< Il marito di Elena
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IX XI

X.


Cesare era tornato a casa ad ora insolita, e fu sorpreso di non trovare sua moglie.

— Che so io dov’è! rispondeva la serva. Io non mi immischio dei padroni. So che è uscita.

Egli prese le carte che era venuto a cercare e stava per andarsene quando entrò l’Elena, livida, colle labbra smorte, e gli occhi luccicanti di febbre sotto il velo.

All’incontrarsi col marito in anticamera diede un passo indietro bruscamente, al primo momento. Poi cercò di passar oltre, senza guardarlo, senza parlargli.

— Elena! balbettò Cesare stupefatto.

— Che c’è? disse lei con voce irritata, fermandosi di botto. Cosa vuoi?

— Dimmi cos’hai? cos’è stato? Non ti senti bene?

— No. Non è nulla, sta tranquillo.

— Dimmi cos’hai?

— Nulla ti dico. Lasciami andare, lasciami, sto benissimo.

Cesare non sapeva che fare.

La serva ascoltava a bocca aperta dall’uscio della cucina, lo spingeva fuori sgarbatamente, ripetendogli:

— Lasciatela stare, lasciatela stare. So io quel che essa ha. Voi non ve ne intendete. Voi gli fate più male che bene colla vostra vista. Son cose di donne.

Lei sola poteva acchetarla, toccandola colle manaccie unte, poteva mormorarle di tanto in tanto all’orecchio qualche parola a voce bassa, mentre il marito dietro l’uscio udiva piangere sua moglie cheta cheta. Sul tardi arrivò donn’Anna e tutta la famiglia, tanto che la serva chiuse l’uscio perchè non empissero la camera. Camilla potè sgusciare accanto alla sorella, tenendole un braccio al collo, parlandole nell’orecchio, senza guardarla, e l’Elena accennava di sì, col capo basso, asciugandosi gli occhi. Roberto si era messo a sedere discretamente accanto a Cesare, don Liborio andava su e giù pel salotto, col cappello in testa, e donn’Anna ripeteva al genero:

— È mal di nervi; so cos’è. Quand’ero incinta di Camilla l’ho avuto anch’io tal’e quale. Una notte svegliai don Liborio perchè aveva voglia di mangiare dei mattoni pesti. Sciocchezze.

Tutt’a un tratto si aprì l’uscio della camera, e comparve Elena, seguita dalla sorella, molto abbattuta, cogli occhi gonfi, strascinandosi a fatica. — Non vuol darmi retta, biascicò Camilla. — Dice che ha bisogno di respirare sul balcone.

Elena si appoggiò alla ringhiera del terrazzino, guardando il mare, col mento fra le mani. La sera scendeva calma e serena e si udiva fin là il fischio dei vapori che partivano. Spirava una brezzolina fresca, ed Elena rispondeva ostinatamente alla sorella che la supplicava all’orecchio scuotendo il capo risolutamente, e ripeteva con voce sorda:

— No! no! lasciatemi stare! lasciatemi stare! Infine si voltò inasprita, cogli occhi scintillanti di collera, la voce rauca:

— Lasciatemi, vi dico! Lasciatemi sola! Che paura avete?... Perchè non mi lasciate sola?...

Ma, scorgendo suo marito non disse più nulla, e si appoggiò un’altra volta alla ringhiera col mento sulle palme. Due colonne di fumo nerastro si svolgevano attraverso gli alberi fitti del porto che frastagliavano di linee nere e sottili l’opale del tramonto. Poi cominciarono a scorrere lentamente lungo il muraglione del molo, e girarono la punta del faro, sbuffando più densi, accompagnati da un fischio prolungato e lontano. Due grandi piroscafi uscirono insieme fuori del molo, e s’avanzarono nel mare che imbruniva, come una sola gran massa nera bucata di punti luminosi lungo il bordo, con un rumore sordo di ale possenti che battevano l’onde. Poi gradatamente si separarono, l’uno parve rimpicciolire virando di bordo, dileguandosi verso il capo Campanella, e l’altro seguitò ad avanzarsi a diritta, gettandovi il riflesso ancora incerto del suo fanale rosso.

Elena, com’era sopravvenuta la sera, domandò a Roberto che l’era vicino, dietro alla Camilla:

— Qual’è dei due che parte per Genova!

La sua voce era talmente mutata che Roberto non si raccapezzò subito. Cesare rispose per lui:

— Questo qui, a destra.

