< Il mistero del poeta
Questo testo è stato riletto e controllato.
Capitolo XXVII
XXVI XXVIII

XXVII.


All’indomani, molto per tempo, ricevetti il seguente biglietto:

«Fanny Treuberg, nata von Dobra, dolente di non esser stata in casa ier l’altro, aspetta il signor*** oggi, domenica, dopo le undici.»

Suonai il campanello di casa Treuberg al battere delle undici; nessuno al mondo sarebbe stato capace, nel posto mio, d’attendere un altro minuto. M’introdussero nel salotto stesso dell’altra volta e mi dissero di aspettare la signora, che sarebbe venuta subito. Non osai domandare di miss Yves. Vi era ancora il vaso di fiori, ma senza rose, stavolta; v’erano le fotografie. Solo le sedie non erano al posto di quel giorno. Mi accostai al tavolino. Sentivo ancora il profumo de’ suoi capelli, mi serravo sul petto le sue mani gelate. La signora Treuberg entrò.

— Ho mio marito a letto da ieri — diss’ella. — È un male da nulla, ma egli è inquietissimo, mi vuol sempre in camera.

Non compresi che significasse questo esordio. Feci un gesto come per giustificarmi d’essere venuto e per prender licenza.

— Ma no, ma no! — esclamò La signora. — La ho ben pregata io di venire. Sieda! Mio Dio, non so come incominciare.

Sedetti in silenzio.

— Lei adesso ha capito — riprese.

— Sì signora — risposi. — Mi dica.

— Ecco che cosa succede. Santo Dio, è un tal seguito di cose e anche questo colloquio con Lei è tanto strano per me! Aggiunga lo stato di mio marito. Proprio c’è da perderne la testa. Aspetti, dunque. Lei ha parlato al dottor Topler.

— Sì signora.

— Topler è venuto qua giovedì mattina. Pover’uomo, era fuori di sè. Ha parlato a miss Yves. Miss Yves è stata perfettamente sincera con lui, ma gli ha detto che intendeva tenere la sua promessa e lo ha pregato, anzi, di tacere tutto a suo fratello. Allora Topler si è consigliato con me. Adesso Le parlo schietto; il mio consiglio è stato che si facesse il desiderio di miss Yves, che non si dicesse niente al professore e ch’ella anticipasse la sua partenza, con un pretesto, per Norimberga. Così fu deciso. Io ne parlai a miss Violet e si doveva partire ieri, sabato, alle quattro e mezzo; perchè la avrei accompagnata io. Siccome erano venute notizie non tanto buone dallo zio Yves, quello ch’è stato in Italia, così s’è detto al professore che si anticipava il ritorno a Norimberga per lui; quando ieri, prima ancora che mio marito si sentisse poco bene, capita Topler, il vecchio, tutto ansante, tutto sottosopra, e mi dice di sospendere la partenza perchè c’è una novità, e questa novità è che suo fratello sa ogni cosa.

— Lo sa? — esclamai. Non tanto la cosa in sè, quanto il modo in cui sentivo che Topler l’aveva detta, mi fecero balzare il cuore di speranza.

— Sicuro — rispose la signora. — Il professore ha saputo tutto da una lettera che ricevette ieri mattina. Pare sia sottoscritta, ma da persona che prega di non essere nominata. Infatti il professore non l’ha voluta nominare. Solo ci affermò che non l’aveva scritta Lei.

— Luise — pensai con uno slancio di gratitudine. — Il segreto di Luise.

La signora continuò a raccontare che Topler le aveva espresso la ferma volontà di suo fratello, di parlare a Violet il più presto possibile, appena ne fosse stato in grado. — Il vecchio — diss’ella — era in un grande orgasmo e mi pareva tutto meravigliato che suo fratello, malgrado un tal colpo, non fosse ancora morto. Egli non poteva star quieto sulla sedia e corse via appena fatta la sua ambasciata. — Debbo anche dir questo — soggiunse dopo un momento di esitazione. — Topler vide presso di me una lettera di Monaco in cui si parlava molto di Lei, e in modo da persuadersi che una ragazza sarebbe veramente fortunata...

