Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | VII | IX | ► |
VIII.
― Gittatemi una treccia, ch’io salga! ― gridò Andrea, ridendo, giù dal primo ripiano della scala, a Donna Maria che stava su la loggia contigua alle sue stanze, tra due colonne.
Era di mattina. Ella stava al sole per farsi asciugare i capelli umidi che l’ammantavano tutta quanta, come un velluto d’un bel violetto profondo, tra il quale appariva il pallore opaco della faccia. La tenda di tela, a metà sollevata, d’un vivo colore arancione, le metteva in sul capo il bel fregio nero del lembo nello stile de’ fregi che girano intorno gli antichi vasi greci della Campania; e, s’ella avesse avuto intorno le tempie corona di narcisi e da presso una di quelle grandi lire a nove corde che portano dipinta a encausto l’effigie d’Apollo e d’un levriere, certo sarebbe parsa un’alunna della scuola di Mitilene, una lirista lesbiaca in atto di riposo, ma quale avrebbe potuto imaginarla un prerafaelita. ― Voi gittatemi un madrigale ― rispose ella, per gioco, ritraendosi alquanto.
― Vado a scriverlo sul marmo d’un balaustro, all’ultima terrazza, in vostro onore. Venite a leggerlo, quando sarete pronta, poi.
Andrea seguitò a discendere lentamente le scale che conducevano all’ultima terrazza. In quel mattino di settembre, l’anima gli si dilatava col respiro. Il giorno aveva una specie di santità; il mare pareva risplendere di luce propria, come se ne’ fondi vivessero magiche sorgenti di raggi; tutte le cose erano penetrate di sole.
Andrea discendeva, di tratto in tratto soffermandosi. Il pensiero che Donna Maria fosse rimasta su la loggia a guardarlo gli dava un turbamento indefinito, gli metteva nel petto un palpito forte, quasi l’intimidiva, come s’ei fosse un giovinetto in sul primo amore. Provava una beatitudine ineffabile a respirare quella calda e limpida atmosfera ove respirava anch’ella, ove immergevasi anche il corpo di lei. Un’onda immensa di tenerezza gli sgorgava dal cuore spargendosi su gli alberi, su le pietre, sul mare, come su esseri amici e consapevoli. Egli era spinto come da un bisogno di adorazione sommessa, umile, pura; come da un bisogno di piegare i ginocchi e di congiungere le mani e di offerire quell’affetto vago e muto ch’egli non sapeva qual fosse. Credeva sentir venire a sè la bontà delle cose e mescersi alla sua bontà e traboccare. ― Dunque l’amo? ― si chiese; e non osò di guardar dentro e di riflettere, poichè temeva che quell’incanto delicato si dileguasse e si disperdesse come un sogno d’un’alba. ― L’amo? Ed ella che pensa? E s’ella vien sola, le dirò io che l’amo? ― Godeva interrogar sè medesimo e non rispondere e interrompere la risposta del cuore con una nuova domanda e prolungare quella fluttuazione tormentosa e deliziosa a un tempo. ― No, no, io non le dirò che l’amo. Ella è sopra tutte le altre.
Si volse; e vide ancora, in sommo, nella loggia, nel sole, la forma di lei, indistinta. Ella, forse, l’aveva seguito con gli occhi e col pensiero fin là giù, assiduamente. Per una curiosità infantile egli pronunziò a voce chiara il nome, su la terrazza solitaria; lo ripetè due o tre volte, ascoltandosi. ― Maria! Maria! ― Nessuna parola già mai, nessun nome eragli parso più soave, più melodioso, più carezzevole. E pensò che sarebbe stato felice s’ella gli avesse permesso di chiamarla semplicemente Maria, come una sorella.
Quella creatura così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di devozione e di sommessione, altissimo. Se gli avessero chiesto quale cosa sarebbegli stata più dolce, avrebbe risposto con sincerità: ― Obedirla. ― Nessuna cosa gli avrebbe fatto dolore quanto l’esser da lei creduto un uomo comune. Da nessuna altra donna, quanto da lei, avrebbe voluto essere ammirato, lodato, compreso nelle opere dell’intelligenza, nel gusto, nelle ricerche, nelle aspirazioni d’arte, negli ideali, nei sogni, nella parte più nobile del suo spirito e della sua vita. E l’ambizione sua più ardente era di riempirle il cuore.
Già da dieci giorni ella viveva a Schifanoja; e in quei dieci giorni come interamente l’aveva ella conquistato! Le loro conversazioni, su le terrazze o su i sedili sparsi all’ombra o lungo i viali fiancheggiati di rosai, duravano talvolta ore ed ore, mentre Delfina correva come una gazelletta tra gli avvolgimenti dell’agrumeto. Ella aveva nel conversare una fluidità mirabile; profondeva un tesoro d’osservazioni delicate e penetranti; rivelavasi talvolta con un candore pieno di grazia; in proposito de’ suoi viaggi, talvolta con una sola frase pittoresca suscitava in Andrea larghe visioni di paesi e di mari lontani. Ed egli poneva un’assidua cura nel mostrare a lei il suo valore, la larghezza della sua cultura, la raffinatezza della sua educazione, la squisitezza della sua sensibilità; e un orgoglio enorme gli sollevò tutto l’essere quando ella gli disse con accento di verità, dopo la lettura della Favola d’Ermafrodito:
― Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data della bellezza un’impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono intensi.
