendere. Cupidigia sensuale e avidità di guadagno allora in lui si mescevano.

Una sera egli aspettò che Camilla uscisse, alla porta di strada; poi salì a precipizio per sorprendere Giuliana, per trovarla sola nella casa. Quando egli battè all’uscio Giuliana lo riconobbe e si sentì rimescolare.

— Che vuoi da me, che vuoi? - chiese ella con la voce soffocata, senza aprire.

— Sentimi un momento, sentimi! Non aver paura; non ti faccio male...

— Vattene, cane, infame, assassino... — proruppe la donna, con una veemenza stridente di vituperii, togliendo il freno a tutto l’odio accumulato contro colui. - Vattene, vattene!

E, sfinita si ritrasse nella sua stanza, si gettò su i guanciali mordendoli fra le lacrime. Un tremito violento la scuoteva tutta, un irrigidimento convulsivo delle mascelle le rendeva dolorosi i singulti.


XIX.


Non c’era più scampo. - La figlia di Maria Camastra aveva bevuto il vetriolo ed era morta così, con un bimbo di tre mesi nel ventre. La figlia di Clemenza Jorio s’era precipitata dal ponte, ed era morta così, nella fanga della Pescarina. Bisognava dunque morire.

Quando questo pensiero balenò alla mente di Giuliana, cadeva il pomeriggio. Tutte le campane suonavano a gloria, nella vigilia del Corpus Domini; grandi tribù di rondini schiamazzavano e turbinavano su’l palazzo di Brina, si assembravano a parlamento su l’Arco. Una magnifica nuvola rossa sovrastava le case, simile forse a quella che versò bitume ardente su l’empietà di Sodoma.

Giuliana al baleno di quel pensiero si smarrì ebbe paura. Poi a mano a mano che il sentimento della vergogna la persuadeva al passo, in fondo a lei una sorda ribellione di vitalità cominciava a levitare, le viscere fremevano. Ella d’un tratto sentì il rossore e il calore del suo sangue metterle delle chiazze su la fronte, su le guance. Si levò dalla sedia, torcendosi le braccia nell’agitazione della lotta. E, con un impeto di forza nervosa, finalmente uscì dalla stanza, entrò nella cucina, cercò su le tavole un bicchiere e il mazzo delli zolfanelli. L’odore forte del carbone le turbava lo stomaco; la vertigine le prendeva il cervello. Ella trovò tutto: mise li zolfanelli a disciogliersi nell’acqua; rientrò nella sua stanza e nascose in un angolo, sotto un mobile il bicchiere.

— Dio mio! Dio mio!

Ella aveva ora paura di trovarsi così, sola, dinanzi al suo proponimento. Le tornò subitamente nella fantasia il cadavere di Cristina Jorio intraveduto quel giorno mentre lo portavano su la barella alla casa della madre: un corpo gonfio come un otre, con la melma ne’ capelli, nel cavo delli occhi, nella bocca, tra le dita de’ piedi violetti...

— Dio mio, Dio mio, morire!

E sussultò come se una mano fredda e rigida le si fosse posata su ’l capo: un brivido le corse tutte le membra, le durò un momento su ’l cranio con l’impressione di una lama che vi penetrasse per distaccarne la pelle; e nella vista le passò il ribrezzo dell’orrore, quel non so che di bianco che dilata le orbite.

— No, no, no! — disse con la voce alterata, come se volesse scacciare da sè il contatto di qualche cosa orribile. E andò alla finestra, sporse il capo fuori, cercando un rifugio.

Ella rimase là, inchiodata, attònita dinanzi a quella visione d’incendio biblico e a quella tregenda di uccelli neri. Quando si volse un poco dietro la stanza, intravide nell’ombra un bagliore strano, il luccichìo delle mezzelune d’oro su la veste della Madonna di Loreto e il luccichio delle medaglie. Ebbe ancora paura; si schiacciò su ’l davanzale, si sporse di più; stette là, senza avere il coraggio di muoversi. Allora, in quella immobilità, l’indebolimento serale cominciò a invaderla; ed ella si strinse la testa grave tra le palme, socchiuse le pálpebre.

— Ah!

