< Il piacere
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Capitolo IX
VIII X



IX.



Maria Ferres era sempre rimasta fedele all’abitudine giovenile di notar cotidianamente in un suo Giornale intimo i pensieri, le gioie, le tristezze, i sogni, le agitazioni, le aspirazioni, i rimpianti, le speranze, tutte le vicende della sua vita interiore, tutti gli episodii della sua vita esterna, componendo quasi un Itinerario dell’Anima, ch’ella di tratto in tratto amava rileggere per averne una regola nel viaggio futuro e per ritrovar la traccia delle cose da gran tempo morte.

Constretta dalle circostanze a ripiegarsi di continuo su sè medesima, sempre chiusa nella sua purità come in una torre d’avorio incorruttibile e inaccessibile, ella provava un sollievo e un conforto in quella specie di confessione cotidiana affidata alla pagina bianca d’un libro segretissimo. Si lamentava de’ suoi travagli, s’abbandonava alle lacrime, cercava di penetrare gli enigmi del suo cuore, interrogava la sua conscienza, riprendeva coraggio dalla preghiera, si ritemprava nella meditazione, allontanava da sè ogni debolezza ed ogni vana imagine, metteva il suo spirito nelle mani del Signore. E tutte le pagine splendevano d’una comune luce, ossia di Verità.

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15 settembre 1886 (Schifonoja). ― Come mi sento stanca! Il viaggio mi ha un poco affaticata e quest’aria nuova del mare e della campagna m’ha un poco stordita. Ho bisogno di riposo; e già mi par di pregustare la bontà del sonno e la dolcezza del risveglio di domani. Mi sveglierò in una casa amica, nella cordiale ospitalità di Francesca, in questa Schifanoja che ha rose così belle e cipressi così grandi; e mi sveglierò avendo innanzi a me qualche settimana di pace, venti giorni d’esistenza spirituale, forse più. Sono molto riconoscente a Francesca, dell’invito. Rivedendola, ho riveduta una sorella. Quante mutazioni in me, e quanto profonde, dai belli anni fiorentini!

Francesca, a proposito de’ miei capelli, ricordava oggi le passioni e le malinconie di quel tempo, e Carlotta Fiordelise, e Gabriella Vanni, e tutta quella storia lontana che ora non mi par vissuta ma letta in un vecchio libro obliato o vista in sogno. I capelli non son caduti, ma son cadute da me ben altre cose più vive. Tanti capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel mio destino. Ma perchè mi riprende la tristezza? E perchè le memorie mi dànno pena? E perchè di tratto in tratto la mia rassegnazione è scossa? È inutile lamentarsi sopra una tomba; e il passato è come una tomba che non rende più i suoi morti. Dio mio, fa tu ch’io me ne ricordi una volta per sempre!

Francesca e ancora giovine, e conserva ancora quella sua bella e franca giovialità che in collegio aveva un fascino così strano sul mio spirito un po’ oscuro. Ella ha una grande e rara virtú: è gaja, ma sa intendere i dolori altrui e sa anche lenirli con la sua misericordia consapevole. Ella è, sopra tutto, una donna intellettuale, una donna d’alti gusti, una dama perfetta, un’amica che non pesa. Si compiace forse un po’ troppo dei motti e delle frasi acute, ma le sue saette hanno sempre la punta d’oro e son lanciate con una grazia inimitabile. Certo, fra quante signore mondane ho conosciute, ella è la più fine; fra le amiche, è la prediletta.

I figli non le somigliano molto, non sono belli. Ma la bimba, Muriella, è assai gentile; ha un riso chiaro e gli occhi della madre. Ha fatto gli onori di casa a Delfina con una compitezza di piccola dama. Ella, certo, erediterà la “gran maniera„ materna.

Delfina sembra felice. Ha esplorata già la maggior parte del giardino, è andata giú fino al mare, è discesa per tutte le scale; è venuta a raccontarmi le meraviglie, ansando, divorando le parole, con negli occhi una specie di barbaglio. Ella ripeteva spesso il nome della nuova amica: Muriella. È un grazioso nome, e su la sua bocca diventa più grazioso ancóra.

Dorme, profondamente. Quando i suoi occhi son chiusi, i cigli le fanno sul sommo della gota un’ombra lunga lunga. Si meravigliava della lunghezza, stasera, il cugino di Francesca e ripeteva un verso di Guglielmo Shakespeare nella Tempesta, molto bello, su i cigli di Miranda.

C’è troppo odore, qui. Delfina ha voluto ch’io le lasciassi il mazzo delle rose accanto al letto, prima d’addormentarsi. Ma io, ora che dorme, lo toglierò e lo metterò su la loggia, al sereno.

Sono stanca, eppure ho scritto tre o quattro pagine. Ho sonno. eppure vorrei prolungare la veglia per prolungare questo languore dell’anima indefinito, ondeggiante in non so che tenerezza diffusa fuori di me, intorno a me. Da tanto, da tanto tempo non avevo sentito un po’ di benevolenza circondarmi!

Francesca è molto buona, e io le sono molto riconoscente.

Ho portato su la loggia il vaso delle rose; e son rimasta là qualche minuto ad ascoltare la notte, tenuta là dal rammarico di perdere nella cecità del sonno ore che passano sotto un cielo così bello. È strano l’accordo tra la voce delle fontane e la voce del mare. I cipressi, d’innanzi a me, parevano le colonne del firmamento: le stelle brillavan proprio su le cime, le accendevano.

Perchè di notte i profumi hanno nella loro onda qualche cosa che parla, hanno un significato, hanno un linguaggio?

No, i fiori non dormono, di notte. 16 settembre. ― Pomeriggio delizioso, passato quasi tutto a conversare con Francesca su le logge, su le terrazze, per i viali, in tutti i luoghi aperti di questa villa che pare edificata da un principe poeta per dimenticare un affanno. Il nome del palazzo ferrarese le convien perfettamente.

Francesca mi ha fatto leggere un sonetto del conte Sperelli, scritto su pergamena: una inezia molto fine. Questo Sperelli è uno spirito eletto ed intenso. Stamani, a tavola, ha detto due o tre cose bellissime. Egli è convalescente d’una ferita mortale avuta in un duello, a Roma, nello scorso maggio. Ha negli atti, nelle parole, nello sguardo quella specie d’abbandono affettuoso e delicato ch’è proprio de’ convalescenti, di quelli che sono usciti dalle mani della morte. Dev’essere molto giovine; ma deve aver molto vissuto, e d’una vita inquieta. Porta i segni della lotta.

Serata deliziosa, di conversazione intima, di musica intima, dopo il pranzo. Io, forse, ho parlato troppo; o, per lo meno, troppo caldamente. Ma Francesca mi ascoltava e mi secondava; e il conte Sperelli, anche. Uno de’ più alti piaceri, nella conversazione non volgare, appunto è sentire che uno stesso grado di calore anima tutte le intelligenze presenti. Allora soltanto, le parole prendono il suono della sincerità e dànno a chi le profferisce e a chi le ode il supremo diletto.

Il cugino di Francesca, è, in musica, un conoscitore raffinato. Ama molto i maestri settecentisti e in ispecie, tra i compositori per clavicembalo, Domenico Scarlatti. Ma il suo più ardente amore è Sebastiano Bach. Lo Chopin gli piace poco; il Beethoven gli penetra troppo a dentro e lo turba troppo. Nella musica sacra non trova da paragonare al Bach altri che il Mozart. ― Forse ― egli ha detto ― in nessuna Messa la voce del soprannaturale giunge alla religiosità e alla terribilità a cui è giunto il Mozart nel Tuba mirum del Requiem. Non è vero che sia un greco, un platonico, un puro ricercatore della grazia, della bellezza, della serenità, chi ebbe così profondo il senso del soprannaturale da crear musicalmente il fantasma del Commendatore e chi, creando Don Giovanni e Donna Anna, seppe spinger tant’oltre l’analisi dell’essere interno....

Egli ha detto queste parole ed altre, con quel singolare accento che hanno nel parlar d’arte gli uomini i quali sono di continuo assorti nella ricerca delle cose elevate e difficili.

Poi, nell’ascoltarmi, aveva una strana espressione, come di stupore, e qualche volta d’ansietà. Io mi rivolgevo quasi sempre a Francesca, con gli occhi; eppure, sentivo lo sguardo di lui fisso su di me con una insistenza che mi dava fastidio ma non mi offendeva. Egli dev’essere ancora malato, debole, in preda alla sua sensibilità. M’ha chiesto infine: ― Cantate? ― allo stesso modo che m’avrebbe chiesto: ― Mi amate?

Ho cantato un’Aria del Paisiello e una del Salieri. Ho suonato un po’ di settecento. Avevo la voce calda e la mano felice.

Egli non mi ha fatto alcun elogio. È rimasto in silenzio. Perchè?

Delfina dormiva già, quassù. Quando son salita a vederla, l’ho trovata che dormiva ma con le ciglia umide come s’ella avesse pianto. Povero amore! Dorothy m’ha detto che la mia voce giungeva fin qui distintamente e che Delfina s’è scossa dal primo sopore e s’è messa a singhiozzare e voleva discendere.

Sempre, quando io canto, ella piange.

Ora dorme; ma di tratto in tratto il suo respiro divien più vivo, somiglia un singhiozzo spento, e mette nel mio stesso respiro un affanno vago, quasi un bisogno di rispondere a quel singhiozzo inconscio, a quella pena che non s’è acquietata nel sonno. Povero amore!

