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Nell’assenza di Lanciotto
I.
— Oh, Donna Clara, salute!
All’augurio ella sorrise tristamente; poichè sentiva che la buona salute a poco a poco la abbandonava, forse per sempre.
Tentava di rimanere ancora in piedi, di tenere in piedi quella sua grande macchina ossuta contro l’affievolimento crescente: pareva così forte, malgrado una fitta irradiazione di rughe, malgrado una bella coronazione di nevi senili. E poi allora principiavano li allettamenti della primavera, così dolci nella campagna ove ella viveva da tanti anni, principiavano allora quei buoni tepori aspettati che l’avrebbero fatta guarire, che l’avrebbero salvata certamente. Bastava ch’ella avesse la virtù di non cedere a quella spossatezza, bastava ch’ella non si accasciasse, bastava che la nuova aria l’entrasse nei pulmoni, le accelerasse il sangue. Questa fiducia le ravvivava lo spirito, la faceva essere quasi ilare, le faceva amare i clamori infantili, di cui Eva rallegrava le stanze, le faceva amare li squilli di canto di cui la nuora empiva le vôlte. Quel profumo di giovinezza umana che saliva tutt’intorno, e quella benevolenza della stagione nascente l’eccitavano, le davano una specie di energia momentanea che certi liquori dànno, la turbolenta sollevazione di vita che ha l’infermo se oda una musica allegra passare. C’era in tutto questo peró qualche cosa di amaro, l’acredine che viene immancabilmente da ogni lotta. Quando la nuora, vedendola pallida nella zona di sole che traversava i vetri della finestra, smetteva di cantarellare, presa dal rispetto pietoso che hanno i sani per i sofferenti e le chiedeva se proprio si sentisse bene, Donna Clara rispondeva:
— Sì, Francesca, mi sento bene. Cantate pure. Ma il tono sordo della voce svelava una irritazione repressa; e Francesca se ne accorgeva.
— Volete, mamma, che vi faccia preparare il letto?
— No, no.
— Avete bisogno di nulla?
— Ma no, di nulla...
L’impazienza irrompeva. Ella apriva le vetrate e poggiava i gomiti su ’l davanzale, cercando di respirare largamente la salute nell’aria. O chiamava a sè la piccola nipote Eva, che le si gettava addosso con la furia cieca dei fanciulli ebri di chiasso ridente nella faccia rossa di calore tra l’abbondanza del biondo.
— Oh nonna grande! — gridava la bimba incurante della pena recata alle ginocchia della vecchia nell’urto dell’accorrere. E rimaneva a riposarsi, mentre Donna Clara godeva immergere le dita signorilmente lunghe nella vitalità di quella chioma che esalava il profumo naturale dell’infanzia, come in un bagno salutare. Per un momento quell’espansione di tenerezza le faceva bene, sentiva per un momento da quel piccolo corpo, ancora tutto vibrante de’ moti anteriori, ripercuotere in sè una sensazione di gioia inconsciente; o meglio, ella sentiva che in quel piccolo corpo qualche parte del suo proprio essere riviveva come per passaggio di eredità, e ne gioiva. Sollevava il capo, della bimba; la voleva guardare in quei puri e profondi occhi, quasi sempre dalla meraviglia fatti maggiori.
— Ha li occhi e la fronte di Valerio; non è vero, Francesca?
— Sì, mamma; ossia li occhi vostri e la fronte vostra.
Allora le rughe nella faccia di Donna Clara si aggrappavano come raggi, nella luminosità che loro dava la compiacenza del sorriso.
Poi, quando Eva, presa da una nuova frenesia di agitarsi, le guizzava sotto la carezza sfuggendo, Donna Clara restava in una specie di stupefazione, come chi senta mancare uno stimolo dilettevole in una parte delle membra, e tema che scuotendosi anche l’ultima ondulazione del diletto vanisca. A poco a poco la fatica di tenersi sù contro il languore diventava penosa, e quella ostinazione di resistenza a poco a poco cedeva; e prima un’inquietudine vaga che si andava determinando via via in timore, e quindi un terrore vero, il terrore di chi avendo esaurito il coraggio si trova senza scampo dinanzi al pericolo, strinse la vecchia anima e la irrigidì. Il corpo aveva bisogno di star disteso e di non più gravare su i muscoli affievoliti; poggiando il capo alla spalliera della sedia e rilasciando le membra, l’inferma provava un sollievo. Ma quel gran letto cupo, tutto chiuso in torno dalle cortine di damasco verde, ma quel gran letto occupante da solo tutta la camera, dov’era morto cinque anni innanzi il marito, quel letto le aggravava il terrore. Ora non ci sarebbe entrata mai; le sarebbe parso di seppellirsi per sempre, di soffocare. E invece ella conservava, nel turbamento, la bramosia dell’aria piena e della piena luce; ella odiava l’isolamento, per l’illusione che il contatto e la vista delle cose forti giovani e liete l’avrebbero lentamente rinnovata.
Così, quando Gustavo, il figlio minore, con la dolcezza la persuase, ella volle che le mettessero un piccolo letto nella camera all’angolo della casa, sopra la gran tettoia delli aranci, tra mezzogiorno e levante dove si vedeva il cielo, dove erano le due larghe finestre aperte alle invasioni del sole.
*
A pena fu adagiata, a pena ebbe il presentimento che non si sarebbe forse alzata mai più, successe in lei al terrore una calma singolare. Ora ella attendeva; e nulla più triste di quella lunga attesa, di quella lenta deperizione d’una creatura umana, di quella consacrazione sicura alla morte.
