< Il mistero del poeta
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XXXIV XXXVI

XXXV.


L’indomani alle undici trovai Violet in giardino. Nello stringerle la mano la sentii di ghiaccio, ma il viso era tanto raggiante! Mi aspettava da un’ora, pur ricordando di avermi detto alle undici. Le diedi le due strofe che precedono e un biglietto con cinque versi che mai altri occhi umani non videro nè vedranno. I suoi lampeggiarono di gioia quando le parlai di queste poesie, scritte nella notte.

— Ecco — esclamò — la mia speranza di ieri!

Ma quando vide com’erano scritti i cinque versi e quale inesprimibile amore dicevano, mi guardò fisso con lo stesso scuro fuoco del giorno innanzi, mi strinse le mani con la stessa energia convulsa, senza potere articolar parola.

— Ho paura — diss’ella finalmente, sottovoce, tenendo gli occhi bassi e accarezzandomi la mano — che Dio ci castighi perchè a Belvedere hai cominciato ad amarmi credendomi maritata, e io te lo lasciai credere. L’ho tanto pregato che ci perdoni, sai. Pregalo anche tu, caro. Non voglio mica perderti presto; non mi basta di sapere che sarai mio per sempre nell’altra vita. Dio, sono tanto attaccata alla terra adesso! Ti voglio anche qui, anche qui. Tu non puoi intendere, vedi, come ti amo.

Mi spieghi Lei, amica mia, come si possono confondere nel cuore una tale angoscia e una tale dolcezza quali ne provai a un punto per le parole appassionate di Violet. Mi rimproverai tacitamente di averla troppo commossa, di non aver fatto maggior violenza al mio sentimento, e la scongiurai di serbarsi tranquilla, perchè le emozioni troppo forti potevano porre a cimento la sua salute.

— Allora calma, calma, calma! — diss’ella sul serio. — Diventi di gelo anche Lei.

Questo Lei involontario, eppure così naturale in quel momento, ci fece ridere di cuore.

Le presi la mano sinistra.

— Questa non può stringere come vorrebbe — disse Violet un po’ tristemente — ma le devi voler bene come all’altra.

Era così elegante quella piccola mano segretamente offesa, così delicata e diafana!

— È la più bella mano che il mondo abbia — diss’io.

— Non dica questo cose — rispose Violet tornando al Lei e arrossendo.

Sorrisi e replicai: — Non le dirò più. — Ella esclamò allora con impeto: — Sì, le dica!

Il mio pensiero passò naturalmente dalla sua infermità a un’altra idea.

— E i tuoi parenti? Cosa dicono? Lo domando perchè mi pare che dovrei scrivere a tuo fratello.

Qui la mia coscienza mi accusa di una colpa che il mondo, ingannato dai nobili sentimenti profusi senza fatica nei miei libri, forse non mi avrebbe attribuita, ma che risponde pur troppo alle intime pravità e miserie della mia natura. Non avevo perdonato a mio fratello le sue obbiezioni di prima, la sua freddezza di poi, ne serbavo un risentimento ingeneroso. Inoltre, per la mia orgogliosa ed egoistica inclinazione a considerarmi vittima dell’ingiustizia umana, a supporre negli altri antipatie, invidie deliberate, noncuranze verso di me, mi figuravo che mio fratello e mia cognata fossero molto più avversi al mio matrimonio, molto più amaramente ingiusti verso Violet e me di quanto erami lecito credere. E mi compiacevo, quasi, per la mala abitudine del mio cuore, di una tale ingiustizia che mi rendeva, in certo modo, più caro a me stesso. Ora l’idea che Violet scrivesse una lettera affettuosa a mio fratello mi destò una subita ripugnanza. Non la seppi vincere e nemmeno seppi, purtroppo, esser sincero; risposi che non avevo ancor detto nulla a’ miei parenti, che per ora non era necessario di scrivere e che ad ogni modo sarebbe toccato a me di partecipar loro il nostro matrimonio e quindi a mio fratello di scrivere per il primo alla fidanzata.

Violet parve sorpresa e mortificata dalle mie parole. Allora compresi che questo silenzio serbato coi miei parenti la poteva offendere, e ciò mi recò più dolore che il non aver detto la verità.

