< Il marito di Elena
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XII XIV

XIII.


«Oh, i primi baci dietro la veletta!» Ella li aveva dinanzi agli occhi febbrili, mentre saliva trepida e guardinga le rampe del Vasto, col passo leggiero, chiusa nella mantiglia, pallida. Il ciabattino lercio che faceva da portinaio si fece ripetere due volte il nome del suo inquilino, guardandola sfacciatamente, canticchiandole dietro una canzonaccia oscena, che accompagnava picchiando del martello sulla suola, mentre ella saliva rapidamente la scala sudicia e nera, premendosi la mantiglia sul seno ansante, sino a un quinto piano smantellato. Egli l’aspettava dietro l’uscio, più pallido di lei, e nell’anticamera buia, le domandò prima di ogni altra cosa se fosse certa di non essere seguita. Poi le prese la mano per guidarla negli andirivieni dell’andito. Ella non rispondeva, e si lasciava condurre nella vasta cameraccia piena soltanto di sole e di luce. Di là si scorgeva come un panorama il mare, Capri, e un’immensa distesa d’azzurro. Il poeta, trionfante, aveva spalancato il balcone per preparare la messa in scena, la festa del cielo che armonizzava colla festa dei loro cuori, la natura che sorrideva del loro sorriso, tutta la ricchezza di sensazioni delle anime privilegiate, che i ricchi della terra non possono comprare a peso d’oro. Elena volse le spalle a quella luce sfacciata che la imbarazzava, infastidita, irritata.

— Non temere; nessuno può vederti, disse lui, le case dirimpetto non arrivano al secondo piano. Se no, avrei chiuso il balcone.

— Sì, chiudete.

Fiandura indovinò vagamente la goffaggine in cui era caduto, chiuse le imposte, con un’aria misteriosa. Poi corse a buttarsi ai piedi di lei, con uno slancio di tenerezza commovente, benedicendola per la felicità che gli arrecava sotto il suo povero tetto, baciandole il lembo della veste, mormorando con voce melodrammatica: — Grazie! grazie!

— Ho fatto male! diss’ella.

— Male? Ah! la gran parola! la parola di tutti coloro che non hanno mai sofferto, che non hanno amato, che non sanno quanto valga uno di cotesti momenti per certe anime! come uno di cotesti ricordi basti a riempire un’esistenza!

Qual era il male, per lui, dotato della scintilla divina che rischiara ogni sentimento della sua vera luce, e lo rende etereo? che cos’era il marito, la legge, il mondo, per lui che aveva in cuore tutto l’amore dell’universo, nella sua più sublime essenza? Che cos’era la figlia di Elena per le opere che avrebbe potuto crear lui, ispirato da questo amore, in cui ella avrebbe messo la favilla, il pensiero, il soffio, il fiat? Egli aveva aspettato questo momento dieci anni! Aveva vissuto con questo sogno, aveva avuto sempre là quell’immagine che aveva presentito, aveva atteso colla doppia vista degli spiriti superiori, la sua ispirazione, la sua musa, verso cui aveva steso le braccia supplichevoli nei giorni neri, nei giorni di sconforto, che aveva invocato, che aveva conquistato, che gli apparteneva, era cosa sua, pel diritto che gli dava il suo lungo martirio, il suo amore, l’ispirazione che ella gli avrebbe dato, la gloria che l’attendeva, l’ingegno che metteva ai piedi di lei. Elena, disattenta, con cento pensieri confusi negli occhi, guardava intorno come sbigottita, le pareti nude, la finestra senza tende, il lettuccio basso e piatto, i libracci squinternati, e gli scartafacci polverosi accatastati sulle seggiole in artistico disordine, tutta quella gloria di cartacce sudicie. Ella ritirò vivamente la mano di cui egli voleva impadronirsi.

Allora il poeta, un po’ sconcertato, prese a parlare dei suoi versi, degli argomenti che aveva in testa, di quello che voleva fare per rendersi degno di lei, perchè ella andasse perba di poter dire, quando la folla pronunziava commossa il nome di lui: — È mio!

