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XI.
Così, d’un balzo, Andrea Sperelli si rituffò nel Piacere.
Per quindici giorni lo occuparono Giulia Arici e Clara Green. Poi partì per Parigi e per Londra, in compagnìa del Muséllaro. Tornò a Roma verso la metà di decembre; trovò la vita invernale già molto mossa; fu súbito ripreso nel gran cerchio mondano.
Ma egli non s’era mai trovato in una disposizion di spirito più inquieta, più incerta, più confusa; non aveva mai provato dentro di sè uno scontento più molesto, un malessere più importuno; nè mai aveva provato contro di sè medesimo impeti d’ira e moti di disgusto più crudeli. Talvolta, in qualche stanca ora di solitudine, egli si sentiva salire dalle profonde viscere l’amarezza, come una nausea improvvisa; e rimaneva là ad assaporarla, torpidamente, senza aver la forza di cacciarla fuori, con una specie di rassegnazione cupa, come un malato che abbia perduta ogni fiducia di guarire e sia disposto a vivere del suo proprio male, a raccogliersi nella sua sofferenza, a profondarsi nella sua miseria mortale. Gli pareva che di nuovo l’antica lebbra gli si dilatasse per l’anima e di nuovo il cuore gli si vuotasse per non riempirsi più mai, come un otre forato, irreparabilmente. Il senso di questa vacuità, la certezza di questa irreparabilità gli movevano talvolta una specie di collera disperata e poi un disprezzo folle di sè medesimo, del suo volere, delle ultime sue speranze, delli ultimi suoi sogni. Egli era giunto a un terribile momento, incalzato dalla vita inesorabile, dall’implacabile passione della vita; era giunto al momento supremo della salvezza o della perdizione, al momento decisivo in cui i grandi cuori rivelano tutta la loro forza e i piccoli cuori tutta la loro viltà. Egli si lasciò sopraffare; non ebbe il coraggio di salvarsi con un atto volontario; pur essendo in balìa del dolore, ebbe paura d’un dolore più virile; pur essendo travagliato dal disgusto, ebbe paura di rinunziare a ciò che lo disgustava; pur avendo in sè vivo e spietato l’istinto del distacco dalle cose che più parevano attrarlo, ebbe paura di allontanarsi da quelle cose. Egli si lasciò abbattere; abdicò intieramente e per sempre alla sua volontà, alla sua energia, alla sua dignità interiore; sacrificò per sempre quel che gli rimaneva di fede e d’idealità; si gittò nella vita, come in una grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all’accozzo fortuito delle cagioni. Ma, mentre egli credeva con questa specie di fatalismo cinico mettere un argine alla sofferenza e conquistare se non la calma almeno l’ottusità, in lui di continuo la sensibilità al dolore diveniva più acuta, le facoltà di soffrire si moltiplicavano, i bisogni e i disgusti aumentavano senza fine. Egli esperimentava ora la profonda verità delle parole che aveva dette un giorno a Maria Ferres, in un momento di confidenza e di malinconia sentimentali: ― Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia stato al mondo uomo men felice di me. ― Egli esperimentava ora la verità di quelle parole dette in un momento assai dolce, quando gli illuminava l’anima l’illusione di una seconda giovinezza, il presentimento d’una nuova vita.
E pure, quel giorno, parlando a quella creatura, egli era stato sincero come non mai; egli aveva espresso il suo pensiero con ingenuità e candore, come non mai. Perchè, in un soffio, tutto s’era dileguato, tutto era svanito? Perchè non aveva saputo egli nutrire quella fiamma nel suo cuore? Perchè non aveva saputo custodire quella memoria e tenere quella fede? La sua legge era dunque la mutabilità; il suo spirito aveva l’inconsistenza d’un fluido; tutto in lui si trasformava e si difformava, senza tregua; la forza morale gli mancava intieramente; il suo essere morale si componeva di contraddizioni; l’unità, la semplicità, la spontaneità gli sfuggivano; a traverso il tumulto, la voce del dovere non gli giungeva più; la voce del volere veniva soverchiata da quella degli istinti; la conscienza, come un astro senza luce propria, ad ogni tratto si eclissava. Tale era stato sempre; tale sarebbe stato sempre. Perchè, dunque, combattere contro sè medesimo? Cui bono?