Chi suona, giù, il pianoforte? Qualcuno accenna, con la sordina, la gavotta di Luigi Rameau, una gavotta piena di affascinante malinconia, quella ch’io sonavo dianzi. Chi può essere? Francesca è risalita con me; è tardi.

Mi sono affacciata alla loggia. La sala del vestibolo è buia; è chiara soltanto la sala attigua dove il marchese e Manuel giocano ancora.

La gavotta cessa. Qualcuno scende per la scala, nel giardino.

Mio Dio, perchè son così attenta, così vigilante, così curiosa? Perchè i rumori mi scuotono così a dentro, questa notte?

Delfina si sveglia, mi chiama.


17 settembre. ― Stamani è partito Manuel. Siamo stati ad accompagnarlo fino alla stazione di Rovigliano. Verso il 10 di ottobre egli tornerà a prendermi; e andremo a Siena, da mia madre. Io e Delfina rimarremo a Siena probabilmente fino all’anno nuovo: due o tre mesi. Rivedrò la Loggia del Papa e la Fonte Gaja e il mio bel Duomo bianco e nero, la casa diletta della Beata Vergine Assunta, dove una parte dell’anima mia è ancora a pregare, accanto alla cappella Chigi, nel luogo che sa i miei ginocchi.

Ho sempre lucida nella memoria l’imagine del luogo; e quando tornerò m’inginocchierò nel punto preciso dove io soleva, esattamente, meglio che se ci fossero rimasti due cavi profondi. E là ritroverò quella parte dell’anima mia a pregare ancora, sotto la volta azzurra constellata che si specchia nel marmo come un cielo notturno in un’acqua tranquilla.

Nulla, certo, è mutato. Nella cappella preziosa, piena d’un’ombra palpitante, d’una oscurità animata da’ riflessi gemmei delle pietre, ardevano le lampade; e la luce pareva raccogliersi tutta nel breve cerchio d’olio in cui si nutriva la fiammella, come in un topazio limpido. A poco a poco, sotto il mio sguardo intento, il marmo effigiato prendeva un pallor men freddo, quasi direi un tepore d’avorio; a poco a poco entrava nel marmo la pallida vita delle creature celesti, e nelle forme marmoree si diffondeva la vaga trasparenza d’una carne angelicale.

Quanto era ardente e spontanea la mia preghiera! S’io leggeva la Filotea di San Francesco, mi sembrava che le parole scendessero sul mio cuore come le lacrime di miele, come stille di latte. S’io mi metteva in meditazione, mi sembrava di camminare per le vie segrete dell’anima come per un giardino di delizia ove gli usignoli cantassero su gli alberi fiorenti e le colombe tubassero in riva ai ruscelli della Grazia divina. La divozione m’infondeva una calma piena di freschezza e di profumi, mi faceva dischiudere nel cuore le sante primavere dei Fioretti, m’inghirlandava di rose mistiche e di gigli soprannaturali. E nella mia vecchia Siena, nella vecchia città della Vergine, io udiva sopra tutte le voci i richiami delle campane.

18 settembre. ― Ora di tortura indefinibile. Mi par d’esser condannata a riappezzare, a riappiccare, a riunire, a ricomporre i frammenti d’un sogno, del quale una parte sia per avverarsi confusamente fuori di me e l’altra si agiti confusamente in fondo al mio cuore. E m’affatico m’affatico, senza riescir mai a ricomporlo per intiero.

19 settembre. ― Altra tortura. Qualcuno mi cantò, gran tempo indietro; e non terminò la sua canzone. Qualcuno ora mi canta, riprendendo la canzone dal punto in cui fu interrotta; ma da gran tempo io ho dimenticato il principio. E l’anima inquieta, mentre cerca di ricordarsene per collegarlo al proseguimento, si smarrisce; e non ritrova gli antichi accenti nè gode i nuovi.

20 settembre. ― Oggi, dopo la colazione, Andrea Sperelli ha fatto a me e a Francesca l’invito di andare a veder nelle sue stanze i disegni che gli giunsero ieri da Roma.

Si può dire che tutta un’arte sia passata oggi sotto i nostri occhi, tutta un’arte studiata e analizzata dalla matita d’un disegnatore. Ho avuto un de’ più intensi godimenti della mia vita.

Questi disegni sono di mano dello Sperelli; sono i suoi studii, i suoi schizzi, i suoi appunti, i suoi ricordi presi qua e là in tutte le gallerie d’Europa; sono, dirò così, il suo breviario, un meraviglioso breviario nel quale ogni antico maestro ha la sua pagina suprema, la pagina ov’è compendiata la maniera, ove son notate le bellezze dell’opera più alte e più originali, ov’è colto il punctum saliens di tutta quanta la produzione. Scorrendo questa larga raccolta, io non soltanto mi son fatta un’idea precisa delle diverse scuole, dei diversi movimenti, delle diverse correnti, delle diverse influenze per cui si sviluppa la Pittura in una data regione; ma son penetrata nell’intimo spirito, nella essenziale sostanza dell’arte d’ogni singolo pittore. Come profondamente ora comprendo, per esempio, il XIV e il XV secolo, i Trecentisti e i Quattrocentisti, i semplici i nobili i grandi Primitivi!

I disegni sono conservati in belle custodie di cuoio inciso con borchie e fermagli d’argento imitanti quelli dei messali. La varietà della tecnica è ingegnosissima. Certi disegni, dal Rembrandt, sono eseguiti su una specie di carta un po’ rossastra, riscaldata con matita sanguigna, acquerellata con bistro; e le luci son rilevate con bianco a tempera. Certi altri disegni, dai maestri fiamminghi, sono eseguiti su una carta rugosa molto simile alla carta preparata per la pittura a olio, dove l’acquerello di bistro prende il carattere delli schizzi a bitume. Altri sono a matita sanguigna, a matita nera, a tre matite con qualche tocco di pastello, acquerellati con bistro su tratti a penna, acquerellati con inchiostro di China, su carta bianca, su carta gialla, su carta grigia. Talvolta la matita sanguigna par che contenga porpora; la matita nera dà un segno vellutato; il bistro è caldo, fulvo, biondo, d’un color di tartaruga fina.

Tutte queste particolarità le ho dal disegnatore; provo uno strano piacere a ricordarle, a scriverle; mi par d’essere inebriata di arte; ho il cervello pieno di mille linee, di mille figure; e in mezzo al tumulto confuso vedo pur sempre le donne dei Primitivi, le indimenticabili teste delle Sante e delle Vergini, quelle che sorridevano alla mia infanzia religiosa, nella vecchia Siena, dai freschi di Taddeo e di Simone.

Nessun capolavoro d’un’arte più avanzata e più raffinata lascia nell’animo un’impressione così forte, così durevole, così tenace. Quei lunghi corpi snelli come steli di gigli; quei colli sottili e reclinati; quelle fronti convesse e sporgenti; quelle bocche piene di sofferenza e di affabilità; quelle mani (o Memling!) affilate, ceree, diafane come un’ostia, più significative di qualunque altro lineamento; e quei capelli rossi come il rame, fulvi come l’oro, biondi come il miele, quasi distinti a uno a uno dalla religiosa pazienza del pennello; e tutte quelle attitudini nobili e gravi o nel ricevere un fiore da un angelo o nel posar le dita sopra un libro aperto o nel chinarsi verso l’infante o nel sostener su’ ginocchi il corpo di Gesù o nel benedire o nell’agonizzare o nell’ascendere al Paradiso, tutte quelle cose pure, sincere e profonde inteneriscono e impietosiscono fin nell’intimo spirito; e s’imprimono per sempre nella memoria, come uno spettacolo di tristezza umana veduto nella realità della vita, nella realità della morte.

A una a una, oggi, passavano le donne dei Primitivi, sotto i nostri occhi. Io e Francesca eravamo sedute in un divano basso, avendo d’innanzi a noi un gran leggío sul quale posava la custodia di cuoio con i disegni che il disegnatore, seduto incontro, svolgeva lentamente, comentando. Ad ogni tratto, io vedevo la sua mano prendere il foglio e posarlo su l’altra faccia della custodia con una delicatezza singolare. Perchè, ad ogni tratto, sentivo dentro di me un principio di brivido come se quella mano stesse per toccarmi?

A un certo punto, trovando forse incomoda la sedia, egli s’è messo in ginocchio sul tappeto e ha seguitato a svolgere. Parlando, si dirigeva quasi sempre a me; e non aveva l’aria di ammaestrarmi ma di ragionare con una egual conoscitrice; e in fondo a me si moveva un poco di compiacenza, mista di riconoscenza. Quando io faceva una esclamazione di meraviglia, egli mi guardava con un sorriso che ancora ho presente e che non so definire. Due o tre volte Francesca ha appoggiato il braccio su la spalla di lui, con familiarità, senza badarci. Vedendo la testa del primogenito di Mosè, presa dal fresco di Sandro Botticelli nella Cappella Sistina, ella ha detto: ― Ha un po’ della tua aria, quando sei malinconico. ― Vedendo la testa dell’arcangelo Michele, che è un frammento della Madonna di Pavia, del Perugino, ella ha detto: ― Somiglia Giulia Moceto; è vero? ― Egli non ha risposto e ha voltato il foglio con minor lentezza. Allora ella ha soggiunto, ridendo: ― Lungi le imagini del peccato!

Questa Giulia Moceto è forse una donna che un tempo egli amò? Voltato il foglio, ho provato un incomprensibile desiderio di rivedere l’arcangelo Michele, di esaminarlo con maggiore attenzione. Era curiosità soltanto?

