< Il pastor fido
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Prologo Atto II

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA



Silvio, Linco.

   
I
TE voi, che chiudeste

   L'horribil fera à dar l'usato segno
   De la futura caccia. ite svegliando
   Gli occhi col corno, e con la voce i cori.
   Se fù mai ne l'Arcadia
   Pastor di Cintia, e de' suoi studi amico,
   Cui stimolasse il generoso petto
   Cura ò gloria di selve,
   Hoggi il mostri, e me segua,
   Là dove in picciol giro
   Ma largo campo al valor nostro è chiuso
   Quel terribil Cinghiale,

   Quel mostro di natura, e de le selve,
   Quel sì vasto e sì fiero,
   E per le piaghe altrui
   Sì noto habitator de l'Erimanto,
   Stragge de le campagne,
   E terror de i bifolchi. Ite voi dunque
   E non sol precorrete,
   Ma provocate ancora
   Co'l rauco suon la sonnacchiosa Aurora.
   Noi Linco andiamo à venerar gli Dei.
   Con più sicura scorta
   Seguirem poi la destinata caccia.
   Chi ben commincia, hà la metà de l'opra.
   Nè sì commincia ben se non dal Cielo.
   Lin.Lodo ben Silvio il venerar gli Dei,
   Ma il dar noia à coloro,
   Che son ministri degli Dei non lodo.
   Tutti dormono ancora
   I custodi del tempio, i quai non hanno
   Più tempestivo, ò lucido orizonte
   De la cima del monte.
   Sil.A te, che forse non sè desto ancora,
   Par ch'ogni cosa addormentata sia.
   Lin.O Silvio Silvio, à che ti diè natura
   Ne più begli anni tuoi
   Fior di beltà sì delicato, e vago,
   Se tu sè tanto à calpestarlo pronto?
   Che s'avess'io cotesta tua sì bella,
   E sì fiorita guancia,

   A Dio, selve direi;
   E seguendo altre fere
   E la vita passando in festa, e ’n gioco,
   Farei la state à l’ombra, e ’l verno al foco.
   Sil.Cosi fatti consigli
   Non mi desti mai più. come sè hora
   Tanto da te diverso?
   Lin.Altri tempi, altre cure.
   Cosi certo farei se Silvio fussi.
   Sil.Ed io, se fussi Linco;
   Ma perche Silvio sono
   Oprar da Silvio e non da Linco i’ voglio.
   Lin.O garzon folle, à che cercar lontana
   E perigliosa fera,
   Se l’hai via più d’ogni altra
   E vicina, e domestica, e sicura?
   Sil.Parli tù dadovero, ò pur vaneggi?
   Lin.Vaneggi tù non io.
   Sil.Ed è così vicina?
   Lin.Quanto tu di te stesso.
   Sil.In qual selva s’annida?
   Lin.La selva sè tu Silvio,
   E la fera crudel, che vi s’annida,
   E la tua feritate.
   Sil.Come ben m’avvisai, che vaneggiavi.
   Lin.Una Ninfa sì bella e sì gentile,
   Ma che dissi una Ninfa? anzi una Dea,
   Più fresca e più vezzosa
   Di mattutina rosa,

   E più molle, e più candida del Cigno,
   Per cui non è si degno
   Pastor hoggi trà noi, che non sospiri,
   E non sospiri in vano;
   A te solo da gli huomini, e dal Cielo
   Destinata si serba;
   Ed hoggi tu senza sospiri, e pianti
   (O troppo indegnamente
   Garzon avventuroso) haver la puoi
   Ne le tue braccia, e tu la fuggi Silvio?
   E tu la sprezzi? e non dirò che 'l core
   Habbi di fera, anzi di ferro il petto?
   Sil.„Se 'l non haver amore è crudeltate,
   „Crudeltate è virtute, e non mi pento
   Ch'ella sia nel mio cor, ma me ne pregio;
   Poi che solo con questa hò vinto Amore,
   Fera di lei maggiore.
   Lin.E come vinto l'hai
   Se nol provasti mai?
   Sil.Nol provando l'ho vinto. Lin. Oh s'una sola
   Volta il provassi, ò Silvio
   Se sapessi una volta
   Qual è grazia e ventura
   L'esser amato, il possedere amando
   Un riamante core,
   Sò ben io che diresti,
   Dolce vita amorosa,
   Perche si tardi nel mio cor venisti?
   Lascia, lascia le selve,

   Folle garzon, lascia le fere, ed ama.
   Sil.Linco dì pur se sai,
   Mille ninfe darei per una fera,
   Che da Melampo mio cacciata fosse,
   Godasi queste gioie,
   Chi n’ha di me più gusto, io non le sento.
   Lin.E che sentirai tu s’amor non senti,
   Sola cagion di ciò, che sente il mondo?
   Ma credimi, fanciullo:
   A tempo il sentirai,
   Che tempo non havrai.
   Vuol una volta Amor ne’ cuori nostri
   Mostrar quant’egli vale.
   Credi à me pur, che ’l provo:
   Non è pena maggiore
   Che ’n vecchie membra il pizzicor d’amore,
   Che mal si può sanar quel che s’offende,
   Quanto più di sanarlo altri procura,
   Se ’l giovinetto core Amor ti pugne,
   Amor anco te l’ugne,
   Se col duolo il tormenta,
   Con la speme il consola,
   E s’un tempo l’ancide, al fine il sana.
   Ma s’è ti giugne in quella fredda etade,
   Ove il proprio difetto
   Più che la colpa altrui spesso si piagne,
   Allora insoportabili, e mortali
   Son le sue piaghe, al’hor le pene acerbe,
   Al'hora se pietà tu cerchi, male,

   Se non la trovi, e, se la trovi, peggio.
   Deh non ti procacciar prima del tempo
   I difetti del tempo,
   Che se t'assale à la canuta etate
   Amoroso talento
   Havrai doppio tormento,
   E di quel che, potendo, non volesti,
   E di quel che volendo non potrai.
   Lascia lascia le selve,
   Folle garzon; lascia le fere, ed ama.
   Sil.Come vita non sia
   Se non quella che nutre
   Amorosa insanabile follia.
   Lin.Dimmi, se 'n questa sì ridente, e vaga
   Stagion che 'nfiora, e rinovella il mondo,
   Vedessi in vece di fiorite piagge,
   Di verdi prati e di vestite selve,
   Starsi il pino e l'abete e'l faggio e l'orno
   Senza l'usata lor frondosa chioma,
   Senz'herbe i prati, e senza fiori i poggi,
   Non diresti tu, Silvio: il mondo langue,
   La natura vien meno? hor quell'horrore
   E quella maraviglia, che devresti
   Di novità sì mostruosa havere,
   Habbila di te stesso. Il ciel n'hà dato
   Vita à gli anni conforme, ed à l'etate
   Somiglianti costumi; e, come amore
   In canuti pensier si disconvene,
   Così la gioventù d'amor nemica

