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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Silvio, Linco.
L'horribil fera à dar l'usato segno
De la futura caccia. ite svegliando
Gli occhi col corno, e con la voce i cori.
Se fù mai ne l'Arcadia
Pastor di Cintia, e de' suoi studi amico,
Cui stimolasse il generoso petto
Cura ò gloria di selve,
Hoggi il mostri, e me segua,
Là dove in picciol giro
Ma largo campo al valor nostro è chiuso
Quel terribil Cinghiale,
Quel mostro di natura, e de le selve,
Quel sì vasto e sì fiero,
E per le piaghe altrui
Sì noto habitator de l'Erimanto,
Stragge de le campagne,
E terror de i bifolchi. Ite voi dunque
E non sol precorrete,
Ma provocate ancora
Co'l rauco suon la sonnacchiosa Aurora.
Noi Linco andiamo à venerar gli Dei.
Con più sicura scorta
Seguirem poi la destinata caccia.
Chi ben commincia, hà la metà de l'opra.
Nè sì commincia ben se non dal Cielo.
Lin.Lodo ben Silvio il venerar gli Dei,
Ma il dar noia à coloro,
Che son ministri degli Dei non lodo.
Tutti dormono ancora
I custodi del tempio, i quai non hanno
Più tempestivo, ò lucido orizonte
De la cima del monte.
Sil.A te, che forse non sè desto ancora,
Par ch'ogni cosa addormentata sia.
Lin.O Silvio Silvio, à che ti diè natura
Ne più begli anni tuoi
Fior di beltà sì delicato, e vago,
Se tu sè tanto à calpestarlo pronto?
Che s'avess'io cotesta tua sì bella,
E sì fiorita guancia,
A Dio, selve direi;
E seguendo altre fere
E la vita passando in festa, e ’n gioco,
Farei la state à l’ombra, e ’l verno al foco.
Sil.Cosi fatti consigli
Non mi desti mai più. come sè hora
Tanto da te diverso?
Lin.Altri tempi, altre cure.
Cosi certo farei se Silvio fussi.
Sil.Ed io, se fussi Linco;
Ma perche Silvio sono
Oprar da Silvio e non da Linco i’ voglio.
Lin.O garzon folle, à che cercar lontana
E perigliosa fera,
Se l’hai via più d’ogni altra
E vicina, e domestica, e sicura?
Sil.Parli tù dadovero, ò pur vaneggi?
Lin.Vaneggi tù non io.
Sil.Ed è così vicina?
Lin.Quanto tu di te stesso.
Sil.In qual selva s’annida?
Lin.La selva sè tu Silvio,
E la fera crudel, che vi s’annida,
E la tua feritate.
Sil.Come ben m’avvisai, che vaneggiavi.
Lin.Una Ninfa sì bella e sì gentile,
Ma che dissi una Ninfa? anzi una Dea,
Più fresca e più vezzosa
Di mattutina rosa,
E più molle, e più candida del Cigno,
Per cui non è si degno
Pastor hoggi trà noi, che non sospiri,
E non sospiri in vano;
A te solo da gli huomini, e dal Cielo
Destinata si serba;
Ed hoggi tu senza sospiri, e pianti
(O troppo indegnamente
Garzon avventuroso) haver la puoi
Ne le tue braccia, e tu la fuggi Silvio?
E tu la sprezzi? e non dirò che 'l core
Habbi di fera, anzi di ferro il petto?
Sil.„Se 'l non haver amore è crudeltate,
„Crudeltate è virtute, e non mi pento
Ch'ella sia nel mio cor, ma me ne pregio;
Poi che solo con questa hò vinto Amore,
Fera di lei maggiore.
Lin.E come vinto l'hai
Se nol provasti mai?
Sil.Nol provando l'ho vinto. Lin. Oh s'una sola
Volta il provassi, ò Silvio
Se sapessi una volta
Qual è grazia e ventura
L'esser amato, il possedere amando
Un riamante core,
Sò ben io che diresti,
Dolce vita amorosa,
Perche si tardi nel mio cor venisti?
Lascia, lascia le selve,
Folle garzon, lascia le fere, ed ama.
Sil.Linco dì pur se sai,
Mille ninfe darei per una fera,
Che da Melampo mio cacciata fosse,
Godasi queste gioie,
Chi n’ha di me più gusto, io non le sento.
Lin.E che sentirai tu s’amor non senti,
Sola cagion di ciò, che sente il mondo?
Ma credimi, fanciullo:
A tempo il sentirai,
Che tempo non havrai.
Vuol una volta Amor ne’ cuori nostri
Mostrar quant’egli vale.
Credi à me pur, che ’l provo:
Non è pena maggiore
Che ’n vecchie membra il pizzicor d’amore,
Che mal si può sanar quel che s’offende,
Quanto più di sanarlo altri procura,
Se ’l giovinetto core Amor ti pugne,
Amor anco te l’ugne,
Se col duolo il tormenta,
Con la speme il consola,
E s’un tempo l’ancide, al fine il sana.
Ma s’è ti giugne in quella fredda etade,
Ove il proprio difetto
Più che la colpa altrui spesso si piagne,
Allora insoportabili, e mortali
Son le sue piaghe, al’hor le pene acerbe,
Al'hora se pietà tu cerchi, male,
Se non la trovi, e, se la trovi, peggio.
Deh non ti procacciar prima del tempo
I difetti del tempo,
Che se t'assale à la canuta etate
Amoroso talento
Havrai doppio tormento,
E di quel che, potendo, non volesti,
E di quel che volendo non potrai.
Lascia lascia le selve,
Folle garzon; lascia le fere, ed ama.
Sil.Come vita non sia
Se non quella che nutre
Amorosa insanabile follia.
Lin.Dimmi, se 'n questa sì ridente, e vaga
Stagion che 'nfiora, e rinovella il mondo,
Vedessi in vece di fiorite piagge,
Di verdi prati e di vestite selve,
Starsi il pino e l'abete e'l faggio e l'orno
Senza l'usata lor frondosa chioma,
Senz'herbe i prati, e senza fiori i poggi,
Non diresti tu, Silvio: il mondo langue,
La natura vien meno? hor quell'horrore
E quella maraviglia, che devresti
Di novità sì mostruosa havere,
Habbila di te stesso. Il ciel n'hà dato
Vita à gli anni conforme, ed à l'etate
Somiglianti costumi; e, come amore
In canuti pensier si disconvene,
Così la gioventù d'amor nemica
Contrasta al Cielo, e la natura offende.