D’improvviso le s’era aperto nell’animo uno spirácolo. — Sì, sì, ella se ne rammentava! Spacone, il mago, quel vecchio con la barba lunga, quello che faceva i miracoli e aveva le medicine per ogni male... Era venuto al paese qualche volta a cavalcioni di una muletta bianca, con due triangoli d’oro alli orecchi, con una fila di bottoni larghi come de’ cucchiai d’argento senza mánico. Tante donne uscivano su li usci e lo chiamavano, e lo benedicevano. Egli aveva guarito ogni sorta di malattie con certe erbe e certe acque e certi segni del dito pollice e certe parole magiche. Egli doveva avere i rimedii pure per quella cosa... sì, sì, li doveva avere!

E Giuliana rivisse in un barlume di speranza, mentre il languore saliva saliva. Dinanzi a lei, le cose annegavano nel crepuscolo; il giorno vermiglio, penetrato dalle ceneri della notte vicina, mancava in un lento scoloramento tra roseo e violaceo, si ritirava a poco a poco dal basso, finiva senza contrasti. Una rondine, come un pipistrello, passò radendole il capo. Un fiotto della vitalità ardente dell’estate le battè nella faccia, con la brezza, dandole una specie di soffocazione e di palpitazione.

Ella, con un moto involontario e inconsapevole, mise le mani su ’l ventre e le tenne così un istante. Qualche cosa come un indefinito sentimento di maternità le attraversava l’anima. E dal fondo, chi sa per quale processo interiore, un ricordo della convalescenza lontana si svegliò. — Ah, era di marzo... una gran bianchezza ridente... e sopra di lei le spie, le lanugini molli piovevano..


XX.


Così fu che la mattina dopo ella uscì dalla casa, di sotterfugio; e s’incamminò sola fuori del paese, per la strada nuova di Chieti.

Nelle vicinanze di San Rocco abitava Spacone. Sotto la maestà di una quercia druidica, egli compiva i miracoli e formulava i responsi. Tutto il contado, in venti miglia di circuito, ricorreva a lui, come a un apostolo della Providenza. Nelle epidemie del bestiame indigeno, mandre di bovi e di cavalli si raccoglievano in torno alla quercia per ricevere il talismano preservante dal morbo: le orme delle unghie equine e bovine facevano come un circolo d’incanti su l’erbe semplici del terreno.

Quando Giuliana s’incamminò, era nella terra pescarese un gran giuoco d’ombra e d’illuminazione. Le nuvole nómadi trasmigravano dalla marina alla montagna, come carovane con buone salmerle d’acqua, per quel cielo arabico del mese di giugno. A intervalli, larghe zone di terra si sommergevano nell’ombra, altre zone emergevano illustrate; e come l’ombra era turchina e mobile, la campagna così dava apparenza di un arcipelago che galleggiasse copioso d’alberi e di fromento. Molto canto di uccelli letificava la maturità delle biade.

Al primo spettacolo Giuliana ebbe una subitanea sensazione di ristoro; poichè la libertà della campagna, la felicità della luce su ’l fogliame, li odori cordiali dell’aria circondandole d’un tratto la persona le mossero il sangue, e la nuova speranza in lei al dispiegarsi dell’orizzonte si fortificò ed esultò. Ella, come sempre, si abbandonava ora all’influenza delle cose esteriori; si alleggeriva di tutte le angosce, viveva per due sentimenti soli, per la speranza della salvazione corporea e pe ’l desiderio di raggiungere la meta. In fondo, alla meta, ella vedeva nella sua fantasia sorgere il Vecchio benefico e illuminarsi misteriosamente. Per una nativa tendenza superstiziosa, ella trasformava quella figura, la ingigantiva e la vestiva di una dolcezza cristiana, la cingeva di nimbo. Allora tutte le dicerie che correvano tra il volgo le tornarono alla memoria confusamente e gittarono sprazzi di luce meravigliosa su la fronte di Spacone. Allora ella si rammentò che Rosa Catena, in un giorno lontano della malattia, aveva parlato del Vecchio con una reverenza devota citando miracoli. — Un cieco di Torre de’ Passeri era andato a San Rocco ed era tornato dopo tre di con li occhi che ci vedevano e con una cifra turchina su le tempia. Una femmina di Spoltore, invasa dalli spiriti maligni, era tornata mansueta come un’agnella, dopo aver bevuto due sorsi d’un’acqua che stava in una piccola zucca secca.