Io non so. Non oso guardarmi dentro, nel segreto; amo meglio indugiare, ingannando me stessa; non penso che o prima o poi tutte le terre vaghe cadono in dominio del Nemico; non ho il coraggio di affrontare la lotta; son pusillanime.

Intanto, l’ora è dolce. Ho una imaginosa eccitazione intellettuale, come se avessi bevute molte tazze di tè forte. Non ho nessuna volontà di coricarmi. La notte è tiepidissima, come in agosto; il cielo è chiaro ma velato, simile a un tessuto di perle; il mare ha una respirazione lenta e sommessa, ma le fontane riempiono le pause. La loggia m’attira. Sogniamo un poco! Quali sogni?

Gli occhi delle Vergini e delle Sante mi perseguitano. Vedo ancora quegli occhi cavi, lunghi e stretti, con le palpebre abbassate, di sotto a cui guardano con uno sguardo affascinante, mite come quel d’una colomba, un po’ obliquo come quel d’una serpe. “Sii semplice come la colomba e prudente come la serpe„ ha detto Gesú Cristo.

Sii prudente. Prega, córicati e dormi. 21 settembre. ― Ahimè, bisogna pur sempre ricominciar l’opera dura, risalire l’erta già salita, riconquistare il suolo già conquistato ricombattere la battaglia già vinta!

22 settembre. ― Egli mi ha donato un suo libro di poesia, La Favola d’Ermafrodito, il ventunesimo dei venticinque soli esemplari, tirato su pergamena, con due prove del frontispizio avanti lettera.

È una singolare opera, ove si chiude un senso misterioso e profondo, sebbene l’elemento musicale prevalga trascinando lo spirito in una magia inaudita di suoni e avvolgendo i pensieri; che splendono come una polvere d’oro e di diamante in un fiume limpido.

I cori dei Centauri, delle Sirene e delle Sfingi dánno un turbamento indefinibile, svegliano nell’orecchio e nell’anima una inquietudine e una curiosità non appagate, prodotte dal continuo contrasto d’un sentimento duplice, d’una aspirazione duplice, della natura umana e della natura bestiale. Ma con qual purezza, e come visibile, l’ideal forma dell’Androgine si delinea tra gli agitati cori dei mostri! Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data della bellezza un’impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono intensi.

Egli mi conquista l’intelletto e l’anima, ogni giorno più, ogni ora più, senza tregua, contro la mia volontà, contro la mia resistenza. Le sue parole, i suoi sguardi, i suoi gesti, i suoi minimi moti entrano nel mio cuore.


23 settembre. ― Quando parliamo insieme, talvolta io sento che la sua voce è come l’eco dell’anima mia.

Accade talvolta che io mi senta spingere da un subitaneo fascino, da un’attrazione cieca, da una violenza irragionevole, verso una frase, verso una parola che potrebbe rivelare la mia debolezza. Mi salvo per prodigio; e viene allora un intervallo di silenzio, nel quale io sono agitata da un terribile tremito interiore. Se riprendo a parlare, io dico una cosa frivola e insignificante, con un tono leggero; ma mi pare che una fiamma mi corra sotto la pelle del viso, quasi ch’io sia per arrossire. S’egli cogliesse quell’attimo per guardarmi risolutamente negli occhi, sarei perduta.

Ho suonato molta musica, di Sebastiano Bach e di Roberto Schumann. Egli stava seduto, come quella sera, alla mia destra, un poco indietro, su la poltrona di cuojo. Di tratto in tratto, alla fine d’ogni pezzo, egli si levava e, chino alle mie spalle, sfogliava il libro per indicarmi un’altra Fuga, un altro Intermezzo, un altro Improvviso. Quindi si metteva di nuovo a sedere; ed ascoltava, senza muoversi, profondamente assorto, con gli occhi fissi sopra di me, facendomi sentire la sua presenza.

Intendeva egli quanto di mio, del mio pensiero, della mia tristezza, del mio essere intimo, passava nella musica altrui?

“Musica, ― chiave d’argento che apri la fontana delle lacrime, ove lo spirito beve finchè la mente si smarrisce; soavissima tomba di mille timori, ove la loro madre, l’Inquietudine, simile a un fanciullo che dorma, giace sopita ne’ fiori...„ SHELLEY.

La notte è minacciosa. Un vento caldo e umido soffia nel giardino; e il fremito cupo si prolunga nell’oscurità, poi cade, poi ricomincia più forte. Le vette dei cipressi oscillano sotto un cielo quasi nero, dove le stelle appajono semispente. Una striscia di nuvole attraversa lo spazio, dall’uno all’altro orizzonte, frastagliata, contorta, più nera del cielo, simile alla capigliatura tragica di una Medusa. Il mare nell’oscurità è invisibile; ma singhiozza, come un immenso e inconsolabile dolore, solo.

Che è mai questo sbigottimento? Mi sembra che la notte mi ammonisca d’una sciagura prossima e che all’ammonizione risponda in fondo a me un rimorso indefinito. Il Preludio di Sebastiano Bach ancora m’incalza; si mesce nell’anima mia con il fremito del vento e con il singhiozzo del mare.

Non piangeva, dianzi, qualche cosa di me in quelle note?

Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall’angoscia; qualcuno piangeva, gemeva, chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l’aiuto, pregava con una preghiera che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed era esaudito; riceveva la luce dall’alto, gittava gridi d’allegrezza, stringeva alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore. Sempre, mia figlia mi conforta; e mi guarisce da ogni febbre; come un balsamo sublime.

Ella dorme, nell’ombra rischiarata dalla lampada che è mite come una luna. La sua faccia, bianca della fresca bianchezza d’una rosa bianca, quasi si sprofonda nell’abbondanza de’ capelli oscuri. Pare che il fino tessuto delle sue palpebre appena appena riesca a nascondere nell’interno gli occhi luminosi. Io mi piego su lei, la riguardo; e tutte le voci della notte si estinguono, per me; e il silenzio per me non è misurato che dalla respirazione ritmica della sua vita.

Ella sente la vicinanza della madre. Leva un braccio e lo lascia ricadere; sorride dalla bocca che si schiude come un fiore perlifero; e per un istante tra i cigli appare uno splendore simile all’umido splendore argenteo della polpa d’un asfodelo. Come più la contemplo, diventa alla mia vista una creatura immateriale, un essere formato dell’elemento as dreams are made on.

Perchè, a dare un’idea della sua bellezza e della sua spiritualità, sorgono spontanee nella memoria imagini e parole di Guglielmo Shakespeare, di questo possente selvaggio atroce poeta che ha così melliflue labbra?

Ella crescerà, nutrita e avvolta dalla fiamma del mio amore, mio grande unico amore....

Oh Desdemona, Ofelia, Cordelia, Giulietta! Oh Titania! Oh Miranda!

24 settembre. ― Io non so prendere una risoluzione, non so fare un proposito. Io mi abbandono un poco a questo nuovissimo sentimento, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano, chiudendo gli orecchi alle ammonizioni savie della conscienza, con il trepidante ardire di chi, per cogliere le violette, s’avventura su l’orlo d’un abisso in fondo a cui rugge un fiume vorace.

Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua. Le Anime saliranno insieme, un breve tratto, su per le colline dell’Ideale, beveranno qualche sorso alle fonti perenni; quindi ciascuna riprenderà la sua via, con maggior confidenza, con minor sete.

Che tranquillità nell’aria, dopo il mezzogiorno! Il mare ha il color bianco azzurrognolo latteo d’un opale, d’un vetro di Murano: ed è qua e là come un cristallo appannato da un alito.

Leggo Percy Shelley, un poeta ch’egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli Spiriti. È notte. Questa allegoria mi si leva d’innanzi visibile.

“Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. In torno imperversa una perpetua guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s’affollano nella fenditura d’una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E molti passano con passo incurante, d’innanzi a quel portico, non sapendo che un’ombra segue i vestigi d’ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso, si fermano a riguardare. Sono costoro in esilissimo numero; ed ivi ben poco apprendono, se non che ombre li seguono ovunque eglino vadano.„

Dietro di me, così da presso che quasi mi tocca, è l’Ombra. Io la sento, che mi guarda; allo stesso modo che jeri, sonando, sentivo lo sguardo di lui, senza vederlo.

25 settembre. ― Mio Dio, mio Dio!

Quando egli mi ha chiamata, con quella voce, con quel tremito, io ho creduto che il cuore mi si fosse disciolto nel petto e ch’io fossi per venir meno. ― Voi non saprete mai ― egli ha detto ― non saprete mai fino a qual punto la mia anima è vostra.

Eravamo nel viale delle fontane. Io ascoltavo le acque. Non ho visto più nulla; non ho udito più nulla; m’è parso che tutte le cose si allontanassero e che il suolo si affondasse e che si dileguasse con loro la mia vita. Ho fatto uno sforzo sovrumano; e m’è venuto alle labbra il nome di Delfina, e m’è venuto un impeto folle di correre a lei, di fuggire, di salvarmi. Ho gridato tre volte quel nome. Negli intervalli, il mio cuore non palpitava, i miei polsi non battevano, dalla mia bocca non usciva il respiro...

26 settembre.― È vero? Non è un inganno del mio spirito fuorviato? Ma perchè l’ora di ieri mi par così lontana, così irreale?

Egli parlò, di nuovo, a lungo, standomi vicino, mentre io camminava sotto gli alberi, trasognata. Sotto quali alberi? Era come s’io camminassi nelle vie segrete dell’anima mia, tra fiori nati dall’anima mia, ascoltando le parole d’uno Spirito invisibile che un tempo si fosse nutrito dell’anima mia.