   Contrasta al Cielo, e la natura offende.
   Mira d’intorno Silvio:
   Quanto il mondo ha di vago, e di gentile,
   Opra è d’amore, amante è il Cielo, amante
   La terra; amante il mare.
   Quella, che là sù miri innanzi à l’alba
   Così leggiadra stella,
   Ama d’amore anch’ella; e del suo figlio
   Sente le fiamme: ed essa che ’nnamora,
   Innamorata splende.
   E questa è forse l’hora
   Che le furtive sue dolcezze, e ’l seno
   Del caro amante lassa.
   Vedila pur come sfavilla, e ride.
   Amano per le selve
   Le mostruose fere, aman per l’onde
   I veloci delfini, e l’orche gravi.
   Quell’augellin, che canta
   Sì dolcemente e lascivetto vola
   Or da l’abete al faggio,
   Et hor dal faggio al mirto,
   S’havesse humano spirto,
   Direbbe ardo d’amore, ardo d’amore.
   Ma ben arde nel core,
   E parla in sua favella,
   Sì che l’intende il suo dolce desio.
   Ed odi à punto Silvio
   Il suo dolce desio
   Che gli risponde, ardo d’amore anch’io.

   Mugge in mandra l’armento, e que’ muggiti
   Sono amorosi inviti.
   Rugge il Leone al bosco
   Nè quel ruggito è d’ira,
   Così d’amor sospira.
   Al fine ama ogni cosa,
   Se non tu, Silvio, e sarà Silvio solo
   In Cielo, in terra, in mare
   Anima senza Amore?
   Deh lascia homai le selve
   Folle garzon, lascia le fere, ed ama.
   Sil.A te dunque commessa
   Fù la mia verde età, perche d’amori,
   E di pensieri effeminati, e molli
   Tu l’havessi à nudrir? nè ti sovviene
   Chi sè tù, chi son io?
   Lin.Huomo sono, e mi pregio
   D’esser humano: e teco, che sè huomo,
   O che più tosto esser dovresti, parlo
   Di cosa humana; e se di cotal nome
   Forse ti sdegni, guarda
   Che nel dishumanarti
   Non divenghi una fera anzi che un Dio.
   Sil.Nè si famoso mai nè mai sì forte
   Stato sarebbe il domator de’ mostri,
   Dal cui gran fonte il sangue mio deriva,
   S’e’ non havesse pria domato Amore.
   Lin.Vedi cieco fanciul come vaneggi
   Dove saressi tu, dimmi, s’amante

   Stato non fosse il tuo famoso Alcide?
   Anzi se guerre vinse e mostri ancise
   Gran parte Amor ve n'ebbe. Ancor non sai
   Che per piacer ad Onfale, non pure
   Volle cangiar in femminili spoglie
   Del feroce leon l'hispido tergo,
   Ma, de la clava noderosa in vece
   Trattare il fuso; e la conocchia imbelle?
   Così de le fatiche, e degli affanni
   Prendea ristoro, e nel bel sen di lei
   Quasi in porto d'Amor solea ritrarsi,
   Che sono i suoi sospir dolci respiri
   De le passate noie, e quasi acuti
   Stimoli al cor ne le future imprese.
   E come il rozzo, ed intrattabil ferro
   Temprato con più tenero metallo
   Affina sì, che sempre più resiste,
   E per uso più nobile s'adopra;
   Cosi vigor indomito, e feroce,
   Che nel proprio furor spesso si rompe,
   Se con le sue dolcezze Amore il tempra
   Diviene à l'opra generoso, e forte.
   Se d'esser dunque imitator tu brami
   D'Ercole invitto, e suo degno nipote;
   Poi che lasciar non vuoi le selve, almeno
   Segui le selve, e non lasciar Amore,
   Un amor si legittimo, e si degno,
   Com'è quel d'Amarilli; che se fuggi
   Dorinda, i' te ne scuso, anzi pur lodo;

   Ch’à te vago d’honore haver non lice
   Di furtivo desio l’animo caldo,
   Per non far torto à la tua cara sposa.
   Sil.Che dì tu Linco? ancor non è mia sposa.
   Lin.Da lei dunque la fede
   Non ricevesti tu solennemente?
   Guarda garzon superbo,
   Non irritar gli Dei.
   Sil.L’humana libertate è don del cielo;
   Che non fà forza à chi riceve forza.
   Lin.Anzi, se tu l’ascolti, e ben l’intendi,
   A questo il ciel ti chiama,
   Il ciel ch’à le tue nozze
   Tante grazie promette, e tanti honori.
   Sil.Altro pensiero apunto
   I sommi Dei non hanno, apunto questa
   L’almo riposo lor cura molesta.
   Linco nè questo amor nè quel mi piace.
   Cacciator non amante al mondo nacqui,
   Tu che seguisti Amor torna al riposo.
   Lin.Tu derivi dal cielo
   Crudo garzon? Nè di celeste seme
   Ti cred’io, nè d’humano,
   E, se pur sè d’humano, i’ giurerei
   Che tu fussi più tosto
   Col velen di Tisifone, e d’Aletto
   Che col piacer di Venere concetto.

SCENA II

MIRTILLO, ERGASTO.


   
C
RUDA Amarilli, che col nome ancora

   D’amar, ai lasso, amaramente insegni:
   Amarilli del candido ligustro
   Più candida, e più bella,
   Ma de l’Aspido sordo
   E più sorda, e più fera, e più fugace;
   Poi che col dir t’offendo
   I’ mi morrò tacendo,
   Ma grideran per me le piagge, e i monti,
   E questa selva, à cui
   Sì spesso il tuo bel nome
   Di risonare insegno:
   Per me piangendo i fonti,
   E mormorando i venti
   Diranno i miei lamenti:
   Parlerà nel mio volto
   La pietate e ’l dolore;

   E se fia muta ogn’altra cosa, al fine
   Parlerà il mio morire,
   E ti dirà la morte il mio martire.
   Erg.Mirtillo Amor fù sempre un fier tormento,
   Ma più quanto è più chiuso;
   Però ch’egli dal freno
   Ond’è legata un’amorosa lingua
   Forza prende, e s’avanza,
   E più fiero è prigion, che non è sciolto.
   Già non dovevi tu si lungamente
   Celarmi la cagion de la tua fiamma,
   Se la fiamma celar non mi potevi.
   Quante volte l’hò detto, arde Mirtillo,
   Ma in chiuso foco e’ si consuma, e tace.
   Mir.Offesi me per non offender lei
   Cortese Ergasto, e sarei muto ancora;
   Ma la necessità m’ha fatto ardito.
   Odo una voce mormorar d’intorno,
   Che per l’orecchi mi ferisce il core
   De le vicine nozze d’Amarilli.
   Ma chi ne parla ogni altra cosa tace,
   Ed io più innanzi ricercar non oso,
   Sì per non dar altrui di me sospetto,
   Come per non trovar quel che pavento.
   Sò ben Ergasto, e non m’inganna amore,
   Ch’a la mia bassa, e povera fortuna
   Sperar non lice in alcun tempo mai
   Che ninfa sì leggiadra, e sì gentile,
   E di sangue, e di spirto, e di sembiante

