< Il marito di Elena
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VIII X

IX.


La casa era continuamente assediata da creditori, da gente che veniva per aver saldato un conto di venti lire, e perdeva mezza giornata ad aspettare sulla scala. La serva, creditrice di parecchie mesate, faceva causa comune con loro, restava un quarto d’ora a confabulare sottovoce, sporgendo il mento aguzzo, impietosita dalle loro lagnanze, portava delle seggiole in anticamera perchè aspettassero comodamente, andava a chiamare la padrona ad alta voce, grattandosi i gomiti nudi in aria ingenua, per impedirle che facesse dire di non essere in casa. Elena allora, pallida di collera, doveva rispondere sorridendo, doveva trovare delle buone parole per quella gente che le parlava a voce alta, e col cappello in capo.

Suo marito avrebbe sofferto la tortura per risparmiare a sua moglie coteste scene. Non usciva quasi più, non aveva più testa di lavorare, gli toccava stare ad attendere dietro i vetri se arrivava un creditore. Alle volte, nelle ore in cui la via Piliero era più frequentata, vedeva passar Cataldi, e sentiva a quella vista più doloroso e profondo il suo avvilimento; arrossiva se lo sorprendeva la moglie, quasi stesse a spiarla, gli pareva di vederla aggrottar le ciglia o impallidire. Accorreva il primo ad ogni scampanellata minacciosa, per mettersi a parlamentare, a promettere, a scongiurare. Erano lotte di tutti i giorni, angoscie dissimulate a voce bassa, con aria calma, a capo chino, rosso di vergogna, col creditore insolente, nel vano dell’uscio, tendendo l’orecchio ansioso ad ascoltare se alcuno udisse nelle altre stanze, impallidendo se l’altro alzava la voce, e cercando di calmarlo col gesto supplichevole più che colla voce e colle parole. Erano ripieghi meschini, sotterfugi volgari coi quali bisognava ingannare la spietata curiosità della serva, o la vaga inquietudine di Elena. Ma almeno si lusingava che ella non sapesse nulla, non fosse consapevole delle umiliazioni che gli toccava subire. Esciva per procurarsi cinquanta lire con un lavoro che gli davano a fare di seconda mano. E tornava di corsa, col denaro in tasca, acchiappato dopo due ore di corsa, di sollecitazioni, di raggiri, inquieto, spiando le finestre da lontano, tremando di incontrare qualcuno per le scale. Gli toccava scongiurare umilmente le minacele del beccaio e del fornaio, che l’aspettavano sulla scala di marmo, entravano dietro a lui nell’anticamera, lo seguivano scamiciati colla pipa in mano sino allo studio. Egli doveva tirarli ad uno ad uno nel vano di una finestra, abbassando il viso e la voce perchè nessun altri udisse, e sopratutto l’Elena, posando la mano sulla manica delle loro camicie sudicie per ammansarli, accompagnandoli egli stesso all’uscio perchè non osava chiamare la serva, la quale, nella cucina fredda, alzava le spallacce, sotto il fazzoletto unto. Poi doveva fingere di essere tranquillo, rientrando nelle belle stanzine arredate di mobili nuovi, colle stoffe freschissime, si sdraiava sul divano soffice, posava i piedi indolenziti sul tappeto morbido. Sua moglie fingeva anch’essa di non accorgersi del pallore di lui, della sua agitazione; non gli diceva nulla di quel che accadeva nella sua assenza. Si dava sempre da fare nelle altre stanze per non esser costretta a rimanere faccia a faccia con lui.

Una volta sola, uscì in questa osservazione:

— Quando non ci sei, è una cosa da impazzire con quello scampanellìo continuo all’uscio!

Un mattino vennero dei facchini a prendere il pianoforte. Il marito che non sapeva nulla, escì al rumore dallo studio per informarsi cosa fosse.

— Ho venduto il pianoforte, rispose Elena secco secco.

Egli arrossì, e non aprì più bocca sinchè i facchini portarono via lo strumento prediletto di Elena.

Poi, come l’uscio fu rinchiuso, prendendo il suo coraggio a due mani, balbettò:

— Perchè hai venduto il pianoforte?

— Era necessario.

— Lo so, dico perchè non hai venduto qualche altra cosa?

— Il pianoforte era mio... Intendo che non serviva più a nulla. Non suono più.

Lagrime amare comparvero negli occhi di lui, che non osava alzare il capo.

Elena seguitò a spingere alcune poltrone nel posto lasciato vuoto dal pianoforte. Poi lo schianto di quel dolore timido e peritoso le toccò il cuore. Si accostò a lui intenerita, e l’abbracciò senza dir motto.