Odo ancora le parole soavi e tremende.

Egli diceva: ― Io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere in una piccola parte del vostro cuore...

Diceva: ― ... fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere, per sempre, fino alla morte...

Diceva: ― La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra...

― La sola presenza vostra visibile bastava a darmi l’ebrezza. Io la sentiva fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano...

27 settembre. ― Quando, sul limite del bosco, egli colse questo fiore e me l’offerse, non lo chiamai Vita della mia vita?

Quando ripassammo pel viale delle fontane, d’innanzi a quella fontana, dove egli prima aveva parlato, non lo chiamai Vita della mia vita?

Quando tolse la ghirlanda dall’Erma e la rese a mia figlia, non mi fece intendere che la Donna inalzata ne’ versi era già decaduta e che io sola, io sola ero la sua speranza? Ed io non lo chiamai Vita della mia vita?

28 settembre. ― Com’è stato lungo a venire, il raccoglimento!

In tante ore, dopo quell’ora, ho lottato, ho penato per rientrar nella mia vera conscienza, per veder le cose nella vera luce, per giudicare l’accaduto con fermo e calmo giudizio, per risolvere, per decidere, per riconoscere il dovere. Io sfuggivo a me stessa; la mente si smarriva; la volontà si ripiegava; ogni sforzo era vano. Quasi per istinto, evitavo di rimaner sola con lui, mi tenevo sempre vicina a Francesca e a mia figlia, o rimanevo qui nella stanza, come in un rifugio. Quando i miei occhi s’incontravano con i suoi, mi pareva di legger ne’ suoi una profonda e supplichevole tristezza. Non sa egli quanto, quanto, quanto io l’ami?

Non lo sa; non lo saprà mai. Così voglio. Debbo così. Coraggio!

Mio Signore, aiutatemi voi.

29 settembre. ― Perchè ha parlato? Perchè ha voluto rompere l’incanto del silenzio ove l’anima mia si cullava senza quasi rimorso e senza quasi paura? Perchè ha voluto strappare i veli vaghi dell’incertezza e mettermi in conspetto del suo amore svelato? Ormai non posso più indugiare, non posso più illudermi, nè concedermi una mollezza, nè abbandonarmi a un languore. Il pericolo è là, certo, aperto, manifesto; e m’attira con la vertigine, come un abisso. Un attimo di languore, di mollezza, e io sono perduta.

Io mi domando: ― È un dolor sincero il mio, è un sincero rammarico, per quella rivelazione inattesa? Perchè penso sempre a quelle parole? E perchè, quando le ripeto in me stessa, un’onda ineffabile di voluttà mi attraversa? E perchè un brivido mi corre per tutte le midolle, se imagino che potrei udire altre parole, altre parole ancora?

Un verso di Guglielmo Shakespeare, nel As you like it:


Who ever lov’d, that lov’d not at first sight?


Notte. ― I moti del mio spirito prendono forma d’interrogazioni, di enigmi. Io interrogo di continuo me stessa e non rispondo mai. Non ho avuto il coraggio di guardar proprio in fondo, di conoscere con esattezza il mio stato, di prendere una risoluzione veramente forte e leale. Io sono pusillanime, io sono vile; ho paura del dolore, voglio soffrire il meno possibile; voglio ancora ondeggiare, temporeggiare, palliare, salvarmi con sotterfugi, nascondermi, invece d’affrontare a viso aperto la battaglia decisiva.

Il fatto è questo: che io temo di rimaner sola con lui, d’aver con lui un colloquio grave, e che la mia vita qui è ridotta una continuazione di piccole astuzie, di piccoli ripieghi, di piccoli pretesti per evitare la sua compagnia. L’artificio è indegno di me. O voglio assolutamente rinunziare a questo amore; ed egli udrà la mia parola triste ma ferma. O voglio accettarlo, nella sua purità; ed egli avrà il mio consenso spirituale.

Ora, io mi domando: ― Che voglio? Quale scelgo delle due vie? Rinunziare? Accettare?

Mio Dio, mio Dio, rispondete voi per me, illuminatemi voi!

Rinunziare è omai come strappar con le mie unghie una parte viva del mio cuore. L’angoscia sarà suprema, lo spasimo passerà i limiti d’ogni sofferenza; ma l’eroismo, per la grazia di Dio, verrà coronato dalla rassegnazione, verrà premiato dalla divina dolcezza che segue ogni forte elevazion morale, ogni trionfo dell’anima su la paura di soffrire.

Rinunzierò. Mia figlia manterrà il possesso di tutto tutto il mio essere, di tutta tutta la mia vita. Questo è il dovere.


“Ara con pianti, anima dolorosa,
per mietere con canti d’allegrezza!„


30 settembre. ― Scrivendo queste pagine, mi sento un poco più calma: riacquisto, almeno momentaneamente, un poco di equilibrio e considero con maggior lucidità il mio infortunio e mi par che il cuore si alleggerisca come dopo una confessione.

Oh, s’io potessi confessarmi! S’io potessi chiedere consiglio e ajuto al mio vecchio amico, al mio vecchio consolatore!

In queste turbolenze, mi sostiene più d’ogni altra cosa il pensiero ch’io rivedrò fra pochi giorni Don Luigi e che gli parlerò e che gli mostrerò tutte le mie piaghe, e gli scoprirò tutte le mie paure e gli chiederò un balsamo per tutti i miei mali, come un tempo; come quando la sua parola mite e profonda chiamava lacrime di tenerezza su’ miei occhi che ancora non conoscevano il sale amaro d’altre lacrime o l’arsione, ben più terribile, dell’aridità.

Mi comprenderà egli ancora? Comprenderà le oscure angosce della donna allo stesso modo che comprendeva le malinconie della fanciulla indefinite e fugaci? Rivedrò inchinarsi verso di me, in atto di misericordia e di compatimento, la sua bella fronte incoronata di capelli bianchi, illuminata di santità, pura come l’ostia nel ciborio, benedetta dalla mano del Signore?

Ho sonato, su l’organo della cappella, musica di Sebastiano Bach e del Cherubini, dopo la messa. Ho sonato il preludio dell’altra sera.

Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall’angoscia; qualcuno piangeva, gemeva, chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l’aiuto, pregava con una preghiera che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed era esaudito; riceveva la luce dall’alto, gittava gridi d’allegrezza, stringeva alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore.

Quest’organo non è grande, la cappella non è grande; eppure la mia anima s’è dilatata come in una basilica, s’è inalzata come in una cupola immensa, ha toccato il culmine dell’aguglia ideale ove splende il segno dei segni, nell’azzurro paradisiaco, nell’etere sublime.

Io penso ai massimi organi delle cattedrali massime, a quelli di Amburgo, di Strasburgo, di Siviglia, della badia di Weingarten, della badia di Subiaco, dei Benedettini in Catania, di Montecassino, di San Dionigi. Qual voce, qual coro di voci, qual moltitudine di grida e di preghiere, qual canto e qual pianto di popoli eguaglia la terribilità e la soavità di questo prodigioso istrumento cristiano che può riunire in sè tutte le intonazioni da orecchio umano percettibili e le impercettibili ancora?

Io sogno: ― un Duomo solitario, immerso nell’ombra, misterioso, nudo, simile alla profondità d’un cratere spento che riceva dall’alto una luce siderale; e un’Anima ebra d’amore, ardente come quella di san Paolo, dolce come quella di san Giovanni, molteplice come mille anime in una, bisognosa d’esalar la sua ebrietà in una voce sopraumana; e un organo vasto come una foresta di legno e di metallo, che, come quel di San Sulpizio, abbia cinque tastiere, venti pedali, cento otto registri, più di settemila canne, tutti i suoni.

Notte. ― Invano! Invano! Nessuna cosa mi calma; nessuna cosa mi dà un’ora, un minuto, un attimo di oblio; nessuna cosa mai mi guarirà; nessun sogno della mia mente cancellerà il sogno del mio cuore. Invano!

La mia angoscia è mortale. Io sento che il mio male è incurabile; il cuore mi duole come se proprio me l’avessero stretto, me l’avessero premuto, me l’avessero guasto per sempre; il dolore morale è così intenso che si cangia in dolore fisico, in uno spasimo atroce, insostenibile. Io sono esaltata, lo so; io sono in preda a una specie di follia; e non posso vincermi, non posso contenermi, non posso riprendere la mia ragione; non posso, non posso.

Questo è dunque l’amore?

Egli e partito stamani, a cavallo, con un servo, senza ch’io l’abbia veduto. La mia mattina è passata quasi tutta nella cappella. Per l’ora della colazione egli non è ritornato. La sua assenza mi faceva soffrire così ch’io era stupita dell’acutezza di quel soffrire. Son venuta qui nella stanza; per diminuir la pena, ho scritta una pagina del Giornale, una pagina religiosa, riscaldandomi al ricordo della mia fede matutina; poi ho letto qualche brano dell'Epipsychidion di Percy Shelley; poi son discesa nel parco a cercar di mia figlia. In tutti questi atti, il pensiero vivo di lui mi teneva, mi occupava, mi tormentava senza tregua.

Quando ho riudita la sua voce, io era sulla prima terrazza. Egli parlava con Francesca, sul vestibolo. Francesca s’è affacciata, chiamandomi dall’alto: ― Vieni su.

