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VIII.
Le sue parole «forgive me! Be kind to me!» mi avevano messo in cuore un gelo di spavento. Alle prime righe avevo esultato, e poi letto rapidamente, divorato ogni frase amara con avidità, volendo conoscere il peggio. Quand’ebbi finito mi turbinava dentro una passione tale, una tal febbre di prepotente vita che mi pareva troppa per il mio petto angusto. Era libera, mi amava, mi aveva sognato anche lei. L’unica volta in vita mia mi scoppiarono dal cuore dei versi belli e fatti, il primo dei quali pare insensato e l’ultimo ha un’elissi spaventosa; ma non si cambiano!
Ecco, superbo ascende il fior de l’agave, |
No, cuor mio, sta tranquillo, non si cambiano; il tuo primo getto della gioia infinita, eterna, non si tocca più.
Era fidanzata, aveva perduta la fede nell’amore, negli uomini, in sè stessa, forse. Tali difficoltà mi accendevano e non mi atterrivano. Ah, questo sì era uno spasimo, che avesse amato tanto, che non si potesse assalire il passato!
Stetti sepolto, non so per quanto tempo, nella poltrona dove si era seduta miss Yves; poi l’aspettai andando da una sala all’altra, vagando intorno all’albergo. Non so cosa si sarà detto di me, poichè mi sorprendevo io stesso a guardar fiso la gente, a parlar da solo. Passavano ore ed ore, miss Yves non veniva mai. Avrei voluto scriverle, ma tremavo che intanto scendesse, che mi sfuggisse. Verso l’ora del pranzo mi risolsi a preparar due righe nella sala di lettura.
Scrissi:
«Non voglio morire, no, se mi ama; se è libera non voglio il sepolcro sulla montagna, nè il sepolcro nella valle, voglio te che sei la speranza e la fede, la vita e la luce. Voglio portarti sul mio petto, forte con te, forte per te, attraverso le cose e gli uomini, amici o nemici, fino all’altra sponda, fino a Dio. Non mi parli di sponsali, non mi parli di vicende che furono, io l’amerò tanto che Lei crederà nell’Ideale come io vi credo, e noi saremo uniti quanto i due nella leggenda sublime del Diletto, Essa è islamita, suona così:
«Un’anima pellegrina giunge dalla terra alla dimora del Diletto, batte alla porta. Una voce dall’interno chiede: chi sei? L’anima gli risponde: son io. — Non vi ha posto — suona la voce — non vi ha qui posto per te e per me. — La porta rimane chiusa.
«Allora l’anima ridiscende sulla terra, passa un anno nel deserto a pregare, piangere e far penitenza. Poi risale alla porta, vi batte ancora. Ecco la voce che dice: chi sei? Ella risponde tremando io sono tu. La porta si apre.
Che dolcezza immensa! Io sono tu. Possa Ella sentire più fortemente qui una tale parola scritta da me palpitando, che non l’abbia sentita presso al cuore silenzioso di Shelley e le rose funebri dove Dio gliela fece trovare la prima volta! Ho la ferma fede che le nostre labbra se la potranno dire un giorno. Lei non sa la mia storia, Lei non sa il mio sogno, Lei non sa il destino, non il destino, l’Amore infinito che ha pietà di noi due; e dice che parte, che non vuole amicizia nè corrispondenza alcuna con me! Oh come non sa, come non intende e qual errore di dire che ha amato troppo! Dovunque lei vada io pure andrò; Ella non ha amato abbastanza.»
Il Leopardi di miss Yves era in sala di lettura. Vi misi dentro la mia lettera. Il libro aveva un leggero profumo, il profumo delle sue mani, della sua persona, mi metteva le vertigini.
Ella discese qualche minuto dopo suonato il pranzo, in una elegante toelette nera, con lunghi pendenti di turchesi che le stavano assai bene fra i crespi capelli biondi e il collo bianco, delicato. Era con Mrs. B., ma forse non avrei avuto un altro momento opportuno; le porsi il libro. Appunto perchè il momento non era opportuno, m’intese. La vidi esitare un attimo.
— Non lo posso portare a pranzo — diss’ella con un lieve sorriso.
— No — risposi — ma credo v’abbia dimenticato qualche cosa di Suo. — Violet esitò ancora, poi prese il libro e ne tolse la lettera.
— Andiamo — disse l’altra.
Durante il pranzo gli occhi di miss Yves non si volsero a me che una volta. Ella si alzò da tavola prima della frutta e scomparve. Era impazienza di leggere la mia lettera? O proposito di evitarmi? La seguii col pensiero. Stava leggendo, aveva letto, combatteva con le ombre del suo cuore. Penoso momento! Vinceva lei? Vincevano i fantasmi nemici? Era duro di non saper nulla, di non poter aver un segno. Però aveva presa la lettera. Mi dissi che avevo torto di dubitare e di temere, che Dio non mi avrebbe deriso, non mi avrebbe mandati quei sogni e lei per togliermi poi tutto così.
Seduto in faccia allo scoglio sovrano, condussi mentalmente a fine la poesia sgorgatami dal cuore alla mattina:
Se lunghe, amare furono le tenebre, |
Sentivo che avrei amato, felice o no, sino alla morte, ed anche in questa consapevolezza era un’acuta felicità. Il pensiero della morte mi brilla sempre davanti ne’ miei più forti ardori di spirito, però in forma diversa; nelle commozioni che mi ha dato il sentimento intenso della natura, specialmente se misto ad occulte amarezze, ho sospirato di sciogliermi nelle cose; nelle commozioni dell’amore ho desiderato un mondo più alto, il mondo della luce e della vita che mi sentivo in cuore, tanto diverse da ogni luce e vita terrena, tanto superiori.
Quella sera miss Yves non discese più.