La nuova stanza aveva le pareti nude, l’aspetto di un luogo fin allora disabitato. A traverso i vetri di una delle due finestre si scorgeva l’ultimo limite della pianura e la linea scura de’ colli, e dietro i colli, su’l cielo vivo, il profilo di Montecorno, quella figura dolce di dea supina che sotto la neve pare una immensa statua di marmo abbattuta lungo la terra d’Abruzzi, la protettrice della vecchia patria, che i marinai dalla costa salutano con effusione d’amore come un giorno i nauti del Pireo salutavano l’asta di Atena. Sotto l’altra finestra si riscaldava ai buoni soli una fila di aranci.
E i giorni passavano. Valerio lontano non sarebbe tornato che fra due, fra tre mesi forse. Dal letto dell’inferma si diffondeva per tutta la casa il silenzio: era quella soffocazione o attenuazione di tutti i rumori, di tutte le voci che si fa in torno ai malati per non disturbarne il riposo. Il medico, un piccolo uomo dalla faccia tutta rasa, quasi lucida, veniva ogni sera, poco prima del tramonto, alla stessa ora. Nella stanza cominciavano le ombre, rotte talvolta da un ultimo bagliore che dalla finestra di mezzo entrava a sfiorare il letto: un domestico portava il lume coperto da una gran ventola verde. Quando il medico era uscito, restavano nella stanza Gustavo e Francesca, seduti accanto al letto, silenziosi, dominati da quella luce eguale, ascoltando le voci fievoli che mandava la campagna nel lontano. Eva piegava la testa nella gravezza del sonno, inondando le ginocchia della madre con i capelli di sotto a cui usciva il respiro, senza che si vedesse la bocca. Erano i capelli una morbida massa palpitante.
— Sentiteli — disse una volta Francesca al cognato, accarezzandoli con la compiacenza delle madri felici.
Gustavo v’immerse le dita leggere appressandosi col chinare il corpo senza levarsi dalla sedia; e nel solco s’incontrarono le mani fuggevolmente.
Pure, a quel contatto i due giovini per un moto istintivo le ritrassero. Si guardarono dopo, con la meraviglia curiosa di chi abbia d’un tratto scoperta per caso qualche cosa fin allora inaspettata, nascosta: nessuno dei due, prima, aveva pensato che da quell’avvicinamento di epidermidi sarebbe scoccata quella scintilla. E insieme guardarono la vecchia: dormiva Donna Clara; aveva li occhi chiusi, doveva dormire. Stettero un momento ad ascoltare quella respirazione un po’ roca che pesava nel silenzio.
— Oh mamma! - mormorò la voce d’Eva, mentre di tra il biondo sbucava la faccia increspata nella confusione fastidiosa del primo svegliarsi.
II.
Nacque allora in quelle due nature differenti un sentimento strano, misto di rammarico e di timore, in fondo a cui un sommovimento vago di bramosìe cominciava a determinarsi: era come quando nel sonno dalle sedi interne, ove dormono fantasmi di passate sensazioni e frammenti d’immagini dimenticate, cominciano a salire le visioni confusamente; era come quando all’urto di un corpo nella quiete dell’acqua limpida si sollevano i detriti accumulati dal tempo. Allora certi piccoli fatti anteriori riapparirono nella memoria sotto una luce nuova, presero significazioni che innanzi non ebbero, atteggiamenti che innanzi non ebbero.
Da poco più di un mese Francesca era venuta in quella casa, per rimanerci durante l’assenza del marito; i sette anni del matrimonio li aveva passati quasi interamente a Napoli con Valerio. Francesca ricordava che il giorno dell’arrivo, dopo avere abbracciata Donna Clara, aveva porta la fronte a Gustavo, e Gustavo l’aveva baciata arrossendo in quella sua selvatichezza di eremita. Una mattina, mentre ella e Gustavo sedevano nell’aranceto e Gustavo le leggeva un fatto di amore in una cronaca di giornale, ella ridendo e mostrando nel riso superiormente il roseo della gengiva, aveva cominciato:
— Soli eravamo e senz’alcun sospetto...
Così, ridendo, con quella sua bella noncuranza sorvolante; e il riso dava un’espressione fine al volto, a quel puro ovale di miniatura indiana, dove li occhi erano tagliati leggermente salienti alli angoli verso le tempie, e le sopracciglia, arcuandosi forse troppo e allontanandosi dalle palpebre, mettevano nella fisonomia un’aria singolare d’infantilità.
Un’altra mattina Eva, presa da uno de’ consueti inebriamenti di chiasso, aveva voluto che Gustavo la portasse pel viale su le spalle correndo sotto i rami che cominciavano a rigermogliare; poi, a pena vide in fondo apparire la madre, un nuovo capriccio la prese: volle che ella intrecciasse le mani con Gustavo, e su quell’intrecciamento sedette avvolgendo con le piccole braccia il collo dell’una e dell’altro, gittando loro nelle orecchi le strida acute.