Mira d’intorno Silvio:
Quanto il mondo ha di vago, e di gentile,
Opra è d’amore, amante è il Cielo, amante
La terra; amante il mare.
Quella, che là sù miri innanzi à l’alba
Così leggiadra stella,
Ama d’amore anch’ella; e del suo figlio
Sente le fiamme: ed essa che ’nnamora,
Innamorata splende.
E questa è forse l’hora
Che le furtive sue dolcezze, e ’l seno
Del caro amante lassa.
Vedila pur come sfavilla, e ride.
Amano per le selve
Le mostruose fere, aman per l’onde
I veloci delfini, e l’orche gravi.
Quell’augellin, che canta
Sì dolcemente e lascivetto vola
Or da l’abete al faggio,
Et hor dal faggio al mirto,
S’havesse humano spirto,
Direbbe ardo d’amore, ardo d’amore.
Ma ben arde nel core,
E parla in sua favella,
Sì che l’intende il suo dolce desio.
Ed odi à punto Silvio
Il suo dolce desio
Che gli risponde, ardo d’amore anch’io.
Mugge in mandra l’armento, e que’ muggiti
Sono amorosi inviti.
Rugge il Leone al bosco
Nè quel ruggito è d’ira,
Così d’amor sospira.
Al fine ama ogni cosa,
Se non tu, Silvio, e sarà Silvio solo
In Cielo, in terra, in mare
Anima senza Amore?
Deh lascia homai le selve
Folle garzon, lascia le fere, ed ama.
Sil.A te dunque commessa
Fù la mia verde età, perche d’amori,
E di pensieri effeminati, e molli
Tu l’havessi à nudrir? nè ti sovviene
Chi sè tù, chi son io?
Lin.Huomo sono, e mi pregio
D’esser humano: e teco, che sè huomo,
O che più tosto esser dovresti, parlo
Di cosa humana; e se di cotal nome
Forse ti sdegni, guarda
Che nel dishumanarti
Non divenghi una fera anzi che un Dio.
Sil.Nè si famoso mai nè mai sì forte
Stato sarebbe il domator de’ mostri,
Dal cui gran fonte il sangue mio deriva,
S’e’ non havesse pria domato Amore.
Lin.Vedi cieco fanciul come vaneggi
Dove saressi tu, dimmi, s’amante
Stato non fosse il tuo famoso Alcide?
Anzi se guerre vinse e mostri ancise
Gran parte Amor ve n'ebbe. Ancor non sai
Che per piacer ad Onfale, non pure
Volle cangiar in femminili spoglie
Del feroce leon l'hispido tergo,
Ma, de la clava noderosa in vece
Trattare il fuso; e la conocchia imbelle?
Così de le fatiche, e degli affanni
Prendea ristoro, e nel bel sen di lei
Quasi in porto d'Amor solea ritrarsi,
Che sono i suoi sospir dolci respiri
De le passate noie, e quasi acuti
Stimoli al cor ne le future imprese.
E come il rozzo, ed intrattabil ferro
Temprato con più tenero metallo
Affina sì, che sempre più resiste,
E per uso più nobile s'adopra;
Cosi vigor indomito, e feroce,
Che nel proprio furor spesso si rompe,
Se con le sue dolcezze Amore il tempra
Diviene à l'opra generoso, e forte.
Se d'esser dunque imitator tu brami
D'Ercole invitto, e suo degno nipote;
Poi che lasciar non vuoi le selve, almeno
Segui le selve, e non lasciar Amore,
Un amor si legittimo, e si degno,
Com'è quel d'Amarilli; che se fuggi
Dorinda, i' te ne scuso, anzi pur lodo;
Ch’à te vago d’honore haver non lice
Di furtivo desio l’animo caldo,
Per non far torto à la tua cara sposa.
Sil.Che dì tu Linco? ancor non è mia sposa.
Lin.Da lei dunque la fede
Non ricevesti tu solennemente?
Guarda garzon superbo,
Non irritar gli Dei.
Sil.L’humana libertate è don del cielo;
Che non fà forza à chi riceve forza.
Lin.Anzi, se tu l’ascolti, e ben l’intendi,
A questo il ciel ti chiama,
Il ciel ch’à le tue nozze
Tante grazie promette, e tanti honori.
Sil.Altro pensiero apunto
I sommi Dei non hanno, apunto questa
L’almo riposo lor cura molesta.
Linco nè questo amor nè quel mi piace.
Cacciator non amante al mondo nacqui,
Tu che seguisti Amor torna al riposo.
Lin.Tu derivi dal cielo
Crudo garzon? Nè di celeste seme
Ti cred’io, nè d’humano,
E, se pur sè d’humano, i’ giurerei
Che tu fussi più tosto
Col velen di Tisifone, e d’Aletto
Che col piacer di Venere concetto.
SCENA II
MIRTILLO, ERGASTO.
D’amar, ai lasso, amaramente insegni:
Amarilli del candido ligustro
Più candida, e più bella,
Ma de l’Aspido sordo
E più sorda, e più fera, e più fugace;
Poi che col dir t’offendo
I’ mi morrò tacendo,
Ma grideran per me le piagge, e i monti,
E questa selva, à cui
Sì spesso il tuo bel nome
Di risonare insegno:
Per me piangendo i fonti,
E mormorando i venti
Diranno i miei lamenti:
Parlerà nel mio volto
La pietate e ’l dolore;
E se fia muta ogn’altra cosa, al fine
Parlerà il mio morire,
E ti dirà la morte il mio martire.
Erg.Mirtillo Amor fù sempre un fier tormento,
Ma più quanto è più chiuso;
Però ch’egli dal freno
Ond’è legata un’amorosa lingua
Forza prende, e s’avanza,
E più fiero è prigion, che non è sciolto.
Già non dovevi tu si lungamente
Celarmi la cagion de la tua fiamma,
Se la fiamma celar non mi potevi.
Quante volte l’hò detto, arde Mirtillo,
Ma in chiuso foco e’ si consuma, e tace.
Mir.Offesi me per non offender lei
Cortese Ergasto, e sarei muto ancora;
Ma la necessità m’ha fatto ardito.