Egli guardandola negli occhi parve volesse dirle qualcosa di decisivo. Ma era così commosso che non trovava parola. Solo di tanto in tanto le stringeva le mani senza aprir bocca.

— Come ti ho reso infelice! mormorò al fine.

— Tu? rispose Elena, stringendosi nella spalle. Che idea? Tu hai fatto quel che potevi.

Ma egli aspettava qualche altra parola, avrebbe voluto che Elena indovinasse qual dolore, quale umiliazione fosse stata per lui vederla nascondere e dissimulare le sue sofferenze. Gli sembrava che ella lo respingesse, e in certi momenti si spalancasse fra di loro un gran vuoto.

— Senti, Elena! le disse timidamente, se potessi morire, per levarti da questo stato, lo farei.

Elena non ebbe un sol lampo di carità negli occhi, quel lampo che forse suo marito aspettava trepidante. Soffriva troppo da qualche tempo anche lei.

— No! tu non ci hai colpa, no! gli diceva. — Son io che non ho fortuna; non ne ho mai avuta, mai! da bambina, da giovanetta tante belle promesse, tante parole.... ecco il risultato! Se l’avessi saputo...

— Elena! balbettò il marito.

Ella lo guardò un istante — Che idea! Sei matto? No, non dico questo...

— Se morissi, mormorò Cesare tristamente, tu saresti libera.

— Belle cose che mi dici! Bel conforto che mi dai! Adesso specialmente... Se l’avessi saputo non avrei voluto mettere delle altre creature infelici al mondo, ecco!... Tu non sapevi quest’altra cosa....

Il marito impallidì al sentirsi annunziare in tal modo quell’avvenimento che è una festa per ogni madre, e per un po’ rimase soprapensieri.

— Che brutta accoglienza trova questa povera creaturina! mormorò infine.

Elena non rispose.

Però anch’essa si lasciava vincere a poco a poco, senza coraggio per rinunziare ai sogni della sua giovinezza, senza forza per cercare un conforto e una distrazione nella maternità, avvilita dal rovescio, con degli impeti di rivolta comecchesia contro il destino, dei rancori sordi contro tutto ciò che contribuisse alla sua sorte, come della frenesia, un bisogno di rappresaglia, cedendo grado a grado a delle aspirazioni insensate di cercarsi da sè quello che la sorte le negava, di fuggire dalla realtà in qualsiasi modo.

Allora la tentazione che stava in agguato, che le ronzava d’attorno, nel cervello, nel sangue, dinanzi agli occhi, la colse, se non pel cuore, per la mente guasta e fuorviata, nello spirito inquieto e bramoso. Là, sul canto del Piliero, mentre andava dalla mamma per fuggire le angustie della casa — e si fermò su due piedi al veder Cataldi, impallidendo a un tratto quasi fosse già colpevole. E le lusinghe di lui, e le parole scellerate, l’accento caldo, gli sguardi che accendevano il sangue:

— No! no! no! — ripeteva ad intervalli, sempre con voce più fioca, sempre colla fronte più bassa. Infine....

Adesso esciva tutti i giorni. Si vestiva in fretta, modestamente, di nero, sgattaiolava lesta per le scale, e correva dalla mamma, al passeggio, pur di non stare in casa. La serva si presentava al padrone tranquillamente, colla sporta al braccio, perchè gli desse il denaro per le provviste. C’erano dei momenti in cui al poveretto sembrava di perdere completamente la testa nel cercare di combinare la spesa colle poche lire che gli restavano. Doveva ricorrere a degli espedienti, far dei calcoli mentali, inventar dei pretesti, perchè la serva che gli piantava gli occhi in faccia, con un sorrisetto ironico sulle labbra sottili, colle braccia pendenti come a significargli che si seccava ad attendere, non indovinasse il suo imbarazzo, il suo rossore. Alle volte la serva posava la sporta per terra, si metteva le manacce sotto il grembiale sudicio, per fargli capire che era stanca di quella storia ogni santo giorno, e borbottava che cotesto avrebbe dovuto essere affare della signora, che gli uomini non se ne intendono, che in tutte le case dov’era stata, non aveva mai visto una cosa simile. Egli doveva mandarla via colle buone, senza rimproverarla, e dopo che se n’era andata brontolando e strascinando le ciabatte per gli scalini di marmo, venti volte si era piegato sulla ringhiera, come attratto dal vuoto che si sprofondava sotto di lui per tre piani.