Elena trasalì all’udir la voce del marito, e tirò dentro pel braccio la Camilla, collo sguardo smarrito, stringendola così forte che anche la sorella spalancava gli occhi dal dolore. Andò a sedersi nella sua camera, al buio, e non volle vedere più alcuno.

— Non è nulla! ripeteva donn’Anna chiudendo il balcone. Non vi spaventate. Quand’ero nello stato in cui è lei adesso, facevo anche peggio.

Nei giorni seguenti Elena andò calmandosi a poco a poco. Il medico confermò il giudizio di donn’Anna, raccomandò il riposo, una vita calma, delle distrazioni quanto si poteva, ed un moto regolare. Elena ebbe una gestazione travagliatissima. Il caldo eccessivo della stagione aveva contribuito ad abbattere le sue forze. In poco più di un mese ella era divenuta irriconoscibile, colle guance scarne, gli occhi stanchi e profondamente solcati, qualcosa di cascante in tutta la sua persona. Ella si alzava tardi, passava delle giornate intiere sdraiata sul canapè, senza aprir bocca. Non si occupava più di nulla, non s’interessava a nulla. S’annoiava di tutto, s’irritava alle più lieve contrarietà. Diceva che oramai si era fatta vecchia. Non si guardava più nello specchio, si lasciava pettinare come volevano, indossava la sera una specie di accappatoio lungo, si buttava uno scialle indosso, e andava a fare una passeggiata a lenti passi, appoggiandosi svogliatamente al braccio del marito, spesso senza dire venti parole in tutta la sera, senza fare attenzione alle amorevoli sollecitudini di lui, il quale sentiva il cuore stretto da quella vaga indifferenza che li separava a poco a poco, che si insinuava in mezzo a loro due allorchè stavano a sedere al buio, su qualche banco remoto della Villa, senza aver più nulla da dirsi, interessandosi piuttosto alla gente che passava, correndo l’uno lontano dall’altro col pensiero, uniti soltanto dalle preoccupazioni comuni e dalle piccole noie. Quando andavano dalla mamma, Elena si metteva al balcone l’intera sera, guardando nella strada, facendosi vento col ventaglio, mentre Camilla agucchiava e Roberto stava a vedere. Poi come Don Liborio andava a rimontare la pendola, tornavano a casa, passo passo, a braccetto, in silenzio, per quelle stesse strade che avevano fatto col cuore in tumulto nel trovarsi insieme la prima volta. E i conoscenti che li incontravano a caso non ravvisavano più in quella matrona larga e lenta l’Elena di un tempo, modellata leggiadramente dal vestito, ancora un po’ rigida, ma diggià serpentina ed elegante, coi grandi occhi curiosi sotto il cappellino modesto.

Ella non era perversa no! si credeva sinceramente disgraziata, faceva il possibile per riannodare il passato, sorrideva dolcemente allorchè suo marito le prendeva le mani come una volta, senza osare di parlare. Egli la guardava sempre in quegli occhi stanchi con una gran tenerezza, e la baciava a lungo, a lungo, quasi avesse voluto dirle cose che non sapeva spiegare egli stesso in quel bacio. Tanto che alle volte Elena, staccandosi da lui, gli fissava in volto uno sguardo strano, come sorpreso gradevolmente di quell’amore che durava sempre, e domandava:

— Davvero? mi ami ancora lo stesso? sempre come prima?

Oh! se ella l’avesse incoraggiato!... Se ella non gli avesse agghiacciato le parole in cuore con quella fredda incredulità!... È che egli non osava, al vedere quello sguardo strano, al contatto di tutta quell’aria di indifferenza che ella non dissimulava neppure. Egli l’amava come prima, più di prima, perchè ella era la parte migliore di sè stesso, la sua gioia, il pensiero di tutti i giorni, lo scopo del suo lavoro, la dolcezza della sua casa, l’essere intimo e caro in cui si incarnavano tutte le sue speranze, le sue gioie, i suoi sogni, per cui aveva sofferto, e nel cui sorriso era la sua felicità.

Allora si abbandonava all’espansione dei suoi sentimenti, tornava ad accarezzarla colle parole e colle mani tremanti, a stringerla forte, quasi avesse temuto che le fuggisse, e coprirla di baci deliranti sulle mani, sulle labbra, sul collo, sugli occhi, sui capelli.