Egli ora, seduto su i balaustri, ripensava quelle parole. Donna Maria non era più nella loggia; anzi la tenda copriva tutto l’intercolunnio. Sarebbe forse discesa tra poco. Doveva egli scriverle il madrigale, secondo la promessa? Il piccolo supplizio del versificare a furia gli parve insoffribile, in quel grandioso e gaudioso giardino ove il sole di settembre faceva dischiudere una specie di primavera soprannaturale. Perchè disperdere quella rara commozione in un giuoco affrettato di rime? Perchè rimpicciolire quel vasto sentimento in un breve sospiro metrico? Risolse di mancare alla promessa; e restò seduto a guardare le vele sul limite estremo dell’acqua, che brillavano a simiglianza di fuochi soverchianti il sole.
Ma un’ansietà lo stringeva come più i minuti fuggivano; ed egli volgevasi tutti i minuti a vedere se in sommo della scala, tra le colonne del vestibolo, apparisse una forma feminile. ― Era forse quello un ritrovo d’amore? Veniva forse quella donna in quel luogo a un colloquio segreto? Imaginava ella di lui quell’ansietà?
― Eccola! ― il cuore gli disse. Ed era.
Era sola. Scendeva pianamente. Su la prima terrazza, presso una delle fontane, si soffermò. Andrea la seguiva con gli occhi, sospeso, provando ad ogni moto, ad ogni passo, ad ogni attitudine di lei una trepidazione come se il moto, il passo, l’attitudine avessero un significato, fossero un linguaggio.
Ella si mise per quella successione di scale e di terrazze intramezzate d’alberi e di cespugli. La sua persona appariva e scompariva, ora tutta intera, ora dalla cintola in su, ora emergente con la testa fuor d’un rosajo. A volte l’intrico dei rami la celava per un buon tratto: si vedeva soltanto negli spazii più radi passare la sua veste oscura o brillare la paglia chiara del suo cappello. Come più si avvicinava, più ella facevasi lenta, indugiando per le siepi, arrestandosi a guardare i cipressi, inchinandosi a raccogliere un pugno di foglie cadute. Dalla penultima terrazza salutò con la mano Andrea che aspettava ritto su l’ultimo gradino; e gli gettò le foglie raccolte, che si sparpagliarono come uno sciame di farfalle, tremolando, rimanendo qual più qual meno nell’aria, posandosi su la pietra con una mollezza di neve.
― Ebbene? ― chiese ella, a mezzo della branca.
Andrea piegò le ginocchia sul gradino, levando le palme.
― Nulla! ― egli confessò. ― Chiedo perdono; ma voi e il sole stamani empite i cieli di troppa dolcezza. Adoremus.
La confessione era sincera e anche l’adorazione, sebbene fatte ambedue con un’apparenza di gioco; e certo Donna Maria comprese quella sincerità, poichè arrossì un poco, dicendo con una singolare premura:
― Alzatevi, alzatevi.
Egli s’alzò. Ella gli tese la mano, soggiungendo:
― Vi perdono, perchè siete in convalescenza.
Portava un abito d’uno strano color di ruggine, d’un color di croco, disfatto, indefinibile; d’uno di que’ colori cosiddetti estetici che si trovano ne’ quadri del divino Autunno, in quelli dei Primitivi, e in quelli di Dante Gabriele Rossetti. La gonna componevasi di molte pieghe, diritte e regolari, che si partivano di sotto al braccio. Un largo nastro verdemare, del pallore d’una turchese malata, formava la cintura e cadeva con un solo grande cappio giù pel fianco. Le maniche ampie, molli, in fittissime pieghe all’appiccatura, si restringevano intorno i polsi. Un altro nastro verdemare, ma sottile, cingeva il collo, annodato a sinistra con un piccolo cappio. Un nastro anche eguale legava l’estremità della prodigiosa treccia cadente di sotto a un cappello di paglia coronato d’una corona di giacinti simile a quella della Pandora d’Alma Tadema. Una grossa turchese della Persia, unico gioiello, in forma d’uno scarabeo, incisa di caratteri come un talismano, fermava il collare sotto il mento.
― Aspettiamo Delfina ― ella disse. ― Poi andremo fino al cancello della Cibele. Volete?
Ella aveva pe ’l convalescente riguardi assai gentili. Andrea era ancora molto pallido e molto scarno, e gli occhi gli si erano straordinariamente ingranditi in quella magrezza; e l’espression sensuale della bocca un po’ tumida faceva uno strano e attirante contrasto con la parte superiore del viso.
― Si ― rispose. ― Anzi vi son grato.
Poi, dopo un poco di esitazione:
― Mi permettete qualche silenzio, stamani?
― Perchè mi chiedete questo?
― Mi pare di non aver la voce e di non saper dire nulla. Ma i silenzii, certe volte, possono essere gravi e infastidire e anche turbare se si prolungano. Perciò vi chiedo se mi permettete di tacere durante il cammino, e d’ascoltarvi.
