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XXXVI.
Una sera, al tramonto, Violet e io eravamo seduti sotto il tiglio di Geisenheim, mentre la signora Steele faceva una visita nella villa Monrepos. Ricordo il gran tiglio, vecchio di quattro secoli, la vicina chiesa con le sue torri medioevali, le villette posate tra i fiori, tra il cicaleccio degli zampilli e degli uccelli, la dolcezza della luce e dell’ora, un odor di glicine in fiore. Per via si era conversato di cose indifferenti. Appena partita la nostra compagna, Violet mi aveva detto «mi ami?» I miei occhi, non le mie labbra, avevano risposto e non s’era parlato più, se non col silenzio stesso, pieno di passione.
— Com’è dolce, qui! — diss’ella a un tratto.
— Vuoi che ci restiamo? — risposi. — A vivere e morire?
— Oh no!
Aveva detto «oh no» così risolutamente! La guardai, sorpreso. Ella pure mi guardò, ma sorridendo. Si vedeva che aveva una parola sul cuore. Susurrò: — Dove fiorisce l’agave? — e un lieve color di rosa le corse in viso. Parlavamo in italiano, nè so perchè io le abbia allora risposto in inglese, come se qualcuno avesse potuto comprendere:
— I kiss you.
Si tacque ancora un poco, e poi Violet mi pregò a dirle i versi dell’agave:
Ecco, superbo ascende il fior dell’agave |
Li recitai o soggiunsi tosto che non pensavo più alla gloria, che pensavo solo ad esser felice con lei, per lei, di lei sola. Meglio se potevamo nascondere la nostra vita in qualche umile paese come Geisenheim.
Violet mi guardava con uno sguardo smarrito, velato, e accennò di no. Solo dopo qualche tempo mi rispose dolcemente: — No, caro, no. — E perchè io la guardavo come aspettando le sue ragioni, riprese che avrebbe tante cose a dirmi ma che quando era con me diventava incapace di ricordarle, incapace di ragionare. Preferirebbe scrivere. Appena detto così sorrise, e intesi subito a cosa aveva pensato. Ella mi lesse in viso e s’affrettò a dirmi che stavolta non si trattava di cose amare come a Belvedere, dove m’aveva annunciata la sua prima lettera colla stessa frase. La pregai di scrivere presto.
Promise di farlo la sera stessa.
Io pensavo a ciò che direbbe in questa lettera, e credo d’aver preso involontariamente un’aria grave. Allora fu lei che mi disse — I kiss you — e soggiunse con un delizioso accento di angustia:
— Non devi fare un viso così serio!
La signora Steele veniva verso di noi e in quello stesso punto passò una bambina, recando dei fiori. Violet la chiamò, come per dissimulare all’amica sua il nostro turbamento. — Che fiori hai? — diss’ella.
— Waldmeister.
— Dove l’hai colto?
— Sul Niederwald.
— E come ti chiami?
— Luise.
— Oh! — esclamammo insieme — Luise!
Il Waldmeister ci ricordò il bosco di Eichstätt e il nome della nostra amica, della cara giovinetta, ci punse il cuore di rimorso e di tristezza, perchè non avevamo ancora parlato di lei e ci pareva questa una colpa comune. Violet trasse a sè questa piccola Luise, e la baciò teneramente.