Odo una voce mormorar d’intorno,
Che per l’orecchi mi ferisce il core
De le vicine nozze d’Amarilli.
Ma chi ne parla ogni altra cosa tace,
Ed io più innanzi ricercar non oso,
Sì per non dar altrui di me sospetto,
Come per non trovar quel che pavento.
Sò ben Ergasto, e non m’inganna amore,
Ch’a la mia bassa, e povera fortuna
Sperar non lice in alcun tempo mai
Che ninfa sì leggiadra, e sì gentile,
E di sangue, e di spirto, e di sembiante
Veramante divina, a me sia sposa:
Ben conosco il tenor de la mia stella:
Nacqui solo à le fiamme, e ’l mio destino
D’arder mi feo, non di gioirne degno.
Ma poi ch’era ne’ fati, ch’io dovessi
Amar la morte, e non la vita mia,
Vorrei morir almen, sì che la morte
Da lei che n’è cagion gradita fosse,
Ne si sdegnasse à l’ultimo sospiro
Di mostrarmi i begli occhi, e dirmi muori.
Vorrei prima che passi à far beato
De le sue nozze altrui, ch’ella m’udisse
Almen sola una volta. Hor se tu m’ami
Ed hai di me pietate, in ciò t’adopra,
Cortesissimo Ergasto, in ciò m’aita.
Erg.Giusto desio d’amante, e di chi muore.
Lieve mercè, ma faticosa impresa,
Misera lei se risapesse il padre,
Ch’ella à preghi furtivi havesse mai
Inchinate l’orecchie, o pur ne fosse
Al sacerdote suocero accusata.
Per questo forse ella ti fugge, e forse
T’ama, ancorche nol mostri, che la Donna
Nel desiar è ben di noi più frale,
Ma nel celar il suo desio più scaltra.
E, se fosse pur ver ch’ella t’amasse,
Che potrebbe altro far se non fuggirti?
Chi non può dar aita indarno ascolta,
E fugge con pietà chi non s’arresta
Senz’altrui pena; ed è sano consiglio
Tosto lasciar quel che tener non puoi.
Mir.Oh, se ciò fosse vero, ò s’io ’l credessi,
Care mie pene, e fortunati affanni,
Ma se ti guardi il ciel, cortese Ergasto,
Non mi tacer qual è il pastor tra noi
Felice tanto, e de le stelle amico.
Er.Non conosci tù Silvio, unico figlio
Di Montan, sacerdote di Diana,
Sì famoso pastore hoggi, e sì ricco?
Quel garzon sì leggiadro? quegli è desso.
Mir.Fortunato fanciul, che ’l tuo destino
Trovi maturo in cosi acerba etate;
Nè te l’invidio nò, ma piango il mio.
Er.E veramente invidiar nol dei;
Che degno è di pietà, più che d’invidia.
Mir.E perche di pietà? Er. Perche non l’ama.
Ed è vivo? ed hà core? e non è cieco?
Ben che se dritto miro,
A lei per altro core
Non restò fiamma più, quando nel mio
Spirò da que' begli occhi
Tutte le fiamme sue, tutti gli amori.
Ma perche dar sì pretiosa gioia
A chi non la conosce? a chi la sprezza?
Er.Perche promette à queste nozze il cielo
La salute d’Arcadia. Non sai dunque
Che qui si paga ogn’anno à la gran dea
De l’innocente sangue d’una Ninfa
Tributo miserabile e mortale?
Mir.Unqua più non l'udij, & ciò m'è nuovo,
Che nuovo ancora habitator quì sono,
E, come vuol' Amore, e 'l mio destino,
Quasi pur sempre habitator de boschi:
Ma qual peccato il meritò sì grave?
Come tant'ira un cor celeste accoglie?
Er.Ti narrerò de le miserie nostre
Tutta da capo la dolente istoria,
Che trar porria da queste dure querci
Pianto, e pietà, non che da i petti humani.
In quella età, che 'l sacerdozio santo,
E la cura del tempio ancor non era
A sacerdote giovane contesa,
Un nobile pastor chiamato Aminta,
Sacerdote in quel tempo, amò Lucrina,
Ninfa leggiadra à maraviglia, e bella,
Ma senza fede à maraviglia, e vana.
Gradì costei gran tempo, o'l mostrò forse
Con simulati, e perfidi sembianti,
Del giovane amoroso il puro affetto,
E di false speranze anco nudrillo,
(Misero) mentre alcun rival non hebbe;
Ma non sì tosto (or vedi instabil donna)
Rustico pastorel l'ebbe guatata,
Che i primi sguardi non sostenne, i primi
Sospiri, e tutta al nuovo amor si diede
Prima che gelosia sentisse Aminta.
Misero Aminta, che da lei fù poscia,
E sprezzato, e fuggito, sì ch’udirlo
Nè vederlo mai più l’empia non volle.
Se piagnesse il meschin, se sospirasse,
Pensal tu, che per prova intendi Amore.
Mir.Oime, questo è ’l dolor ch’ogn’altro avanza.
Erg.Ma poiche dietro al cor perduto, hebbe anco
I sospiri perduti, e le querele,
Volto pregando à la gran Dea, se mai
Disse con puro cor Cintia, se mai
Con innocente man fiamma t’accesi,
Vendica tu la mia sotto la fede
Di bella Ninfa, e perfida tradita.
Udì del fido amante, e del suo caro
Sacerdote Diana i prieghi, e ’l pianto,
Tal che ne la pietà l’ira spirando
Fè lo sdegno più fiero; ond’ella prese
L’arco possente, e saettò nel seno
De la misera Arcadia non veduti
Strali ed inevitabili di morte.
Perian senza pietà, senza soccorso
D’ogni sesso le genti, e d’ogni etate;
Vani erano i rimedi, il fuggir tardo,
Inutil l’arte, e prima che l’infermo,
Spesso ne l’opra il medico cadea.
Restò solo una speme in tanti mali
Del soccorso del cielo, e s’ebbe tosto
Al più vicino oracolo ricorso,
Da cui venne risposta assai ben chiara,
Ma sopramodo horribile, e funesta.