La interruppi, ma ella mi disse che nella commozione di Topler questa lettera ci entrava molto.

— Alcune ore più tardi — continuò la dama — egli ritornò con suo fratello.

Si udì un colpo di campanello.

— Mio marito! — diss’ella. — Ritorno subito.

Ritornò quando a Dio piacque, esclamando: — Ah questi uomini, questi uomini! — e dolendosi con un fiume di chiacchiere dell’intolleranza di suo marito, come se io non stessi sui carboni ardenti. Finalmente riprese il filo del discorso.

— Vorrei che li avesse veduti. Noi conosciamo da poco tempo i fratelli Topler, specialmente il vecchio; i nostri più stretti legami sono colla famiglia di miss Yves. Anzi, se vuole, per quanto il professore sia un uomo stimabile, questo matrimonio mi andava poco; ma ieri mi hanno proprio toccato il cuore, povera gente. Il professore pareva addirittura un morto e sotto gli occhiali gli si vedevano gli occhi rossi. Sa, non è bello mai; si figuri! E non parlava. Insomma era una gran compassione di vedere in quello stato un uomo della sua età e della sua figura. Ma il vecchio inteneriva ancor più. Si vedeva che soffriva di veder suo fratello così, e che faceva ogni sforzo di nascondere l’animo suo, di parer tranquillo. Parlava lui. Bisognava sentire, se diceva una parola a suo fratello, che tono di voce! Bisognava vedere che occhiate di angustia gli gettava ad ogni momento, quasi di soppiatto! Il professore andò da miss Yves ed egli restò con me. Si capiva che faceva un sacrifizio a non accompagnarlo, ma insomma lo lasciò andare. Ogni tanto giungeva le mani, alzava gli occhi al cielo e andava sulla porta ad origliare, aspettando il suo passo. Il professore ricomparve dopo un bel pezzo. Cosa si abbiano detto, Violet e lui, non lo so; certo egli era ancora più contraffatto di prima. Suo fratello lo prese a braccetto e lo condusse via. Non potei andar subito da miss Yves perchè intanto mio marito s’era sentito male. Vi andai più tardi. Ella mi disse che avrebbe voluto tacer tutto al suo fidanzato, ma che, interrogata da lui, non aveva potuto mentire. Non sapeva cosa il professor Topler avrebbe fatto; a ogni modo, lei desiderava di ritornare a Norimberga il più presto possibile. S’immagini che imbarazzo; ieri non c’era più che il treno delle nove e mezzo. Io, avendo mio marito a letto, non potevo accompagnarla e mai non l’avrei lasciata partire sola. S’ebbe appena il tempo di combinare che partisse stamattina con mio fratello e mia nipote Luise, che Ella conosce. Intanto venne una lettera del fidanzato che la lasciava libera.

— Ah! — esclamai.

— Senta, signore — riprese la Treuberg con un certo imbarazzo, — capisco la sua gioia. Come amica di Violet Yves, credo che potrei molto rallegrarmi anch’io, ma non so se miss Yves, quantunque certo ben disposta verso di Lei, accoglierà una sua profferta di matrimonio. La ho invece pregata di venire da me per dirle questo. Per amor del cielo non vada subito a Norimberga, per amor del cielo non cerchi presentarsi subito alla famiglia Yves come un pretendente! Lei non conosce gli zii Yves. Sarebbe la disgrazia della nostra amica.

— La disgrazia?

— Oh Dio, sì. Lei non sa quanto gli zii tenessero al matrimonio Topler; e io temo pur troppo che invece...

La signora s’interruppe.

— Non sarebbero contenti di me? — diss’io.