Ma a punto codesta lotta era una necessità della sua vita; a punto codesta irrequietudine era una condizione essenziale della sua esistenza; a punto codesta sofferenza era una condanna a cui non avrebbe egli potuto sottrarsi già mai.
Qualunque tentativo di analisi su sè medesimo si risolveva in una maggiore incertezza, in una maggiore oscurità. Essendo egli interamente sfornito di forza sintetica, la sua analisi diveniva un crudele giuoco distruttore. E da un’ora di riflessione su sè medesimo egli usciva confuso, disfatto, disperato, perduto.
Quando, la mattina del 30 dicembre, nella via dei Condotti, inaspettatamente, si rincontrò con Elena Muti, egli ebbe una commozione inesprimibile, come d’innanzi al compiersi d’un fato meraviglioso, come se il riapparir di quella donna in quel momento tristissimo della sua vita avvenisse per virtù d’una predestinazione ed ella gli fosse inviata per soccorso ultimo o per ultimo danno nel naufragio oscuro. Il primo moto dell’anima sua fu di ricongiungersi a lei, di riprenderla, di riconquistarla, di ripossederla tutta quanta, come un tempo, di rinnovare la passione antica con tutte le ebrezze e tutti gli splendori. Il primo moto fu di giubilo e di speranza. Poi, senza indugio, risorsero la diffidenza e il dubbio e la gelosia; senza indugio, l’occupò la certezza che nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della felicità morta, riprodurre sol un baleno dell’ebrezza spenta, sol un’ombra dell’illusione sparita.
Ella era venuta, ella era venuta! Era rientrata nel luogo dove ogni cosa per lei custodiva un ricordo e aveva detto: ― Io non sono più tua, non potrò essere tua più mai. ― Aveva gridato, contro di lui: ― Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo? ― Proprio, aveva osato gridar quelle parole, contro di lui, in quel luogo, in conspetto di quelle cose!
Un dolore atroce, enorme, fatto di mille punture l’una dall’altra distinte e l’una più dell’altra acute, lo tenne per qualche tempo e l’esasperò. La passione lo riavvolse con mille fuochi, suscitandogli un inestinguibile ardore carnale per quella donna non più sua, risvegliandogli nella memoria tutte le più minute particolarità dei godimenti lontani, le imagini di tutte le carezze, di tutte le attitudini di lei nel piacere, di tutte le folli mescolanze che non saziavano nè appagavano mai la loro brama di continuo rinascente. E pur sempre, in ogni sua imaginazione, persisteva quella strana difficoltà a ricongiungere l’Elena d’una volta all’Elena d’ora. Mentre i ricordi del possesso lo accendevano e lo torturavano, la certezza del possesso gli sfuggiva: l’Elena d’ora gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta. Il desiderio gli diede tali spasimi ch’egli credè morirne. L’impurità l’infettò come un tossico.
L’impurità, che allora la fiamma alata dell’anima velava d’un velo sacro e circondava d’un mistero quasi divino, appariva ora senza il velo, senza il mistero della fiamma, come una lascivia interamente carnale, come una libidine bassa. Ed egli sentiva che quel suo ardore non era l’Amore e che non aveva più nulla di comune con l’Amore. Non era l’Amore. Ella gli aveva gridato: ― Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo? ― Ebbene, sì, egli l’avrebbe sofferto!
Egli l’avrebbe presa, senza ripugnanza, così come veniva, contaminata dall’abbraccio di un altro; avrebbe messa la sua carezza su la carezza di un altro; avrebbe premuto il suo bacio sul bacio di un altro.