Tutti questi fatti e altri insignificanti ora tornavano nel ricordo modificati, vivissimi. Francesca nella notte, dopo il primo turbamento e la prima resistenza contro la tentazione del fantasticare sano, adescata da quel sottile profumo di colpa che dal fondo di tutto ciò saliva ad irritare il suo senso di donna giovine, a poco a poco si abbandonò per quel pendìo. E come cedeva all’abbraccio del sonno, ondeggiando in quel punto in cui l’attività della coscienza si affievolisce nel rilasciamento dei nervi e non ha più virtù di dirigere e di moderare le espansioni della fantasia, ella per quel pendio scese in fondo languida col desiderio al dolce peccato della figliuola di Guido. Nè quello dei peccati di Francesca sarebbe stato il primo. Ella era giunta nel matrimonio allo stadio inevitabile in cui la pluralità delle donne, per le molto allegre ragioni che il medico Rondibilis espone al buon Panurge, cade. Ella era già passata fugacemente a traverso due o tre amori, emanando nel passaggio soltanto una irradiazione di giovinezza e seguitando oltre illesa. Ella era una di quelle nature muliebri in cui la mobilità dello spirito e la facilità delle sensazioni subitanee tengono lontana la passione; una di quelle nature ripugnanti dal soffrire per la stessa intima virtù che i metalli nobili hanno contro la corruzione dell’ossido. Portava nell’amore una sensualità fine e quasi ingenuamente curiosa all’apparenza; anzi appunto era questa curiosità il lato singolare nel suo aspetto di amatrice. Quando li uomini, quei due, quei tre, le profusero in ginocchio tutta la eloquenza così volgare del loro cuore, ella li guardò con i belli occhi d’oliva attentamente, non senza un’aria d’ironia lieve, come ascoltando se per caso avessero una volta un accento nuovo, una espressione nuova. Poi sorrise, piegando, o meglio concedendosi con una specie di condiscendenza signorile. I grandi impeti allora e i grandi ardori la offendevano: ella non voleva la febbre, ella non capiva certe brutalità del piacere. Preferiva la commedia gaia, di buon gusto, scoppiettante, bene eseguita, al grave dramma declamato male. Era questa la conseguenza di una felice conformazione del suo organismo; ed anche di una educazione artistica non comune, poichè il sano gusto dell’arte nelle donne sane genera a poco a poco una specie di scetticismo amabile e di mobilità gioiosa, che le difende dalla passione.
*
Gustavo per contro, non molto più che ventenne, era vissuto nelli ultimi anni quasi sempre alla campagna, con Donna Clara, oscuramente, amando i cavalli vivaci e il grande levriero bianco ereditato dal padre. Aveva lo spirito incolto, oscillante, attraversato a tratti da malinconie vaghe, scosso da turbolenze improvvise. Perchè in lui i rigogli amari della pubertà soffocati tornavano qualche volta a levarsi con la stessa ostinazione di vita che hanno le radici delle gramigne abbarbicate nel terreno. Così quando la scintilla scattò, tutte quelle forze latenti irruppero con una violenza nuova. E nella notte fu un’angoscia enorme sotto il cui peso il giovane rimase prostrato, un’angoscia ove già il rimorso aguzzava la punta, ove già un presentimento cupo di sciagure si affacciava, ove tutti i fantasmi insorgevano e ingigantivano e incalzavano senza tregua. Pareva a lui di soffocare; ascoltava tutta la stanza empirsi dei battiti del suo cuore, e in mezzo a quei colpi come delle voci passare, le voci della madre. - Lo chiamava forse la madre dall’altra stanza? Lo aveva forse sentito soffrire? — Si levò sui gomiti, tendendo li orecchi, al buio, senza poter distinguere in quell’intronamento alcun suono. Nel dubbio, accese il lume; traversò l’uscio, si avvicinò al letto dell’inferma. Ella a quella luce volse dall’altra parte li occhi feriti.
— Che vuoi, Gustavo?
— Non mi hai chiamato?
— No, figliuolo.
— Mi pareva, mamma, di aver sentito...
— Va, dormi. Che Dio ti benedica figliuolo mio.
III.
La mattina dopo, tornava Gustavo lentamente giù pe ’l viale, insieme con Famulus il gran cane niveo che lo seguiva con quel dondolamento di danza così molle ed elegante nei levrieri. Era una di quelle mattine verginali della primavera che nasce, in cui la campagna ha come un’indolenza di convalescente nello svegliarsi. Qualche cosa di latteo, un chiarore chiarissimo vagava su ’l verde, sotto li alberi; e su quella massa il sole metteva una radiosità tra bionda e rosea, una trepidazione indistinta. La vecchia terra d’Abruzzi ora s’inteneriva.
Lontano, in fondo al viale, su ’l cupo verde delli aranci, Gustavo scorgeva una macchia bianca simile a quelle che le statue fanno nei giardini. Ma, acuendo egli lo sguardo, il cane gli si spiccò dal fianco, quasi avesse odorata la preda, con quelli stupendi slanci di antilope in corsa.
— Famulus, qua! Famulus!
Era la voce di Francesca, tra le piante. Ella ritta aspettava che il levriero la raggiungesse, facendo schioccare le dita, dando quel richiamo squillante all’aria. Gustavo le fu presso quando ella già stava china su’l cane serrandone il lungo muso tra le mani carezzevoli: bellissima, nella veste mattinale a pieghe ricche dentro cui s’indovinava la flessibilità del corpo vivo, con i capelli dalla nuca tirati sù, e stretti in un nodo su’l sommo della testa come in certi ritratti settecentisti, così curva su l’animale che supino agitava le zampe sottili e nervose verso di lei, mostrando il ventre smilzo color di carne.
— Buon giorno, signora.
— Oh Gustavo, buon giorno! - rispose ella drizzandosi con un movimento vivace, leggermente colorita nella faccia dall’essere stata china. E mentre gli tendeva la mano, lo guardò curiosamente socchiudendo gli occhi: poichè ella dal letto s’era levata con la sua bella serenità. Poi alterando per gioco la voce, soggiunse.
— D’onde venite, o signore?
Gustavo capì e sorrise: egli non l’aveva chiamata a nome nel saluto per una debole trepidazione di fanciullo; ora si pentiva, voleva parlare sicuramente, dire molte cose.