Che Cintia era sdegnata, e che placarla
Si sarebbe potuto, se Lucrina
Perfida Ninfa, overo altri per lei
Di nostra gente, à la gran Dea si fosse
Per man d'Aminta in sacrificio offerta:
La qual, poi ch'ebbe indarno pianto e 'ndarno
Dal suo nuovo amator soccorso atteso,
Fù con pompa solenne al sacro altare
Vittima lagrimevole condotta;
Dove, à que' piè, che la seguiro in vano
Già tanto, ai piè de l'amator tradito
Le tremanti ginocchia alfin piegando
Dal giovane crudel morte attendea.
Strinse intrepido Aminta il sacro ferro,
E parea ben che da l'accese labbia
Spirasse ira, e vendetta; indi à lei vòlto
Disse con un sospir nuncio di morte:
Da la miseria tua, Lucrina, mira
Qual amante seguisti e qual lasciasti,
Miral da questo colpo: e cosi detto
Ferì se stesso, e nel sen proprio immerse
Tutto 'l ferro, ed esangue in braccio à lei
Vittima, e sacerdote in un cadeo.
A sì fèro spettacolo, e sì nuovo
Instupidì la misera donzella
Trà viva e morta, e non ben certa ancora
D'esser dal ferro, ò dal dolor trafitta.
Ma, come prima hebbe la voce, e 'l senso,
Disse piagnendo; ò fido, ò forte Aminta,
O troppo tardi conosciuto amante,
Che m’hai data, morendo, e vita e morte,
Se fù colpa il lasciarti ecco l’ammendo
Con l’unir teco eternamente l’alma.
E questo detto il ferro stesso ancora
Del caro sangue tiepido, e vermiglio,
Tratto dal morto, e tardi amato petto,
Il suo petto trafisse, e sopra Aminta,
Che morto ancor non era, e sentì forse
Quel colpo, in braccio si lasciò cadere.
Tal fine hebber gli amanti, à tal miseria
Troppo amor e perfidia ambidue trasse.
Mir.O misero Pastor, ma fortunato,
Ch’ebbe sì largo, e sì famoso campo
Di mostrar la sua fede, e di far viva
Pietà ne l’altrui cor con la sua morte.
Ma che seguì de la cadente turba?
Trovò fine il suo mal? placossi Cintia?
Er.L’ira s’intiepidì, ma non s’estinse,
Che, dopo l’anno in quel medesmo tempo
Con ricaduta più spietata e fiera
Incrudelì lo sdegno, onde di nuovo
Per consiglio al’oracolo tornando
Si riportò de la primiera assai
Più dura, e lagrimevole risposta:
Che si sacrasse al’hora, e poscia ogn’anno
Vergine, ò donna à la sdegnata Dea,
Che ’l terzo lustro empiesse, ed oltre al quarto
Non s’avanzasse, e così d’una il sangue
L’ira spegnesse apparecchiata à molti.
Impose ancora à l’infelice sesso
Una molto severa, e se ben miri
La sua natura, inosservabil legge:
Legge scritta col sangue, che qualunque
Donna, ò donzella habbia la fè d’amore
Come che sia, contaminata ò rotta,
S’altri per lei non muore, à morte sia
Irremissibilmente condannata.
A questa dunque sì tremenda e grave
Nostra calamità spera il buon padre
Di trovar fin con le bramate nozze;
Però che dopo alquanto tempo essendo
Ricercato l’oracolo, qual fine
Prescritto havesse à nostri danni il cielo,
Ciò ne predisse in cotai voci à punto.
Non havrà prima fin quel che v’offende,
Che duo semi del ciel congiunga Amore,
E di donna infedel l’antico errore
L’alta pietà d’un PASTOR FIDO ammende,
Hor ne l’Arcadia tutta altri rampolli
Di celesti radici hoggi non sono
Che Silvio ed Amarillide, che l’una,
Vien del seme di PAN, l’altro d’ALCIDE.
Ne per nostra sciagura in altro tempo
S’incontraron già mai femmina, e maschio
Com’hor de le due schiatte; e però quinci
Di sperar bene ha gran ragion Montano.
E, benche tutto quel che ci promette
La risposta fatale, ancor non segua,
Pur questo è ’l fondamento; il resto poi
Hà negli abissi suoi nascosto il fato,
E sarà parto un dì di queste nozze.
Mir.Oh sfortunato e misero Mirtillo;
Tanti fieri nemici,
Tant’armi, e tanta guerra
Contra un cor moribondo;
Non bastava Amor solo
Se non s’armava à le mie pene il fato?
Er.Mirtillo il crudo Amore
Si pasce ben, ma non si satia mai,
Di lagrime, e dolore.
Andiamo; i’ ti prometto
Di porre ogni mio ingegno
Perche la bella ninfa hoggi t’ascolti,
Tu datti pace intanto.
Non son come à te pare
Questi sospiri ardenti
Refrigerio del core,
Ma son più tosto impetuosi venti
Che spiran ne l’incendio, e ’l fan maggiore
Con turbini d’Amore,
Ch’apportan sempre ai miserelli amanti
Foschi nembi di duol, piogge di pianti.
SCENA III
CORISCA.
E più folle, e più fera, e più importuna
Passione amorosa? amore & odio
Con sì mirabil tempre in un cor misti,
Che l’un per l’altro (e non sò ben dir come)
E si strugge, e s’avvanza, e nasce e muore.
S’i’ miro a le bellezze di Mirtillo
Dal piè leggiadro al grazioso volto,
Il vago portamento, il bel sembiante,
Gli atti, i costumi e le parole e ’l guardo;
M’assale Amor con sì possente foco,
Ch’i’ ardo tutta, e par, ch’ogn’altro affetto
Da questo sol sia superato, e vinto:
Ma se poi penso à l’ostinato amore,
Ch’ei porta ad altra donna, e che per lei
Di me non cura, e sprezza (il vò pur dire)
La mia famosa, e da mill’alme, e mille
Inchinata beltà, bramata grazia,
L’odio cosi, così l’abborro, e schivo,
Ch’impossibil mi par, ch’unqua per lui
Mi s’accendesse al cor fiamma amorosa.
Talhor meco ragiono. Ò s’i’ potessi
Gioir del mio dolcissimo Mirtillo,
Sì che fosse mio tutto, ch’altra mai
Posseder nol potesse, ò più d’ogn’altra,
Beata, e felicissima Corisca.
Ed in quel punto in me sorge un talento
Verso di lui sì dolce, e sì gentile,
Che di seguirlo, e di pregarlo ancora,
E di scoprirgli il cor prendo consiglio,
Che più? così mi stimola il desio,
Che se potessi alhor l’adorerei.