   Veramante divina, a me sia sposa:
   Ben conosco il tenor de la mia stella:
   Nacqui solo à le fiamme, e ’l mio destino
   D’arder mi feo, non di gioirne degno.
   Ma poi ch’era ne’ fati, ch’io dovessi
   Amar la morte, e non la vita mia,
   Vorrei morir almen, sì che la morte
   Da lei che n’è cagion gradita fosse,
   Ne si sdegnasse à l’ultimo sospiro
   Di mostrarmi i begli occhi, e dirmi muori.
   Vorrei prima che passi à far beato
   De le sue nozze altrui, ch’ella m’udisse
   Almen sola una volta. Hor se tu m’ami
   Ed hai di me pietate, in ciò t’adopra,
   Cortesissimo Ergasto, in ciò m’aita.
   Erg.Giusto desio d’amante, e di chi muore.
   Lieve mercè, ma faticosa impresa,
   Misera lei se risapesse il padre,
   Ch’ella à preghi furtivi havesse mai
   Inchinate l’orecchie, o pur ne fosse
   Al sacerdote suocero accusata.
   Per questo forse ella ti fugge, e forse
   T’ama, ancorche nol mostri, che la Donna
   Nel desiar è ben di noi più frale,
   Ma nel celar il suo desio più scaltra.
   E, se fosse pur ver ch’ella t’amasse,
   Che potrebbe altro far se non fuggirti?
   Chi non può dar aita indarno ascolta,
   E fugge con pietà chi non s’arresta

   Senz’altrui pena; ed è sano consiglio
   Tosto lasciar quel che tener non puoi.
   Mir.Oh, se ciò fosse vero, ò s’io ’l credessi,
   Care mie pene, e fortunati affanni,
   Ma se ti guardi il ciel, cortese Ergasto,
   Non mi tacer qual è il pastor tra noi
   Felice tanto, e de le stelle amico.
   Er.Non conosci tù Silvio, unico figlio
   Di Montan, sacerdote di Diana,
   Sì famoso pastore hoggi, e sì ricco?
   Quel garzon sì leggiadro? quegli è desso.
   Mir.Fortunato fanciul, che ’l tuo destino
   Trovi maturo in cosi acerba etate;
   Nè te l’invidio nò, ma piango il mio.
   Er.E veramente invidiar nol dei;
   Che degno è di pietà, più che d’invidia.
   Mir.E perche di pietà? Er. Perche non l’ama.
   Ed è vivo? ed hà core? e non è cieco?
   Ben che se dritto miro,
   A lei per altro core
   Non restò fiamma più, quando nel mio
   Spirò da que' begli occhi
   Tutte le fiamme sue, tutti gli amori.
   Ma perche dar sì pretiosa gioia
   A chi non la conosce? a chi la sprezza?
   Er.Perche promette à queste nozze il cielo
   La salute d’Arcadia. Non sai dunque
   Che qui si paga ogn’anno à la gran dea
   De l’innocente sangue d’una Ninfa

   Tributo miserabile e mortale?
   Mir.Unqua più non l'udij, & ciò m'è nuovo,
   Che nuovo ancora habitator quì sono,
   E, come vuol' Amore, e 'l mio destino,
   Quasi pur sempre habitator de boschi:
   Ma qual peccato il meritò sì grave?
   Come tant'ira un cor celeste accoglie?
   Er.Ti narrerò de le miserie nostre
   Tutta da capo la dolente istoria,
   Che trar porria da queste dure querci
   Pianto, e pietà, non che da i petti humani.
   In quella età, che 'l sacerdozio santo,
   E la cura del tempio ancor non era
   A sacerdote giovane contesa,
   Un nobile pastor chiamato Aminta,
   Sacerdote in quel tempo, amò Lucrina,
   Ninfa leggiadra à maraviglia, e bella,
   Ma senza fede à maraviglia, e vana.
   Gradì costei gran tempo, o'l mostrò forse
   Con simulati, e perfidi sembianti,
   Del giovane amoroso il puro affetto,
   E di false speranze anco nudrillo,
   (Misero) mentre alcun rival non hebbe;
   Ma non sì tosto (or vedi instabil donna)
   Rustico pastorel l'ebbe guatata,
   Che i primi sguardi non sostenne, i primi
   Sospiri, e tutta al nuovo amor si diede
   Prima che gelosia sentisse Aminta.
   Misero Aminta, che da lei fù poscia,

   E sprezzato, e fuggito, sì ch’udirlo
   Nè vederlo mai più l’empia non volle.
   Se piagnesse il meschin, se sospirasse,
   Pensal tu, che per prova intendi Amore.
   Mir.Oime, questo è ’l dolor ch’ogn’altro avanza.
   Erg.Ma poiche dietro al cor perduto, hebbe anco
   I sospiri perduti, e le querele,
   Volto pregando à la gran Dea, se mai
   Disse con puro cor Cintia, se mai
   Con innocente man fiamma t’accesi,
   Vendica tu la mia sotto la fede
   Di bella Ninfa, e perfida tradita.
   Udì del fido amante, e del suo caro
   Sacerdote Diana i prieghi, e ’l pianto,
   Tal che ne la pietà l’ira spirando
   Fè lo sdegno più fiero; ond’ella prese
   L’arco possente, e saettò nel seno
   De la misera Arcadia non veduti
   Strali ed inevitabili di morte.
   Perian senza pietà, senza soccorso
   D’ogni sesso le genti, e d’ogni etate;
   Vani erano i rimedi, il fuggir tardo,
   Inutil l’arte, e prima che l’infermo,
   Spesso ne l’opra il medico cadea.
   Restò solo una speme in tanti mali
   Del soccorso del cielo, e s’ebbe tosto
   Al più vicino oracolo ricorso,
   Da cui venne risposta assai ben chiara,
   Ma sopramodo horribile, e funesta.