— Di lontano, Francesca. Sono uscito all’alba, ho condotto meco Famulus. L’aria frizzava. Abbiamo preso per i campi, abbiamo attraversato la pineta... La pineta è tutta fiorita di violette; c’è l’odore della resina mescolato all’odore dei fiori... Se sentiste! Ci andremo a cavallo, un giorno, quando vorrete... Siam passati anche dalla fattoria sotto i colli; c’è il prato tutto bagnato di guazza. Scappavano i conigli da tutte le parti. Famulus n’ha afferrato pe ’l collo uno; glie l’ho fatto lasciare. Dopo il giro lungo, ci siam messi pe’l viale. Famulus vi ha scoperta da lontano e vi è corso in contro per leccarvi le mani. Voi gli date troppi pezzi di zucchero a questo vecchio ghiottone: lo guasterete Francesca...
Parlò ancora; perchè Francesca lo ascoltava. Quando apparve Eva con l’aria spaventata gridando:
— Corri, mamma! Nonna grande si sente male.
Accorsero insieme. Trovarono Donna Clara su ’l letto in preda a uno di quelli attacchi nervosi di freddo che la facevano tutta tremare e le squassavano le povere ossa. Non poteva parlare; un pallore quasi livido le occupava la faccia, dove il mento aveva un battito rapido e li occhi parevano perduti nelle loro orbite sotto la palpebra semichiusa. Non si poteva far nulla per aiutarla; bisognava aspettare che quel momento passasse. Gustavo le teneva la mano calda sulla fronte gelata, pendendo con un’espressione di timore e di tenerezza da quel povero volto illividito, mettendole nel volto il respiro caldo, chiamandola sommesso, a tratti, con la bocca presso alli orecchi di lei. Ella doveva sentire; perchè allora nel globo giallognolo delli occhi ricompariva l’iride verso li angoli, e nelle labbra lottava contro il battito convulso un moto vano di sorriso. Il sole non entrava ancora nella stanza; un fiammeggiamento d’oro si frangeva su i vetri chiusi. A poco a poco nell’inferma il ribrezzo si placava; ella aprì due o tre volte la bocca aspirando l’aria, ad intervalli, debolmente. Come a poco a poco la penetrava il calore, su la faccia il pallore diveniva più dolce. Volse li occhi a quelli che le stavano accanto; potè sorridere allora abbassando le palpebre, senza parlare. Una stanchezza immensa le invadeva tutto l’essere; e in quella prostrazione ella conservava ancora la sensazione del ribrezzo che l’aveva scossa; mentre, dinanzi alla felicità crescente del mattino primaverile, un rimpianto amaro, il rimpianto di qualche cosa d’irrimediabile, singhiozzava in lei. Tutto era finito; ella era vecchia, ella doveva dunque morire. E la stanchezza seguitava ad invaderla: uno smarrimento dei sensi, un tepore grave dalla testa ai piedi s’impossessava di lei.
— S’addormenta - sussurrò Francesca.
— No, sviene - disse Gustavo, pallido, che aveva sentito affievolire nei polsi della madre i colpi della vita.
— Correte, Gustavo: su nella mia stanza, accanto al letto c’è una fiala di cristallo. Portatela qui.
Egli andò, salì le scale correndo, entrò nella stanza. Malgrado la commozione filiale, un’impressione viva di odore e di freschezza gli battè nella faccia e lo fece trasalire; un’impressione di luce rosea, come d’un gran polverio roseo, dove nuotavano le esalazioni tepide del bagno, dove viveva ancora il profumo naturale della cute femminile, quel profumo che turba. Egli cercò la fiala accanto al letto, la cercò senza guardare: nel letto le coperte rovesciate lasciavano vedere il lenzuolo bianchissimo dove rimanevano ancora le impronte del corpo che ci avea giaciuto. Saliva di lì l’odore di Francesca, quello che ella soleva avere.
Egli cercando mise le mani in qualche cosa di morbido: era forse una camicia ravvolta, chi sa, qualche cosa ch’ella aveva già dovuto portare. L’odore gli rimase forse nelle mani. Trovò la fiala, uscì, tornò giù correndo.
IV
..... Il mezzogiorno trascorso a pena. Avevano finalmente la sera innanzi deciso di cavalcare alla pineta; e il pomeriggio di quel marzo morente era lusingatore.
Si misero per la via grande. Cavalcavano a fianco al trotto di caccia; da principio silenziosi. Gustavo costringeva un poco in dietro il suo baio, per guardare la figura sottile ed eretta di Francesca che chiusa nell’amazone nera, avendo la massa dei capelli castanei raccolta sotto il feltro elegante, manteneva con la ferma stretta del guanto il sauro in quel trotto leggero. Ella così era tutta intenta nel diletto di sentirsi il vento su la faccia, di sentire l’animale urtare co’ l piè nervoso il terreno elastico e sonante. Quando un riccio di capelli le irritava li occhi, ella lo rimandava in dietro su le tempie con un movimento vivo del capo. Una volta diede un colpo di frustino su la siepe che limitava la via, piegando il fianco verso quel lato: una torma di uccelli si levò rumorosamente nello azzurro, in quell’azzurro avente allora la dolcezza diffusa che ride fra li intervalli delle nuvole dopo la pioggia su la campagna stupefatta. Nella campagna allora si sentiva come l’influenza pacifica della Dea nivale, di quella figura che era la linea più grandiosa del paesaggio circostante. Pei seminati stavano sparsi i coltivatori.
— A sinistra, Francesca — avvertì Gustavo spingendosi avanti.
Venivano in contro due paia di bovi aggiogati, infiocchettati di rosso, forse tolti poco prima dal carro, condotti da una specie di vecchio fauno che reggeva in mano le funi.