Nulla più, nulla più, dunque, in lui rimaneva intatto. Anche il ricordo della grande passione si corrompeva miseramente, si bruttava, s’avviliva, in lui. L’ultimo barlume di speranza era estinto. Infine, egli toccava il fondo, per non rialzarsi mai più.
Ma una orribile smania l’invase, di atterrare l’idolo che rimanevagli pur sempre alzato ed enigmatico d’innanzi. Con una cinica crudeltà egli si mise a scalzarlo, ad oscurarlo, a corroderlo. L’analisi distruggitrice, ch’egli già aveva esperimentata su se medesimo, gli servì contro di Elena. A tutte le interrogazioni del dubbio, che un tempo egli aveva voluto sfuggire, ora cercò una risposta; di tutti i sospetti, che un tempo apparivano e si dileguavano senza lasciar traccia, ora studiò l’origine, ritrovò la giustificazione, ottenne la conferma. Egli credeva di trovare un sollievo in questa disgraziata opera d’abbattimento; e aumentava la sua sofferenza, irritava il suo male, allargava le sue macchie.
Quale era stata la cagion vera della partenza di Elena, nel marzo del 1885? ― Molte dicerie eran corse in quel tempo e nel tempo del matrimonio di lei con Humphrey Heathfield. La verità era una sola. Egli la seppe da Giulio Muséllaro, per caso, in mezzo a chiacchiere inconcludenti, una sera, uscendo da un teatro; e non ne dubitò. Donna Elena Muti era partita per affari di finanza, per combinare “un’operazione„ che doveva trarla da gravissimi imbarazzi pecuniarii causati dalla sua eccessiva prodigalità. Il matrimonio con Lord Heathfield l’aveva salvata da una rovina. Questo Heathfield, marchese di Mount Edgcumbe e conte di Bradford, possedeva ricchezze considerevoli ed era alleato con la più alta nobiltà britanna. Donna Elena aveva saputo far le sue cose con molto accorgimento; aveva saputo escir dal pericolo con un’abilità straordinaria. Certo, i suoi tre anni di vedovanza non parevano essere stati un casto intermezzo preparatorio alle seconde nozze. Non casto e neanche cauto. Ma, senza dubbio, Donna Elena era una gran donna....
― Ah, mio caro, una gran donna! ― ripetè Giulio Muséllaro. ― tu lo sai bene.
Andrea tacque.
― Ma non ti consiglio di riavvicinarti ― soggiunse l’amico, gittando via la sigaretta che tra una chiacchiera e l’altra gli si era spenta. ― Riaccendere un amore è come riaccendere una sigaretta. Il tabacco s’invelenisce; l’amore, anche. Andiamo a prendere da una tazza di tè dalla Moceto? M’ha detto che si può andare da lei dopo il teatro: non è mai tardi.
Erano sotto il palazzetto Borghese.
― Va tu ― disse Andrea. ― Io torno a casa, a dormire. La caccia d’oggi m’ha un po’ stancato. Salutami Donna Giulia. Comprends et prends.
Il Muséllaro salì. Andrea seguitò giù per la Fontanella di Borghese e per i Condotti, verso la Trinità. Era una notte di gennajo fredda e serena, una di quelle prodigiose notti jemali che fanno di Roma una città d’argento chiusa in una sfera di diamante. La luna piena, a mezzo del cielo, versava la triplice purezza della luce, del gelo e del silenzio.
