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XX.
Verso le sei pomeridiane di quello stesso giorno, quando stavo per uscire dall’albergo, il dottor Topler entrò da me.
— Eccomi — diss’egli.
Non lo attendevo e non avevo ancora pensato bene il modo d’incominciare la mia confessione. Vedendomi perplesso, Topler aggrottò le ciglia, prese quell’aria grave che molti prendono in ciascuna parte del mondo, quando temono si chieda loro del denaro. M’affrettai a dirgli ch’era venuto il momento di fargli sapere perchè fossi ad Eichstätt.
La sua fronte si spianò. Come si celasse nell’anima sua calda e franca una segreta punta di avarizia, non lo so, ma vi era; e certe tracce del sole e della terra sul suo abito nero non erano, lo seppi di poi, interamente effetto di trascuratezza artistica o filosofica. La sua fronte si spianò e i suoi occhi curiosi brillarono.
— È un debito di lealtà da parte mia — soggiunsi. — Forse quando Lei saprà perchè sono venuto ad Eichstätt...
— Ebbene? — fece Topler.
— Non saremo più amici.
Egli trasalì, si rizzò sulla persona, mi guardò a sopracciglia levate. A me premeva oramai d’arrivare in fondo, e ripresi:
— Ieri non era la prima volta che vedevo miss Yves. L’ho veduta in Italia. Sono venuto in Germania per lei.
Topler mi guardava pietrificato.
— L’altra sera — continuai — a Norimberga, ho udito il loro dialogo davanti al caffè Sonne e ho saputo a che ora dovevo trovarmi alla stazione per viaggiar con Loro.
— Lei non sapeva — esclamò Topler — che miss Yves è fidanzata?
— Sì signore, lo sapevo. Lo sapevo da lei stessa.
— Ah! Miss Yves La conosce?
— Sì signore.
— Oh!
In questo lungo oh! come sul viso improvvisamente severo del vecchio vi era meraviglia e biasimo.
— Miss Yves — esclamai — mi respinge. Ha fatto il possibile, prima perchè non venissi in Germania, poi perchè partissi subito. Lei ha potuto osservare che durante tutto il tragitto da Norimberga ad Eichstätt non mi ha rivolto una sola parola, mentre tutti gli altri hanno invece conversato con me.
— Ma allora Lei... — scattò su Topler, e s’interruppe. Dopo un lungo mugolio sordo, come chi esita davanti a una parola, riprese a voce bassa guardando qua e là per la camera:
— Avrei quasi detto che Lei...
— Che sono pazzo? Non lo credo.
— Questo lo capisco — replicò Topler bruscamente.
— Devo pure dirle — soggiunsi — che malgrado la volontà di miss Yves resterò qui e farò il possibile per vincere questa volontà.
— E cosa dovrò dunque dir io? — proruppe Topler.
— Che non ho voluto tacere ed approfittare dell’amicizia Sua per giungere copertamente a’ miei fini.
— Questo lo ha già fatto! E adesso quale azione è la Sua di perseguitare una signorina che non è più libera e che La respinge?
— Signor Topler — risposi — non mi giudichi, non...
— Io La giudico! — esclamò Topler furiosamente. — Giudico Lei e le Sue azioni come mi pare e piace! E le proibisco di restare ad Eichstätt! Le proibisco di molestare la fidanzata di mio fratello!
— Scusi — replicai tranquillamente. — Miss Violet Yves mi ama.
Stavolta Topler mi appuntò al viso l’indice della mano destra, mi guardò a bocca aperta e non disse verbo. Parve che la sua collera si sciogliesse in stupore.
Dopo un minuto di contemplazione attonita i suoi occhi si ravvivarono improvvisamente, il suo viso si colorò. Trasse di tasca un grande fazzoletto giallo e rosso, vi guardò dentro, brontolò: è matto; poi si soffiò fragorosamente il naso, e, fatto un nero cipiglio, raggomitolandosi in furia il fazzoletto fra le mani, vi borbottò su a precipizio:
— È matto è matto è matto è matto.
— No, caro signor Topler — diss’io con un certo freddo sdegno nella voce — non lo creda.
— Ma cosa mi ha detto poco fa? — ribattè iracondo. — Non mi ha detto che miss Yves La respinge? E adesso vien fuori che L’ama?
— Scusi — gli risposi dopo un breve indugio — la confessione che per lealtà Le dovevo fare gliel’ho fatta. Solo con un amico vorrei spiegarmi di più, Lei mi dirà che oramai non possiamo essere amici. Capisco. Però io Le conserverò sempre una grande stima e una grandissima simpatia; e se Lei fosse disposto ad ascoltarmi un’ultima volta con amicizia...
Tacqui e tacque lui pure. Passati pochi secondi mi alzai con un gesto di rassegnazione. Anch’egli si alzò, prese il cappello e la mazza.
— La ringrazio a ogni modo — gli dissi tristemente, avviandomi all’uscio — di essere venuto.