― Allora, taceremo insieme ― disse ella, con un sorriso tenue.
E guardò in alto, verso la villa, con una impazienza visibile.
― Quanto tarda Delfina! ― Francesca s’era già levata, quando siete discesa? ― domandò Andrea.
― Oh, no! È d’una pigrizia incredibile... Ecco Delfina. La vedete?
La bimba discendeva rapidamente, seguita dalla sua governante. Invisibile giù per le scale, riappariva su i terrazzi ch’ella attraversava correndo. I capelli disciolti le ondeggiavano per le spalle, nel vento della corsa, sotto una larga paglia coronata di papaveri. Quando fu all’ultimo gradino, aperse le braccia verso la madre e la baciò tante volte su le guance. Poi disse:
― Buon giorno, Andrea.
E gli porse la fronte, con un atto infantile d’adorabile grazia.
Era una creatura fragile e vibrante come uno strumento formato di materie sensibili. Le sue membra eran così delicate che parevan quasi non poter nascondere e nè pur velare lo splendor dello spirito entro vivente, come una fiamma in una lampada preziosa, d’una vita intensa e dolce.
― Amore! ― sussurrò la madre, guardandola con uno sguardo indescrivibile, nel quale esalavasi tutta la tenerezza dell’anima occupata da quell’unico affetto.
E Andrea ebbe dalla parola, dallo sguardo, dall’espressione, dalla carezza una specie di gelosia, una specie di scoramento, come s’egli sentisse l’anima di lei allontanarsi, sfuggirgli per sempre, divenire inaccessibile.
La governante chiese licenza di risalire; ed essi presero il viale delli aranci. Delfina correva innanzi, spingendo un suo cerchio; e le sue gambe diritte, strette nella calza nera, un po’ lunghe dell’affilata lunghezza d’un disegno efebico, si movevano con ritmica agilità.
― Mi sembrate un po’ triste ora, ― disse la senese al giovine ― mentre dianzi, nello scendere, eravate lieto. Vi tormenta qualche pensiero? O non vi sentite bene?
Ella chiedeva queste cose con una maniera quasi fraterna, grave e soave, persuadente alla confidenza. Una voglia timida, quasi una vaga tentazione, prese il convalescente, di mettere il suo braccio sotto il braccio della donna e di lasciarsi condurre da lei in silenzio, per quell’ombra, per quel profumo, su quel suolo consparso di zágare, in quel sentiere che misuravano i vecchi Termini vestiti di musco. Gli pareva quasi d’esser tornato ai primi giorni dopo la malattia, a quei giorni indimenticabili di languore, di felicità, d’inconscienza; e d’aver bisogno d’un appoggio amico, d’una guida affettuosa, d’un braccio familiare. Quel desiderio gli crebbe così che le parole gli salivano alle labbra spontaneamente per esprimerlo. Ma invece rispose:
― No, Donna Maria; mi sento bene. Grazie. È il settembre che mi stordisce un poco...
Ella lo guardò come se dubitasse della verità di quella risposta. Quindi, per evitare il silenzio dopo la frase evasiva, domandò:
― Preferite, fra i mesi neutri, l’aprile o il settembre?
― Il settembre. È più feminino, più discreto, più misterioso. Pare una primavera veduta in un sogno. Tutte le piante, perdendo lentamente la forza, perdono anche qualche parte della loro realtà. Guardate il mare, la giù. Non dà imagine d’un’atmosfera piuttosto che d’una massa d’acqua? Mai, come nel settembre, le alleanze del cielo e del mare sono mistiche e profonde. E la terra? Non so perchè, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo d’un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. È un’impressione giusta? C’è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre.
Erano quasi alla fine del sentiere. Certe erme aderivano a certi fusti così da formar con essi quasi un sol tronco, arboreo e lapideo; e i frutti numerosi, taluni già tutti d’oro, altri maculati d’oro e di verde, altri tutti verdi, pendevano in su le teste de’ Termini che parean custodire alberi intatti e intangibili, esserne i genii tutelari. ― Perchè Andrea fu assalito da una inquietudine e da un’ansietà improvvise avvicinandosi al luogo dove, due settimane innanzi, aveva scritto i sonetti di liberazione? Perchè lottò fra il timore e la speranza ch’ella li scoprisse e li leggesse? Perchè alcuni di quei versi gli tornarono alla memoria distaccati dagli altri, come rappresentando il suo sentimento presente, la sua aspirazione presente, il nuovo sogno ch’egli chiudeva nel cuore?