Da l’altra parte, i mi risento e dico;
Un ritroso? uno schifo? un che non degna?
Un che può d’altra donna essere amante?
Un ch’ardisce mirarmi, e non m’adora?
E dal mio volto si difende in guisa,
Che per amor non more? ed io che lui
Devrei veder, come molti altri i’ veggio
Supplice e lagrimoso a i piedi miei,
Supplice, e lagrimosa à piedi suoi
Sosterrò di cadere? ah non fia mai;
Ed in questo pensier tant’ira accoglio
Contra di lui, contra di me, che volsi
A seguirlo il pensier, gli occhi à mirarlo,
Che ’l nome di Mirtillo, e l’amor mio
Odio più che la morte, e lui vorrei
Vedere il più dolente, il più infelice
Pastor che viva, e se potessi, al’hora
Con le mie proprie man l’anciderei.
Cosi sdegno, e desire, odio, ed amore
Mi fanno guerra, ed io che stata sono
Sempre fin quì di mille cor la fiamma,
Di mill’alme il tormento, ardo, e languisco,
E provo nel mio mal le pene altrui;
Io che tant’anni in cittadina schiera
Di vezzosi, leggiadri, e degni amanti
Fui sempre insuperabile, schernendo
Tante speranze lor, tanti desiri;
Hor da rustico amor, da vile amante,
Da rozzo pastorel son presa, e vinta.
Oh più d’ogn’altra misera Corisca
Che sarebbe di te, se sproveduta
Ti trovassi hor d’amante? che faressi
Per mitigar quest’amorosa rabbia?
Impari à le mie spese hoggi ogni donna
A far conserva, e cumulo d’amanti.
S’altro ben non havessi, altro trastullo
Che l’amor di Mirtillo, non sarei
Ben fornita di vago? ò mille volte
Mal consigliata donna, che si lascia
Ridurre in povertà d’un solo amore.
Sì sciocca mai non sarà già Corisca.
Che fede? che costanza? imaginate
Favole de’ gelosi, e nomi vani
Per ingannar le semplici fanciulle.
La fede in cor di donna, se pur fede
In donna alcuna (ch’io no’l sò) si trova,
Non è bontà, non è virtù, ma dura
Necessità d’Amor, misera legge
Di fallita beltà, ch’un sol gradisce,
Perche gradita esser non può da molti.
Bella donna, e gentil sollecitata
Da numeroso stuol di degni amanti,
Se d’un solo è contenta e gli altri sprezza,
O non è donna o, s’è pur donna, è sciocca.
Che val beltà non vista? o, se pur vista,
Non vagheggiata? e se pur vagheggiata,
Vagheggiata da un solo? e quanti sono
Più frequenti gli amanti & di più pregio
Tanto ella d’esser gloriosa e rara
Pegno nel mondo hà più sicuro, e certo.
La gloria, e lo splendor di bella donna
È l’haver molti amanti. così fanno
Ne le cittadi ancor le donne accorte,
E ’l fan più le più belle, e le più grandi.
Rifiutare un’amante appresso loro
E peccato, e sciocchezza, e quel, ch’un solo
Far non può, molti fanno. altri à servire,
Altri à donare, altri ad altr’uso è buono;
E spesso avvien che, nol sapendo, l’uno
Scaccia la gelosia, che l’altro diede,
O la risveglia in tal che pria non l’hebbe.
Così ne le città vivon le donne
Amorose, e gentili, ov’io col senno
E con l’esempio già di donna grande
L’arte di ben amar fanciulla appresi.
Corisca mi dicea, si vuole à punto
Far degli amanti quel che de le vesti.
Molti averne, un goderne, e cangiar spesso
Che ’l lungo conversar genera noia,
E la noia disprezzo, & odio al fine.
Nè far peggio può donna, che lasciarsi
Svogliar l’amante, fa pur ch’egli parta
Fastidito da te, non di te mai.
E così sempre hò fatto. Amo d’haverne
Gran copia, e li trattengo, & honne sempre
Un per mano, un per occhio; ma di tutti
Il migliore e ’l più commodo nel seno,
E quanto posso più nel cor nessuno.
Ma non sò come à questa volta (ahi lassa)
V’è pur giunto Mirtillo, e mi tormenta;
Si che à forza sospiro, quel ch’è peggio,
Di me sospiro, e non inganno altrui.
E le membra al riposo, e gli occhi al sonno
Furando anch’io, sò desiar l’aurora
Felicissimo tempo de gli amanti
Poco tranquilli, ed ecco io vò per queste
Ombrose selve anch’io cercando l’orme
De l’odiato mio dolce desio.
Ma che farai Corisca? il pregherai?
Nò, che l’odio non vuol, bench’io ’l volessi.
Il fuggirai? nè questo Amor consente,
Benche far il devrei. Che farò dunque?
Tenterò prima le lusinghe, e i prieghi,
E scoprirò l'amor, ma non l'amante.
Se ciò non giova, adoprerò l'inganno;
E, se questo non può, farà lo sdegno
Vendetta memorabile. Mirtillo
Se non vorrai amor, proverai odio.
Ed Amarilli tua farò pentire
D'esser à me rivale, à te sì cara,
E finalmente proverete entrambi
Quel che può sdegno in cor di donna amante.
SCENA IIII.
TITIRO, MONTANO.
A chi di me più intende, oscuri sempre
Sono assai più gli oracoli di quello
Ch'altri si crede: e le parole loro
Sono come il coltel, che se tu 'l prendi
In quella parte, ove per uso humano
La man s’adatta, à chi l’adopra è buono,
Ma chi ’l prende ove fere, è spesso morte.
Ch’Amarillide mia, come argomenti,
Sia per alto destin dal cielo eletta
A la salute universal d’Arcadia;
Chi più deve bramarlo, e caro haverlo
Di me, che le son padre? ma s’i miro
A quel, che n’ha l’oracolo predetto,
Mal si confanno à la speranza i segni.
S’unir gli deve Amor, come fia questo,
Se fugge l’un? com’esser pon gli stami
D’amoroso ritegno odio, e disprezzo?
Mal si contrasta quel ch’ordina il cielo,
E se pur si contrasta, è chiaro segno
Che non l’ordina il cielo, à cui se pure
Piacesse, ch’Amarillide consorte
Fosse di Silvio tuo, più tosto amante
Lui fatto havria che cacciator di fere.