Ormai nessun’altra risorsa. Quei due o tre procuratori che gli avevano procurato del lavoro di seconda mano gli facevano rispondere che non erano in casa. O se non potevano evitarlo per le scale gli spiattellavano sul viso: — Mio caro, voi siete una macchina. Comprendiamo i vostri bisogni, ma non possiamo rinunziare al lavoro utile per darlo a voi.

Ei sarebbe morto dieci volte di fame, piuttosto che andare a domandare del denaro in prestito, se non fosse stato per l’Elena. L’unico a cui credeva di potersi rivolgere era il cugino Roberto.

Ma gli ripugnava l’idea che Elena avesse potuto saperlo. Piuttosto, spinto dalla necessità si risolvette a tornare dallo zio Luigi, il quale gli aveva chiuso l’uscio sul naso dopo il suo matrimonio, prevedendo quello che doveva succedere coll’istinto dell’avaro. Ma il bisogno stringeva talmente alla gola il povero giovane, gli metteva tal disperazione nell’anima e negli occhi, che lo zio Luigi stesso non potè parare interamente la stoccata. Egli sfogò la bile che gli recava la domanda facendogli un lungo sermone, rimproverandogli la sua follìa, rinfacciandogli che glielo aveva predetto. Il poveretto, seduto di faccia allo scrittoio, inerte, col dorso abbandonato sulla spalliera della seggiola, si lasciava dir tutto, confessava tutto, conveniva che si meritava tutto. Egli aveva bisogno di duecento lire, tutto era lì. Ne aveva bisogno come il pane da mangiare. Egli era venuto per chiederne in prestito cinquecento. Ma il cuore gli era venuto meno dinanzi alla faccia dello zio.

- Duecento lire! esclamò lo zio Luigi rizzandosi sul seggiolone, come se gli avessero dato una coltellata. — No! non posso. Facciamo a metà. Cento li perdi tu, e cento io.

Il disgraziato tornò a casa con cento lire in tasca come se ci avesse un tesoro. E sinchè durarono si chiuse nello studiolo, senza dar retta al suocero il quale gli suggeriva temi importantissimi di legislazione. All’Elena, che tornava inquieta all’ora del desinare, si mostrava più calmo, e alle volte sembrava che fosse spinto a farle una confidenza, la guardava con effusione di tenerezza, le diceva:

— Se mi riesce quel che ho in mente di fare, le nostre angustie avranno fine.

Ma quando terminarono anche quelle poche lire, il poveretto non ebbe più testa di lavorare, nè d’altro. Ricominciarono le angoscie di ogni giorno. Infine, colla disperazione nel cuore tornò dallo zio, balbettando che gli prestasse ancora cento lire, cinquanta anche... quel che voleva. Non avevano più un soldo in casa, non avevano da comprare il pane, fra una settimana.... a qualunque costo.... gli avrebbe restituite le cento lire... Oppure... oppure...

— Ma sì — gli rispose questa volta lo zio pacificamente. Figurati! Le ho messe qua apposta. Ti darò quelle stesse cento lire che dovevi restituirmi il mese scorso. Se le hai restituite devono esser lì. — E gli apriva il cassetto della scrivania

— Non c’è nulla. Che vuoi farci? Vuol dire che non me le hai restituite. Quando me le porterai, le metterò là. Talchè se ne avrai bisogno un’altra volta, saprai dove trovarla.

Il povero Cesare grado grado s’era adattato anche alla vergogna di chieder del denaro in prestito al cugino dell’Elena. Andò a trovarlo nell’ora in cui sapeva che doveva essere in casa, finito il servizio dell’ufficio. Infatti lo trovò in pantofole, scamiciato, che spazzolava dei panni, distesi su di una cordicella, e li ripiegava accuratamente, imbottendo di giornali vecchi le maniche dei vestiti perchè non prendessero delle pieghe. — Se non si ha questa cura, uno ha sempre l’aspetto di essere vestito come un ciabattino, gli diceva per scusarsi di essersi fatto trovare in quell’arnese, pregandolo di mettersi a sedere sul canapè duro come una panchetta, domandandogli a qual motivo doveva ascrivere la fortuna...