Il sauro ruppe il trotto, entrando in un moto di piccolo galoppo, senza avanzare. Francesca teneva corte le briglie, chinata, in un atteggiamento audace, per guardare le zampe dell’animale moventesi in quel gioco pieno di grazia. Gustavo ammirando diceva che il sauro avrebbe saputo galoppare anche nel cerchio di un napoleone d’oro. Allora una voglia di corsa avventurosa prese Francesca: le narici rosee le si dilatarono al sentore del vento.
— Hop! hop! hop! hurrà!
Si mossero insieme di slancio i cavalli, crescendo vivamente nell’animazione, quelle belle e giovini bestie che avevano anche fiutato la primavera.
— Hop!
La cavalcatrice ora si eccitava: il vento fresco quasi freddo, le metteva il rossore nella faccia, le metteva un increspamento nelle labbra tra cui apparivano i denti e un po’ della gengiva superiore.
Ella aveva uno di quelli oblii felici che le persone sane hanno, quando un esercizio di forza e di agilità le diletta e le commuove di sensazioni vivaci. E come dalla gioia nasce una bontà naturale di espansioni, ella ora si sentiva attratta verso Gustavo che le galoppava a lato, ella ora sentiva che quella effusione di benessere la congiungeva a lui.
— Hop! hop!
Non si guardavano, ma provavano il profondo incanto che dà il guardarsi dentro le pupille. La strada volgeva a gomito; un piccolo ponte traversante un canale risuonò al passaggio: la pineta in fondo nereggiava, ponendo su ’l cielo lo stesso ondeggiamento montante che hanno i dorsi nelle masse di bestiame, segnatamente di pecore, in cammino.
— La pineta! — gridò primo Gustavo, tendendo da quella parte il frustino. Arrivava su ’l vento l’aroma resinoso. E il cavaliere disse, curvandosi un poco verso la compagna:
— Aspirate, Francesca. Quest’odore fa bene.
Egli disse queste semplici parole con un accento indescrivibile, come avrebbe detto il principio impetuoso di una lirica d’amore. La festa della sua giovinezza ora esplodeva luminosamente; egli non la comprimeva, non la voleva comprimere. Nessuna forma di felicità è forse più dolce che l’essere al fianco dell’amata, cavalcando, a traverso la primavera nascente, verso una mèta d’amore. Quelli insorgimenti di libertà barbara, che li uomini vissuti lungi dalla legale comunanza delli altri uomini hanno nel sangue, ora facevano a lui dimenticare il fratello. La donna del fratello era bella ed egli la conquistava.
— Hop! hop!
La pineta era vicina; dentro la selva dei fusti altissimi penetrava a zone magnifiche il sole, e pe’l chiarore s’allontanavano fughe di portici favolosi. Entrarono al passo, lasciando pendere le briglie mentre i cavalli sbuffavano rumorosamente scuotendo la testa o appressavano le froge come per parlarsi in segreto. Dinanzi, si alzavano i voli delli uccelli spaventati. Sopra il capo, si aprivano raramente quelli spazî di cielo che tra il verde muta il suo azzurro in un violetto soave.
Così esploravano il bosco. A traverso il labirinto, tra fusto e fusto, i cavalli non potevano camminare insieme. Francesca andava innanzi un po’ affaticata dalla corsa, accarezzando con la mano aperta il collo fumante del sauro. Dietro veniva Gustavo, in silenzio. Ma dai cespugli un profumo acuto, di fiori che non si vedevano, saliva; un profumo che li turbava e li faceva desiosi. Erano in una di quelle brevi radure, per lo più circolari, dove si sente più vivo e penetrante il fascino della selva.
— Ah, Gustavo, guardate quel fiore! — esclamò Francesca additando. — Se mi tenete il frustino, lo colgo da me.
E, dato il frustino, ella si curvò dalla sella con una movenza agile: mentre il sauro urtava con una zampa arcuata il terreno. È una cosa che accade sempre, comunemente, in tutte le cavalcate a due, nei libri di romanzo e nella vita reale.
Quello era un piccolo fiore rosso, di una fragranza fine.
— Odoratelo, Gustavo — ella fece, e glie l’accostò alle nari.
Una tentazione: Gustavo le sfiorò le dita con la bocca calda, tremando. Ella non disse nulla, ma mutò un poco nel viso; e spinse il cavallo innanzi.
— Ascoltate, Francesca, un momento! — le gridò dietro il giovane, anch’egli spingendo l’animale. E fu quasi un inseguimento a traverso la densità pericolosa delli alberi, un calpestìo sonoro su le pine secche tra i cespugli. Un braccio di lei aveva urtato in un tronco, seccamente.
— Fermatevi, fermatevi! Vi fate male.
Ella era giunta nel folto, dove il cavallo si rifiutava di avanzare. I grandi pini sorgevano diritti ed inflessibili nel penetrale del bosco. Tutto in torno, nell’illuminazione verde, alberi, alberi, alberi.
— Fermati!
E si trovarono tutt’e due a faccia, impalliditi, esitanti; mentre i cavalli scalpitavano irritati dal morso.
— Avete urtato il braccio. Sentite male? - chiese Gustavo con la voce rauca e dolce. Egli costrinse il cavallo ad avvicinarsi, prese il braccio di Francesca leggermente, sbottonò la manica al polso. Francesca lasciava fare, guardava. La manica dell’amazone era così stretta! Si scoperse, tra il guanto e il panno nero, il polso rotondo, niveo, quel polso rigato di vene come la tempia di un fanciullo. Gustavo stringendo il polso tra le dita, con l’altra mano cercava di tirare in sù la manica. Il cavallo scuoteva le briglie lasciate su’l collo libere.