MonNon vedi tù, com’è fanciullo? ancora
Non ha fornito il diciottesim’anno,
Ben sentirà col tempo anch’egli amore.
Tit.E ’l può sentir di fera, e non di Ninfa?
MonA giovinetto cor più si conface.
Tit.E non Amor, ch’è naturale affetto?
MonMa senza gli anni è natural difetto.
Tit.Sempre e’ fiorisce alla stagion più verde.
MonPuò ben forse fiorir, ma senza frutto.
Tit.Col fior maturo hà sempre il frutto Amore.
Qui non venn’io nè per garrir Montano,
Nè per contender teco; che nè posso
Nè fare il debbo; ma son padre anch’io
D’unica e cara e, se mi lece dirlo,
Meritevole figlia: e con tua pace,
Da molti chiesta e desiata ancora.
Mon.Titiro, ancor che queste nozze in cielo
Non iscorgesse alto destìn, le scorge
La fede in terra, e ’l violarla fora
Un violar de la gran Cintia il nume,
A cui fù data: e tu sai pur quant’ella
È disdegnosa, e contra noi sdegnata.
Ma, per quel ch’i nè sento, e quanto puote
Mente sacerdotal rapita al cielo
Spiar là sù di que’ consigli eterni;
Per man del fato è questo nodo ordito:
E tutti sortiranno (habbi pur fede)
A suo tempo maturi anco i presagi.
Più ti vò dir, che questa notte in sogno
Veduto hò cosa, onde l’antica speme
Più che mai nel mio cor si rinnovella.
Tit.Son i sogni alfin sogni, e che vedesti?
Mon.Io credo ben, ch’abbi memoria (e quale
Sì stupido è trà noi, ch’hoggi non l’habbia?)
Di quella notte lagrimosa, quando
Il tumido Ladon ruppe le sponde,
Sì che là dove avean gli augelli il nido,
Notaro i pesci, e in un medesmo corso
Gli huomini e gli animali,
E le mandre e gli armenti
Trasse l’onda rapace.
In quella stessa notte,
(O dolente memoria) il cor perdei,
Anzi quel che del core
M’era più caro assai,
Bambin tenero in fasce,
Unico figlio al’hora, e da me sempre
E vivo, e morto unicamente amato,
Rapillo il fier torrente
Prima che noi potessimo sepolti
Nel terror, ne le tenebre, e nel sonno,
Provar di dargli alcun soccorso à tempo;
Nè pur la culla stessa, in cui giacea
Trovar potemmo, ed hò creduto sempre
Che la culla, e ’l bambin, così com’era,
Una stessa voragine inghiottisse.
Tit.Che altro si può credere? ben parmi
D’haver inteso ancora, e da te forse,
Di questa tua sciagura, veramente
Sciagura memorabile, ed acerba,
E puoi ben dir, che di duo figli l’uno
Generasti à le selve, e l’altro à l’onde.
Mon.Forse nel vivo il ciel pietoso ancora
Ristorerà la perdita del morto.
Sperar ben si dè sempre. Hor tu m’ascolta.
Era quell’hora à punto
Che trà la notte, e ’l dì tenebre, e lume
Col fosco raggio ancor l’alba confonde:
Quand’io, pur nel pensiero
Di queste nozze havendo
Vegghiata una gran parte della notte,
Alfin lunga stanchezza
Recò negli occhi miei placido sonno,
E con quel sonno vision si certa,
Che di vegghiar dormendo
Havrei potuto dire.
Sopra la riva del famoso Alfeo
Seder pareami à l’ombra
D’un platano frondoso,
E con l’hamo tentar ne l’onda i pesci;
Ed uscire in quel punto
Di mezzo il fiume un vecchio ignudo e grave,
Tutto stillante il crin, stillante il mento,
E con ambe le mani
Benignamente porgermi un bambino,
Ignudo e lagrimoso;
Dicendo, ecco ’l tuo figlio
Guarda, che non l’ancidi,
E, questo detto, tuffarsi ne l’onde.
Indi tutto repente
Di foschi nembi il ciel turbarsi intorno,
E minacciarmi horribile procella;
Tal ch’io per la paura
Strinsi il bambino al seno,
Gridando, ah dunque un’hora
Me’l dona, e me’l ritoglie?
Ed in quel punto parve,
Che d’ogn’intorno il ciel si serenasse,
E cadesser nel fiume
Fulmini inceneriti,
Ed archi, e strali rotti à mille à mille.
Indi tremasse il tronco
Del platano, e n’uscisse
Formato in voce spirito sottile,
Che stridendo dicesse in sua favella,
Montano Arcadia tua sarà ancor bella.
E così m’è rimaso
Nel cor, ne gli occhi, e ne la mente impressa
L’imagine gentil di questo sogno,
Ch’i’ l’hò sempre dinanzi,
E sopra tutto il volto
Di quel cortese veglio
Che mi par di vederlo.
Per questo i’ me 'nvenìa diritto al Tempio,
Quando tu m’incontrasti,
Per quivi far col sacrificio santo
De la mia vision l’augurio certo.
Tit.Son veramente i sogni
De le nostre speranze,
Più che de l’avvenir vane sembianze;
Imagini del dì guaste, e corrotte
Da l’ombra de la notte.
Mon.Non è sempre co’ sensi
L’anima addormentata,
Anzi tanto è più desta
Quanto men traviata
Da le fallaci forme
Del senso, allor che dorme.
Tit.Insomma, quel che s’habbia il ciel disposto
De nostri figli, è troppo incerto à noi,
Ma certo è ben, che ’l tuo se'n fugge, e contra
La legge di natura amor non sente,
E che la mia fin quì l’obligo solo
Hà de la data fè, non la mercede:
Nè sò già dir, se senta amor, sò bene
Ch’a molti il fa sentire;
Nè possibil mi par, ch’ella nol provi,
Se ’l fa provar altrui.
Ben mi par di vederla
Più de l’usato suo cangiata in vista,
Che ridente, e festosa
Già tutta esser solea.
Ma l’invaghir Donzella
Senza nozze à le nozze è grave offesa.