Egli camminava, sotto la luna, come un sonnambulo, non avendo conscienza che del suo dolore. L’ultimo colpo era dato; l’idolo crollava; nulla più rimaneva su la gran rovina; tutto così finiva, per sempre. ― Ella, dunque, veramente non l’aveva mai amato. Senza esitare, aveva troncato l’amore per provvedere a un dissesto. Senza esitare, aveva concluso un matrimonio utile. Ora, d’innanzi a lui, prendeva un’attitudine di martire, si avvolgeva in un velo di sposa inviolabile! ― Un riso amaro gli saliva dal fondo; e poi una collera sorda gli si mosse contro la donna e l’accecò. I ricordi della passione non valsero. Tutte le cose di quel tempo gli apparvero come un solo inganno, enorme e crudele, come una sola menzogna; e quest’uomo che dell’inganno e della menzogna s’era fatto nella vita un abito, quest’uomo che aveva ingannato e mentito tante volte, si sentì, al pensiero dell’altrui frode, offendere, sdegnare, disgustare come da una colpa imperdonabile, come da una mostruosità inescusabile, ed anche inesplicabile. Egli non giungeva infatti a spiegarsi come Elena avesse potuto commettere un tal delitto; e, pur non giungendovi, non le concedeva alcuna giustificazione, non accoglieva il dubbio che una qualche altra segreta cagione l’avesse spinta alla fuga subitanea. Egli non sapeva vedere che l’azione brutale, la bassezza, la volgarità: la volgarità, sopra tutto, cruda, aperta, odiosa, non attenuata da nessuna contingenza. Insomma, si trattava di questo: una passione, che pareva sincera ed era giurata altissima, inestinguibile, veniva ad essere interrotta da un affar di denaro, da una utilità materiale, da un negozio.
“Ingrato! Ingrato! Che sai tu di quel ch’è accaduto, di quel ch’io ho sofferto? Che sai?„ Le parole di Elena gli tornarono nella memoria, precise; tutte le parole di lei, dal principio alla fine del colloquio tenuto innanzi al caminetto, gli tornarono nella memoria: le parole di tenerezza, le offerte di fraternità, tutte quelle frasi sentimentali. Ed egli ripensò anche alla lacrima che le avea velato gli occhi, alle mutazioni del volto, al tremito, alla voce soffocata dell’addio quando egli le aveva posato su le ginocchia il fascio delle rose. ― Perchè mai aveva ella consentito a venir nella casa? Perchè aveva voluto recitar quella parte, provocar quella scena, ordire quel nuovo dramma o quella nuova comedia? Perchè?
Era giunto alla sommità della scala, nella piazza deserta. La bellezza della notte gli diede, d’improvviso, un’aspirazione vaga ma affannosa verso un Bene sconosciuto; l’imagine di Donna Maria gli attraversò lo spirito; il cuore gli palpitò forte, come all’urto d’un desiderio; gli balenò il pensiero di tener le mani di Donna Maria nelle sue, di piegare sul cuor di lei la fronte e di sentirsi da lei consolare senza parole, pietosamente. Quel bisogno di pietà, di rifugio, di compianto fu come l’ultimo tratto dell’anima che non si rassegnava a perire. Egli chinò il capo e rientrò nella casa, senza più volgersi a guardare la notte.
Terenzio l’aspettava, nell’anticamera, e lo seguì fin nella stanza da letto, dove il fuoco era acceso. Domandò:
― Il signor conte va a letto súbito?
― No, Terenzio. Portami il tè ― rispose il signore, sedendosi innanzi al camino e tendendo le palme verso la fiamma.
Egli tremava, d’un piccolo tremito nervoso. Aveva pronunziate quelle parole con una strana dolcezza; aveva chiamato a nome il domestico; gli aveva dato del tu.
― Ha freddo il signor conte? ― domandò Terenzio, con una premura affettuosa, incoraggiato dalla benevolenza del signore.
E si chinò su gli alari a ravvivare il fuoco, aggiungendo altre legne. Egli era un vecchio servo di casa Sperelli; aveva servito il padre di Andrea per molti anni; e la sua devozione pel giovine giungeva sino all’idolatria. Nessuna creatura umana gli pareva più bella, più nobile, più sacra. Egli apparteneva, in verità, a quella ideal razza che fornisce i servi fedeli ai romanzi d’avventura o di sentimento. Ma, a differenza de’ servi romanzeschi, parlava di rado, non dava consigli, non d’altro s’occupava che d’obedire.