Così a poco a poco, lungo il cammino, pe ’l concorso di tanti elementi sparsi si venne formando nella mente di Giuliana una specie di leggenda. E a poco a poco, giacchè nulla possono li uomini senza l’assistenza di Dio, sorse anche la persuasione che il vecchio fosse un inviato del cielo, un redentore delle anime dalla dipendenza corporale, un distributore di grazie celesti su la terra ai caduti. — La speranza estrema non era discesa su la peccatrice improvvisamente, quasi per influsso divino, fra i segnali accesi nell’aria? E nella Pentecoste la colomba non aveva balenato dall’alto, alli occhi della pregante, un lampo di buona promessa?

La promessa ora si compiva nel santo giorno del Corpus Domini. Giuliana dunque, tutta calda di fede e di giubilo, andava su la polvere della via nuova, non curando la fatica dei passi. Ai due lati, le siepi biancheggiavano come coperte di escrementi d’uccelli. Gruppi di pioppi sonori stavano su i limiti; e i tronchi, come grandi pezzi di argenteria vecchia, riverberavano le variazioni della luce. Le contadine della Villa del Fuoco, nane, co’l naso camuso, con le labbra schiacciate, femmine cafre dalla pelle bianca, venivano incontro a due, a tre. In torno, su l’immenso teatro della campagna le vicende delle nuvole gigantescamente si rappresentavano.

Giuliana passò il Mulino, passò la Villa: una energia nervosa le animava il passo. Ella si sentiva battere il vento su la nuca e sentiva su’l capo a intervalli stormire i pioppi. Ma l’oscillare delle ombre e la polvere cominciavano a turbarle un poco la visione; il calore del moto le affluiva alla testa; la volontà era tutta occupata nell’insolito sforzo materiale dell’incedere. Ella così andò innanzi in una specie di stordimento crescente che si mutava in malessere; e, vinta dalla fatica e dal caldo, si lasciò allettare da un mucchio di olivi messi in salita a sinistra.

Passavano quattro o cinque zingari seminudi, bronzini, con qualche cosa di luccicante su’l petto, a cavalcioni di certi grandi asini rossastri. Uno di loro fischiava urtando con le calcagna il ventre della sua bestia. Tutti avevano in mano canne e portavano bisacce di pelle sulle cosce. Guardarono la donna rifugiata sotto li olivi e mormorarono poi delle parole ridendo.

Giuliana ebbe paura di quelli occhi che mostravano il bianco nello sguardo, e stette sbigottita fin che il gruppo non si allontanò. Lo scoraggiamento incominciava a impadronirsi di lei; la solitudine cominciava ad esserle inquietante, poichè nella campagna correva per lunghi brividi l’annunzio della pioggia e una certa solennità di silenzio scendeva nell’aria dalle nuvole raccolte. Ella s’era appoggiata a un tronco: a tratti, de’ soffii freschi le investivano la persona e le gelavano il sudore nei pori, de’ soffii che accorrevano a lei co’l fruscio del passo di un animale su l’erba; mentre in torno il tremolio del sole pareva un reverbero d’acque rinfrangenti o qualche cosa come il riflesso di una meteora lontana. Molti fiori d’un giallo pallido di zolfo facevano onda a pie’ delli olivi.

Un ricordo scese allora dai buoni alberi su l’animo della donna. — La chiesa era tutta piena di palme benedette e di aromi, quel giorno; ed ella andava tra il popolo sorretta dalle braccia di Marcello, in una gran dolcezza... — Ma, come ella si soffermò in quel pensiero, uno smarrimento le prese la memoria; tutto le sfuggì in una incertezza di sogno. Soltanto, de’ colpi sordi le batterono il cuore e dei sussulti d’angoscia le affannarono il respiro. Ella aveva ora la sensazione ottusa di un sopore che le cadesse su’l cervello con la pesantezza d’un colpo di maglio su la fronte di un bove. Un resto di volontà vigile le bastò a scuotersi debolmente e a discendere nella strada.

Le nuvole raccolte verso la Majella avevano preso il colore diafano e grigio di una massa pendula d’acque. Larghe trombe si avvicinavano dalla marina più cariche; e ancora qualche florido intervallo d’indaco si dilatava nell’alto. Un odore di umidità già saliva dalla polvere, saliva dalla campagna ansante nell’aspettazione. Li alberi immobili parevano assorbire la luce, si levavano anneriti in mezzo alla fumosità dell’aria, popolavano di forme incerte la lontananza.

Giuliana camminava con una fatica immensa, sentendo che le forze stavano per abbandonarla. — Ecco, pensava, arriverò a quell’albero e poi cadrò. — Ma non cadeva. Si scorgevano a destra le case di San Rocco. Un contadino veniva in contro a corsa.