“O voi che fate tutti i venti aulire, Era vero! Era vero! Egli l’amava; egli le metteva a’ piedi tutta l’anima sua; egli aveva un solo desiderio, umile e immenso: ― esser terra sotto le vestigia di lei. ― Com’è bello, qui! ― esclamò Donna Maria, entrando nel dominio dell’Erma quadrifronte, nel paradiso delli acanti. ― Che odore strano! Si spandeva all’aria infatti un odore di muschio, come per la presenza invisibile d’un insetto o d’un rettile muschiato. L’ombra era misteriosa, e le linee di luce traversanti il fogliame già tocco dal mal d’autunno erano come raggi lunari traversanti i vetri istoriati d’una cattedrale. Un sentimento misto, pagano e cristiano, emanava dal luogo, come da una pittura mitologica d’un quattrocentista pio. ― Guardate, guardate Delfina! ― ella soggiunse, con nella voce la commozione di chi vede una cosa di bellezza. Delfina aveva intrecciata ingegnosamente con ramoscelli d’arancio fioriti una ghirlanda; e, per una improvvisa fantasia infantile, ora voleva inghirlandarne la divinità di pietra. Ma, poichè non giungeva al sommo, si sforzava di riuscir nell’impresa alzandosi su le punte de’ piedi, sollevando il braccio, allungandosi come più poteva; e la sua forma gracile, elegante e viva faceva contrasto con la forma rigida, quadrata e solenne del simulacro, come uno stelo di giglio a piè d’una quercia. Ogni sforzo era vano. Allora, sorridendo, le venne in soccorso la madre. Le prese dalle mani la ghirlanda e la posò su le quattro fronti pensose. Involontariamente, il suo sguardo cadde su le inscrizioni. ― Chi ha scritto qui? Voi? ― domandò ad Andrea, sorpresa e lieta. ― Sì; è la vostra scrittura. E, súbito, si mise in ginocchio su l’erba a leggere; curiosa, quasi avida. Per imitazione, Delfina si chinò dietro la madre, cingendole il collo con le braccia e avanzando il viso contro una guancia di lei e così quasi coprendola. La madre mormorava le rime. E quelle due figure muliebri, chine a piè dell’alta pietra ghirlandata, nella dubbia luce, tra gli acanti simbolici, facevano un componimento di linee e di colori tanto armonioso che il poeta per qualche istante restò sotto il dominio unico del godimento estetico e della pura ammirazione. Ma ancora l’oscura gelosia lo punse. Quella creatura sottile, così avviticchiata alla madre, così intimamente confusa con l’anima di lei, gli parve una nemica; gli parve un insormontabile ostacolo che s’inalzasse contro il suo amore, contro il suo desiderio, contro la sua speranza. Egli non era geloso del marito ed era geloso della figlia. Egli voleva possedere non il corpo ma l’anima, di quella donna; e possedere l’anima intera, con tutte le tenerezze, con tutte le gioie, con tutti i timori, con tutte le angosce, con tutti i sogni, con tutta quanta insomma la vita dell’anima; e poter dire: ― Io sono la vita della sua vita. La figlia, invece, aveva quel possesso, incontrastato, assoluto, continuo. Pareva che mancasse alla madre un elemento essenziale della sua esistenza, quando per poco l’adorata era lontana. Una transfigurazione subitanea avveniva nella sua faccia, visibilissima, quando dopo un’assenza breve ella riudiva la voce infantile. Talvolta, involontariamente, per una segreta rispondenza, quasi direi per legge d’un comun ritmo vitale, ella ripeteva il gesto della figlia, un sorriso, un’attitudine, un’aria del capo. Ella aveva talvolta, su la quiete o sul sonno filiale, momenti di contemplazione così intensa che pareva aver perduta la conscienza d’ogni altra cosa per divenir simile all’essere ch’ella contemplava. Quando ella rivolgeva la parola all’adorata, la parola era una carezza e la bocca perdeva ogni traccia di dolore. Quando ella riceveva i baci, un tremito le agitava le labbra e gli occhi le si empivano d’un gaudio indescrivibile tra i cigli palpitanti, come gli occhi d’una beata in assunzione. Quando ella conversava con altri o ascoltava, pareva di tratto in tratto aver come una sospension del pensiero improvvisa, come una momentanea assenza dello spirito; ed era per la figlia, per lei, sempre per lei. ― Chi mai poteva rompere quella catena? Chi poteva conquistare una parte di quel cuore, anche minima? ― Andrea soffriva come d’una perdita irrimediabile, come d’una rinunzia necessaria, come d’una speranza estinta. ― Anche ora, anche ora, la figlia non toglieva a lui qualche cosa? Ella infatti, per gioco, voleva costringer la madre a restare in ginocchio. Le si abbandonava sopra e la premeva con le braccia intorno al collo, gridando fra le risa: ― No, no, no; tu non ti alzerai. E, come la madre apriva la bocca per parlare, ella le metteva su la bocca le sue piccole mani per impedir che parlasse; e la faceva ridere; e poi la bendava con la treccia; e non voleva finire, accesa e inebriata dal gioco. Guardandola, Andrea aveva l’impressione come s’ella con quegli atti scuotesse