Risalendo la scala, sentivo che le ginocchia mi si piegavano. Salutandomi, egli mi ha tesa la mano; e deve aver notato il tremito della mia perchè ho visto qualche cosa passargli nello sguardo, rapidamente. Ci siamo seduti su le lunghe sedie di paglia, nel vestibolo, rivolti al mare. Egli ha detto d’essere molto stanco; e s’è messo a fumare, raccontando la sua cavalcata. Era giunto sino a Vicomìle, dove aveva fatto una sosta.

― Vicomìle ― ha detto ― possiede tre meraviglie: una pineta, una torre, e un ostensorio del Quattrocento. Figuratevi una pineta tra il mare e il colle, tutta piena di stagni che moltiplicano il bosco all’infinito; un campanile di stil lombardo barbaro, che risale certo al XI secolo, uno stelo di pietra carico di sirene, di paoni, di serpenti, di Chimere, d'ippogrifi, di mille mostri e di mille fiori; e un ostensorio d’argento dorato, smaltato, intagliato e cesellato, di foggia gotico―bizantina con un presentimento della Rinascenza, opera del Gallucci, artefice quasi ignoto, ch’è un gran precursore di Benvenuto....

Egli si rivolgeva a me, parlando. È strano come io ricordo esattamente tutte le sue parole. Potrei scrivere per intera la sua conversazione, con le particolarità più insignificanti e minute; se ci fosse un mezzo, potrei riprodurre ogni modulazione della sua voce.

Egli ci ha mostrato due o tre piccoli disegni a matita, sul suo taccuino. Poi ha seguitato a parlare delle meraviglie di Vicomìle, con quel calore ch’egli ha quando parla di cose belle, con quell’entusiasmo d’arte, ch’è una delle sue più alte seduzioni.

― Ho promesso al Canonico che sarei tornato domenica. Andremo; è vero, Francesca? Bisogna che Donna Maria conosca Vicomìle.

Oh, il mio nome su la sua bocca! Se ci fosse un modo, potrei riprodurre esattamente l’attitudine, l’apertura delle sue labbra nel profferire ciascuna sillaba delle due parole: ― Donna Maria. ― Ma non mai potrei esprimere la mia sensazione; non potrei mai ridire tutto ciò che di sconosciuto, d’inopinato, d’insospettato si va risvegliando nel mio essere alla presenza di quell’uomo.

Siamo rimasti là seduti, fino all’ora del pranzo. Francesca pareva, contro il suo solito, un poco malinconica. A un certo punto, il silenzio è caduto su noi, gravemente. Ma tra lui e me è incominciato un di que’ colloqui di silenzio, ove l’anima esala l’Ineffabile e intende il murmure dei pensieri. Egli mi diceva cose che mi facevano languir di dolcezza sopra il cuscino: cose che la sua bocca non potrà mai ripetermi e il mio orecchio non potrà mai udire.

D’innanzi, i cipressi immobili, leggeri alla vista quasi fossero immersi in un etere sublimante, accesi dal sole, parevano portare una fiamma alla sommità, come i torchi votivi. Il mare aveva il color verde d’una foglia d’aloe, e qua e là il color mavì d’una turchina liquefatta: una indescrivibile delicatezza di pallori, una diffusion di luce angelicata, ove ogni vela dava imagine d’un angelo che nuotasse. E la concordia dei profumi illanguiditi dall’Autunno era come lo spirito e il sentimento di quello spettacolo pomeridiano.

Oh morte serena di settembre!

Anche questo mese è finito, è perduto, è caduto nell’abisso. Addio.

Una tristezza immensa mi opprime. Quanta parte di me porta seco questa parte di tempo! Ho vissuto più in quindici giorni che in quindici anni; e mi sembra che nessuna delle mie lunghe settimane di dolore eguagli in acutezza di spasimo questa breve settimana di passione. Il cuore mi duole; la testa mi si perde; una cosa oscura e bruciante è in fondo a me, una cosa ch’è apparsa d’improvviso come un’infezione di morbo e che incomincia a contaminarmi il sangue e l’anima, contro ogni volontà, contro ogni rimedio: il Desiderio.

Io n’ho vergogna e raccapriccio, come d’un disonore, come d’un sacrilegio, come d’una violazione; io n’ho una paura disperata e folle, come d’un nemico fraudolento che a penetrar nella cittadella conosca vie da me stessa non conosciute.

E intanto io veglio, nella notte; e, scrivendo questa pagina nell’orgasmo in cui gli amanti scrivono le loro lettere d’amore, non odo il respiro di mia figlia che dorme. Ella dorme in pace; ella non sa quanto l’anima della madre sia lontana....

1 ottobre. ― I miei occhi vedono in lui quel che prima non vedevano. Quando egli parla, io guardo la sua bocca; e l’attitudine e il colore delle labbra mi occupano più che il suono e il significato delle parole.

2 ottobre. ― Oggi è sabato: oggi è l’ottavo giorno dal giorno indimenticabile: ― 25 SETTEMBRE 1886.

Per un caso singolare, sebbene io ora non eviti di trovarmi sola con lui, sebbene anzi io desideri che venga il momento terribile ed eroico; per un caso singolare, il momento non è venuto.

Francesca è rimasta sempre con me, oggi. Stamani abbiamo fatto una cavalcata per la via di Rovigliano. E abbiamo passato il pomeriggio quasi tutto al pianoforte. Ella ha voluto ch’io le sonassi alcune danze del XVI secolo, poi la Sonata in fa diesis minore e la celebre Toccata di Muzio Clementi, poi due o tre Capricci di Domenico Scarlatti; e ha voluto ch’io le cantassi alcune parti dei Frauenliebe di Roberto Schumann. Che contrasti!

Francesca non è più gaja, come una volta, com’era anche ai primi giorni della mia dimora qui. Spesso, ella è pensosa; quando ride, quando scherza, la sua gajezza mi sembra artificiale. Le ho chiesto: ― Hai qualche pensiero che ti tormenta? ― Ella mi ha risposto, mostrando di meravigliarsi: ― Perchè? Io ho soggiunto: ― Ti vedo un po’ triste. ― Ed ella: ― Triste? Oh no; t’inganni. ― Ed ha riso, ma d’un riso involontariamente amaro.

Questa cosa mi affligge e mi dà una inquietudine vaga.

Andremo dunque domani a Vicomìle, dopo mezzogiorno. Egli mi ha domandato:— Avreste forza di venire a cavallo? A cavallo potremmo traversare tutta la pineta...

Poi anche mi ha detto:— Rileggete, tra le liriche dello Shelley a Jane, la Recollection.

Dunque andremo a cavallo; verrà a cavallo anche Francesca. Gli altri, compresa Delfina, verranno in mail-coach.

In che disposizion di spirito strana mi trovo io stasera! Ho come un’ira sorda e acre in fondo al cuore, e non so perchè; ho come una insofferenza di me e della mia vita e di tutto. L’eccitazion nervosa è così forte che mi prende di tratto in tratto un pazzo impeto di gridare, di ficcarmi le unghie nella carne, di rompermi le dita contro la parete, di provocare un qualunque spasimo materiale per sottrarmi a questo insopportabile malessere interiore, a questo insopportabile affanno. Mi par d’avere un nodo di fuoco a sommo del petto, la gola chiusa da un singhiozzo che non vuole uscire, la testa vacua, ora fredda ora ardente; e di tratto in tratto mi sento attraversare da una specie d’ansietà subitanea, da uno sbigottimento irragionevole che non riesco a respingere mai nè a reprimere. E, a volte, a traverso il mio cervello guizzano imagini e pensieri involontarii che sorgono chi sa da quali profondità dell’essere: imagini e pensieri indegni. E languo e vengo meno, come una che sia immersa in un amore allacciante; e pur tuttavia non è un piacere, non è un piacere!


3 ottobre. ― Com’è debole e misera l’anima nostra, senza difesa contro i risvegli e gli assalti di quanto men nobile e men puro dorme nella oscurità della nostra vita inconsciente, nell’abisso inesplorato ove i ciechi sogni nascono dalle cieche sensazioni!

Un sogno può avvelenare un’anima; un sol pensiero involontario può corrompere una volontà.

Andiamo a Vicomìle. Delfina è in letizia. La giornata è religiosa. Oggi è la festa di Maria Vergine del Rosario. Coraggio, anima mia!


4 ottobre. ― Nessun coraggio.

La giornata di jeri fu per me così piena di piccoli episodii e di grandi commozioni, così lieta e così triste, così stranamente agitata che io mi smarrisco nel ricordarla. E già tutti tutti gli altri ricordi impallidiscono e si dileguano innanzi ad un solo. Dopo aver visitata la torre ed avere ammirato l’ostensorio, ci accingemmo a ripartir da Vicomìle verso le cinque e mezzo. Francesca era stanca; e le piacque, più tosto che rimontare a cavallo, tornar col mail-coach. Noi seguimmo per un tratto, cavalcando ora in dietro ora ai lati. Di sul legno, Delfina e Muriella agitavano verso noi lunghe canne fiorite e ridevano minacciandoci con i bei pennacchi violacei.

Era una sera tranquillissima, senza vento. Il sole stava per cadere dietro il colle di Rovigliano, in un cielo tutto rosato come un cielo dell’estremo Oriente. Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza d’una nevata in un’aurora. Quando il sole scomparve, le rose si moltiplicarono, si diffusero fin quasi all’orizzonte opposto, perdendosi, sciogliendosi in un azzurro chiarissimo, in un azzurro argentino, indefinibile, simile a quello che s’incurva su le cime delle montagne coperte di ghiacci.