   Che Cintia era sdegnata, e che placarla
   Si sarebbe potuto, se Lucrina
   Perfida Ninfa, overo altri per lei
   Di nostra gente, à la gran Dea si fosse
   Per man d'Aminta in sacrificio offerta:
   La qual, poi ch'ebbe indarno pianto e 'ndarno
   Dal suo nuovo amator soccorso atteso,
   Fù con pompa solenne al sacro altare
   Vittima lagrimevole condotta;
   Dove, à que' piè, che la seguiro in vano
   Già tanto, ai piè de l'amator tradito
   Le tremanti ginocchia alfin piegando
   Dal giovane crudel morte attendea.
   Strinse intrepido Aminta il sacro ferro,
   E parea ben che da l'accese labbia
   Spirasse ira, e vendetta; indi à lei vòlto
   Disse con un sospir nuncio di morte:
   Da la miseria tua, Lucrina, mira
   Qual amante seguisti e qual lasciasti,
   Miral da questo colpo: e cosi detto
   Ferì se stesso, e nel sen proprio immerse
   Tutto 'l ferro, ed esangue in braccio à lei
   Vittima, e sacerdote in un cadeo.
   A sì fèro spettacolo, e sì nuovo
   Instupidì la misera donzella
   Trà viva e morta, e non ben certa ancora
   D'esser dal ferro, ò dal dolor trafitta.
   Ma, come prima hebbe la voce, e 'l senso,
   Disse piagnendo; ò fido, ò forte Aminta,

   O troppo tardi conosciuto amante,
   Che m’hai data, morendo, e vita e morte,
   Se fù colpa il lasciarti ecco l’ammendo
   Con l’unir teco eternamente l’alma.
   E questo detto il ferro stesso ancora
   Del caro sangue tiepido, e vermiglio,
   Tratto dal morto, e tardi amato petto,
   Il suo petto trafisse, e sopra Aminta,
   Che morto ancor non era, e sentì forse
   Quel colpo, in braccio si lasciò cadere.
   Tal fine hebber gli amanti, à tal miseria
   Troppo amor e perfidia ambidue trasse.
   Mir.O misero Pastor, ma fortunato,
   Ch’ebbe sì largo, e sì famoso campo
   Di mostrar la sua fede, e di far viva
   Pietà ne l’altrui cor con la sua morte.
   Ma che seguì de la cadente turba?
   Trovò fine il suo mal? placossi Cintia?
   Er.L’ira s’intiepidì, ma non s’estinse,
   Che, dopo l’anno in quel medesmo tempo
   Con ricaduta più spietata e fiera
   Incrudelì lo sdegno, onde di nuovo
   Per consiglio al’oracolo tornando
   Si riportò de la primiera assai
   Più dura, e lagrimevole risposta:
   Che si sacrasse al’hora, e poscia ogn’anno
   Vergine, ò donna à la sdegnata Dea,
   Che ’l terzo lustro empiesse, ed oltre al quarto
   Non s’avanzasse, e così d’una il sangue

   L’ira spegnesse apparecchiata à molti.
   Impose ancora à l’infelice sesso
   Una molto severa, e se ben miri
   La sua natura, inosservabil legge:
   Legge scritta col sangue, che qualunque
   Donna, ò donzella habbia la fè d’amore
   Come che sia, contaminata ò rotta,
   S’altri per lei non muore, à morte sia
   Irremissibilmente condannata.
   A questa dunque sì tremenda e grave
   Nostra calamità spera il buon padre
   Di trovar fin con le bramate nozze;
   Però che dopo alquanto tempo essendo
   Ricercato l’oracolo, qual fine
   Prescritto havesse à nostri danni il cielo,
   Ciò ne predisse in cotai voci à punto.
   Non havrà prima fin quel che v’offende,
   Che duo semi del ciel congiunga Amore,
   E di donna infedel l’antico errore
   L’alta pietà d’un PASTOR FIDO ammende,
   Hor ne l’Arcadia tutta altri rampolli
   Di celesti radici hoggi non sono
   Che Silvio ed Amarillide, che l’una,
   Vien del seme di PAN, l’altro d’ALCIDE.
   Ne per nostra sciagura in altro tempo
   S’incontraron già mai femmina, e maschio
   Com’hor de le due schiatte; e però quinci
   Di sperar bene ha gran ragion Montano.
   E, benche tutto quel che ci promette

   La risposta fatale, ancor non segua,
   Pur questo è ’l fondamento; il resto poi
   Hà negli abissi suoi nascosto il fato,
   E sarà parto un dì di queste nozze.
   Mir.Oh sfortunato e misero Mirtillo;
   Tanti fieri nemici,
   Tant’armi, e tanta guerra
   Contra un cor moribondo;
   Non bastava Amor solo
   Se non s’armava à le mie pene il fato?
   Er.Mirtillo il crudo Amore
   Si pasce ben, ma non si satia mai,
   Di lagrime, e dolore.
   Andiamo; i’ ti prometto
   Di porre ogni mio ingegno
   Perche la bella ninfa hoggi t’ascolti,
   Tu datti pace intanto.
   Non son come à te pare
   Questi sospiri ardenti
   Refrigerio del core,
   Ma son più tosto impetuosi venti
   Che spiran ne l’incendio, e ’l fan maggiore
   Con turbini d’Amore,
   Ch’apportan sempre ai miserelli amanti
   Foschi nembi di duol, piogge di pianti.

SCENA III

CORISCA.


  

   
C
HI vide mai, chi mai udì più strana

   E più folle, e più fera, e più importuna
   Passione amorosa? amore & odio
   Con sì mirabil tempre in un cor misti,
   Che l’un per l’altro (e non sò ben dir come)
   E si strugge, e s’avvanza, e nasce e muore.
   S’i’ miro a le bellezze di Mirtillo
   Dal piè leggiadro al grazioso volto,
   Il vago portamento, il bel sembiante,
   Gli atti, i costumi e le parole e ’l guardo;
   M’assale Amor con sì possente foco,
   Ch’i’ ardo tutta, e par, ch’ogn’altro affetto
   Da questo sol sia superato, e vinto:
   Ma se poi penso à l’ostinato amore,
   Ch’ei porta ad altra donna, e che per lei
   Di me non cura, e sprezza (il vò pur dire)
   La mia famosa, e da mill’alme, e mille
   Inchinata beltà, bramata grazia,