— Ecco!
Su’l braccio, vicino al gomito, c’era una macchia rossa che cominciava a illividirsi; una piccola ferita cattiva nel candore della pelle molle di lanugine. Gustavo la voleva baciare. Ma allora Francesca rapidamente, bellissima nell’atto, rapidamente, concesse al fratello di Lanciotto la bocca, mentre scalpitavano i cavalli irritati.
Si rimisero su le tracce per uscire. Il tramonto suscitava maggiore abbondanza di incensi dalla boscaglia ove morivano i bagliori tra quella ultima visione di portici favolosi. E poi, nel prato umido, dinanzi al trotto dei cavalli fuggirono i conigli bianchi e grigi con ritta la coda sparendo in mezzo all’erba nuova.
V.
Quando al ritorno, entrarono nella stanza di Donna Clara, quell’odore singolare che è nell’aria respirata dalli infermi, quell’odore li ferì nelle nari spiacevolmente; poichè essi conservavano ancora la sensazione vivace delle emanazioni silvestri e del vento vespertino soffiante alla prateria.
Donna Clara stette ancora un momento senza aprire li occhi, supina, in una di quelle sonnolenze ineguali che verso sera la prendevano. Ella era là: aveva ora nella faccia qualche cosa di cavo, un’espressione smarrita come di chi abbia perduta la conoscenza. Una fascia bianca le copriva la fronte, le coperte le giungevano sino al mento: da tutta quella bianchezza accorante usciva il profilo del naso estenuato, un profilo quasi diafano; e le forme lunghe dal corpo in giù sotto le pieghe si perdevano.
Francesca e Gustavo restavano in piedi, di contro, ai due lati del letto, senza levare li occhi, perchè quel corpo di vecchia sofferente li divideva, li allontanava. Sentivano essi, pure innanzi a quella tristezza, un’impazienza tentarli, l’impazienza di chi essendo incalzato da un desiderio deve reprimersi in un indugio fastidioso. Oramai una forza li sospingeva l’un verso l’altra. Ma a Gustavo la voce di figlio avvertiva sommessamente che quell’impazienza era crudele; ed egli per sfuggirla si dava quei rimproveri e quelle esortazioni interiori che dinanzi a un sentimento colpevole li uomini si dánno su’l palco scenico della loro coscienza. - Quella povera malata dunque non era più sua madre? Dunque egli non sentiva più la tenerezza di una volta? Dunque dopo esserle stato tanto tempo lontano ora gli pareva duro il rimanere un poco nella stanza a guardarla? E perchè? Era egli diventato cattivo d’un tratto, insensibile? - Chiedeva queste cose a se stesso, ma senza attenzione di spirito, come recitando una parte nobile, per ingannare l’accusa. I pensieri e i fantasmi del recente pomeriggio d’amore lo distraevano, l’occupavano.
Alla fine Donna Clarra aperse li occhi lenti, con fatica. Non disse nulla, alle domande non rispose che con un leggero abbassamento delle palpebre e con un sorriso vanente. La vista di quei due non l’aveva sollevata; anzi una vena di amarezza le saliva ora per l’anima, poichè le pareva di essere stata per troppo tempo abbandonata da loro. Ella il giorno aveva udito giù nel viale ridere Francesca, parlare Gustavo, e quindi perdersi lo scalpitì o dei cavalli pe’l lontano. Era rimasta sola; era dopo poco entrata Eva correndo.
— Senti, Eva buona; apri quella finestra.
La bimba aveva presa un’aria grave d’infermiera. Non arrivava ad aprire, anche ergendosi sulla punta dei piedi.
— Chiama Susanna. Tu non puoi.
— Oh, nonna grande, che dici?
Ed aveva trascinata una sedia nel vano della finestra per montarci sopra ed aprire. Ella aprì. La nonna la guardava sorridendo: la bimba aveva una grazia agile di capretta che tenti l’erta della siepe, avvolta nella polvere lucida che saliva dal pavimento, nuda le piccole braccia.
Dalla finestra semiaperta erano passati i soffi tepidi dell’aria; s’erano intravisti i campi tutti protetti dal sole.
— Così, nonna?
— Sì, Eva buona; vieni.
La vecchia s’era sentita intenerire; l’aveva presa un bisogno di stringersi al petto quella dolce massa di capelli, di appoggiarvi la gota un momento. Ella così si rifugiava nella adorazione di quella testa infantile.
Eva poi se n’era andata anche lei, giù nel giardino, a correre su l’erba. Dalla finestra passava l’aria troppo viva; cresceva il vento; le cortine ondeggiavano e si gonfiavano; entrava la luce limpida e rigida come un’acqua sorgiva. Allora un brivido aveva incominciato a scuotere l’inferma, la prendeva un’altra volta quel freddo nervoso che le faceva dolore. Aveva avuto appena la forza di suonare il campanello per chiamare qualcuno. Era venuta Susanna, quella donna pingue e clamorosa, a tenerle la mano ruvida su la fronte e ad invocare le Vergini del cielo...
Ora dunque Francesca e Gustavo tornavano dalla passeggiata? Così tardi? Non avevano dunque pensato a lei mai?
Francesca voleva rompere quel silenzio che le pesava.
— Sapete, mamma?, siamo stati alla pineta.
— Ah.
— S’è fatto tardi senza che ce ne siamo accorti.
— Ah.
— Vi ho portato questo fiore.
Gustavo a quelle ultime parole si riscosse: il fiore galeotto aveva ancora una fragranza sottile che giunse a lui; e l’odore risvegliò il fantasma del bacio fuggevole e della radura remota.