— Buon uomo, è quello San Rocco?

— Sì, sì, voltate alla prima scorciatoia.

Grosse gocce sonanti cominciarono a cadere; poi d’un tratto la pioggia crescente rigò l’aria di lunghe frecce bianche, di lunghe sferze che percotendo schioccavano. Un sommovimento mostruoso agitò allora le nuvole: sprazzi di raggi eruppero di qua, di là. Tutte le colline, in fondo, a traverso le liste della pioggia si accesero un attimo e si rispensero. Una fievole serenità d’argento si levò su la Majella, in una zona sottile.

Giuliana tentava di correre verso la quercia distante un tiro di fucile. Le gocce le battevano su la nuca, le scivolavano per la schiena, le colpivano la faccia; e già le vesti erano tutte molli sino alla pelle. I passi le mancavano su’l terreno sdrucciolevole: ella cadde e si rialzò, due volte. Poi, quasi folle, si mise a gridare verso la casa.

— Aiuto! aiuto!

Una femmina uscì dalla porta e venne a sorreggerla, seguita da due cani che abbaiavano.

Giuliana si lasciò condurre machinalmente, senza poter più proferire una parola a traverso i denti serrati, livida, con la faccia stravolta. Ella non si riscosse che dopo qualche tempo, per le domande che l’ospite le faceva. E allora, repentinamente, all’udire il nome di Spacone, si risovvenne di tutto.

— Ah, dov’è Spacone? — chiese.

— È a Popoli, donna santa: l’hanno chiamato.

Giuliana non resse più: cominciò a singhiozzare e a strapparsi i capelli.

— Che volete, donna santa? che volete? Io sono la moglie; ci son qua io.... — miagolava la strega, trattenendole i polsi, incitandola a parlare.

Giuliana esitò un momento; poi disse tutto, a precipizio, tra i singulti, coprendosi la faccia.

— Aspettate. Il rimedio c’è; ma costa cinquanta soldi, donna santa — fece la strega in quel suo idioma tutto molle di vocali, cantando quel bello appellativo per intercalare.

Giuliana sciolse un nodo nel fazzoletto e offerse cinque piccole monete d’argento. Poi aspettò, più calma.

La stanza era vasta, ma bassa. Le pareti, su cui qua e là il salnitro fioriva, avevano dei toni di pelle di serpente secca, avevano come delle scaglie di rettile. Rozzi idoli cristiani di maiolica popolavano quel fondo antico; forme strane di utensili e di stromenti ingombravano le tavole. L’insieme dava l’impressione religiosa di un santuario custodito da un semplicista monaco.

La moglie di Spacone, dinanzi al camino, componeva il suo filtro, in silenzio. Era una femmina alta ed ossuta, bianchissima in faccia, co’l naso guasto avente il color violetto di certi fichi meridionali, con i capelli rossi e lisci su le tempia, con due piccoli occhi di albina, tatuata nel mento, nella fronte, nel dorso delle mani.

— Ecco, donna santa! Coraggio!

Giuliana ingoiò il liquido, d’un fiato; ma si sentì, subito dopo, da un’amarezza atroce mordere il palato e le viscere. Restò con la bocca aperta, premendosi il ventre con le mani, battendo rapidamente un piede su ’l pavimento, nello spasimo della prima contrazione uterina.

— Coraggio, donna santa, coraggio! - le ripeteva la strega, fissandola con quelli occhi bianchicci di mollusco, soffregandole le reni. - Avete tempo di arrivare a Pescara... Via! via!

Giuliana non poteva rispondere: alla bocca non le venivano che delli urli. I crampi le serravano lo stomaco, le irrigidivano i muscoli respiratorii, le eccitavano il vomito. I bulbi visivi le ruotavano in alto, come se ella fosse entrata ne’ sintomi di una convulsione epilettica. In tutto il suo debole organismo la potenza eccessiva della bevanda operava ora effetti inaspettati. Il parto falso si produsse quasi d’improvviso, con una di quelle terribili perdite per ove le forze della vita se ne vanno mollemente, insensibilmente, fluendo.

— Gesù, Gesù, Gesù! - mormorava la strega, inquieta, presa da una sùbita paura dinanzi al corpo di Giuliana riverso che a pena certe piccole ondulazioni convulsive scuotevano. - Gesù, aiutatemi!