   L’odio cosi, così l’abborro, e schivo,
   Ch’impossibil mi par, ch’unqua per lui
   Mi s’accendesse al cor fiamma amorosa.
   Talhor meco ragiono. Ò s’i’ potessi
   Gioir del mio dolcissimo Mirtillo,
   Sì che fosse mio tutto, ch’altra mai
   Posseder nol potesse, ò più d’ogn’altra,
   Beata, e felicissima Corisca.
   Ed in quel punto in me sorge un talento
   Verso di lui sì dolce, e sì gentile,
   Che di seguirlo, e di pregarlo ancora,
   E di scoprirgli il cor prendo consiglio,
   Che più? così mi stimola il desio,
   Che se potessi alhor l’adorerei.
   Da l’altra parte, i mi risento e dico;
   Un ritroso? uno schifo? un che non degna?
   Un che può d’altra donna essere amante?
   Un ch’ardisce mirarmi, e non m’adora?
   E dal mio volto si difende in guisa,
   Che per amor non more? ed io che lui
   Devrei veder, come molti altri i’ veggio
   Supplice e lagrimoso a i piedi miei,
   Supplice, e lagrimosa à piedi suoi
   Sosterrò di cadere? ah non fia mai;
   Ed in questo pensier tant’ira accoglio
   Contra di lui, contra di me, che volsi
   A seguirlo il pensier, gli occhi à mirarlo,
   Che ’l nome di Mirtillo, e l’amor mio
   Odio più che la morte, e lui vorrei

   Vedere il più dolente, il più infelice
   Pastor che viva, e se potessi, al’hora
   Con le mie proprie man l’anciderei.
   Cosi sdegno, e desire, odio, ed amore
   Mi fanno guerra, ed io che stata sono
   Sempre fin quì di mille cor la fiamma,
   Di mill’alme il tormento, ardo, e languisco,
   E provo nel mio mal le pene altrui;
   Io che tant’anni in cittadina schiera
   Di vezzosi, leggiadri, e degni amanti
   Fui sempre insuperabile, schernendo
   Tante speranze lor, tanti desiri;
   Hor da rustico amor, da vile amante,
   Da rozzo pastorel son presa, e vinta.
   Oh più d’ogn’altra misera Corisca
   Che sarebbe di te, se sproveduta
   Ti trovassi hor d’amante? che faressi
   Per mitigar quest’amorosa rabbia?
   Impari à le mie spese hoggi ogni donna
   A far conserva, e cumulo d’amanti.
   S’altro ben non havessi, altro trastullo
   Che l’amor di Mirtillo, non sarei
   Ben fornita di vago? ò mille volte
   Mal consigliata donna, che si lascia
   Ridurre in povertà d’un solo amore.
   Sì sciocca mai non sarà già Corisca.
   Che fede? che costanza? imaginate
   Favole de’ gelosi, e nomi vani
   Per ingannar le semplici fanciulle.

   La fede in cor di donna, se pur fede
   In donna alcuna (ch’io no’l sò) si trova,
   Non è bontà, non è virtù, ma dura
   Necessità d’Amor, misera legge
   Di fallita beltà, ch’un sol gradisce,
   Perche gradita esser non può da molti.
   Bella donna, e gentil sollecitata
   Da numeroso stuol di degni amanti,
   Se d’un solo è contenta e gli altri sprezza,
   O non è donna o, s’è pur donna, è sciocca.
   Che val beltà non vista? o, se pur vista,
   Non vagheggiata? e se pur vagheggiata,
   Vagheggiata da un solo? e quanti sono
   Più frequenti gli amanti & di più pregio
   Tanto ella d’esser gloriosa e rara
   Pegno nel mondo hà più sicuro, e certo.
   La gloria, e lo splendor di bella donna
   È l’haver molti amanti. così fanno
   Ne le cittadi ancor le donne accorte,
   E ’l fan più le più belle, e le più grandi.
   Rifiutare un’amante appresso loro
   E peccato, e sciocchezza, e quel, ch’un solo
   Far non può, molti fanno. altri à servire,
   Altri à donare, altri ad altr’uso è buono;
   E spesso avvien che, nol sapendo, l’uno
   Scaccia la gelosia, che l’altro diede,
   O la risveglia in tal che pria non l’hebbe.
   Così ne le città vivon le donne
   Amorose, e gentili, ov’io col senno

   E con l’esempio già di donna grande
   L’arte di ben amar fanciulla appresi.
   Corisca mi dicea, si vuole à punto
   Far degli amanti quel che de le vesti.
   Molti averne, un goderne, e cangiar spesso
   Che ’l lungo conversar genera noia,
   E la noia disprezzo, & odio al fine.
   Nè far peggio può donna, che lasciarsi
   Svogliar l’amante, fa pur ch’egli parta
   Fastidito da te, non di te mai.
   E così sempre hò fatto. Amo d’haverne
   Gran copia, e li trattengo, & honne sempre
   Un per mano, un per occhio; ma di tutti
   Il migliore e ’l più commodo nel seno,
   E quanto posso più nel cor nessuno.
   Ma non sò come à questa volta (ahi lassa)
   V’è pur giunto Mirtillo, e mi tormenta;
   Si che à forza sospiro, quel ch’è peggio,
   Di me sospiro, e non inganno altrui.
   E le membra al riposo, e gli occhi al sonno
   Furando anch’io, sò desiar l’aurora
   Felicissimo tempo de gli amanti
   Poco tranquilli, ed ecco io vò per queste
   Ombrose selve anch’io cercando l’orme
   De l’odiato mio dolce desio.
   Ma che farai Corisca? il pregherai?
   Nò, che l’odio non vuol, bench’io ’l volessi.
   Il fuggirai? nè questo Amor consente,
   Benche far il devrei. Che farò dunque?

   Tenterò prima le lusinghe, e i prieghi,
   E scoprirò l'amor, ma non l'amante.
   Se ciò non giova, adoprerò l'inganno;
   E, se questo non può, farà lo sdegno
   Vendetta memorabile. Mirtillo
   Se non vorrai amor, proverai odio.
   Ed Amarilli tua farò pentire
   D'esser à me rivale, à te sì cara,
   E finalmente proverete entrambi
   Quel che può sdegno in cor di donna amante.


SCENA IIII.

TITIRO, MONTANO.


   
V
AGLIAMI il ver, Montano, i' sò che parlo

   A chi di me più intende, oscuri sempre
   Sono assai più gli oracoli di quello
   Ch'altri si crede: e le parole loro
   Sono come il coltel, che se tu 'l prendi
   In quella parte, ove per uso humano

   La man s’adatta, à chi l’adopra è buono,
   Ma chi ’l prende ove fere, è spesso morte.
   Ch’Amarillide mia, come argomenti,
   Sia per alto destin dal cielo eletta
   A la salute universal d’Arcadia;
   Chi più deve bramarlo, e caro haverlo
   Di me, che le son padre? ma s’i miro
   A quel, che n’ha l’oracolo predetto,
   Mal si confanno à la speranza i segni.
   S’unir gli deve Amor, come fia questo,
   Se fugge l’un? com’esser pon gli stami
   D’amoroso ritegno odio, e disprezzo?
   Mal si contrasta quel ch’ordina il cielo,
   E se pur si contrasta, è chiaro segno
   Che non l’ordina il cielo, à cui se pure
   Piacesse, ch’Amarillide consorte
   Fosse di Silvio tuo, più tosto amante
   Lui fatto havria che cacciator di fere.
   MonNon vedi tù, com’è fanciullo? ancora
   Non ha fornito il diciottesim’anno,
   Ben sentirà col tempo anch’egli amore.
   Tit.E ’l può sentir di fera, e non di Ninfa?
   MonA giovinetto cor più si conface.
   Tit.E non Amor, ch’è naturale affetto?
   MonMa senza gli anni è natural difetto.
   Tit.Sempre e’ fiorisce alla stagion più verde.
   MonPuò ben forse fiorir, ma senza frutto.
   Tit.Col fior maturo hà sempre il frutto Amore.
   Qui non venn’io nè per garrir Montano,