Si rizzò adagio adagio, poichè le ginocchia gli dolevano, e cominciava a comprendere che era ridicolo il rimanere in quella positura, se ella non lo tirava su fra le sue braccia. Andò a rintracciare delle poesie che aveva scritto per essa, ispirato dall’amore, in quella stanzaccia tutta vibrante del pensiero di lei. Ella ascoltava, cogli occhi intenti, bramosa di commuoversi alla cadenza melodiosa di quella voce concitata, che suonava come un sermone nel silenzio della vasta camera, isolata sui tetti. Cercava anche lei qualche cosa, una parola adatta, un argomento che non seguitasse a far battere la campagna al pensiero, lontano dalla loro situazione. Trovò soltanto:

— Avete scritto qui.... queste cose?

— Sì, rispose lui, pensando a voi! Qui non giungono altri pensieri, non sale voce umana. Quando apro quelle imposte vedo soltanto dinanzi a me il mare immenso, e mi basta. È l’alloggio di un uccello solitario. Ve l’avevo detto.

— È un po’ alto, — osservò Elena.

— Ha il vantaggio di non esserci vicini curiosi e importuni. Mi piace la mia libertà. Anzi posso ricevere chi voglio senza che nessuno se ne avvegga.

— Ah! diss’ella.

— Elena!.... No!.... Non quello che pensate! Qui non ha messo il piede nessun’altra donna.

— Ah!

— Mi credete? Credete che allorquando si ha il cuore e la mente pieni della vostra immagine è impossibile profanarla!.... Mi credete che dacchè vi conosco, dacchè vi siete impadronita di tutto l’essere mio, mai un pensiero.... mai un atto.... Elena!....

— No! esclamò Elena bruscamente, tirandosi indietro. No, Fiandura.... Non mi fate pentire di esser venuta!...

— Perdonatemi, Elena! son pazzo! È che vi amo come un pazzo! — Elena gli abbandonò la mano. Allora il poeta incoraggiato, continuò: — Se sapeste come vi amo! Se potessi mostrarvi il cuore delirante per voi! Se potessi dirvi le parole con cui vi ho invocata! se potessi narrarvi le notti insonni, i giorni desolati, le febbri, quel che sento a una vostra parola, quel che è per me un vostro sguardo, quel che provo a un vostro sorriso, un gesto, il fruscìo della vostra veste, il profumo dei vostri guanti! Quando vi vedo nelle vostre sale, circondata, corteggiata, adulata... comprimendo l’angoscia nel mio petto!... E come son geloso di tutti, delle ore in cui non vi vedo, delle case in cui non posso seguirvi, delle parole che vi dicono, degli uomini che discorrono con voi, dell’aria che respirate, del vostro passato....

Elena levò il capo con tal moto improvviso che gli tagliò netta la parola.

— Oh! mormorò ella amaramente col volto in fiamme.

— Che cosa?

— Nulla!

Il poeta sconcertato, riprese con fuoco:

— Sì, son geloso di quell’imbecille che si crede in diritto di farvi la corte perchè ha un cerotto di corona sul biglietto di visita....

Elena fece una spallucciata che lo scombussolò completamente. Oramai aveva vuotato il sacco del lirismo melodrammatico e cercava il modo, anche lui, di mettersi in carreggiata. — Quanto era felice, al pensare che ella era là, che era venuta per lui! Come le stava bene quel vestito nero! Perchè non si lasciava togliere un guanto? Soltanto cotesto! — Ella diceva di no, imbarazzata anche lei, umiliata di sentirsi ridicola ancor essa. Era tardi, doveva andarsene. — Ancora un istante! Egli aveva bisogno ancora di saziarsi gli occhi ed il cuore di quella visione celeste! Oh! il suo povero tetto! le sue povere gioie! la sua vita deserta! tanti anni! Aveva un mondo di cose da dirle e non le trovava. Si sentiva sbalordito dalla felicità. — A volte Elena gli saettava un’occhiata, rapida, avida anch’essa e pur diffidente, con un sorriso che si agghiacciava sulle labbra. — No! no! Elena! non ancora! Se tu sapessi cos’è questo momento per me! per un cuore di poeta! Ne saresti superba anche tu. Voglio crearti un trono di gloria, voglio eternare in un canto.... — E ci tornava con un’insistenza spietata, ingenua, instancabile. Il tempo scorreva rapidamente, sebbene nella stanza non ci fosse neppur l’ombra di quel volgare arnese che lo misura agli intelletti piccini, che regola prosaicamente le occupazioni dei borghesi. Elena guardò il suo orologio, e si rizzò di botto, più seria di com’era venuta, aggiustandosi in furia i nastri del cappello e il lembo della veletta, cercando istintivamente cogli occhi uno specchio. — No! no! è tardi, devo andarmene....