― Va bene così ― disse Andrea, cercando di vincere il tremito convulso, accostandosi al fuoco.
La presenza del vecchio, in quella cattiva ora, lo commoveva singolarmente. Era una commozione simile in parte alla debolezza che, in presenza d’una persona buona, prende gli uomini prima del suicidio. Non mai, come in quell’ora, il vecchio gli aveva suscitato il pensiero del padre, la memoria del caro estinto, il rimpianto del grande amico perduto. Non mai, come in quell’ora, egli aveva provato il bisogno d’un conforto familiare, della voce e della mano paterna. Che avrebbe detto il padre se avesse veduto il figliuolo accasciato nell’orribile miseria? Come l’avrebbe sollevato? Con quale forza?
Il suo pensiero andava al morto, con un immenso rammarico. Ma non era in lui nemmen l’ombra del sospetto, che la causa remota della sua miseria fosse nel primo insegnamento paterno.
Terenzio portò il tè. Quindi si mise a preparare il letto, con lentezza, con una cura quasi feminile, emulando Jenny, non dimenticando nulla, sembrando voler assicurare al signore, fino al mattino, un riposo perfettissimo, un sonno imperturbabile. Andrea lo guardava, notandone ogni atto, con una commozione crescente, in fondo a cui era anche non so qual vago senso di pudore. Gli faceva male la bontà di quel vecchio intorno a quel letto per ove eran passati tanti amori immondi; gli pareva quasi che quelle mani senili rimescolassero tutte le impurità, inconsapevolmente.
― Va a dormire, Terenzio ― egli disse. ― Non ho bisogno d’altro.
Rimase solo, d’innanzi al fuoco, solo con l’anima sua, solo con la sua tristezza. Si levò, agitato dal tormento interiore, e si mise a percorrere la stanza. L’incalzava la visione della testa di Elena sul guanciale scoperto del letto. Ad ogni tratto, quando giunto d’innanzi alla finestra si rivolgeva, credeva di vederla; e n’aveva un sussulto. I suoi nervi erano così estenuati che secondavano ogni disordine della fantasia. L’allucinazione diveniva più intensa. Egli si fermò, nascose la faccia tra le palme, per contenere l’eccitamento. Poi tirò sul guanciale la coperta; e andò a risedersi.
Gli sorse nello spirito un’altra imagine: Elena tra le braccia del marito: ancora una volta, con una esattezza implacabile.
Egli ora conosceva meglio questo marito. Proprio in quella sera, al teatro, in un palco, egli era stato a lui presentato da Elena e l’aveva osservato attentamente, minutamente, con acuta ricerca, come per averne qualche rivelazione, come per strappargli un segreto. Udiva ancora la voce di lui, una voce d’un timbro singolare, un po’ stridula, che dava ad ogni principio di frase una intonazione interrogativa; e vedeva quegli occhi chiari chiari sotto la gran fronte convessa, quegli occhi che prendevano talvolta i riflessi morti d’un vetro o s’animavano d’un bagliore indefinibile, simile un poco allo sguardo d’un maniaco. E vedeva anche quelle mani bianchicce, molli, sparse d’una peluria biondissima, che avevano qualche cosa d’inverecondo in ogni loro moto, nel prendere il binocolo, nello spiegare il fazzoletto, nel posarsi sul davanzale del palco, nello sfogliare il libretto dell’opera, in ogni loro moto: mani improntate di vizio, mani sádiche, poichè tali forse dovevan esser quelle di certi personaggi del Sade.
Egli vedeva quelle mani toccare la nudità di Elena, contaminare il corpo bellissimo, tentare una lascivia curiosa... Orrore!