   Nè per contender teco; che nè posso
   Nè fare il debbo; ma son padre anch’io
   D’unica e cara e, se mi lece dirlo,
   Meritevole figlia: e con tua pace,
   Da molti chiesta e desiata ancora.
   Mon.Titiro, ancor che queste nozze in cielo
   Non iscorgesse alto destìn, le scorge
   La fede in terra, e ’l violarla fora
   Un violar de la gran Cintia il nume,
   A cui fù data: e tu sai pur quant’ella
   È disdegnosa, e contra noi sdegnata.
   Ma, per quel ch’i nè sento, e quanto puote
   Mente sacerdotal rapita al cielo
   Spiar là sù di que’ consigli eterni;
   Per man del fato è questo nodo ordito:
   E tutti sortiranno (habbi pur fede)
   A suo tempo maturi anco i presagi.
   Più ti vò dir, che questa notte in sogno
   Veduto hò cosa, onde l’antica speme
   Più che mai nel mio cor si rinnovella.
   Tit.Son i sogni alfin sogni, e che vedesti?
   Mon.Io credo ben, ch’abbi memoria (e quale
   Sì stupido è trà noi, ch’hoggi non l’habbia?)
   Di quella notte lagrimosa, quando
   Il tumido Ladon ruppe le sponde,
   Sì che là dove avean gli augelli il nido,
   Notaro i pesci, e in un medesmo corso
   Gli huomini e gli animali,
   E le mandre e gli armenti

   Trasse l’onda rapace.
   In quella stessa notte,
   (O dolente memoria) il cor perdei,
   Anzi quel che del core
   M’era più caro assai,
   Bambin tenero in fasce,
   Unico figlio al’hora, e da me sempre
   E vivo, e morto unicamente amato,
   Rapillo il fier torrente
   Prima che noi potessimo sepolti
   Nel terror, ne le tenebre, e nel sonno,
   Provar di dargli alcun soccorso à tempo;
   Nè pur la culla stessa, in cui giacea
   Trovar potemmo, ed hò creduto sempre
   Che la culla, e ’l bambin, così com’era,
   Una stessa voragine inghiottisse.
   Tit.Che altro si può credere? ben parmi
   D’haver inteso ancora, e da te forse,
   Di questa tua sciagura, veramente
   Sciagura memorabile, ed acerba,
   E puoi ben dir, che di duo figli l’uno
   Generasti à le selve, e l’altro à l’onde.
   Mon.Forse nel vivo il ciel pietoso ancora
   Ristorerà la perdita del morto.
   Sperar ben si dè sempre. Hor tu m’ascolta.
   Era quell’hora à punto
   Che trà la notte, e ’l dì tenebre, e lume
   Col fosco raggio ancor l’alba confonde:
   Quand’io, pur nel pensiero

   Di queste nozze havendo
   Vegghiata una gran parte della notte,
   Alfin lunga stanchezza
   Recò negli occhi miei placido sonno,
   E con quel sonno vision si certa,
   Che di vegghiar dormendo
   Havrei potuto dire.
   Sopra la riva del famoso Alfeo
   Seder pareami à l’ombra
   D’un platano frondoso,
   E con l’hamo tentar ne l’onda i pesci;
   Ed uscire in quel punto
   Di mezzo il fiume un vecchio ignudo e grave,
   Tutto stillante il crin, stillante il mento,
   E con ambe le mani
   Benignamente porgermi un bambino,
   Ignudo e lagrimoso;
   Dicendo, ecco ’l tuo figlio
   Guarda, che non l’ancidi,
   E, questo detto, tuffarsi ne l’onde.
   Indi tutto repente
   Di foschi nembi il ciel turbarsi intorno,
   E minacciarmi horribile procella;
   Tal ch’io per la paura
   Strinsi il bambino al seno,
   Gridando, ah dunque un’hora
   Me’l dona, e me’l ritoglie?
   Ed in quel punto parve,
   Che d’ogn’intorno il ciel si serenasse,

   E cadesser nel fiume
   Fulmini inceneriti,
   Ed archi, e strali rotti à mille à mille.
   Indi tremasse il tronco
   Del platano, e n’uscisse
   Formato in voce spirito sottile,
   Che stridendo dicesse in sua favella,
   Montano Arcadia tua sarà ancor bella.
   E così m’è rimaso
   Nel cor, ne gli occhi, e ne la mente impressa
   L’imagine gentil di questo sogno,
   Ch’i’ l’hò sempre dinanzi,
   E sopra tutto il volto
   Di quel cortese veglio
   Che mi par di vederlo.
   Per questo i’ me 'nvenìa diritto al Tempio,
   Quando tu m’incontrasti,
   Per quivi far col sacrificio santo
   De la mia vision l’augurio certo.
   Tit.Son veramente i sogni
   De le nostre speranze,
   Più che de l’avvenir vane sembianze;
   Imagini del dì guaste, e corrotte
   Da l’ombra de la notte.
   Mon.Non è sempre co’ sensi
   L’anima addormentata,
   Anzi tanto è più desta
   Quanto men traviata
   Da le fallaci forme


   Del senso, allor che dorme.
   Tit.Insomma, quel che s’habbia il ciel disposto
   De nostri figli, è troppo incerto à noi,
   Ma certo è ben, che ’l tuo se'n fugge, e contra
   La legge di natura amor non sente,
   E che la mia fin quì l’obligo solo
   Hà de la data fè, non la mercede:
   Nè sò già dir, se senta amor, sò bene
   Ch’a molti il fa sentire;
   Nè possibil mi par, ch’ella nol provi,
   Se ’l fa provar altrui.
   Ben mi par di vederla
   Più de l’usato suo cangiata in vista,
   Che ridente, e festosa
   Già tutta esser solea.
   Ma l’invaghir Donzella
   Senza nozze à le nozze è grave offesa.
   Come in vago giardin rosa gentile,
   Che ne le verdi sue tenere spoglie
   Pur dianzi era rinchiusa;
   E sotto l’ombra del notturno velo
   Incolta, e sconosciuta
   Stava posando in sul materno stelo;
   Al subito apparir del primo raggio,
   Che spunti in Oriente
   Si desta, e si risente,
   E scopre al Sol, che la vagheggia, e mira
   Il suo vermiglio & odorato seno,
   Dov’Ape susurrando