Alle sollecitazioni di lei, Giuliana rinvenne. E come dopo qualche tempo il profluvio parve arrestarsi, Giuliana si potè levare in piedi; sospinta dalla femmina, uscire; giungere fino alla strada nuova, barcollando, pallida come se non le fosse rimasta sotto la pelle una goccia di sangue, ma tenuta viva da una speranza che il maggior pericolo fosse omai superato.

Ora la campagna era tutta frescamente luminosa. Passava una fila di carretti carichi di gesso, e i grossi carrettieri di Letto Manoppello, pieni di vino, sdraiati su i sacchi fumavano. Come Giuliana si mise dietro la fila, uno di quelli, l’estremo, gridò:

— Ohe, volete che vi porti, bella figliuola?

Machinalmente Giuliana si lasciò tirar su dalle forti braccia dell’uomo, e stette così seduta su i sacchi. Non intendeva le grasse risa e i motti osceni che di carro in carro si propagavano.

Con una energia involontaria d’istinto, teneva le ginocchia serrate per impedire al flusso la via. Sentiva a poco a poco una specie di ottusità occuparle la conscienza, così che li sbalzi frequenti delle ruote su la ghiaia non le davano che una decorazione sorda e il lezzo delle pipe non le turbava che lievemente l’olfatto. Ma già il sussurro lontano alli orecchi, il bagliore alla vista, le vertigini annunziavano lo sviluppo dell’anemia nel cervello. Più volte ella sarebbe caduta se non l’avessero sorretta le mani del carrettiere che incoraggiato dalla muta docilità di lei cominciava de’ tentativi brutali di corazze. Il paese di Pescara apparve in cima alla strada, in mezzo al sole, mandando suoni su’l vento.

— Fanno la processione - disse uno delli uomini. Tutti li altri sferzarono; e la strada risuonò sotto il trotto pesante, al tintinnio de’ sonagli, allo schiocco delle fruste.

Quella violenza di scosse e di fragore richiamò per un momento Giuliana al senso della realtà circonstante. Ma, poichè l’uomo le cingeva i fianchi con un braccio e le metteva il fiato vinoso nella guancia, ella per un cieco impeto si mise a gridare e a gesticolare quasi l’avesse presa un delirio. E il fantasma di Lindoro subitamente le si rizzò dinanzi alti occhi offuscati e potè anco suscitarle il ribrezzo dell’orrore in quel poco di sensibilità che le restava nei nervi. Ella, a pena il carro si fermò, discese a terra dai sacchi scivolando; tentò di muovere i passi, con la furia affannosa di chi cerchi raggiungere un luogo sicuro per cadere.

Venivano in contro nella strada le verginelle coperte di veli candidi, con in mano i cèrei dipinti, e cantavano. Dietro la torma angelica, un grande, sventolio di drappi e di baldacchini empiva l’aria beneficata dalla pioggia recente. E cantavano:

          Tantum ergo sacramentum
          Veneremur cernui...

Giuliana, intravedendo, voltò nel vicolo; giunse alla casa di Rosa Catena, entrò; presa dalla vertigine, cadde in mezzo al pavimento. E, come il profluvio del sangue ricominciava, la paralisi le occupò la metà inferiore del corpo, ogni facoltà di moto volontario in lei si spense.

Rosa non era nella casa: la processione aveva attirato tutto il paese, quel giorno. In un angolo della stanza Muà, il padre, un mostro di vecchiaia umana, un cieco inchiodato per anni su’l legname di una sedia dall’artrite deformante, tentava vagamente con la punta del bastone i mattoni intorno a sè per scoprire la causa del rumore improvviso.

Allora, in mezzo al sangue, Giuliana fu scossa da un parossismo di convulsione. Le contrazioni dei muscoli le gettavano il tronco da una parte e dall’altra; li arti le si allungavano con lo scatto e il bàttito d’una gamba di animale ferito a morte, le mani stringevano i pollici nel pugno, si riaprivano, ristringevano; i bulbi delli occhi si ritraevano dalle orbite, sotto le palpebre violastre, quasi con un movimento di fiore che ritiri i petali flosci in sè. A un tratto la testa si arrovesciò in dietro tutta, nel supremo colpo dell’apoplessia nervosa; il tronco senza sangue si irrigidi nella paralisi. Un leggero tremore apparve nelle corde del collo le dita chiuse, dopo un minuto, si distesero.

Muà, senza comprendere, girava ancora intorno a sè il bastone tentando, vanamente, con un borbottio nella bocca sdentata.







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