Egli mi guardò negli occhi, parve scrutarmi sino in fondo all’anima; poi buttò sulla tavola cappello e mazza, allargò con impeto le braccia, ed esclamò:
— Dica!
Fui, nella mia contentezza, per afferrargli le mani. Egli si restrinse in sè, mi diede un’occhiata diffidente. Finsi di non avvedermene e presi a raccontargli la storia del mio amore, rifacendomi dall’incontro con Violet a Belvedere di Lanzo. Quando toccai de’ miei due sogni per dirgli l’effetto primo della voce di lei, Topler approvò ripetutamente del capo, come un medico che oda dall’infermo la descrizione di nuovi sintomi rispondenti alla sua diagnosi del male. Ma poi, mentre venni parlando dello spirito di miss Yves, delle sue idee amare e tristi, del bene che avrei voluto farle ricevendone da lei molto più, il vecchio, che prima se ne stava a capo chino, mi levò gli occhi in viso sì che potei vedervi sorgere un vivo interesse, sparire i sospetti, ritornare la stima.
Tacqui delle lettere direttemi da Violet e delle sue ultime confidenze. Dissi solo che Violet mi amava e che mi respingeva per voler mantenere la parola data liberamente al professor Topler. Soggiunsi che avevo fede, per tanti segni misteriosi, in una volontà superiore propizia a me, in una promessa divina di concedermi ciò che avevo sognato.
Topler mi guardò un tratto in silenzio, poi esclamò:
— E che intende farà?
— Tutto il possibile — risposi.
Egli si prese le tempie fra le mani, ripetendo sottovoce: — Was für eine Geschichte, was für eine Geschichte! Oh che storia, oh che storia!
— Senta — mi arrischiai a dirgli. — Lei non mi pareva contento, ier l’altro, che suo fratello sposasse miss Yves.
— Lasci stare, lasci stare, non posso aver detto questo — brontolò Topler come stizzito da un ricordo molesto, e stette ancora alquanto con la testa in mano.
— Io sono come un padre per mio fratello — diss’egli con voce commossa. — Io non ho che lui, ed egli, povero ragazzo, lo vede bene, s’immagina di avere Dio sa cosa, ma in fin de’ conti non ha che me. Se questo matrimonio è un errore, bene — oramai l’ho accettato, l’ho accettato.
Ripetè fra sè: — L’ho accettato — e stette pensieroso, mostrando nella fronte, nelle mobili labbra mute, nella inquietudine di tutta la persona un contrasto interno. Finalmente rialzò il viso ed esclamò con energia per far tacere tante occulte voci contrarie:
— Insomma, l’ho accettato!
E subito si rifece pensoso, inquieto. Le occulte voci non tacevano ancora; le leggevo sulla fronte, nei movimenti muti delle sue labbra. Sarebbe stato lieto che il matrimonio sfumasse, era fieramente tentato di darvi mano egli stesso, ma il dolore di suo fratello gli metteva paura. Quest’ultima angoscia superava ogni altro argomento. Povero vecchio, egli dava di gran rabbuffi a suo fratello, si burlava del suo chiaro di luna, ma lo amava colla tenerezza d’una madre.
— Vede, per esempio — uscì improvvisamente a dirmi — Lei ricorda che ier l’altro, uscendo dalla stanza di mio fratello, esclamai «solite storie!» L’avevo trovato a piangere come un fanciullo perchè miss Violet era stata così fredda. Io allora gli ho detto: «E tu lasciala!» Sa cosa mi rispose? Mi domandò se volevo la sua morte. Capisce?...
Molte risposte e proposte mi fremevano in gola non convenienti, per un verso o per l’altro, a dire, qualcuna forse nemmanco a pensare. Quindi tacqui. Anche Topler cercava febbrilmente come coglier quest’occasione di liberar suo fratello senza spezzargli il cuore, non trovava niente, avrebbe pur voluto farsi aiutare da me, sentiva di non poterlo convenientemente fare, e taceva. C’intendevamo, nel nostro silenzio, a vicenda, anche senza guardarci; perchè se io guardavo Topler, egli guardava piuttosto le pareti e il soffitto. Così ci accordammo a trovare, senz’altre parole, che non c’era uscita, e ci alzammo da sedere, pressochè ad un punto.
Nel congedarmi da lui fui per domandargli se ci potevamo vedere ancora, e mi trattenni per non correre il pericolo della risposta peggiore. Mi parve delicatezza non stendergli la mano. Fu lui che per il primo ne fece l’atto e subito si pentì, pensando a suo fratello. Così ci separammo senz’alcun segno d’amicizia; pure nel cuore eravamo più legati di prima.
Scrissi subito a Violet:
«Ho parlato al dottor Topler, in questo momento. Gli ho detto che amo miss Yves, che ella mi ama e mi respinge, che Dio me la concederà.»
Recai immediatamente questo biglietto alla Posta, nella speranza che Violet lo potesse avere la sera stessa.