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XXVIII.
Mio fratello e la sua famiglia sospettarono certo di qualche cosa perchè non espressero sorpresa alcuna del mio sollecito ritorno nè della intenzione, che io manifestai loro, di ripigliar presto il viaggio interrotto. Accolsero le mie parole in silenzio e non toccarono mai più, con me, questo punto. Avrei spontaneamente confidato il segreto a mio fratello, ma non mi tenevo sicuro che tacesse con mia cognata, la quale, alla sua volta, non sarebbe stata zitta di certo. Ora è a Lei, amica mia, che io debbo domandar perdono, perchè La vidi in quei giorni e Lei mi domandò se le voci corse fossero vere; al che io risposi, con alquanta ipocrisia, che voci siffatte non erano mai da raccogliere. Forse Lei non si lasciò prendere a questa smentita apparente, perchè mi replicò, secondo il suo solito, che già ero un libro chiuso; ma intanto io non fui sincero. Giudichi se, in quella incertezza di cose e posta la mia natura, mi fosse facile di parlare. Se mi trova in colpa mi perdoni e mi tenga conto, a ogni modo, delle confidenze che Le feci più tardi là presso la chiesetta longobarda e della sincerità piena di quest’ora.
Ero arrivato a casa il 21 maggio, e al 1° giugno non sapevo ancora niente di Violet: mi venne il dubbio che ella mi avesse scritto fermo in Posta, e corsi a sincerarmene. All’ufficio non trovai nulla, ma poi incontrai il postino del mio quartiere che mi porse una lettera col francobollo straniero. L’afferrai; era lei.
Poteva esser la vita, poteva esser la morte; non ebbi il coraggio d’affrontare la mia sentenza in mezzo al viavai della gente. Lei conosce la stradicciuola senza nome lungo il fianco orientale di S. Maria ad muros, a due passi dalla Posta? Corsi là. Qualcuno mi fermò per via, mi rimproverò di non salutare gli amici. Forse uno di questi amici ricorda ancora di avermi detto: — Ti senti male? Sei pallido. — Fu in quella stradicciuola erbosa, fra i bastioni e la chiesa solitaria, che apersi la lettera e lessi queste parole:
«Mio Dio, cedo. Se sapesse, dovrei essere tanto afflitta, e sono tanto felice! Non mi troverà più a Norimberga. Partirò dopo la metà di giugno e il primo di luglio sarò a Rüdesheim am Rhein, presso la famiglia Steele, per ora; più tardi, forse, mi recherò in Inghilterra. Oh amico mio, non ho più che Lei! — V. Y.»
La porta laterale di Santa Maria era aperta. Vi entrai.
Anche adesso, quando sono in città, vado ogni giorno a Santa Maria, nella terza cappella a sinistra, quella grande, scura, con le due finestre gotiche dai vetri dipinti, dove andai allora; e sarebbe un vivo dolore per me se avessero a cambiare il vecchio banco dove m’inginocchiai fra la balaustrata e il confessionale.
Tali momenti sono inenarrabili. La gioia, la gratitudine dell’anima mia non avevan parole. Se qualche sommessa voce mi usciva dal petto mentre mi premevo le mani sul viso, eran voci quasi dolorose, gemitus inenarrabiles. Cosa ne posso dire? Ho avuto questo senso, che Dio mi era vicino vicino, e che il mio spirito ne delirava.
Una digressione per Lei sola, amica mia. Vorrei che la filosofia positiva studiasse questi misteri, che ne apprezzasse imparzialmente il valore. Vorrei che comparasse fra loro la emozione dello scienziato che scopre una importante verità, la emozione dell’artista cui balena in mente un concetto di grande bellezza, la emozione di chi immagina e si propone un eroico sacrificio per il bene. Mi pare che la somiglianza loro si troverebbe facilmente. Tutte generano un piacere spirituale intenso, tutte staccano lo spirito umano dal mondo sensibile che lo circonda, lo inebbriano nel contatto di qualche cosa che prima non era in loro, che si potrebbe ancora, lo sentono, allontanare da essi, che deve quindi esistere anche distintamente per sè, benchè non s’intenda come. Noi possiamo però immaginare che tali contatti diversi avvengano per altrettante azioni diverse di un Essere solo, perfetto. Ora, se questo Essere esiste, ogni altro immaginabile contatto con Lui deve dare una emozione di egual natura. Ebbene, l’anima religiosa cerca appunto il contatto di un Essere perfetto in verità, in bontà, in bellezza; lo slancio religioso aspira ad esso in tutti i suoi attributi, ed ecco seguirne questa emozione di egual natura, ma più intensa delle altre in cui il contatto inebbriante è più angusto. Se immaginiamo uomini vissuti nelle celle tenebrose di un ipogeo, e la fulminea impressione di un raggio solare che arrivi loro per il prisma, a questa cella d’un colore, a quella d’un altro, li vedremo tocchi così di emozioni senza nome, inconsci così che tali emozioni abbiano la stessa origine, il sole cui ciascun colore si conviene, il sole che rende più felici noi cui risplende intero. Cara mia, Lei sa che io ho pur troppo sempre avuto un debole per i pasticcetti di metafisica azzurra; ho davvero paura di averne cucinati troppi, l’inverno, nel suo salotto dove non mi mancavano nè la metafisica, nè l’azzurro, nè il caldo. Questo è ben l’ultimo; si consoli.
Andai a casa e parlai a mio fratello.
Egli mi disapprovò. Non intendo ora dolermi di lui. Era un uomo retto, un uomo di cuore, e fu sempre affettuoso per me che ora ne tengo come posso il posto presso i figli, orbati in sedici mesi di ambedue i genitori. Ma forse allora non ponderò abbastanza l’obbligo morale che già mi legava a miss Yves e cercò rimovermi dal mio proposito con troppo calore. Me ne sdegnai forte ed ebbi il torto di lasciarmi sfuggire, nella collera, alcune parole circa il fine della sua opposizione che giustamente l’offesero. Gliene chiesi scusa sull’atto, ma la impressione non ne fu tolta. Egli si chiuse in un freddo riserbo e io posi fine al colloquio pregando di non manifestar la cosa ad alcuno. Certe domande di mia cognata sui protestanti di Germania e d’Inghilterra, e il viso lugubre con cui le faceva, mi diedero poi a sospettare ch’egli avesse parlato; perchè non gli avevo detto che Violet era cattolica. Ciò m’indispose ancor più.
Un altro discorso di mia cognata mi ferì. Io occupavo, in casa, quattro camere, e la casa è grandissima, non serviva, per un buon terzo, a nessuno; due famiglie vi potrebbero alloggiare comodamente. Ella mi domandò una delle mie camere per una istitutrice che voleva prendere, e mi fece capire che giudicava la casa appena bastante per sè. Io veramente avevo pensato di non restarci se prendevo moglie, ma intanto tutte queste ostilità più o meno coperte m’irritavano e pensai allora per la prima volta di abbandonare la mia città nativa, di portare Violet a Roma o a Napoli.
Non riferirò ciò che risposi a miss Yves. Allora mi parve che le mie parole avessero il fuoco dell’anima e così parve a lei pure. Rileggendole invece più tardi, mi parvero e mi paiono ancora tanto inadeguate a ciò che sentivo. No, non le trascriverò, sono foglie disseccate dell’agave; le lascio cadere.