Donna Clara levò fuori dalle coperte la mano magra e tremante per prendere il fiore.
VI.
In quel momento la luna si levava lentamente tra li alberi, casta ed argentea secondo il costume; e veniva su i vetri delle finestre a vincere il chiarore fievole che la ventola verde dall’interno effondeva.
Donna Clara aveva richiuso li occhi. Dopo qualche minuto, ai due, che rimanevano là taciti, in piedi, disse con la voce indebolita:
— Sarete stanchi... Mandatemi Susanna. Andate voi a cena.
Essi uscirono dalla stanza; provavano quasi una soddisfazione di fanciulli liberati dal castigo, si guardavano sorridendo nelle pupille.
— Oh mamma, li aranci! — gridò Eva correndo incontro a Francesca, abbracciandola alle ginocchia in un impeto di gioia, con un arancio stretto in ciascuna mano. Ella le si arrampicò, parve, sino ai fianchi, con un’agilità di scoiattolo, e le si strinse al collo mettendole nel viso l’alito che odorava delle frutta succhiate.
— Vuoi li aranci?
Andarono così nella sala rossa; sedettero alla cena che Eva riempì del suo clamore, delle sue piccole grazie di bimba golosa. Ella, nella sua inconsapevolezza, faceva da complice.
— Oh mamma, sbucciami l’arancio.
La madre ficcò nella scorza fragrante le unghie fini e rosee per aprirla: e le dita le si inumidivano del succo premuto e nelle unghie le restava una lieve colorazione d’oro. Eva guardava con una ingordigia di rosicante famelico. Quando il frutto fu nudo, ella fece il sacrifizio di uno spicchio alla mamma e a Gustavo.
— Questo metà per uno - disse gravemente. - Mordi, mamma.
Francesca franse con i denti la metà dello spicchio, sorridendo.
— Prendi tu ora.
Gustavo prese tra le labbra l’altra metà; ebbe una sensazione deliziosa.
Nella sala c’era quel tepore emanante dalla vaporazione dei cibi caldi, quel tepore che mette nel sangue una pigrizia, una beatitudine inerte, dopo il pasto. La luce scendeva placida dal globo pendolo di porcellana.
Gustavo si alzò, andando verso la finestra ad aprire.
— Che luna maravigliosa! - esclamò; poichè in lui, che aveva quasi nulla mangiato, la sentimentalità di amante novello ora a quell’albore si commoveva.
Francesca ebbe un moto di fastidio: l’aria fredda entrava a turbarle il calore dolce ove ella s’era adagiata, a scuotere quell’abbandono pieno di fantasie vaganti e di desideri indeterminati ove ella stava per cullarsi.
— Chiudete, per carità, Gustavo!
— Venite un momento a vedere.
Ella si levò dalla sedia a fatica: all’affacciarsi ebbe un brivido, si strinse tutta, nascondendo le mani dentro le maniche ampie della veste; istintivamente si accostò a Gustavo.
Dinanzi, nell’immensità della notte calava la luce della luna, la pace della luna, dove tutte le cose sommerse davano come la visione indistinta di un fondo sottomarino con le sue grandi flore animali tra cui è un brulichio pieno di orrore. Le montagne delle patria coperte di neve si avvicinavano, quasi incombevano al piano: si poteva discendere con lo sguardo in tutte le cavità d’ombra, salire tutte le sommità luminose. Parevano come le grandi vertebre di una terra il cui sole fosse estinto da secoli; davano come l’impressione del paese lunare visto a traverso il telescopio.
Essi guardavano, muti. La grandezza di quella scena naturale per un momento li dominava. Stavano da presso, toccandosi con i gomiti, toccandosi con le ginocchia.
Dietro di loro Eva giocava su la tavola tagliuzzando le scorze delli aranci rimaste nei piatti, mormorando parole vane, aspettando che il sonno se la prendesse tra le braccia.
Gustavo, pianamente, insinuò le dita dentro le maniche di Francesca e le prese il pugno nudo sotto la stoffa che lo copriva.
— Lasciate, Gustavo, lasciate! - disse ella volgendosi indietro, temendo d’Eva; e nel volgersi mise su’l collo di lui un alito.
Egli non intendeva, egli si sentiva salire alla faccia, sotto la pelle fredda per l’aria della notte, tutto il sangue del cuore, una vampa.
Le aveva prese le due mani, si curvava per coprirle di baci.
— No, non qui, Gustavo...
Egli non intendeva. Francesca svincolò una mano dalla stretta; per respingerlo affondò la mano nei capelli di lui, gli sollevò il capo. Poi si allontanò, si avvicinò alla tavola: tremava tutta.
— Che freddo! - disse. - Chiudete.
Gustavo sporse all’aria la fronte, stette un istante con il petto inclinato verso la notte. Egli voleva così placare il tumulto, il calore. Poi chiuse; si volse; era pallido, con qualche cosa di convulso nella bocca.
Francesca s’era rifugiata accanto ad Eva.
La bimba aveva chinata la testa su la tavola, su la tovaglia nivea, poichè il sonno l’avvinceva: era di rosa, tutta di rosa con un sorriso vago su tutta la faccia; le palpebre chiuse erano così diafane che parevano lasciar trasparire lo sguardo; da la bocca aperta usciva un soffio lento, il respiro.
— Dorme — sussurrò la madre. E fece segno a Gustavo di camminar piano.
— La porterò io sù, nella stanza — disse piano Gustavo.