Dapprincipio si animava anche lei a quella foga d’affetto, dimenticava ogni altra cosa, dibattendosi sotto quelle carezze, chinando il capo con piccoli gridi selvaggi; chiudeva gli occhi, sorridendo, coi cappelli allentati si abbandonava. Poi tornava in sè, abbuiavasi, aggrottava le ciglia, gli posava le mani sul petto, si irrigidiva. Gli diceva:

— No! no! lasciami, non siamo più ragazzi.... Che pazzie!.... Ora sono un’altra.... sono un’altra....

Pensava alla sua giovinezza miseramente sfiorata? alla sua bellezza distrutta? ai sogni che si erano dileguati? alla maternità che l’aspettava come un sacrifizio? E di tutti questi pensieri nasceva e ingigantiva un rancore indistinto, un umor tetro che scolorava ogni cosa ai suoi occhi. Il marito, colla divinazione penetrante di chi ama davvero, si sentiva avvolto in quel rancore, in quell’umor nero anch’esso, gli pareva di essere allontanato e respinto, quasi gli pesasse addosso la responsabilità di quei sogni di ragazza che s’erano involati. Tutto ciò metteva un gran vuoto in quelle stanzine ristrette, un freddo che agghiacciava il cuore di lui, e gli faceva cercare il lavoro come uno svago, come qualcosa in cui c’era ancora il pensiero di Elena senza che si vedesse il suo pallore, il suo sorriso glaciale, il suo occhio distratto. Il poveretto si faceva in quattro per procurarle qualche soddisfazione col suo lavoro. Passava le notti a scrivere per portarle un regaluccio modesto, un cappellino nuovo, un braccialetto, un ventaglio, aspettando ansioso un sorriso di lei, un gesto, un cenno del capo, una parola. Colle ossa rotte dalla fatica, dal salire e scendere scale di procuratori e di avvocati, le offriva di accompagnarla al passeggio, in teatro, magari in società, ora che avevano fatto pelle nuova, e cominciavano a respirare. Ella non voleva, faceva la vittima ingenuamente, si creava delle tristezze solitarie da romanzo, provava una voluttà amara a far l’Arianna, la caduta, la disillusa, strascinando la sua noia da una stanza all’altra, agucchiando svogliatamente a dei capi di corredo piccini come se dovessero servire per la bambola, e le sembrava in tal modo di sorvegliare minutamente ogni cosa, tale e quale come donn’Anna. Costei, di tanto in tanto veniva anche lei a dare una mano, a consigliare su quel che doveva farsi, a sgridare la serva, la quale allungava il muso a tutte quelle novità, e strascinava le ciabatte per la casa, brontolando, guardando cogli occhi torvi ogni pannolino che le davano da stirare, sbattendo la granata contro gli usci nello spazzare, sfogandosi a picchiare i mobili collo spolveraccio; e si calmava soltanto se rompeva qualche cosa, restava lì a guardarla e a girarvi attorno, alle sgridate di Elena rispondeva che non l’aveva fatto apposta, non sapeva far meglio, se non erano contenti se ne andava — posava lo spolveraccio sulla prima suppellettile che capitava, grattandosi i gomiti aguzzi: — Tanto per quel che si buscava adesso!...

Sola donn’Anna bastava a rintuzzare la petulanza di quella donnaccia, la quale appena la vedeva arrivare andava a rintanarsi quatta quatta in cucina, colla granata sotto il braccio.

La mamma rimbrottava alla figliuola: — Come puoi tollerare gli sgarbi di colei? Non vedi che ti ruba sulla spesa? — Rivedeva il conto in presenza della serva, la quale rispondeva ad ogni osservazione: — Io non so altro che ho speso tanto, sono i prezzi soliti. C’è anche qui la padrona che può dirlo. — E guardava l’Elena, la quale chinava il capo.

Donn’Anna pretendeva che il genero ci pensasse lui alla spesa, la mattina, prima di andare all’ufficio, così faceva don Liborio. E Cesare allora per mettere la pace in famiglia, prometteva che sarebbe andato. La serva tornava in cucina sogghignando, rivolgendogli delle parolacce dietro le spalle.

— Vorrei vedere cosa farai con una disutilaccia di quella fatta ora che giungerà il marmocchio! Tu non ci reggerai, così delicata come sei. Ti sei vista allo specchio? Dovete pensare a procurarvi una buona balia, di quelle del contado, che son sane e lavorano per quattro. Roberto che è nei trovatelli te la cercherà.