Era egli che di tratto in tratto mi diceva: ― Guardate la torre di Vicomìle. Guardate la cupola di San Consalvo....

Quando la pineta fu in vista, egli mi chiese: ― Attraversiamo?

La strada maestra costeggiava il bosco, descrivendo una larga curva e avvicinandosi al mare, fin quasi sul lido, nella sommità dell’arco. Il bosco appariva già tutto cupo, d’un verde tenebroso, come se l’ombra si fosse accumulata su le chiome degli alberi lasciando ancor limpida l’aria superiore; ma, per entro, gli stagni risplendevano d’una luce intensa e profonda, come frammenti d’un cielo assai più puro di quello che si diffondeva sul nostro capo.

Senza aspettare la mia risposta, egli disse a Francesca:

― Noi attraversiamo la pineta. Ci ritroveremo su la strada, al ponte del Convito, dall’altra parte.

E trattenne il cavallo.

Perchè acconsentii? Perchè entrai con lui? Io aveva nelli occhi una specie di abbagliamento; mi pareva d’essere sotto l’influenza d’una fascinazione confusa; mi pareva che quel paesaggio, quella luce, quel fatto, tutta quella combinazione di circostanze non fossero per me nuovi ma già un tempo esistiti, quasi direi in una mia esistenza anteriore, ed ora riesistenti.... L’impressione è inesprimibile. Mi pareva dunque che quell’ora, che quei momenti, essendo stati già da me vissuti, non si svolgessero fuori di me, indipendenti da me, ma mi appartenessero, ma avessero con la mia persona un legame naturale e indissolubile così ch’io non potessi sottrarmi a riviverli in quel dato modo ma dovessi anzi necessariamente riviverli. Io aveva chiarissimo il sentimento di questa necessità. L’inerzia della mia volontà era assoluta. Era come quando un fatto della vita ritorna in un sogno con qualche cosa di più della verità, e di diverso dalla verità. Non riesco nè meno a rendere una minima parte di quel fenomeno straordinario.

E una segreta rispondenza, un’affinità misteriosa era tra l’anima mia e il paesaggio. L’ imagine del bosco nelle acque degli stagni pareva in fatti l’imagine sognata della scena reale. Come nella poesia di Percy Shelley ciascuno stagno pareva essere un breve cielo che s’ingolfasse in un mondo sotterraneo; un firmamento di luce rosea, disteso su la terra oscura, più infinito dell’infinita notte e più puro del giorno; dove gli alberi si sviluppavano allo stesso modo che nell’aria superiore ma di forme e di tinte più perfetti che qualunque altro di quelli in quel luogo ondeggianti. E vedute soavi, quali non mai si videro nel nostro mondo di sopra, v’eran dipinte dall’amor dell’acque per la bella foresta; e tutta la lor profondità era penetrata d’un chiarore elisio, d’un’atmosfera senza mutamento, d’un vespro più dolce che quel di sopra.

Da che lontananza del tempo era venuta a noi quell’ora?

Andavamo al passo, nel silenzio. I rari gridi delle gazze, l’andatura e il respiro dei cavalli non turbavano la tranquillità che pareva di minuto in minuto farsi più grande e più magica.

Perchè volle egli rompere la magía da noi stessi generata?

Egli parlò; egli mi versò sul cuore un’onda di parole ardenti, folli, quasi insensate, che in quel silenzio degli alberi mi sbigottivano poichè prendevano qualche cosa di non umano, qualche cosa d’indefinibilmente strano e affascinante. Non fu umile e sommesso come nel parco; non mi disse le sue speranze timide e scorate, le sue aspirazioni quasi mistiche, le sue tristezze incurabili; non pregò, non implorò. Egli aveva la voce della passione, audace e forte; una voce ch’io non gli conosceva.

― Voi mi amate, voi mi amate, voi non potete non amarmi! Ditemi che mi amate!

Il suo cavallo camminava rasente al mio. Ed io mi sentivo da lui sfiorare; e credevo anche di sentire su la guancia il suo alito, l’ardore delle sue parole; e credevo di venir meno per il grande orgasmo e di cadergli fra le braccia.

― Ditemi che mi amate! ― egli ripeteva, ostinatamente, senza pietà. ― Ditemi che mi amate!

Nella terribile esasperazione datami dalla sua voce incalzante, io credo che dissi, non so se con un grido o con un singulto, fuori di me:

― Vi amo, vi amo, vi amo!

E spinsi il cavallo di carriera per la via a pena tracciata nella densità de’ tronchi, non sapendo che facessi.

Egli mi seguiva gridandomi:

― Maria, Maria, fermatevi! Vi farete male....

Non mi fermai; non so come il mio cavallo evitò i tronchi; non so come non caddi. Io non so ridire l’impressione che mi dava nella corsa la foresta cupa interrotta dalle larghe macchie lucenti degli stagni. Quando in fine uscii su la strada, alla parte opposta, presso il ponte del Convito, mi sembrò escire da un’allucinazione.

Egli mi disse, con un po’ di violenza:

― Volevate uccidervi?

Udimmo il romore della carrozza avvicinarsi; e movemmo in contro. Egli voleva ancora parlarmi.

― Tacete, vi prego; per pietà! ― implorai, poichè sentivo che non avrei potuto regger più oltre.

Egli tacque. Poi, con una sicurezza che mi stupì, disse a Francesca:

― Peccato che tu non sia venuta! Era un incanto....

E seguitò a parlare, francamente, semplicemente, come se nulla fosse accaduto; anzi con una certa gaiezza. E io gli ero grata della dissimulazione che pareva mi salvasse, poichè certo, se avessi dovuto io parlare, mi sarei tradita; e il silenzio d’ambedue sarebbe stato forse per Francesca sospetto.

Incominciò, dopo qualche tempo, la salita verso Schifanoja. Nella sera, che immensa malinconia! Il primo quarto della luna brillava in un ciel delicato, un po’ verde, ove i miei occhi, forse i miei occhi soltanto, vedevano ancora una lieve apparenza di roseo, del roseo che illuminava gli stagni, là giù, nella foresta.

5 ottobre. ― Egli ora sa che io l’amo; lo sa dalla mia bocca. Io non ho più scampo che nella fuga. Ecco, dove son giunta.

Quando mi guarda, ha in fondo agli occhi un luccicore singolare che prima non aveva. Oggi, in un minuto in cui Francesca non era presente, mi ha presa la mano facendo l’atto di baciarmela. Io son riuscita a ritrarla; ed ho visto le sue labbra agitate da un piccolo tremito; ho sorpreso su le sue labbra, in un attimo, quasi direi la figura del bacio non iscoccato, un’attitudine che m’è rimasta nella memoria e non mi va più via, non mi va più via!

6 ottobre. ― Il 25 di settembre, sul sedile di marmo, nel bosco degli álbatri, egli mi disse: ― Io so che voi non mi amate e non potete amarmi. ― E il 3 di ottobre: ― Voi mi amate, voi mi amate, voi non potete non amarmi.

In presenza di Francesca, m’ha chiesto se gli permettevo di fare uno studio delle mie mani. Ho consentito. Incomincerà oggi.

E io sono trepidante e ansiosa, come se dovessi prestar le mie mani a una tortura sconosciuta.


Notte. ― È incominciata la lenta, soave, indefinibile tortura.

Disegnava a matita nera e a matita sanguigna. La mia mano destra posava sopra un pezzo di velluto. Sul tavolo era un vaso coreano, giallastro e maculato come la pelle d’un pitone; e nel vaso era un mazzo d’orchidee, di quei fiori grotteschi e multiformi che son la ricercata curiosità di Francesca. Talune, verdi, di quel verde, dirò così, animale che hanno certe locuste, pendevano in forma di piccole urne etrusche, con il coperchio un po’ sollevato. Altre portavano in cima a uno stelo d’argento un fiore a cinque petali con in mezzo un calicetto, giallo di dentro e bianco di fuori. Altre portavano una piccola ampolla violacea e ai lati dell’ampolla due lunghi filamenti; e facevano pensare a un qualche minuscolo re delle favole, assai gozzuto, con la barba divisa in due trecce alla foggia orientale. Altre in fine portavano una quantità di fiori gialli, simili ad angelette in veste lunga librate a volo con le braccia alte e con l’aureola dietro il capo.

Io le guardava, quando mi pareva di non poter più sostenere il supplizio; e le loro forme rare mi occupavano un istante, mi suscitavano un ricordo fuggevole de’ paesi originali, mi mettevano nello spirito non so che momentaneo smarrimento. Egli disegnava, senza parlare; i suoi occhi andavano di continuo dalle carte alle mie mani; poi, due o tre volte, si sono rivolti al vaso. A un certo punto, levandosi egli ha detto:

― Perdonatemi.

E ha preso il vaso e l’ha portato lontano, sopra un altro tavolo; non so perchè.

Allora s’è messo a disegnare con maggior franchezza, come liberato da un fastidio.

Io non so dire quel che i suoi occhi mi facevano provare. Mi pareva di non offrire alla sua indagine una mano nuda, sì bene una parte nuda dell’anima; e ch’egli me la penetrasse con lo sguardo sino al fondo, scoprendone tutti i più riposti segreti. Non mai io aveva avuto della mia mano un tal sentimento; non mai m’era parsa così viva, così espressiva, così intimamente legata al mio cuore, così dipendente dalla mia interna esistenza, così rivelatrice. Me l’agitava una vibrazione impercettibile ma continua, sotto l’influenza dello sguardo; e la vibrazione si propagava in sino all’intimo del mio essere. Talvolta il fremito diveniva più forte e visibile; e, s’egli guardava con troppa intensità, mi prendeva un moto istintivo di ritrarla; e talvolta il moto era di pudore.