— Perchè siete venuta dunque? esclamò il poeta lasciandosi vincere dal dispetto.

Elena si tirò indietro bruscamente, completamente trasformata da un istante all’altro, col viso basso, tutto una vampa, i lineamenti contratti, le sopracciglia aggrottate. Poscia gli saettò in faccia un’occhiata che pel poeta fu una rivelazione, un lampo, l’ispirazione di gettarlesi ai piedi un’altra volta, scongiurandola di perdonargli. — Era pazzo, era pazzo d’amore. Aveva persa la testa. Se ella non gli avesse stesa la mano si sarebbe buttato dal balcone, davanti a quell’immensità azzurra. Si sarebbe sfracellato il cranio in mezzo a tutta quella festa di luce.

Elena nervosamente agitata, coi denti stretti, l’occhio smarrito sotto la veletta, aggiustandosi febbrilmente la mantiglia addosso, balbettava:

— Lasciatemi andare! lasciatemi andare!

— Ditemi che mi avete perdonato. Elena! Non mi lasciate così! Ditemi che vi rivedrò!...

— Sì, sì! ripeteva ella macchinalmente.

— Grazie! Oh! grazie! Quando?... quando vi rivedrò?...

— Non lo so.... non posso dirvelo ora.... È tardi.... Non ho un minuto di tempo.... Vi scriverò.... Ci vedremo....

Egli la seguiva passo passo per l’andito, mogio, a capo basso, inciampando nei mattoni smossi, dietro il passo rapido di lei che sembrava fuggire. Elena chinò il capo nel passare por l’uscio che le era aperto, gettandogli una stretta di mano lenta e una parola che spirò sotto la veletta. Ei rimase sul pianerottolo, col cuore che gli martellava, accompagnando ansioso quella veste nera che si dileguava rapidamente lungo le rampe della scala, quel sogno ambizioso e febbrile che sfumava volgarmente. Quando era per scomparire, col cuore stretto dall’angoscia, le gridò:

— Ricordatevi!

Elena abbassò il capo, come se le fosse caduta una tegola addosso, stringendosi nella mantiglia. Il portinaio tempestando di colpi di martello la suola della ciabatta le cantò un’altra volta dietro il ritornello osceno.

— Ah! mormorava Elena fuggendo, colle labbra contratte dal disgusto. — Ah!

Per la strada incontrò il marito, il quale correva come un cavallo da lavoro su e giù per Napoli, carico d’affari e di preoccupazioni, in mezzo al via vai chiassoso della folla, e fece fermare la carrozzella, tutto felice d’incontrarla, di dirle una buona parola, di mettere un momento la sua immagine leggiadra fra le occupazioni noiose della sua professione.

— Come stai bene! Hai passeggiato molto? Sei rossa in viso. Vuoi che ti accompagni in legno?

— No, vado qui vicino. Grazie.

— Sai! per la causa col Demanio, sono in giro dalle otto. Va benone!

— Addio.

Egli si sporgeva ancora dal legnetto che correva saltellando sul lastricato per seguire cogli occhi amorosi l’andatura modesta ed elegante della sua Elena, la quale si allontanava frettolosa, rasente al muro, a capo chino, grave del pentimento di una colpa inutile. Cesare invece correva dagli avvocati, dai procuratori, su e giù per le scale dei tribunali, tutto invaso e commosso dal pensiero di lei, onde procurarle quella vita agiata, quei mobili antichi, quei servitori coi capelli bianchi che avevano l’aspetto di averla tenuta a balia. La casa oramai era messa su questo piede, che le amiche intime fossero almeno delle baronesse, e Cesare che pagava tutto si presentasse timidamente nel suo salone, fra le tende di broccato antico, e il duca Aragno desse a ogni cosa il tono, il gusto, il colore, le maniere grandiose che lusingavano la vanità borghese di Elena, le tenevano luogo dei suoi castelli in aria da ragazza, la rialzavano dall’umiliazione che aveva ricevuto dalla sua scappata sino alla soffitta del poeta, completamente obliato. Il duca trionfava colla sua scuderia, col suo sarto, col suo gran nome buttato dall’alto in anticamera, colla gelosia pettegola di una vera dama che faceva parlare di sè tutta Napoli. La tresca col duca era profumata, elegante in un ambiente che raffina la colpa, l’accarezza e l’addormenta con tutte le mollezze, nel velluto, tra i fiori, coi piaceri artificiosi, coi riguardi scambievoli, coll’etichetta inflessibile, con tutte le buone maniere inventate dalla raffinata corruzione per far cadere mollemente l’onore di una donna.