dalla madre e devastasse e disperdesse tutto ciò che nello spirito di lei la lettura de’ versi aveva forse fatto fiorire. Quando finalmente Donna Maria riuscì a liberarsi dalla dolce tirannella, gli disse, leggendogli sul volto la contrarietà: ― Perdonatemi, Andrea. Delfina certe volte ha di queste follie. Quindi, con una mano leggera, ricompose le pieghe della gonna. Era soffusa d’una tenue fiamma sotto gli occhi, e anche aveva il respiro un poco anelante. Soggiunse, sorridente d’un sorriso che in quella insolita animazione del sangue fu d’una luminosità singolare: ― E perdonatela, in compenso del suo augurio inconsapevole; perchè ella dianzi ha avuta l’inspirazione di mettere una corona nuziale su la vostra poesia che canta una comunione nuziale. Il simbolo è un suggello dell’alleanza. ― A Delfina e a voi, grazie ― rispose Andrea che si sentiva chiamar da lei per la prima volta non col titolo gentilizio ma col semplice nome. Quella familiarità inaspettata e le parole buone gli rimisero nell’animo la confidenza. Delfina s’era allontanata per uno de’ viali, correndo. ― Questi versi dunque sono un documento spirituale ― seguitò Donna Maria. ― Me li darete, perchè io li conservi. Egli voleva dirle: ― Vengono a voi, oggi, naturalmente. Sono vostri, parlano di voi, pregano voi. ― Ma disse, invece, semplicemente: ― Ve li darò. Ripresero il cammino, verso la Cibele. Prima d’uscire dal dominio, Donna Maria si rivolse all’Erma, come se avesse udito un richiamo; e la sua fronte pareva piena di pensiero. Andrea le chiese, con umiltà: ― Che pensate? Ella rispose: ― Penso a voi. ― Che pensate di me? ― Penso alla vostra vita d’un tempo, ch’io non conosco. Avete molto sofferto? ― Ho molto peccato. ― E amato anche, molto? ― Non so. Forse l’amore non è quale io l’ho provato. Forse io debbo ancora amare. Non so, veramente. Ella tacque. Camminarono, l’uno accanto all’altra, per un tratto. A destra del sentiere si levavano alti lauri, interrotti da un cipresso a intervalli eguali; e il mare or sì or no rideva in fondo, tra i fogliami leggerissimi, azzurro come il fiore del lino. A sinistra, contro il rialto era una specie di parete, simile alla spalliera d’un lunghissimo sedile di pietra, portante in cima ripetuto per tutta la lunghezza lo scudo delli Ateleta e un alerione, alterni. A ciascuno scudo e a ciascuno alerione corrispondeva, più sotto, una maschera scolpita dalla cui bocca usciva una cannella d’acqua versandosi nelle vasche sottostanti che avean forma di sarcofaghi posti l’uno accanto all’altro, ornate di storie mitologiche in basso rilievo. Le bocche dovevan esser cento, perchè il viale si chiamava delle Cento Fontane; ma alcune non versavano più, chiuse dal tempo, altre versavano appena. Molti scudi erano infranti e il musco aveva coperta l’impresa; molti alerioni eran decapitati; le figure dei bassi rilievi apparivano tra il musco come pezzi d’argenteria mal nascosti sotto un vecchio velluto lacerato. Nelle vasche, su l’acqua più limpida e più verde d’uno smeraldo, tremolava il capelvenere o galleggiava qualche foglia di rosa caduta dai cespugli di sopra; e le cannelle superstiti facevano un canto roco e soave che correva sul romore del mare, come una melodia su l’accompagnamento. ― Udite? ― chiese Donna Maria, soffermandosi, tendendo l’orecchio, presa all’incanto di quei suoni. ― La musica dell’acqua amara e dell’acqua dolce! Ella stava in mezzo del sentiere, un po’ china verso le fontane, attratta più dalla melodia, con l’indice sollevato verso la bocca nell’atto involontario di chi teme sia turbata la sua ascoltazione. Andrea, ch’era più presso alle vasche, la vedeva sorgere sopra un fondo di verdura gracile e gentile quale un pittore umbro avrebbe potuto metter dietro un’Annunciazione o una Natività. ― Maria ― mormorò il convalescente, che aveva il cuore gonfio di tenerezza. ― Maria, Maria... Egli provava un’indicibile voluttà a mescere il nome di lei in quella musica delle acque. Ella premè l’indice su la bocca, per indicargli di tacere; senza guardarlo. ― Perdonatemi, ― egli disse, sopraffatto dalla commozione ― ma io non reggo più. È l’anima mia che vi chiama! Una strana eccitazion sentimentale l’avea vinto; tutte le sommità liriche del suo spirito s’erano accese e fiammeggiavano; l’ora, la luce, il luogo, tutte le cose intorno gli suggerivano l’amore; dagli estremi limiti del mare insino all’umile capelvenere delle fonti, per lui si disegnava un sol circolo magico; ed egli sentiva che il centro era quella donna. ― Voi non saprete mai ― soggiunse, con la voce sommessa, quasi temendo di offenderla ― non saprete mai fino a qual punto la mia anima è vostra. Ella divenne anche più pallida, come se tutto tutto il sangue delle vene le si fosse raccolto sul cuore. Non disse nulla; evitò di guardarlo. Chiamò, con la voce un poco alterata: ― Delfina! La