— Non vorrei dividerti dalla tua famiglia — diss’ella senza guardarmi.

La pregai di non turbarsi con questa idea, le dissi che prendendo moglie mi sarebbe stato materialmente impossibile di rimanere nella casa paterna e che pensavo portar la mia dimora in Roma o in Firenze, insomma in una grande città dove gli studi fossero più facili e il clima migliore che nel mio paese natio.

Mi parve che Violet non fosse molto persuasa de’ miei progetti, che temesse di esser lei la causa d’una risoluzione simile.

— Ne parleremo — diss’ella col suo sorriso dolcissimo. — Parleremo seriamente di molte cose serie, non è vero? Poichè dobbiamo avere tanto giudizio!

Allora si parlò del nostro matrimonio. La prima idea di Violet era stata che si facesse in Inghilterra, presso una vecchia cugina che le aveva sempre voluto bene; non essendo ella sufficientemente legata coi pochi e lontani parenti che teneva in Roma. Ma la cugina, cui Violet ne aveva scritto un cenno, s’era evidentemente spaventata, per la sua cattiva salute, di queste nozze in casa, e aveva risposto in modo poco incoraggiante. Si decise quindi di accettare l’amichevole offerta degli ottimi signori Steele, affrettando però il giorno della nozze quanto fosse possibile. Io non conoscevo la legislazione prussiana sul matrimonio degli stranieri, non sapevo affatto quali pratiche fossero necessarie, di quali documenti avrei avuto bisogno. Neppure il signor Steele, cui ne parlammo subito, lo sapeva. Allora mi venne in mente che si sarebbe potuto fare a Rüdesheim il solo matrimonio religioso, salvo a fare il matrimonio civile in Italia. Violet vi era indifferente, ma mi parve che agli Steele la proposta non tornasse pienamente gradita. Perciò la abbandonammo e si convenne d’informarsi subito circa le disposizioni della legge prussiana.

Ritornando, quel giorno, all’Hôtel Krass, la mia poca sincerità con Violet, a proposito de’ miei parenti, mi pesava sul cuore. All’albergo trovai una malaugurata lettera di mio fratello che non ricorderei se non fosse per chiarire com’egli non abbia mai avuto, sino al mio ritorno, sicura notizia di ciò che avveniva a Rüdesheim.

Evidentemente, mio fratello aveva scritto e mia cognata aveva pensato. Non debbo nè voglio serbarne rancore alla memoria di questa povera donna, ma certo la lettera fu male ispirata, e tradiva ad ogni riga una certa lotta fra la mano e il pensiero. La sostanza n’era questa. Mio fratello mi faceva intendere che se io mi accasavo non avremmo potuto vivere insieme, sotto lo stesso tetto. Soggiungeva, che siccome la casa paterna era di proprietà comune, desiderava conoscere per tempo le mie intenzioni; che egli era disposto ad acquistare la mia quota di proprietà; che se ci accordavamo a questo modo, e se io non avevo in animo di stabilirmi altrove, egli si sarebbe adoperato per cercarmi un quartiere e per metterlo in assetto, giusta le istruzioni che gli darei. Di Violet, nè per Violet, non una sola parola.

Gli risposi immediatamente poche righe gelate. Dicevo che mi sarei stabilito altrove e che avrei dato incarico a un avvocato di trattare con lui la cessione di comproprietà che mi proponeva. Mio fratello non mi scrisse più.

Quando io penso ai venticinque giorni che seguirono questo, mi smarrisco nella luce, ricordo tanti momenti con una vivezza acuta, ma non so più come si leghino insieme, non so più quale sia venuto prima, quale poi, ho perduta l’idea del tempo, tutto succede ancora contemporaneamente e per sempre nella mia memoria come se questi miei ricordi, parte della piena felicità ventura, appartenessero già all’eternità, pigliassero la forma di un perpetuo presente. Non avevo, dapprima, in animo di parlarne, ma mi tenta la gran dolcezza e cedo, poichè Lei sola, cara e fedele amica, mi ode. Racconterà dunque il tempo felice, così senz’ordine come vien su dal cuore.



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