— Cosa vuole? — esclamò la povera donna. — Avrebbero torto, ma temo che sarebbe così. La madre di Violet era romana; una dolce creatura! Ma non direi che lei e i suoi cognati avessero due idee comuni; e loro già s’immaginano che tutti gl’italiani sieno così. C’è anche una questione di religione in fondo.

Mi feci spiegare queste ultime parole. La madre di Violet, cattolica, aveva sposato William Yves protestante, col patto che i figli maschi sarebbero allevati nella religione protestante e le femmine nella religione cattolica. Si diceva poi che William, presso a morire, avesse abbracciato la religione della diletta che lo aveva preceduto nell’eternità con questa speranza. Gli Yves lo credevano. Era una grande amarezza per loro e l’attribuivano al proselitismo italiano.

A questo punto la signora mi apprese che il signor Topler era protestante. N’ebbi grande sorpresa pensando agli scrupoli del mio vecchio amico, al suo rispettoso riserbo circa il Papa e Roma. Lo dissi alla signora, ed ella mi rispose che di quello là nessuno poteva dire con sicurezza cosa veramente fosse.

Promisi alla signora che almeno per alcuni giorni non mi sarei fatto vedere a Norimberga e, ringraziatala, mi congedai. Corsi subito a casa per scrivere a miss Yves.

Non ho ritrovato questa lettera, ch’era uno scoppio di gioia e un assalto agli ultimi ostacoli che dividevano Violet da me. Annunciai anche il mio proposito di partire fra due o tre giorni per l’Italia onde dar sesto alle mie faccende nella previsione di un’assenza più lunga. Scrissi così, ma per essere interamente sincero avrei dovuto anche dire che se indugiavo due o tre giorni a lasciare Eichstätt, era per attendere il ritorno di Luise, e non soltanto per esprimerle la mia gratitudine! Mi tenevo sicuro che mi avrebbe recato almeno un saluto.

Nel mattino del lunedì andai a prendere notizie del signor Treuberg con la speranza di saper qualche cosa di Luise; poichè a casa von Dobra m’avevano detto che l’altra signorina era presso sua zia e i domestici non sapevano quando il padrone sarebbe tornato. Là seppi che i von Dobra dovevano arrivare la stessa sera o il mattino vegnente; e là incontrai il mio amico Topler.

Ero da dieci minuti presso la signora quando il vecchietto entrò tutto fremente, tutto scintillante negli occhi. Mi alzai per congedarmi.

— No no no — diss’egli, accennandomi di rimanere. Salutò la signora, poi venne da me, serio, con le braccia aperte — Addio, caro — diss’egli; e mi abbracciò senz’altro. Quindi si parlò di musica, di Eichstätt, di Eugenio Beauharnais, di Re Luigi, di tutto, tranne di quanto avevamo in cuore. A un tratto Topler mi domandò se contavo restare qualche tempo a Eichstätt.

— Parto domani sera — risposi.

Non replicò verbo, e ricordo che poi si parlò della signorina Luise. Qualche sorriso di Topler, qualche parola un po’ severa della Treuberg mi fecero sospettare che il suo segreto fosse stato indovinato. Temendo che il dialogo pigliasse una piega inopportuna, mi alzai. Topler si alzò pure e uscì con me. Nello scender le scale mi domandò se alla sera mi avrebbe trovato in casa; il suo tono di voce era molto amichevole, ma molto serio. Non soggiunse altro. Ci stringemmo la mano e ci separammo.

Venne all’Aquila nera dopo le nove. Appena entrato mi prese a braccetto e mi disse risolutamente:

— Venga con me.

Gli chiesi dove volesse condurmi ed egli rifiutò di dirmelo. Ripeteva — venga con me, venga con me — Pensai che i von Dobra fossero ritornati e ch’egli sapesse di un messaggio per me.

Ma non andavamo verso casa von Dobra, andavamo verso casa Topler.

Possibile? Quando non ne potei dubitare mi fermai con un — ma?... interrogativo.