Come Cesare gli spiegò il motivo arrossendo, Roberto non battè ciglio. Per sì poca cosa che non valeva la pena, immaginarsi! fra amici come loro, poteva quasi dire parenti! Era che il suo sarto la mattina stessa gli aveva portato via una grossa somma. Tutto ciò che aveva sottomano in quel momento. Mio caro Dorello, non potete immaginare quel che si spende, per poco che uno non voglia andar vestito come un ciabattino. Già voi lo sapete. Come si chiama il vostro sarto? vedo che vi serve bene. Un po’ passata quella moda del bavero di velluto, ma è ben fatto. Tutto l’abito sta nel bavero. È una disperazione come cangian le mode. Certi colori vistosi poi se li portate una stagione vi strillano addosso l’anno dopo. E sempre spendere! Al giorno d’oggi prender moglie diventava una cosa impossibile. Ora usavano i calzoni larghissimi. Tutti quelli dell’anno passato erano inservibili.

Cesare, colla febbre nel cervello, dovette subirsi la discussione ragionata dell’ultimo figurino, e dichiarare se preferiva le camicie col colletto ritto oppure rovesciato. Roberto spinse l’amabilità sino a fargli passare in rassegna i suoi vestiti, le camice ricamate, le scarpe messe in fila sotto il cassettone.

Il poveretto disperato ricorse alla sua mamma, e scrisse una lettera in cui si sentivano delle lagrime vere.

Due giorni dopo gli giunse una vaglia telegrafico di duecento venti lire. Pallido di gioia e di commozione corse a dire all’Elena:

— Mia madre mi ha mandato del denaro!

Egli non sospettò nemmeno quel che fosse costato, e quel che dovesse ancora costare alle povere donne quel vaglia mandato a fare di nascosto, coi denari ricavati da una vendita di sommacco insaccato di notte nel magazzino. Nel mercato del paesetto quella vendita clandestina gettò lo scompiglio, alterò i prezzi della derrata. Si venne a conoscere che erano state fatte delle vendite fuori della piazza, e l’ufficiale telegrafico andò a raccontare al caffè e alla spezieria il grosso vaglia che gli avevano fatto fare.

Lo zio canonico senza dire una parola tornò subito a casa, giallo come una candela, e si fece consegnare le chiavi da Susanna alla quale erano affidate da tempo immemorabile. La ragazza allibita, corse a dire alla mamma:

— Lo zio ha scoperto ogni cosa!

La madre si mise a letto la sera stessa colla febbre, e nel delirio farneticava che il cognato li scacciava tutti di casa, e le sue orfanelle andavano a vendere del sommacco per le strade.

Cesare, ignaro di tutto ciò, ripeteva all’Elena, per farsi coraggio:

— Se mi riesce quello che ho in mente, finiranno le nostre angustie.

Elena ormai sembrava che si fosse rassegnata a quello stato, o che le fosse divenuto indifferente. Dapprima mal dissimulava il cattivo umore che le arrecava il vedersi continuamente il marito in casa. Ripeteva le osservazioni di sua madre che a quel modo avrebbe fatto la muffa. Tradiva dei momenti di esasperazione in cui la sua testa era altrove, cogli occhi fissi ed astratti, il viso un po’ pallido e le labbra serrate. Usciva spesso, in fretta, a capo chino, e quando suo marito le domandava dove fosse stata, una fiamma appena repressa passava attraverso il suo pallore trasparente.

Egli invece aveva rinunziato all’avvocatura, al ministero, alle splendide aspirazioni del suocero. S’era rassegnato a scendere di un grado nella gerarchia forense, e s’era fatto iscrivere qual procuratore legale. Finalmente capitò un affar grasso, che ebbe buon esito, e se ne tirò dietro degli altri. Cesare respirò. Andava a sollevarsi dal lavoro pesante presso di Elena, prendendole le mani coll’effusione timida di un fanciullo. Ella, pallida come uno spettro, si lasciava abbracciare.

Don Liborio, quando seppe la cosa, cominciò a strillare che il genero aveva fatto una corbelleria, si era tagliata l’erba sotto i piedi, aveva voltate le spalle ad una strada larga e nobile, per sgambettare tutta la vita in un sentieruzzo angusto e senza uscita, e non voleva sentire le ragioni del genero sbigottito dal rabuffo.

— Babbo, rispose pacatamente Elena, coteste son belle cose quando si è ricchi, o almeno quando si può aspettare il portafoglio di ministro.

— E chi v’impediva di aspettare? esclamò don Liborio incalorito. Che fretta avevate? Non siete abbastanza giovani tutti e due!

— No, babbo! Non avevamo tutti i giorni dei pianoforti da vendere.

— Avete venduto il pianoforte? rispose il babbo sorpreso di non veder più lo strumento che mancava da un mese in quel salotto dove egli veniva ogni giorno.

E se ne andò borbottando, perchè non sapeva più che dire, nè come spiegare la sua collera.

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