   Ne i mattutini albori
   Vola suggendo i rugiadosi humori;
   Ma, s’alhor non si coglie,
   Sì che del mezzo dì senta le fiamme,
   Cade al cader del sole
   Sì scolorita in su la siepe ombrosa
   Ch’apena si può dir questa fù rosa.
   Cosi la verginella
   Mentre cura materna
   La custodisce, e chiude,
   Chiude anch’ella il suo petto
   A l’amoroso affetto:
   Ma se lascivo sguardo
   Di cupido amator vien che la miri,
   E n’oda ella i sospiri,
   Gli apre subito il core,
   E nel tenero sen riceve amore.
   E se vergogna il cela,
   O temenza l’affrena,
   La misera tacendo
   Per soverchio desio tutta si strugge,
   Così perde beltà, se ’l foco dura,
   E, perdendo stagion, perde ventura.
   Mon.Titiro fa buon core:
   Non t’avvilir ne le temenze umane:
   Che bene inspira il cielo
   Quel cor che bene spera.
   Ne può giunger la sù fiacca preghiera:
   E, s’ogn’un dè pregare

   Ove ’l bisogno sia,
   E sperar ne gli Dei,
   Quanto più ciò conviene
   A chi da lor deriva?
   Son pure i nostri figli
   Propagini celesti:
   Non spegnerà il suo seme
   Chi fà crescer l’altrui.
   Andiam Titiro, andiamo
   Unitamente al Tempio, e sacreremo
   Tu il capro à Pane, ed io
   Ad Hercole il torello.
   Chi feconda l’armento,
   Feconderà ben anco
   Colui che con l’armento
   Feconda i sacri altari.
   Tu và fido Dameta
   Scegli tosto un torello,
   Di quanti n’habbia la feconda mandra
   Il più morbido e bello,
   E per la via del monte assai più breve
   Fa ch’io l’habbia nel Tempio, ov’io t’attendo.
   Tit.E dala greggia mia caro Dameta,
   Conduci un’hirco. Dam. I farò l’uno, e l’altro.
   Tit.Questo sogno Montano
   Piaccia à l’alta bontà de’ sommi Dei
   Che fortunato sia quanto tu speri.
   Sò ben’io, sò ben’io
   Quant’esser può del tuo perduto figlio
   La rimembranza à te felice augurio.

SCENA V.

SATIRO.


  

   
C
OME il gielo à le piante, à i fior l’arsura,

   La grandine à le spiche, à i semi il verme,
   Le reti à i cervi, ed agli augelli il visco,
   Così nemico à l’huom fù sempre Amore.
   E chi fuoco chiamollo, intese molto
   La sua natura perfida e malvagia.
   Che se ’l foco si mira, ò come è vago,
   Mà se sì tocca, ò come è crudo. il mondo
   Non ha di lui più spaventevol mostro,
   Come fera divora, e come ferro
   Pugne, e trapassa, e come vento vola,
   E dove il piede imperioso ferma
   Cede ogni forza, ogni poter dà loco.
   Non altrimenti Amor, che se tu ’l miri
   In duo begl’occhi, in una treccia bionda,
   O come alletta, e piace; ò come pare,

   Che gioia spiri, e pace altrui prometta.
   Ma, se troppo t’accosti, e troppo il tenti,
   Si che serper cominci, e forza acquisti,
   Non ha tigre l’Hircania, & non hà Libia
   Leon sì fiero, e sì pestifero angue,
   Che la sua ferita vinca, o pareggi.
   Crudo più che l’inferno, e che la morte,
   Nemico di pietà, ministro d’ira,
   E finalmente Amor privo d’amore.
   Ma che parlo di lui? perche l’incolpo?
   E forse egli cagion di ciò che ’l mondo
   Amando nò, ma vaneggiando, pecca?
   O femminil perfidia; à te si rechi
   La cagion pur d’ogn’amorosa infamia.
   Da te sola deriva, e non da lui
   Quanto hà di crudo, e di malvagio Amore,
   Che ’n sua natura placido, e benigno
   Teco ogni sua bontà subito perde
   Tutte le vie di penetrar nel seno,
   E di passar al cor tosto li chiudi.
   Sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido
   E tua cura, e tua pompa, e tuo diletto
   La scorza sol d’un miniato volto.
   Ne già son l’opre tue, gradir con fede
   La fede di chi t’ama, e con chi t’ama
   Contender ne l’amare, ed in duo petti
   Stringer un core e ’n duo voleri un’alma;
   Ma tinger d’oro un’insensata chioma,
   E d’una parte in mille nodi attorta

   Infrascarne la fronte; indi con l’altra
   Tessuta in rete, in quelle frasche involta
   Prender il cor di mille incauti amanti.
   O come è indegna, e stomachevol cosa
   Il vederti tal hor con un pennello
   Pinger le guance, ed occultar le mende
   Di natura, e del tempo, e veder come
   Il livido pallor fai parer d’ostro,
   Le rughe appiani, e ’l bruno imbianchi e togli
   Col difetto il difetto, anzi l’accresci
   Spesso un filo incrocicchi, e l’un de capi
   Co’ denti afferri, e con la man sinistra
   L’altro sostieni, e del corrente nodo
   Con la destra fai giro, e l’apri e stringi
   Quasi radente forfice, e l’adatti
   Su l’inegual lanuginosa fronte:
   Indi radi ogni piuma, e svelli insieme
   Il mal crescente, e temerario pelo
   Con tal dolor, ch’è penitenza il fallo.
   Ma questo è nulla, ancor che tanto, à l’opre
   Sono i costumi somiglianti, e i vezzi.
   Qual cosa hai tu che non sia tutta finta?
   S’apri la bocca menti, e se sospiri
   Son mentiti i sospir, se muovi gli occhi,
   E simulato il guardo; in somma ogn’atto,
   Ogni sembiante, e ciò che ’n te si vede,
   E ciò che non si vede, ò parli, o pensi
   O vadi, ò miri, ò pianga, ò rida, ò canti,
   Tutto è menzogna, e questo ancora è poco.