— È necessario — rispose Topler vivacemente, afferrandomi per un braccio — è necessario.

— Ma non è possibile! — esclamai.

Non credo che nessuno si sia trovato in un imbarazzo simile. A fronte del professor Topler, in quello stato di cose, mi poteva condurre un insulto, una sfida, e non altro, viva Dio. Ora suo fratello non cercava questo, sicuro. Cosa cercava, dunque? Topler insistette:

— Le dico che è necessario!

— Ma suo fratello? È qui?

— Sicuro.

— Ma lo sa che Lei vuole condurmi a casa sua?

— Sicuro, sicuro, sicuro! Lo sa. L’aspetta. È necessario.

Ebbene, pensai, al postutto, se lo vogliono, ci pensino loro e tal sia.

Topler, giunti che fummo a casa sua, mi fece entrare nel salotto del piano e mi lasciò solo. Aspettai quasi un quarto d’ora. Ogni tanto udivo la voce del vecchio in un’altra camera, ma non era possibile intendere le parole. Finalmente l’uscio si aperse. Primo comparve il mio amico; l’altro seguiva esitando. Il paralume della lucerna mi tolse di vederlo bene in faccia.

M’inchinai in silenzio, e non vidi neppure se mi rendesse il saluto. Topler seniore lo accompagnò ad una poltrona, e gli disse dolcemente di sedere. Quando sedette lo vidi.

Notai allora per la prima volta la sua singolare rassomiglianza, non col frate di Norimberga, ma con un altro frate afflitto di certa antica incisione satirica che io possiedo. L’accasciamento di un dolore profondo, che avrebbe reso grottesca la sua figura agli occhi del mondo, la rendeva invece rispettabile e toccante agli occhi miei; sentivo che un solo movimento di riso interno mi avrebbe fatto disprezzare da me stesso.

— Hai bisogno di parlargli, non è vero? — disse Topler seniore, affettuosamente. Il professore assentì col capo. Allora l’altro si volse a me e ripetè:

— Ha bisogno di parlarle.

In pari tempo si alzò e andò a chiudere una finestra da cui poteva venir dell’aria a suo fratello.

— Va bene? — diss’egli.

Seguì un lungo silenzio.

— Dunque, fratello mio? — fece il vecchio.

L’altro tacque ancora un poco e finalmente rispose:

— Potreste parlar voi, intanto.

Topler seniore sbuffò e brontolò:

— Non eravamo intesi?... Allora parlerò io — diss’egli poi, sospirando — e tu mi correggerai se sbaglio.

Quindi continuò volgendosi a me.

— Ecco mio fratello si crede in dovere, nella sua coscienza, di farle una comunicazione. Veramente tutto avrebbe consigliato, nelle circostanze presenti, una comunicazione indiretta per mezzo mio o di altri; oppure almeno una comunicazione scritta, per lettera. Ma ripugna a mio fratello scrivere certe cose e non vuol dir tutto, pare, neppure a me. Vede, io dovevo trovarmi qui semplicemente come testimonio, però capisco che a mio fratello manchi il coraggio d’entrare in argomento. Già, è inutile dirlo, si tratta della persona le cui relazioni con mio fratello si sono mutate in questi giorni. Si tratta della salute di questa persona. Prima di partire per l’Italia, l’anno scorso, ebbe una indisposizione alquanto seria. Fu nel maggio, mi pare. Va bene, Hans?

— Nell’aprile — rispose il professore, quasi sotto voce. — Il ventidue aprile.

— Bene — proseguì Topler seniore. — Il ventidue aprile.

Quando guarì, il suo medico chiese a mio fratello, un colloquio.

Qui Topler s’interruppe e guardò suo fratello, che si coperse il viso con le mani.

— Vuoi raccontarlo tu? — diss’egli.

Colui scosse il capo.

— Dunque — riprese l’altro rassegnatamente — il medico incominciò a dire che desiderava avvertire...