Ella in quelle parole fiutò l’insidia, e sorrise con un lieve moto d’ironia nel labbro inferiore. Ma Gustavo s’era avvicinato; delicatamente sollevava ora su le braccia il piccolo corpo inerte di Eva. Andavano così sù per le scale: Francesca innanzi, Gustavo dietro. La testa della bimba pendeva da una parte, mostrando la gola molle, lasciando piovere le chiome.
Nella stanza ardeva una lampada, in mezzo alla vôlta, con una illuminazione quasi lunare. Dalli abiti, dalle biancherie, da ogni angolo esalavano i profumi e nuotavano nell’aria.
— Mettetela su ’l letto, là, in quello.
Gustavo adagiò la bimba. Già gli tremavano le braccia: egli sentiva il profumo che una volta l’aveva fatto trasalire. Francesca stava china su la figlia, la guardava dormire, aspettando che Gustavo parlasse.
Egli non parlò; la prese per le braccia d’improvviso, le mise la bocca su la nuca dove due o tre piccoli riccioli erano bianchi di cipria. Aveva nelli occhi quel luccicore cupo, nella faccia quell’ardore cupo che Francesca riconosceva. Ma Francesca non voleva questo; la offendevano le violenze.
— No, no, Gustavo. Andate — disse ella, seria, riavviandosi i capelli su la nuca. — Siate savio.
Allora in lui tutta l’onda contenuta della passione irruppe. — Egli l’amava, egli l’amava! Egli sentiva d’impazzire. Lo lasciasse almeno restare un’ora là, inginocchiato su ’l tappeto, in quella stanza, in quell’odore! Egli non chiedeva niente più: fosse buona!
— No, andate. Si sveglierà Eva.
Egli incalzava. — Eva era nel primo sonno; non poteva svegliarsi. Egli sarebbe stato là senza muoversi. Lo lasciasse rimanere; ancora un poco, ancora un poco!
S’era riavvicinato, le prendeva i polsi, supplicava con lo sguardo; la voleva lentamente soggiogare. Francesca sentiva che avrebbe ceduto, poichè una dolcezza e una stanchezza vaghe incominciavano a penetrarla. Ella volse due o tre volte li occhi in torno a sè, assalita da una inquietudine, poichè Gustavo l’aveva presa alla vita attirandola un’ultima rivolta la tenne forte contro il languore.
— Ma lo sapete, Gustavo, quello che noi facciamo?
Gustavo la strinse, le cercò la bocca — Egli l’amava! Egli l’amava!
VII.
Da allora si lasciarono avviluppare e trascinare; Francesca per quella sua condiscendenza e fatuità obliosa dell’animo, Gustavo per quella sua cieca avidità di amare. E come l’amore soverchia e prostra ogni altro sentimento umano, essi ora abbandonavano l’inferma.
Era una trista opera, che compievano naturalmente. Li adescava fuori la stagione felice, li dilettava la grande aria, li penetrava da tutte le parti la vitalità straripante della terra vegetale. Nella casa lo sforzo d’attenzione nel reprimere ogni voce, nel soffocare ogni rumore, li fastidiva e li irritava. Essi uscivano, stavano lungo tempo assenti, obliandosi; prediligevano i siti remoti; i rifugi protetti dalli alberi, i sentieri spersi tra le piantagioni. Gustavo portava nei ritrovi la foga della sua passione, tutte le veemenze della sua natura quasi vergine; Francesca la sua bella mobilità di aspetti, le piccole crudeltà della sua calma, la raffinatezza signorile della sensazione. Sfuggivano istintivamente da ogni cosa, da ogni circostanza di cose, che li potesse condurre a un ripiegamento della coscienza su se stessa. Nell’uscire, quasi sempre uno dei due diceva, come per giustificarsi:
— Pare che stia meglio; è vero? Non si è lamentata mai.
E andavano.
Ma Donna Clara, in quella stanza nuda, in faccia allo splendore che si riversava su ’l pavimento dalle imposte semichiuse, sentiva un grande accoramento cupo che la uccideva, si sentiva finire. Ella non aveva da prima indovinato: restava supina su ’l letto, lunghe ore, lunghe ore, tenuta dal male, con li occhi già torbidi vuoti di sguardo, con le estremità di gelo, come s’ella avesse già cominciato a morire in un’agonia lunga e senza sussulti. Aveva qualche volta nelle mani scarne quel cercare inquieto e incerto, quell’incresparsi vano della dita che tentano di prendere. Allora ella voleva bere, voleva la tazza per togliersi l’aridezza dalle fauci. Susanna veniva ogni tanto ad affacciarsi su l’uscio; si accostava, metteva la tazza alla bocca dell’inferma reggendole la nuca con una mano.
— Dove sono... loro?
— Eh, signora mia, chi lo può sapere?
Donna Clara trasaliva: Susanna aveva dette quelle parole con un accento perfido. — Dove andavano? Che facevano tanto tempo fuori? Ah, era dunque per questo? — Una luce subitanea la rischiarò; e, insieme al sospetto che ingigantiva rapidamente, una collera violenta d’improvviso la prese. — Ah, era dunque per questo? oh infami! oh infami!
Entrava allora Eva, con passo leggero, portando un fascio di fiori tra le braccia nude sino al gomito. Ella si avvicinò al letto, sorridendo; bellissima. Ma quando si sentì prendere la testa dalle mani umidicce e brucianti della vecchia, e si sentì su i capelli su’l collo su le gote tante gocciole calde, tante lacrime cadere, e tra le lacrime si sentì cercare la fronte da quella bocca arida che aveva l’alito grave della malattia, e udì rotto fra quel singhiozzare lacerante il nome del padre, ella sbigottita tentava liberarsi, prendere le mani che la tenevano, guardare nella faccia la vecchia; gridava soffocata:
— Che hai? Che hai?..