Elena non sapeva risolversi a congedare la serva; ma dall’altro canto, l’idea di essere costretta ad allattare lei il bambino, la spaventava. Malgrado il suo orgoglio, si ridusse a parlarne bonariamente colla donna, quasi a domandarle consiglio, a metterla a parte del suo imbarazzo.

— Non è nulla! Vuol dire che faccio i quindici giorni e poi me ne vado. Tanto in questa casa passo per ladra. Adesso che il padrone va fuori per la spesa, appena arriva la balia non avrete più bisogno di me. Già mi toccherebbe fare la serva alla balia, se il padrone non può tenere altre persone di servizio. E la serva alla balia non la farei, no! Questo mettete velo in testa.

Invano Elena cercava di essere indulgente verso di lei, di trattarla meglio che poteva, regalandole dei vestiti smessi, uno scialle quasi nuovo. La serva compiva i suoi quindici giorni come se nulla fosse stato, era sempre colla granata e collo spolveraccio in mano, affettava di andare a prendere gli ordini dal padrone ad ogni minima cosa, giacchè il padrone scendeva perfino ad andare al mercato. Quando arrivava il ragazzo colla spesa cacciava le mani nel paniere, brandiva i pesci o il fascio degli spaghetti, si informava cosa li avessero pagati, ficcava il naso dentro le branchie dei merluzzi, o sul grasso della carne, e fingeva di essere stomacata, borbottava: — È roba di otto giorni, capisco adesso perchè costa meno. Valeva la pena di andare un galantuomo col cilindro e la canna d’india per risparmiare cinque soldi su della roba che non vuol nessuno! — Se le vivande erano bruciate, o malcotte, rispondeva: — La spesa non la faccio io. Questa è la roba che ha comprato il padrone. — E alle volte poi rifiutava la parte che le toccava, mettendo il piatto sotto la tavola perchè se ne accorgessero e fingeva che lo stomaco le si rivoltasse, e si metteva a parlare col gatto. — Non credere che sia incinta anch’io.... Se facessi come tante altre sarei rimasta a balia nella casa! — E quando non e’ era Elena soggiungeva: — Ragazze o maritate, so io quello che fanno. E le padrone anche! Se dicessi tutto quello che ho visto in questo mondo! Molte di quelle signore che portano la veste di seta non son degne di leccarmi queste ciabatte qui! — E si toccava le ciabatte e le baciava, sotto il naso del padrone, per far intendere che quelle almeno erano onorate.

L’aveva specialmente col padrone, buono soltanto per andare a fare le provviste, che non poteva mantenere alla moglie la balia senza toglierle la cameriera. Quando uno è disperato come lui non si marita, o deve lasciar mantenere la moglie dagli altri, e non fare il superbo. Ella andava a domandargli se bisognava lasciare il fuoco acceso per l’acqua calda, o se dovesse mondare l’insalata pel giorno appresso, giusto allorchè lo vedeva più occupato. Si metteva a scopare nel corridoio, si accaniva contro l’uscio dello studiolo, non la finiva di strofinare ogni spigolo col grembiule sudicio, cercava ogni mezzo di tormentare il pover’uomo, gli metteva sottosopra le carte e i libri col pretesto di spolverare, gli rovesciava il calamaio sulla scrivania, tutto coll’aria calma di fare il suo dovere, gongolando dentro di sè al vedere che lui stava per perdere la pazienza, e si agitava nervosamente sulla seggiola, lo stuzzicava col suo cicaleccio da zanzara: — Ella non ne aveva colpa se sceglieva giusto quel momento. Non poteva farsi in quattro per badare al tempo stesso in cucina e nella casa. A lei toccava di fare da cuoco e da stalliere. La padrona faceva il diavolo per un granello di polvere, come se tenesse quattro persone di servizio. Adesso che non esciva più, e non aveva più da fare fuori di casa, andava a cercare i granelli di polvere.

Il padrone aveva un bel supplicare che lo lasciasse tranquillo, che andasse dalla padrona, per sentire se bisognava mondare la lattuga o lasciare acceso il fuoco. L’indomani lei tornava da capo, diceva che non poteva andare da Erode a Pilato, si ostinava a fargli contare le fette di carne prima di andarle a friggere, lo strutto che era avanzato dalla padella, il prezzemolo che era andata a comprare, perchè non la tenessero in conto di ladra, all’onor suo ella ci teneva più di qualchedun’altra; rovesciava le saccocce e contava gli spiccioli sullo scrittoio del padrone. — Povera, ma onorata!

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