Una voce sommessa interruppe dalla poltrona:

— Ch’era in dovere.

— Oh santo Dio! — esclamo Topler, stizzito. Riprese subito l’impero di sè, e si corresse con mansuetudine:

— Sì, caro, ch’era in dovere. Era in dovere di avvertire mio fratello che la salute di quella persona non ispirava inquietudini per il momento; ma che vi erano serie minaccie per l’avvenire, specialmente considerando...

Qui Topler esitò come se non fosse sicuro di ciò che diceva e si volse a suo fratello.

— Questo non importa — mormorò il professore — questo non importa.

Topler seniore non comprendeva gli scrupoli di suo fratello e lo guardò, attonito.

— Se si tratta — diss’io — dei precedenti di famiglia, parli pure, li conosco.

— Poichè lo sa — riprese il dottor Stephan guardando ancora il fratello, come per giustificarsi con gli occhi — poichè lo sa, lo dico. Appunto. Specialmente considerando i precedenti di famiglia. Però, secondo il medico, è possibilissimo che si vada avanti, molto avanti senza guai, se si evita qualunque emozione violenta, sia di dolore, sia di gioia. Ciò che conviene alla signorina è una vita uniforme, tranquilla. Una emozione violenta sarebbe fatale.

Io ascoltavo rabbrividendo. Le cose udite non mi destavano meraviglia. Non avevo mai voluto fermare il pensiero su questo punto, perchè mi faceva spavento. Inconsciamente avevo le stesse apprensioni del medico.

— Ella può esser chiamato — conchiuse Topler seniore — a vegliar sulla salute della signorina. Capirà perchè mio fratello abbia desiderato...

Ringraziai e domandai se avessero altro a dirmi.

I due si guardarono ed il professore disse piano qualche cosa. Il vecchio s’alzò, poco persuaso, mi parve; e uscì dalla stanza brontolando, senza salutarmi.

— Scusi, — disse il professore, — il mio riverito fratello, non sapendo... non potendo... era una cosa convenuta fra la signorina e me...

Forse aveva preparato un esordio, ma per effetto della commozione o del suo naturale imbarazzo, si smarrì nella prima frase, rinunciò all’esordio.

— Insomma — diss’egli, buttando fuori, frettolosamente e senza guardarmi, le sue conclusioni, — con me la sua vita sarebbe stata più sicura.

Più sicura? Era una visione d’orrore ch’egli mi levava in faccia così.

— Questo — esclamai — è in mano di Dio!

Parve che la passione del mio grido si apprendesse a lui.

— Sì signore! — mi rispose balzando in piedi. — Più sicura! Questo è vero! Questo Lei non lo può sapere?

Sapevo benissimo ciò che voleva farmi intendere e la credetti una vendetta della sua gelosia. Tentava egli avvelenarmi l’avvenire? Lo interruppi con ira, ne lo accusai. Egli protestò, convulso, pallido come un morto. Replicai, mi rispose. Suo fratello saltò in camera, si cacciò fra noi, tempestò con me, tempestò con l’altro, afferrandoci per le braccia, gridando a me ch’ero un uomo indegno se non credevo al cuore più leale del mondo, gridando a lui ch’era uno stupido, due, quattro, dieci, cento volte stupido. A misura che ci placavamo noi, si rabboniva lui pure, scendeva a meno bollenti rimproveri, a parole mansuete, a scuse. Finalmente mi stese la mano, abbracciò suo fratello, e poi andava per la camera fregandosi le mani, borbottandosi tutto accigliato, ma con un accento di soddisfazione profondo: — siamo tre galantuomini, siamo tre galantuomini.

Me n’andai subito ed egli mi volle accompagnare sino a piedi della scala: — Lei è andato in collera — diss’egli nel lasciarmi — ma mio fratello è più che un santo. Io, al suo posto, o mi sarei fatto ammazzare o avrei ammazzato Lei. Questi sono spropositi, ma insomma, capisce! Domani me lo porto via, me lo porto nello Schwarzwald. Là lo guarisco. Ci ho già la sposa pronta. Altro genere!