Talvolta egli rimaneva lungamente fiso, senza disegnare; ed io avevo l’impressione che egli bevesse per le pupille qualche cosa di me o che mi accarezzasse con una carezza più molle del velluto sul quale si posava la mia mano. Di tratto in tratto, mentre stava chino sul foglio ad infondere forse nella linea quel ch’egli aveva da me bevuto, un sorriso lievissimo gli passava su la bocca, ma così lieve che a pena io poteva coglierlo. E quel sorriso, non so perchè, mi dava a sommo del petto un tremolìo di piacere. Ancora, due o tre volte, ho veduto riapparire su la sua bocca la figura del bacio.

Di tratto in tratto, la curiosità mi vinceva; e io domandavo: ― Ebbene?

Francesca stava seduta al pianoforte, con le spalle rivolte a noi; e toccava i tasti cercando di ricordarsi la Gavotta di Luigi Rameau, la Gavotta delle dame gialle, quella che ho tanto sonata e che rimarrà come la memoria musicale della mia villeggiatura a Schifanoja. Smorzava le note col pedale; e s’interrompeva spesso. E le interruzioni dell’aria a me familiare e delle cadenze, che l’orecchio compiva precorrendo, erano per me un’altra inquietudine. D’improvviso, ella ha battuto forte un tasto, ripetutamente, come sotto l’urto di un’impazienza nervosa; e s’è levata, ed è andata a chinarsi sul disegno.

L’ho guardata. Ho compreso.

Mancava ancora quest’amarezza. Dio mi riserbava all’ultimo la prova più crudele. Sia fatta la sua volontà.

7 ottobre. ― Io non ho che un solo pensiero, un solo desiderio, un solo proposito: partire, partire, partire.

Sono all’estremo delle forze. Io languo, io muojo del mio amore; e l’inaspettata rivelazione moltiplica le mie mortali tristezze. Che pensa ella di me? Che crede? Ella dunque lo ama? E da quando? Ed egli lo sa? O non ne ha pure un sospetto?...

Mio Dio, mio Dio! La ragione mi si smarrisce, le forze mi abbandonano; il senso della realtà mi sfugge. A intervalli il mio dolore ha una pausa, simile alle pause degli uragani quando le furie degli elementi si equilibrano in una terribile immobilità per irrompere poi con più violenza. Io rimango in una specie di stupefazione, con la testa pesante, con le membra stanche e rotte come se qualcuno mi avesse battuta; e mentre il dolore si raccoglie per darmi un nuovo assalto, io non riesco a raccogliere la mia volontà.

Che pensa ella di me? Che pensa? Che crede?

Esser disconosciuta da lei, dalla mia amica migliore, da quella che m’è più cara, da quella a cui il mio cuore fu sempre aperto! È la suprema amarezza; è la prova più crudele riserbata da Dio a chi ha fatto del sacrificio la legge della sua vita.

Bisogna che io le parli, prima di partire. Bisogna ch’ella sappia tutto da me, ch’io sappia tutto da lei. Questo è il dovere.


Notte. ― Ella, verso le cinque, m’ha proposto una passeggiata in carrozza per la via di Rovigliano. Siamo andate sole, in una carrozza scoperta. Io pensava, tremando: ― Ora le parlerò. ― Ma il tremito interno mi toglieva ogni coraggio. Aspettava ella forse che io parlassi? Non so.

Siam rimaste a lungo taciturne, ascoltando il trotto eguale de’ due cavalli, guardando gli alberi e le siepi che limitavano la via. Di tratto in tratto, con una frase breve o con un cenno, ella mi faceva notare una particolarità del paese autunnale.

Tutto l’umano incanto dell’Autunno si diffondeva in quell’ora. I raggi obliqui del vespro accendevano per la collina la sorda e armoniosa ricchezza dei fogliami prossimi a morire. Pe’l soffio costante del greco nella nuova luna, un’agonia precoce prende gli alberi delle terre litoranee. L’oro, l’ambra, il croco, il giallo di solfo, l’ocra, l’arancio, il bistro, il rame, il verdemare, l’amaranto, il paonazzo, la porpora, le tinte più disfatte, le gradazioni più violente e più delicate si mescolavano in un accordo profondo che nessuna melodia di primavera passerà mai di dolcezza.

Indicandomi un gruppo di robinie, ella ha detto: ― Guarda se non sembrano fiorite!

Già secche, biancheggiavano d’un bianco un po’ roseo, come grandi mandorli di marzo, contro il cielo turchino che già pendeva nel cinerino.

Dopo un intervallo di silenzio, ho detto io, per cominciare: ― Manuel verrà, certo, sabato. Aspetto per domani il suo telegramma. E domenica partiremo, col treno della mattina. Tu sei stata tanto buona con me, in questi giorni; io ti son tanto grata...

La voce mi tremava, un poco; una immensa tenerezza mi gonfiava il cuore. Ella m’ha presa la mano e l’ha tenuta nella sua, senza parlarmi, senza guardarmi. E siamo rimaste a lungo taciturne, tenendoci per mano.

Ella m’ha chiesto: ― Quanto tempo ti tratterrai da tua madre?

Io le ho risposto: ― Sino alla fin dell’anno, spero; e forse più.

― Tanto tempo?

Di nuovo, abbiamo taciuto. Sentivo già che non avrei avuto il coraggio di affrontare la spiegazione; ed anche sentivo ch’era men necessaria, ora. Mi pareva ch’ella ora mi si riavvicinasse, m’intendesse, mi riconoscesse, diventasse la mia sorella buona. La mia tristezza attraeva la sua tristezza, come la luna attrae le acque del mare.

― Ascolta ― ella ha detto; poichè veniva un canto di donne del paese, un canto largo, spiegato, religioso, come un canto gregoriano.

Più oltre abbiam visto le cantatrici. Escivano da un campo di girasoli secchi, camminando in fila, come una teoria sacra. E i girasoli in cima ai lunghi steli sulfurei senza foglie portavano i larghi dischi non coronati di petali nè carichi di semi, ma somiglianti nella lor nudità ad emblemi liturgici, a pallidi ostensorii d’oro.

La mia commozione è cresciuta. Il canto dietro di noi si dileguava nella sera. Abbiamo attraversato Rovigliano dove già i lumi si accendevano; poi siam di nuovo uscite nella strada maestra. Dietro di noi si dileguava il suono delle campane. Un vento umido correva nelle cime delli alberi che mettevano su la strada bianca un’ombra azzurrognola e nell’aria un’ombra direi quasi liquida come in un’acqua.

― Non hai freddo? ― ella m’ha chiesto; e ha ordinato al lacchè di spiegare un plaid e al cocchiere di voltare i cavalli pel ritorno.

Nel campanile di Rovigliano una campana rintoccava ancora, con larghi rintocchi, come per una solennità religiosa; e pareva propagare nel vento con l’onda del suono un’onda di gelo. Per un sentimento concorde, noi ci siamo strette l’una contro l’altra, tirandoci la coperta su i ginocchi, comunicandoci il brivido a vicenda. E la carrozza entrava nel borgo, al passo.

― Che sarà quella campana? ― ella ha mormorato, con una voce che non pareva più la sua.

Ho risposto: ― Se non m’inganno, esce il Viatico...

Piú oltre, infatti, abbiamo visto il prete entrare in una porta mentre un chierico teneva sollevato l’ombrello e due altri tenevano le lanterne accese, diritti contro gli stipiti, su la soglia. In quella casa una sola finestra era illuminata, la finestra del cristiano che agonizzava aspettando l’Olio Santo. Ombre tenui apparivano sul chiarore; si disegnava lievissimamente su quel rettangolo di luce gialla tutto il dramma silenzioso che si muove intorno a chi sta per entrare nella morte.

Uno de’ due servi ha chiesto a bassa voce, chinandosi un poco dall’alto: ― Chi muore? ― L’interrogato ha risposto un nome di donna, nel suo dialetto.

E io avrei voluto attenuare il romor delle ruote su i ciottoli, avrei voluto rendere tacito il nostro passaggio in quel luogo ov’era per passare il soffio d’uno spirito. Francesca, certo, aveva lo stesso sentimento.

La carrozza ha raggiunta la strada di Schifanoja, riprendendo il trotto. La luna, cerchiata di aloni, splendeva come un opale in un latte diafano. Una catena di nuvole sorgeva dal mare e si svolgeva a poco a poco in forma di globi, come un fumo volubile. Il mare mosso copriva col suo rombo tutti gli altri romori. Non mai, penso, una più grave tristezza strinse due anime.

Io ho sentito su le mie gote fredde un tepore, e mi son rivolta a Francesca per vedere s’ella si fosse accorta che piangevo. Ho incontrati i suoi occhi pieni di pianto. E siam rimaste mute, l’una accanto all’altra, con la bocca serrata, stringendoci le mani, sapendo di piangere per lui; e le lacrime scendevano a goccia a goccia, silenziosamente.

In vicinanza di Schifanoja, io ho asciugate le mie; ella, le sue. Ciascuna nascondeva la propria debolezza.

Egli era, con Delfina, con Muriella e con Ferdinando, ad attenderci nell’atrio. Perchè ho provato in fondo al cuore, verso di lui, un senso vago di diffidenza, come se un istinto mi avvertisse d’un oscuro danno? Quali dolori mi riserba l’avvenire? Potrò io sottrarmi alla passione che m’attira abbacinandomi?