figlia non rispose, perchè s’era forse internata fra gli alberi all’estremità del sentiere. ― Delfina! ― ripetè, più forte, con una specie di sbigottimento. Nell’aspettazione, dopo il grido, si udivano le due acque cantare in un silenzio che pareva ingrandirsi. ― Delfina! Un fruscìo venne di tra i fogliami come pel passaggio d’un capriuolo; e la bimba sbucò dal folto dei lauri agilmente, portando tra le mani la paglia colma di piccoli frutti rossi che aveva colti da un álbatro. La fatica e la corsa l’invermigliavano; molti pruni le restavano tra la lana della tunica; e qualche foglia le s’impigliava nella ribellion de’ capelli. ― Oh mamma, vieni, vieni meco! Ella voleva trascinare la madre a cogliere gli altri frutti. ― Là giù, ce n’è un bosco; tanti tanti tanti. Vieni meco, mamma; vieni! ― No, amore; ti prego. È tardi. ― Vieni! ― Ma è tardi. ― Vieni! Vieni! Donna Maria dall’insistenza fu costretta a cedere e a farsi condurre per mano. ― C’è una via per andare al bosco delli álbatri, senza passare nel folto ― disse Andrea. ― Hai inteso, Delfina? C’è una via migliore. ― No, mamma. Vieni meco! Delfina la trasse tra gli allòri selvatici, dalla parte del mare. Andrea seguiva; ed era felice di poter guardare liberamente d’innanzi a sè la figura dell’amata, di poterla bevere con gli occhi, di poterne cogliere tutti i moti diversi e i ritmi sempre interrotti del passo sul pendio ineguale, tra gli ostacoli dei tronchi, tra gli intralci dei virgulti, tra le resistenze dei rami. Ma mentre i suoi occhi si pascevano di quelle cose, l’anima riteneva sopra tutte le altre un’attitudine, un’espressione. ― Oh il pallore, il pallore di dianzi quando egli aveva profferite le parole sommesse! E il suono indefinibile di quella voce che chiamava Delfina! ― È ancora lontano? ― chiese Donna Maria. ― No, no, mamma. Ecco, già ci siamo. Una specie di timidezza invase il giovine, al termine del cammino. Non anche, dopo le parole, i suoi occhi s’erano incontrati con gli occhi di lei. Che pensava ella? Che sentiva? Con quale sguardo l’avrebbe ella guardato? ― Eccoci! ― gridò la bimba. Il laureto in fatti andavasi diradando, il mare appariva più libero; d’un tratto il bosco dei corbezzoli andracni rosseggiò come un bosco di coralli terrestri portanti alla sommità de’ rami ampie ciocche di fiori. ― Che meraviglia! ― mormorò Donna Maria. Il bel bosco fioriva e fruttificava entro una insenatura ricurva come un ippodromo, profonda e solatìa, dove tutta la mitezza di quel lido raccoglievasi in delizia. I tronchi delli árbusti, vermigli i più, taluni gialli, sorgevano svèlti portando grandi foglie lucide, verdi di sopra e glauche di sotto, immobili nell’aria quieta. I grappoli floridi, simili a mazzi di mughetti, bianchi e rosei ed innumerevoli, pendevano dalle cime dei rami giovini; le bacche rosse e aranciate pendevano dalle cime de’ rami vecchi. Ogni pianta n’era carica; e la magnifica pompa dei fiori, dei frutti, delle foglie e delli steli dispiegavasi, contro il vivo azzurro marino, con la intensità e la incredibilità d’un sonno, come l’avanzo d’un orto favoloso. ― Che meraviglia! Donna Maria entrava lentamente, non più tenuta per mano da Delfina; che correva folle di gioja, avendo un solo desiderio: quel di spogliare tutto il bosco. ― Mi perdonate? ― osò dire Andrea. ― Io non voleva offendervi. Anzi, vedendovi così in alto, così lontana da me, così pura, io pensava che non vi avrei mai mai parlato del mio segreto, che non vi avrei mai chiesto un consenso nè mai vi avrei attraversato il cammino. Da che vi ho conosciuta, ho molto sognato per voi, di giorno e di notte, ma senza una speranza e senza un fine. Io so che voi non mi amate e che non potete amarmi. E pure, credetemi, io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere in una piccola parte del vostro cuore... Ella seguitava a camminare, lentamente, sotto i brillanti alberi che le stendevano in sul capo le ciocche pendule, i bianchi e rosei grappoli delicati. ― Credetemi, Maria, credetemi. Se ora mi dicessero di abbandonare ogni vanità ed ogni orgoglio, ogni desiderio ed ogni ambizione, qualunque più caro ricordo del passato, qualunque più dolce lusinga del futuro, e di vivere unicamente in voi e per voi, senza domani, senza jeri, senza alcun altro legame, senza alcuna altra preferenza, fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere, per sempre, fino alla morte, io non esiterei, io non esiterei. Credetemi. Voi mi avete guardato, parlato, e sorriso e risposto; voi vi siete seduta accanto a me, e avete taciuto e pensato; e avete vissuto, accanto a me, della vostra esistenza interiore, di quella invisibile e inaccessibile esistenza ch’io non conosco, ch’io non conoscerò mai; e la vostra anima ha posseduta la mia fin nel profondo, senza mutarsi, senza pur saperlo, come il mare beve un fiume... Che vi fa il