Qui Topler, spingendo i gomiti in fuori e arrotondandosi il cavo delle mani sul petto, fece una mimica che non mi sarei aspettata da lui. — Buona fortuna! — diss’egli.

Amica mia, cui dedico queste memorie, non pensa Lei che Hans Topler fosse migliore di me? Allora ne ho dubitato, e adesso ne sono sicuro. Egli era uno degli ultimi che saranno primi un giorno. Io fui quella sera ingiusto e forse anche insolente con lui. È quasi un sollievo per me di confessarlo; non ho giustificazioni nè scusa, e vorrei che si sapesse come mi accuso. Iddio sa se tornato in calma non mi dolsi di me stesso, se non mi rimproverai la mia natura pronta sempre alle belle parole, ricca di sensi nobili in astratto, ma poi debole, ingenerosa nei cimenti della vita reale.

Il giorno seguente mi recai a visitare i von Dobra. Vidi Luise, ma non sola. Era triste. Mi accolse gentilmente, però fu meco molto più riservata del solito e non mi fece in alcun modo intendere d’aver messaggi per me. Suo padre mi parve imbarazzato. Nessuno parlò di miss Yves nè del viaggio a Norimberga; ogni discorso cadeva. Mi alzai presto, dicendo che partivo per l’Italia e che a Monaco avrei veduti i nostri conoscenti comuni.

— Lei già — disse Luise — non si lascerà più vedere ad Eichstätt.

— Difficile — risposi. — Però in Germania ci ritorno di certo e presto.

— Bravo — diss’ella, quasi sottovoce. Fu l’unica parola significativa ch’ebbi da lei. Poi soggiunse malgrado il silenzio accigliato di suo padre e di sua sorella: — Si ricordi un poco anche di noi.

Non ho più riveduta Luise, che lasciò Eichstätt da un pezzo; non so che sia di lei presentemente e non spero rivederla mai più se non là dov’è Violet. Non la ho dimenticata nè la dimenticherò un momento, la cara biondina. Non ho detto che, richiesta da me, mi diede manoscritte, in cambio del mio brindisi, le strofette popolari, cantate da lei nel Bahnhofswald. Le conservo presso alle mie memorie più care, insieme alle foglie di Waldmeister; e quante volte non le riprendo ancora, non le rileggo con tenerezza!

Du, mei flachshaarets Deandl
I hab di so gern
Und i kunnt weg’n dein Flachs
Glei a Spinnradl wer’n.

Mai non scorderò la graziosa cantatrice del bosco; molto meno scorderò i fiori colti in riva all’Altmühl, il salottino di casa von Dobra e l’appassionata giovinetta che tanto osava per Violet. Possa ella aver incontrato un amore degno del suo generoso cuore, possa essere felice! Aveva certo un cuore fedele, un cuore che non muta, che non oblìa. Se queste pagine vedranno mai la luce, se verranno alle sue mani, sia pure in un giorno assai lontano, io so ch’ella ne avrà una commozione simile alla mia presente; io so che penserà a Violet ancora con lagrime, che penserà a me ancora con il sentimento di quando mi disse — mi fido di Lei. — Preghi allora per noi, cara Luise; e si fidi, si fidi di noi, della Sua amica e di me, che con tenera gratitudine pregheremo per Lei.

Volli andare alla stazione a piedi, per il sentiero del bosco, mentre il mio bagaglio viaggiava nell’omnibus. Dissi addio ai faggi e agli abeti che mi avevano veduto con Violet. Quante cose in otto giorni! Era il tramonto; sopra la stazione il sole infocava le boscaglie deserte. Quante cose! Avevo l’idea di non tornare mai più ad Eichstätt, e fu allora che colsi per memoria le foglie del profumato Waldmeister.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.