Pure, quanto bene mi hanno fatto quelle poche lacrime! Mi sento meno oppressa, meno riarsa, più fidente. E provo una tenerezza indicibile nel ripetere da me sola l’Ultima Passeggiata, mentre Delfina dorme felice di tutti i folli baci che le ho dati nella faccia e mentre sorridono su’ vetri le malinconie della luna che dianzi mi ha vista piangere.


8 ottobre. ― Questa notte ho dormito? Ho vegliato? Io non so dirlo.

Oscuramente, a traverso il mio cervello, come ombre spesse, guizzavano terribili pensieri, imagini di dolore insostenibili; e il mio cuore aveva urti e sussulti improvvisi, e io mi ritrovava con gli occhi aperti nelle tenebre, senza sapere se uscivo da un sogno o se fino allora ero stata desta a pensare e a imaginare. E questa specie di dubbio dormiveglia, assai più torturante dell’insonnio durava, durava, durava.

Nondimeno, quando ho udita la voce matutina di mia figlia chiamarmi, non ho risposto; ho finto di dormire profondamente, per non levarmi, per rimanere ancora là, per temporeggiare, per allontanare ancora un poco da me l’inesorabile certezza delle realità necessarie. Le torture del pensiero e dell’imaginazione mi parevano pur sempre men crudeli delle torture imprevedibili che in questi due ultimi giorni mi prepara la vita.

Dopo poco, Delfina è venuta in punta di piedi, trattenendo il respiro, a guardarmi; e ha detto a Dorothy, con una voce mossa da un gentile tremito: ― Come dorme! Non la svegliamo.

Notte. ― Mi pare di non aver più una goccia di sangue nelle vene. Mentre salivo le scale mi pareva che, ad ogni sforzo per superare un gradino, il sangue e la vita mi fuggissero da tutte le vene aperte. Sono debole come una morente....

Coraggio, coraggio! ancora poche ore rimangono; Manuel giungerà domattina; partiremo domenica; lunedì saremo da mia madre.

Ho reso, dianzi, a lui due o tre libri che mi aveva prestati. Nel libro di Percy Shelley, alla fine d’una strofa, ho inciso con l’unghia due versi e ho messo un segnale visibile alla pagina. I versi dicono:


And forget me, for J can never
Be thine!


“E dimenticami, perchè io non posso mai esser tua!„


9 ottobre, notte. ― Tutto il giorno, tutto il giorno egli ha cercato un momento per parlarmi. La sua sofferenza era manifesta. E tutto il giorno io ho cercato di sfuggirgli, perchè egli non mi gittasse nell’anima altri semi di dolore, di desiderio, di rimpianto, di rimorso. Ho vinto; sono stata forte ed eroica. Vi ringrazio, mio Dio!

Questa è l’ultima notte. Domattina partiremo. Tutto sarà finito.

Tutto sarà finito? Una voce mi parla, nel profondo; e io non comprendo, ma so che mi parla di sciagure lontane, ignote eppure inevitabili, misteriose eppure inesecrabili come la morte. L’avvenire è lugubre, come un campo pieno di fosse già scavate e pronte per ricevere cadaveri; e sul campo qua e là ardono pallidi fanali ch’io appena scorgo; e non so se ardano per attrarmi nel pericolo o per mostrarmi una via di salvezza.

Ho riletto il Giornale, attentamente, lentamente, dal 15 di settembre, dal giorno ch’io giunsi. Quanta differenza da quella prima notte a quest’ultima!

Io scriveva: “Mi sveglierò in una casa amica, nella cordiale ospitalità di Francesca, in questa Schifanoja che ha rose così belle e cipressi così grandi; e mi sveglierò avendo innanzi a me qualche settimana di pace, venti giorni d’esistenza spirituale, forse più...„ Ahimè, dov’è andata la pace? E le rose, così belle, perchè sono state anche così perfide? Troppo, forse, ho aperto il cuore ai profumi, incominciando da quella notte, su la loggia, mentre Delfina dormiva. Ora la luna d’ottobre allaga il cielo; e io vedo a traverso i vetri le punte dei cipressi, nere e immutabili, che in quella notte toccavano le stelle.

Una sola frase di quel preludio io posso ripetere in questa fine trista. “Tanti capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel mio destino.„ Le spighe si moltiplicano, s’inalzano, ondeggiano come un mare; e non è anche estratto dalle miniere il ferro per foggiar la falce.

Io parto. Che accadrà di lui, quando io sarò lontana? Che accadrà di Francesca?

Il mutamento di Francesca è pur sempre incomprensibile, inesplicabile; è un enigma che mi tortura e mi confonde. Ella lo ama! E da quando? Ed egli lo sa?

Anima mia, confessa la nuova miseria. Un’altra infezione ti avvelena. Tu sei gelosa.

Ma io son preparata ad ogni più atroce sofferenza; io so il martirio che mi aspetta; io so che i supplizi di questi giorni non son nulla al confronto dei supplizi prossimi, della terribile croce a cui i miei pensieri legheranno l’anima mia per divorarla. Io son preparata. Chiedo soltanto una tregua, o Signore, una breve tregua per le ore che rimangono. Avrò bisogno di tutta la mia forza, domani.

Come stranamente, nelle diverse vicende della vita, talvolta le circostanze esterne si rassomigliano, si riscontrano! Stasera, nella sala del vestibolo, mi pareva d’esser tornata alla sera del 16 settembre, quando cantai e sonai; quando egli incominciò ad occuparmi. Anche stasera io sedeva al pianoforte; e la stessa luce cupa illuminava la sala e nella stanza attigua Manuel e il marchese giocavano; ed ho sonato la Gavotta delle dame gialle, quella che piace tanto a Francesca, quella che il 16 settembre udii ripetere mentre vegliavo nelle prime vaghe inquietudini notturne.

Certe dame biondette, non più giovini ma appena escite di giovinezza, vestite d’una smorta seta color d’un crisantemo giallo, la danzano con cavalieri adolescenti, vestiti di roseo, un po’ svogliati; i quali portano nel cuore l’imagine d’altre donne più belle, la fiamma d’un nuovo desio. E la danzano in una sala troppo vasta, che ha tutte le pareti coperte di specchi; la danzano sopra un pavimento intarsiato d’amaranto e di cedro, sotto un gran lampadario di cristallo dove le candele stanno per consumarsi e non si consumano mai. E le dame hanno nelle bocche un poco appassite un sorriso tenue ma inestinguibile; e i cavalieri hanno negli occhi un tedio infinito. E un oriuolo a pendolo segna sempre un’ora; e gli specchi ripetono ripetono ripetono sempre le stesse attitudini; e la Gavotta continua, continua, continua, sempre dolce, sempre piana, sempre eguale, eternamente, come una pena.

Quella malinconia m’attira.

Non so perchè, la mia anima tende a quella forma di supplizio; è sedotta dalla perpetuità d’un dolore unico, dalla uniformità, dalla monotonia. Accetterebbe volentieri per tutta la vita una gravezza enorme, ma definita e immutabile, invece della mutabilità, delle imprevedibili vicende, delle imprevedibili alternative. Pur essendo abituata alla sofferenza, ha paura dell’incerto, teme le sorprese, teme gli urti improvvisi. Senza esitare un istante, in questa notte accetterebbe qualunque più grave condanna di dolore a patto d’essere assicurata contro gli ignoti agguati dell’avvenire.

Mio Dio, mio Dio, da che mi viene una paura così cieca? Assicuratemi voi! Metto la mia anima nelle vostre mani.

E ora basta questo tristo vaneggiare che pur troppo addensa l’angoscia invece di alleviarla. Ma io so già che non potrò chiudere gli occhi sebbene mi dolgano. Egli, certo, non dorme. Quando io sono venuta su, egli, invitato, stava per prendere il posto del marchese al tavolo del giuoco, di fronte a mio marito. Giocano ancora? Forse egli pensa e soffre, giocando. Quali saranno i suoi pensieri? Quale sarà la sua sofferenza?

Non ho sonno, non ho sonno. Vado su la loggia. Voglio sapere se giocano ancora; o s’egli è tornato nelle sue stanze. Le sue finestre sono all’angolo, nel secondo piano.

La notte è lucida e umida. La sala del giuoco è illuminata; e io son rimasta là, su la loggia, lungamente, a guardare in giù verso il chiarore che si rifletteva contro un cipresso mescendosi al chiarore della luna. Tremo tutta. Io non so ridire l’impressione quasi tragica che mi fanno quelle finestre illuminate, dietro le quali i due uomini giocano, l’uno di fronte all’altro, nel gran silenzio della notte a pena interrotto dai singhiozzi spenti dal mare. E giocheranno forse fino all’alba, s’egli vorrà compiacere la terribile passione di mio marito. Saremo in tre a vegliare fino all’alba, senza requie, per la passione.

Ma che pensa egli? Qual è la sua tortura? Io non so che darei, in questo momento, per poterlo vedere, per poter restare fino all’alba a guardarlo, anche a traverso i vetri, nell’umidità della notte, tremando come tremo. I pensieri più folli mi balenano dentro e mi abbagliano, rapidi, confusi; ho come un principio di cattiva ebrezza; provo come una instigazione sorda a far qualche cosa d’audace e d’irreparabile; sento come il fascino della perdizione. Mi toglierei, sento, dal cuore questo peso enorme, mi toglierei dalla gola questo nodo che mi soffoca, se ora, nella notte, nel silenzio, con tutte le forze dell’anima io mi mettessi a gridare che l’amo, che l’amo, che l’amo.„

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