mio amore? Che vi fa l’amore? È una parola troppe volte profanata, un sentimento falsato troppe volte. Io non vi offro l’amore. Ma non accetterete voi l’umile tributo, di religione, che lo spirito volge a un essere più nobile e più alto? Ella seguitava a camminare, lentamente, col capo chino, pallidissima, esangue, verso un sedile che stava su ’l limite del bosco riguardante la sponda. Come vi giunse, vi si piegò a sedere, con una specie di abbandono, in silenzio; e Andrea le si mise da presso, ancora parlandole. Il sedile era un gran semicerchio di marmo bianco, limitato per tutta la lunghezza da una spalliera, liscio, lucido, senz’altri ornamenti che una zampa di leone scolpita a ciascuna estremità in guisa di sostegno; e ricordava quelli antichi, su’ quali nelle isole dell’Arcipelago e nella Magna Grecia e in Pompei le donne oziavano e ascoltavano lèggere i poeti, all’ombra delli oleandri, in conspetto del mare. Qui gli álbatri facevano ombra di fiori e di frutti, più che di foglie; e gli steli di corallo pel contrasto del marmo parean più vivi. ― Io amo tutte quelle cose che voi amate; voi possedete tutte quelle cose che io cerco. La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra. La vostra mano sul mio cuore farebbe, sento, germinare una seconda giovinezza, assai più pura della prima, assai più forte. Quell’eterno ondeggiamento, ch’è la mia vita interiore, si riposerebbe in voi; troverebbe in voi la calma e la sicurtà. Il mio spirito irrequieto e scontento, travagliato da attrazioni e da repulsioni e da gusti e da disgusti in continua guerra, eternamente, irrimediabilmente solo, troverebbe nel vostro un rifugio contro il dubbio che contamina ogni idealità e abbatte ogni volere e scema ogni forza. Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia stato al mondo uomo men felice di me. Egli faceva sue le parole d’Obermann. In quella specie d’ebrezza sentimentale, tutte le malinconie gli risalivano alle labbra; e il suono stesso della sua voce, umile e un po’ tremante, gli aumentava la commozione. ― Io non oso dire i miei pensieri. Stando vicino a voi, in questi pochi giorni, da che vi conosco, ho avuto momenti d’oblio così pieno che quasi m’è parso di tornare ai primissimi tempi della convalescenza, quando viveva in me il sentimento profondo d’un’altra vita. Il passato, il futuro non erano più; anzi era come se l’uno non fosse mai stato e l’altro non dovesse mai essere. Il mondo era come un’illusione informe e oscura. Qualche cosa come un sogno vago ma grande mi si levava su l’anima: un velo ondeggiante, ora denso ora diafano, a traverso il quale or sì or no splendeva il tesoro intangibile della felicità. Che sapevate voi di me, in quei momenti? Forse, eravate lontana, con l’anima; assai assai lontana! Ma pure, la sola presenza vostra visibile bastava a darmi l’ebrezza; io la sentiva fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano. Ella taceva, col capo eretto, immobile, con il busto sollevato, con le mani posate su le ginocchia, nell’attitudine di chi sia tenuto desto da un fiero sforzo di coraggio contro un languor che l’invada. Ma la sua bocca, l’espression della sua bocca, in vano serrata con violenza, tradiva una sorta di dolorosa voluttà. ― Io non oso dire i miei pensieri. Maria, Maria, mi perdonate voi? Mi perdonate? Due piccole mani, di dietro al sedile, si stesero a bendarla e una voce palpitante di gioia gridò: ― Indovina! Indovina! Ella sorrise, abbandonata alla spalliera perchè Delfina l’attirava tenendole le sue dita su le palpebre, e Andrea vide, lucidamente, con una strana chiarezza, quel sorriso lieve disperdere su quella bocca tutto l’oscuro contrasto dell’espression primitiva, cancellar qualunque traccia che a lui potesse parere l’indizio d’un consentimento o d’una confessione, fugar qualunque ombra dubbia che potesse nell’anima di lui convertirsi in barlume di speranza. E restò come un uomo che sia ingannato da una coppa creduta quasi colma, la quale non offra che aria alla sua sete. ― Indovina! La figlia copriva di baci forti e rapidi il capo della madre, con una specie di frenesia, forse un poco facendole male. ― So chi sei, so chi sei ― diceva la bendata. ― Lasciami! ― Che mi dai, se ti lascio? ― Quello che vuoi. ― Voglio un giumento, per portarmi le albatrelle a casa. Vieni a vedere quante! Girò il sedile e prese per mano la madre. Ella si levò con qualche fatica; e, poi che fu in piedi, battè più volte le palpebre come per togliersi dalla vista un barbaglio. Anche Andrea si levò. Seguirono ambedue Delfina. La terribile creatura aveva spogliato di frutti quasi la metà del bosco. Le piante basse non mostravano più su i rami una bacca. Ella s’era aiutata con una canna trovata chi sa dove e aveva fatta una raccolta prodigiosa, riunendo infine tutte le albatrelle ad un sol mucchio che pareva un mucchio