Il poetucolo, geloso per vanità, aveva scritto una satira furibonda contro di Lei. — «Ti rammenti? — L’elegia erotica e accusatrice. — Ti rammenti, nel salotto color d’oro? — Ti rammenti, quando venisti a trovarmi nella povera stanzetta? — La povertà tornava bene coll’intonazione piagnolosa. Le allusioni erano trasparenti come il cristallo, i particolari precisi per l’impronta di intimità che richiedeva l’argomento. — Ti rammenti il primo bacio, sulla poltrona di velluto nero, ricamato colle tue cifre? e il fazzoletto che dimenticasti nella mia stanza? il profumo che vi lasciasti con esso? il tuo nome dolce al pari di quello della tua greca sorella? Ah! dove l’hai portato adesso quel profumo, traditrice? Nell’alcova principesca! nelle stanze anticipatamente profanate da altri amori volgari. Hai barattato il tuo motto altero «Tant que vivray autre n’auray» contro una corona a cinque fioroni, perch’essa t’è parsa più nobile di una fronda d’alloro, e più bella dei vent’anni, e più splendida dei capelli biondi....

La romanza continuava su questo tono per tre facciate di uno di quei giornaletti grandi quanto un foglio di lettera, che nessuno compra, e che tutti leggono ogni volta che si vitupera un uomo, un libro, o qualche altra cosa in vita. Il marito della greca donna seppe in tal modo, un mese dopo, lo scempio turpe che si era fatto del suo onore.

Ma allorquando tentò di lavare la macchia in una maniera qualsiasi, con un colpo di sciabola o di pistola, non trovò per assisterlo un solo di quegli amici che gli stringevano la mano, che gli lasciavano il loro nome alla porta, venendo a far visita a sua moglie, che gliela avrebbero nascosta colla loro persona s’egli l’avesse sorpresa fra le braccia del suo amante, e che in cambio gli avrebbero fatto da testimonio s’egli avesse dovuto battersi per una ballerina o per una cortigiana. Il poeta, in cima alle sue povere stanze, si drappeggiava superbamente, come nel suo paletò spelato, nella dignità dell’arte, nel sacerdozio della penna. Trinceravasi dietro la irresponsabilità della finzione poetica. Gli amici non osavano insistere onde approfondire la cosa. Avevano fretta di levare i piedi da quella mota. Schieravano dinanzi al marito la fama delicata della moglie, l’avvenire della figliuoletta, il pericolo di uno scandalo che sarebbe stato pregiudizievole in qualsiasi evento. Citavano Cesare e sua moglie. Infine, infine.... — E questa gente che si stringe nelle spalle allorchè vi sentite spezzare il cuore pel tradimento di lei in cui avete riposto tutto il vostro affetto, la vostra fede, la vostra felicità, questa gente, se non sapete resistere a lei per cui il cuore vi sanguina, che amate ancora, e la quale vi dice, con lagrime vere, con singhiozzi che sentite venire dal cuore, aggrappandosi al vostro collo coi capelli sciolti, colle braccia convulse: — Perdonami! Perdonami! perdonami come Dio!... Ebbene, questa gente, se voi fate come Dio, si stringe egualmente nelle spalle, ma di sprezzo.

Cesare tornò a casa, pallido come uno spettro. E lì, colla figlioletta fra le braccia, pianse a lungo, disperatamente, di quelle lagrime che piombano ad una ad una sul cuore, e vi scavano un solco.

Tutt’a un tratto entrò l’Elena, coll’occhio impietrato, le labbra convulse e cascanti....

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