   Ingannar più, chi più si fida, e meno
   Amar chi più n’è degno, odiar la fede
   Più della morte assai, queste son l’arti
   Che fan sì crudo, e sì perverso Amore.
   Dunque d’ogni suo fallo è tua la colpa.
   Anzi pur ella è sol di chi ti crede.
   Dunque la colpa è mia, che ti credei
   Malvagia, e perfidissima Corisca,
   Qui per mio danno sol cred’io venuta,
   Da le contrade scelerate d’Argo,
   Ove lussuria fa l’ultima prova.
   Ma sì ben figni, e sì sagace, e scorta
   Sè nel celar altrui l’opre, e i pensieri
   Che trà le più pudiche hoggi te’n vai
   Del nome indegno d’honestate altera:
   O quanti affanni ho sostenuti, ò quante
   Per questa cruda indignità sofferte;
   Ben me ne pento, anzi vergogno. impara
   Da le mie pene ò mal’accorto amante,
   Non far idolo un volto, ed à me credi
   Donna adorata un nume è de l’inferno.
   Di se tutto presume, e del suo volto,
   Sovra te, che l’inchini, è quasi Dea
   Come cosa mortal ti sdegna e schiva.
   Che d’esser tal per suo valor sì vanta,
   Qual tu per tua viltà la fingi ed orni,
   Che tanta servitù? che tanti preghi,
   Tanti pianti e sospiri? Usin quest’armi
   Le femmine, e i fanciulli, e i nostri petti

   Sien’anche ne l’amar virili e forti.
   Un tempo anch’io credei, che sospirando,
   E piagnendo, e pregando in cor di donna
   Si potesse destar fiamma d’amore.
   Hor me n’avveggio. errai, che s’ella il core
   Hà di duro macigno, indarno tenti
   Che per lagrima molle, ò lieve fiato
   Di sospir che ’l lusinghi, arda, ò sfaville,
   Se rigido focil no’l batte, ò sferza.
   Lascia lascia le lagrime, e i sospiri,
   S’acquisto far de la tua Donna vuoi;
   E s’ardi pur d’inestinguibil foco,
   Nel centro del tuo cor quanto più sai
   Chiudi l’affetto, e poi secondo il tempo
   Fà quel ch’Amore, e la natura insegna.
   Però che la modestia è nel sembiante
   Sol virtù de la Donna, e però seco
   Il trattar con modestia è gran difetto:
   Ed ella che sì ben con altrui l’usa
   Seco usata l’ha in odio, e vuol che ’n lei
   La miri sì, ma non l’adopri il vago.
   Con questa legge naturale, e dritta,
   Se farai per mio senno amerai sempre.
   Me non vedrà, nè proverà Corisca
   Mai più tenero amante, anzi più tosto
   Fiero nemico, e sentirà con armi
   Non di femmina più, ma d’huom virile,
   Assalirsi e trafiggersi. Due volte
   L’ho presa già questa malvagia, e sempre

   M'è, (non sò come) da le mani uscita
   Ma s'ella giunge anco la terza al varco,
   Ho ben pensato d'afferrarla in guisa
   Che non potrà fuggirmi: à punto suole
   Tra queste selve capitar sovente;
   Ed io vò pur come sagace veltro
   Fiutandola per tutto, ò qual vendetta
   Ne vò far, se la prendo, e quale strazio.
   Ben le faro veder, che tal'hor anco
   Chi fù cieco apre gli occhi, e che gran tempo
   De le perfidie sue non si dà vanto
   Femmina ingannatrice e senza fede.


                    CHORO


   
O
NEL seno di Giove alta, e possente

   Legge scritta anzi nata;
   La cui soave, ed amorosa forza
   Verso quel ben, che non inteso sente
   Ogni cosa creata,
   Gli animi inchina, e la natura sforza.
   Nè pur la frale scorza,
   Che 'l senso à pena vede, e nasce e more
   Al variar de l'hore,
   Ma i semi occulti, e la cagion interna,
   Ch'è d'eterno valor, move, e governa.
 E se gravido è il mondo, e tante belle
   Sue maraviglie, forma;


   E se per entro à quanto scalda il Sole,
   A l’ampia luna, à le Titanie stelle
   Vive spirto che ’nforma
   Col suo maschio valor l’immensa mole:
   S’indi l’hùmana prole
   Sorge, e le piante, e gli animali han vita;
   Se la terra è fiorita,
   O se canuta ha la rugosa fronte
   Vien dal tuo vivo, sempiterno fonte.
 Nè questo pur, ma ciò che vaga spera
   Versa sopra i mortali,
   Onde quà giù di ria ventura ò lieta
   Stella s’addita, hor mansueta or fera,
   Ond’han le vite frali
   Del nascer l’hora, e del morir la meta:
   Ciò che fà vaga ò queta
   Ne’ suoi torbidi affetti humana voglia,
   E par che doni e toglia
   Fortuna; e ’l mondo vuol ch’à lei s’ascriva
   Dall’alto tuo valor tutto deriva:
 O detto inevitabile, e verace;
   Se pur è tuo concetto,
   Che dopo tanti affanni un di riposi
   L’Arcada terra, ed habbia vita e pace;
   Se quel che n’hai predetto
   Per bocca degli oracoli famosi
   De’ duo fatali sposi
   Pur da te viene, e ’n quello eterno abisso,
   L’hai stabilito e fisso;

   E se la voce lor non è bugiarda
   Deh chi l’effetto al voler tuo ritarda?
 Ecco d’amore, e di pietà nemico
   Garzon aspro e crudele,
   Che vien dal cielo, e pur col ciel contende;
   Ecco poi chi combatte un cor pudico
   Amante in van fedele,
   Che ’l tuo voler con le sue fiamme offende,
   E quanto meno attende
   Pietà del pianto, e del servir mercede,
   Tant’ha più foco, e fede;
   Ed è pur quella à lui fatal bellezza,
   Ch’è destinata à chi la fugge, e sprezza.
 Così dunque in se stessa è pur divisa
   Quell’eterna possanza?
   E così l’un destin con l’altro giostra?
   O non ben forse ancor doma e conquisa,
   Folle humana speranza
   Di porre assedio à la superna chiostra,
   Rubbella al ciel si mostra,
   Ed arma quasi nuovi empi giganti,
   Amanti, e non amanti?
   Qui si può tanto? di stellato regno
   Trionferan duo ciechi Amore, e Sdegno?
 Ma tu che stai sovra le stelle e ’l fato,
   E con saver divino
   Indi ne reggi alto Motor del cielo,
   Mira ti prego il nostro dubbio stato
   Accorda col destino


   Amor, e Sdegno; e con paterno zelo
   Tempra la fiamma e 'l gelo:
   Chi dè goder non fugga, e non disami:
   Chi dè fuggir non ami.
   Deh fà che l'empia, e cieca voglia altrui
   La promessa pietà non tolga à nui.
   Ma chi sa? forse quella
   Che pare inevitabile sciagura,
   Sarà lieta ventura.
   Oh quanto poco humana mente sale.
   Che non s'affisa al Sol vista mortale.


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