di carboni ardenti, per la intensità della tinta, sul suolo bruno. Ma le ciocche de’ fiori non l’avevano attratta: pendevano, bianche, rosee, giallette, quasi diafane, più delicate de’ grappoli d’un’acacia, più gentili de’ mughetti, immerse nella vaga luce come nella trasparenza d’un latte ambrato. ― Oh, Delfina, Delfina! ― esclamò Donna Maria, guardando quella devastazione. ― Che hai fatto? La bimba rideva, felice, d’innanzi alla piramide vermiglia. ― Bisognerà bene che tu lasci qui ogni cosa. ― No, no... Ella non voleva, da prima. Poi ripensò; e disse quasi fra sè, con gli occhi luccicanti: ― Verrà la cerva a mangiare. Aveva, forse, veduto apparire la bella bestia, libera pel parco, in quelle vicinanze; e il pensiero di aver radunato per lei il cibo l’appagò e le accese l’imaginazione già nudrita delle favole ove le cerve sono fate benigne e possenti che giacciono su cuscini di raso e bevono in coppe di zaffiro. Ella tacque, assorta, vedendo già forse la bella bestia bionda satollarsi d’albatrelle, sotto le piante fiorite. ― Andiamo ― disse Donna Maria ― ch’è tardi. Teneva Delfina per la mano, e camminava sotto le piante fiorite. Sul limite del bosco si soffermò, a guardare il mare. Le acque, accogliendo i riflessi delle nuvole, davano apparenza d’una immensa stoffa di seta, morbida, fluida, cangiante, mossa in larghe pieghe; e le nuvole, bianche e d’oro, l’una divisa dall’altra ma emergenti da una comune zona, somigliavano statue criselefantine avvolte in veli tenui, alzate sopra un ponte senz’archi. In silenzio, Andrea spiccò da un álbatro una ciocca che piegava il ramo col suo peso, tanto era folta; e la offerse a Donna Maria. Ella, nel prenderla, lo guardò; ma non aprì bocca. Si rimisero pe’ sentieri. Delfina ora parlava, parlava abondantemente, ripetendo senza fine le stesse cose, infatuata della cerva, mescolando le più strane fantasie, inventando lunghe storie monotone, confondendo una favola con l’altra, componendo intrichi ne’ quali si smarriva ella stessa. Parlava, parlava, con una specie d’inconscienza, quasi che l’aria del mattino l’avesse inebriata; e intorno a quella sua cerva chiamava figli e figlie di re, cenerentole, reginelle, maghi, mostri, tutti i personaggi de’ regni imaginarii, in folla, in tumulto, come nella metamorfosi continua d’un sogno. Parlava allo stesso modo che un uccello gorgheggia, con modulazioni canore, talvolta con successioni di suoni che non eran parole, ne’ quali esalavasi l’onda musicale già iniziata, come il fremito d’una corda nella pausa, quando in quello spirito infantile il legame tra il segno verbale e l’idea rimaneva interrotto. Gli altri due non parlavano, nè ascoltavano. Ma pareva loro che quella cantilena coprisse i lor pensieri, il murmure de’ lor pensieri, poichè pensando essi avevan l’impressione come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall’intimo del lor cervello, qualche cosa che nel silenzio sarebbesi potuto fisicamente percepire; e, se Delfina per poco taceva, provavano uno strano senso d’inquietudine e di sospensione, come se il silenzio dovesse rivelare e quasi direi denudare l’anima loro. Il viale delle Cento Fontane apparve in una prospettiva fuggente, ove gli spilli e gli specchi dell’acqua mettevano un fino luccichio vitreo, una mobile transparenza jalina. Un pavone, che stava posato su uno delli scudi, s’involò facendo cadere nella vasca sottostante qualche rosa sfogliata. Andrea riconobbe, alcuni passi più in là, la vasca innanzi a cui Donna Maria gli aveva detto: ― Udite? ― Nel dominio dell’Erma l’odor del muschio non si sentiva più. L’Erma, cogitabonda sotto la ghirlanda, era tutta constellata dai raggi che penetravano tra gli intervalli de’ fogliami. I merli cantavano, rispondendosi. Delfina, presa da un nuovo capriccio, disse: ― Mamma, rendimi la ghirlanda. ― No, lasciamola lì. Perchè la rivuoi? ― Rendimela, chè la porto a Muriella. ― Muriella la guasterà. ― Rendimela; ti prego! La madre guardò Andrea. Egli si avvicinò alla pietra, le tolse la ghirlanda e rese questa a Delfina. Ne’ loro spiriti esaltati la superstizione, ch’è un delli oscuri turbamenti portati dall’amore anche nelle creature intellettuali, diede all’insignificante episodio la misteriosità di una allegoria. Parve loro che in quel semplice fatto si occultasse un simbolo. Non sapevan bene quale; ma ci pensavano. Un verso tormentava Andrea.
“Non vedrò dunque il gesto che consente?„
Un’ansia enorme gli premeva il cuore, come più s’avvicinava il termine del sentiere; ed egli avrebbe dato metà del suo sangue per una parola della donna. Ma fu ella cento volte sul punto di parlare, e non parlò. ― Guarda, mamma, là giù, Ferdinando, Muriella, Riccardo... ― disse Delfina, scorgendo in fondo al sentiere i figli di Donna Francesca; e si spiccò a corsa, agitando la corona. ― Muriella! Muriella! Muriella! |