Come in vago giardin rosa gentile,
Che ne le verdi sue tenere spoglie
Pur dianzi era rinchiusa;
E sotto l’ombra del notturno velo
Incolta, e sconosciuta
Stava posando in sul materno stelo;
Al subito apparir del primo raggio,
Che spunti in Oriente
Si desta, e si risente,
E scopre al Sol, che la vagheggia, e mira
Il suo vermiglio & odorato seno,
Dov’Ape susurrando
Ne i mattutini albori
Vola suggendo i rugiadosi humori;
Ma, s’alhor non si coglie,
Sì che del mezzo dì senta le fiamme,
Cade al cader del sole
Sì scolorita in su la siepe ombrosa
Ch’apena si può dir questa fù rosa.
Cosi la verginella
Mentre cura materna
La custodisce, e chiude,
Chiude anch’ella il suo petto
A l’amoroso affetto:
Ma se lascivo sguardo
Di cupido amator vien che la miri,
E n’oda ella i sospiri,
Gli apre subito il core,
E nel tenero sen riceve amore.
E se vergogna il cela,
O temenza l’affrena,
La misera tacendo
Per soverchio desio tutta si strugge,
Così perde beltà, se ’l foco dura,
E, perdendo stagion, perde ventura.
Mon.Titiro fa buon core:
Non t’avvilir ne le temenze umane:
Che bene inspira il cielo
Quel cor che bene spera.
Ne può giunger la sù fiacca preghiera:
E, s’ogn’un dè pregare
Ove ’l bisogno sia,
E sperar ne gli Dei,
Quanto più ciò conviene
A chi da lor deriva?
Son pure i nostri figli
Propagini celesti:
Non spegnerà il suo seme
Chi fà crescer l’altrui.
Andiam Titiro, andiamo
Unitamente al Tempio, e sacreremo
Tu il capro à Pane, ed io
Ad Hercole il torello.
Chi feconda l’armento,
Feconderà ben anco
Colui che con l’armento
Feconda i sacri altari.
Tu và fido Dameta
Scegli tosto un torello,
Di quanti n’habbia la feconda mandra
Il più morbido e bello,
E per la via del monte assai più breve
Fa ch’io l’habbia nel Tempio, ov’io t’attendo.
Tit.E dala greggia mia caro Dameta,
Conduci un’hirco. Dam. I farò l’uno, e l’altro.
Tit.Questo sogno Montano
Piaccia à l’alta bontà de’ sommi Dei
Che fortunato sia quanto tu speri.
Sò ben’io, sò ben’io
Quant’esser può del tuo perduto figlio
La rimembranza à te felice augurio.
SCENA V.
SATIRO.
La grandine à le spiche, à i semi il verme,
Le reti à i cervi, ed agli augelli il visco,
Così nemico à l’huom fù sempre Amore.
E chi fuoco chiamollo, intese molto
La sua natura perfida e malvagia.
Che se ’l foco si mira, ò come è vago,
Mà se sì tocca, ò come è crudo. il mondo
Non ha di lui più spaventevol mostro,
Come fera divora, e come ferro
Pugne, e trapassa, e come vento vola,
E dove il piede imperioso ferma
Cede ogni forza, ogni poter dà loco.
Non altrimenti Amor, che se tu ’l miri
In duo begl’occhi, in una treccia bionda,
O come alletta, e piace; ò come pare,
Che gioia spiri, e pace altrui prometta.
Ma, se troppo t’accosti, e troppo il tenti,
Si che serper cominci, e forza acquisti,
Non ha tigre l’Hircania, & non hà Libia
Leon sì fiero, e sì pestifero angue,
Che la sua ferita vinca, o pareggi.
Crudo più che l’inferno, e che la morte,
Nemico di pietà, ministro d’ira,
E finalmente Amor privo d’amore.
Ma che parlo di lui? perche l’incolpo?
E forse egli cagion di ciò che ’l mondo
Amando nò, ma vaneggiando, pecca?
O femminil perfidia; à te si rechi
La cagion pur d’ogn’amorosa infamia.
Da te sola deriva, e non da lui
Quanto hà di crudo, e di malvagio Amore,
Che ’n sua natura placido, e benigno
Teco ogni sua bontà subito perde
Tutte le vie di penetrar nel seno,
E di passar al cor tosto li chiudi.
Sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido
E tua cura, e tua pompa, e tuo diletto
La scorza sol d’un miniato volto.
Ne già son l’opre tue, gradir con fede
La fede di chi t’ama, e con chi t’ama
Contender ne l’amare, ed in duo petti
Stringer un core e ’n duo voleri un’alma;
Ma tinger d’oro un’insensata chioma,
E d’una parte in mille nodi attorta
Infrascarne la fronte; indi con l’altra
Tessuta in rete, in quelle frasche involta
Prender il cor di mille incauti amanti.
O come è indegna, e stomachevol cosa
Il vederti tal hor con un pennello
Pinger le guance, ed occultar le mende
Di natura, e del tempo, e veder come
Il livido pallor fai parer d’ostro,
Le rughe appiani, e ’l bruno imbianchi e togli
Col difetto il difetto, anzi l’accresci
Spesso un filo incrocicchi, e l’un de capi
Co’ denti afferri, e con la man sinistra
L’altro sostieni, e del corrente nodo
Con la destra fai giro, e l’apri e stringi
Quasi radente forfice, e l’adatti
Su l’inegual lanuginosa fronte:
Indi radi ogni piuma, e svelli insieme
Il mal crescente, e temerario pelo
Con tal dolor, ch’è penitenza il fallo.
Ma questo è nulla, ancor che tanto, à l’opre
Sono i costumi somiglianti, e i vezzi.
Qual cosa hai tu che non sia tutta finta?
S’apri la bocca menti, e se sospiri
Son mentiti i sospir, se muovi gli occhi,
E simulato il guardo; in somma ogn’atto,
Ogni sembiante, e ciò che ’n te si vede,
E ciò che non si vede, ò parli, o pensi
O vadi, ò miri, ò pianga, ò rida, ò canti,
Tutto è menzogna, e questo ancora è poco.
Ingannar più, chi più si fida, e meno
Amar chi più n’è degno, odiar la fede
Più della morte assai, queste son l’arti
Che fan sì crudo, e sì perverso Amore.
Dunque d’ogni suo fallo è tua la colpa.
Anzi pur ella è sol di chi ti crede.
Dunque la colpa è mia, che ti credei
Malvagia, e perfidissima Corisca,
Qui per mio danno sol cred’io venuta,
Da le contrade scelerate d’Argo,
Ove lussuria fa l’ultima prova.
Ma sì ben figni, e sì sagace, e scorta
Sè nel celar altrui l’opre, e i pensieri
Che trà le più pudiche hoggi te’n vai
Del nome indegno d’honestate altera:
O quanti affanni ho sostenuti, ò quante
Per questa cruda indignità sofferte;
Ben me ne pento, anzi vergogno. impara
Da le mie pene ò mal’accorto amante,
Non far idolo un volto, ed à me credi
Donna adorata un nume è de l’inferno.
Di se tutto presume, e del suo volto,
Sovra te, che l’inchini, è quasi Dea
Come cosa mortal ti sdegna e schiva.
Che d’esser tal per suo valor sì vanta,
Qual tu per tua viltà la fingi ed orni,
Che tanta servitù? che tanti preghi,
Tanti pianti e sospiri? Usin quest’armi
Le femmine, e i fanciulli, e i nostri petti
Sien’anche ne l’amar virili e forti.
Un tempo anch’io credei, che sospirando,
E piagnendo, e pregando in cor di donna
Si potesse destar fiamma d’amore.
Hor me n’avveggio. errai, che s’ella il core
Hà di duro macigno, indarno tenti
Che per lagrima molle, ò lieve fiato
Di sospir che ’l lusinghi, arda, ò sfaville,
Se rigido focil no’l batte, ò sferza.
Lascia lascia le lagrime, e i sospiri,
S’acquisto far de la tua Donna vuoi;
E s’ardi pur d’inestinguibil foco,
Nel centro del tuo cor quanto più sai
Chiudi l’affetto, e poi secondo il tempo
Fà quel ch’Amore, e la natura insegna.
Però che la modestia è nel sembiante
Sol virtù de la Donna, e però seco
Il trattar con modestia è gran difetto:
Ed ella che sì ben con altrui l’usa
Seco usata l’ha in odio, e vuol che ’n lei
La miri sì, ma non l’adopri il vago.
Con questa legge naturale, e dritta,
Se farai per mio senno amerai sempre.
Me non vedrà, nè proverà Corisca
Mai più tenero amante, anzi più tosto
Fiero nemico, e sentirà con armi
Non di femmina più, ma d’huom virile,
Assalirsi e trafiggersi. Due volte
L’ho presa già questa malvagia, e sempre
M'è, (non sò come) da le mani uscita
Ma s'ella giunge anco la terza al varco,
Ho ben pensato d'afferrarla in guisa
Che non potrà fuggirmi: à punto suole
Tra queste selve capitar sovente;
Ed io vò pur come sagace veltro
Fiutandola per tutto, ò qual vendetta
Ne vò far, se la prendo, e quale strazio.
Ben le faro veder, che tal'hor anco
Chi fù cieco apre gli occhi, e che gran tempo
De le perfidie sue non si dà vanto
Femmina ingannatrice e senza fede.
CHORO
Legge scritta anzi nata;
La cui soave, ed amorosa forza
Verso quel ben, che non inteso sente
Ogni cosa creata,
Gli animi inchina, e la natura sforza.
Nè pur la frale scorza,
Che 'l senso à pena vede, e nasce e more
Al variar de l'hore,
Ma i semi occulti, e la cagion interna,
Ch'è d'eterno valor, move, e governa.
E se gravido è il mondo, e tante belle
Sue maraviglie, forma;
E se per entro à quanto scalda il Sole,
A l’ampia luna, à le Titanie stelle
Vive spirto che ’nforma
Col suo maschio valor l’immensa mole:
S’indi l’hùmana prole
Sorge, e le piante, e gli animali han vita;
Se la terra è fiorita,
O se canuta ha la rugosa fronte
Vien dal tuo vivo, sempiterno fonte.
Nè questo pur, ma ciò che vaga spera
Versa sopra i mortali,
Onde quà giù di ria ventura ò lieta
Stella s’addita, hor mansueta or fera,
Ond’han le vite frali
Del nascer l’hora, e del morir la meta:
Ciò che fà vaga ò queta
Ne’ suoi torbidi affetti humana voglia,
E par che doni e toglia
Fortuna; e ’l mondo vuol ch’à lei s’ascriva
Dall’alto tuo valor tutto deriva:
O detto inevitabile, e verace;
Se pur è tuo concetto,
Che dopo tanti affanni un di riposi
L’Arcada terra, ed habbia vita e pace;
Se quel che n’hai predetto
Per bocca degli oracoli famosi
De’ duo fatali sposi
Pur da te viene, e ’n quello eterno abisso,
L’hai stabilito e fisso;
E se la voce lor non è bugiarda
Deh chi l’effetto al voler tuo ritarda?
Ecco d’amore, e di pietà nemico
Garzon aspro e crudele,
Che vien dal cielo, e pur col ciel contende;
Ecco poi chi combatte un cor pudico
Amante in van fedele,
Che ’l tuo voler con le sue fiamme offende,
E quanto meno attende
Pietà del pianto, e del servir mercede,
Tant’ha più foco, e fede;
Ed è pur quella à lui fatal bellezza,
Ch’è destinata à chi la fugge, e sprezza.
Così dunque in se stessa è pur divisa
Quell’eterna possanza?
E così l’un destin con l’altro giostra?
O non ben forse ancor doma e conquisa,
Folle humana speranza
Di porre assedio à la superna chiostra,
Rubbella al ciel si mostra,
Ed arma quasi nuovi empi giganti,
Amanti, e non amanti?
Qui si può tanto? di stellato regno
Trionferan duo ciechi Amore, e Sdegno?
Ma tu che stai sovra le stelle e ’l fato,
E con saver divino
Indi ne reggi alto Motor del cielo,
Mira ti prego il nostro dubbio stato
Accorda col destino
Amor, e Sdegno; e con paterno zelo
Tempra la fiamma e 'l gelo:
Chi dè goder non fugga, e non disami:
Chi dè fuggir non ami.
Deh fà che l'empia, e cieca voglia altrui
La promessa pietà non tolga à nui.
Ma chi sa? forse quella
Che pare inevitabile sciagura,
Sarà lieta ventura.
Oh quanto poco humana mente sale.
Che non s'affisa al Sol vista mortale.