Il supplizio era insostenibile. Egli si levò, di nuovo; andò alla finestra, l’aprì, rabbrividì all’aria fredda, si scosse. La Trinità de’ Monti splendeva nell’azzurro, con lineamenti netti, come intagliata in un marmo appena appena roseo. Roma, sotto, aveva un luccicor cristallino, come una città scavata in un ghiacciajo.
Quella quiete gelida e precisa gli ricondusse lo spirito alla realità, gli ridiede la conscienza vera del suo stato. Egli richiuse, e tornò a sedersi. L’enigma di Elena lo attrasse ancora; le interrogazioni gli risorsero in tumulto, lo incalzarono. Ma ebbe la forza di ordinarle, di coordinarle, di esaminarle a una a una, con una strana lucidità. Come più procedeva nell’analisi, più acquistava di lucidità; e di quella sua crudele psicologia godeva come d’una vendetta. Infine, gli pareva d’aver denudata un’anima, d’aver penetrato un mistero. Gli pareva, infine, di possedere Elena assai più a dentro che non al tempo dell’ebrezza. Chi era ella mai?
Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale, per dir così, era l’imaginazione: una imaginazione romantica, nudrita di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice, continuamente stimolata dall’isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel lusso d’una casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di storia, ella erasi velata d’una vaga incipriatura estetica, aveva acquistato un gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere della sua bellezza, ella cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne la spiritualità, irraggiando una capziosa luce d’ideale.
Ella portava quindi, nella comedia umana, elementi pericolosissimi; ed era occasion di ruina e di disordine più che s’ella facesse publica professione d’impudicizia.
Sotto l’ardore della imaginazione, ogni suo capriccio prendeva un’apparenza patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendii improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici della sua carne e sapeva transformare in alto sentimento un basso appetito....
Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna un tempo adorata. Procedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi d’innanzi ad alcun ricordo più vivo. In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione dell’amor d’Elena trovava l’artifizio, lo studio, l’abilità, la mirabile disinvoltura nell’eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte dramatica, nel combinare una scena straordinaria. Egli non lasciò intatto alcuno de’ più memorabili episodii: nè il primo incontro al pranzo di casa Ateleta, nè la vendita del cardinale Immenraet, nè il ballo del’Ambasciata di Francia, nè la dedizione improvvisa nella stanza rossa del palazzo Barberini, nè il congedo su la via Nomentana nel tramonto di marzo. Quel magico vino che prima lo aveva inebriato ora gli pareva una mistura perfida.
Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se, penetrando nell’anima della donna, egli penetrasse nell’anima sua propria e ritrovasse la sua propria falsità nella falsità di lei; tanta era l’affinità delle due nature. E a poco a poco il disprezzo gli si mutò in una indulgenza ironica, poichè egli comprendeva. Comprendeva tutto ciò che ritrovava in sè medesimo.
Allora, con fredda chiarezza, definì il suo intendimento.
Tutte le particolarità del colloquio avvenuto nel giorno di San Silvestro, più d’una settimana innanzi, tutte gli tornarono alla memoria; ed egli si piacque a riconstruir la scena, con una specie di cinico sorriso interiore, senza più sdegno, senza concitazione alcuna, sorridendo di Elena, sorridendo di sè medesimo. ― Perchè ella era venuta? Era venuta perchè quel convegno inaspettato, con un antico amante, in un luogo noto, dopo due anni, le era parso strano, aveva tentato il suo spirito avido di commozioni rare, aveva tentata la sua fantasia e la sua curiosità. Ella voleva ora vedere a quali nuove situazioni e a quali nuove combinazioni di fatti l’avrebbe condotta questo giuoco singolare. L’attirava forse la novità di un amor platonico con la persona medesima ch’era già stata oggetto d’una passion sensuale. Come sempre, ella erasi messa con un certo ardore all’imaginazione d’un tal sentimento; e poteva anche darsi ch’ella credesse d’esser sincera e che da questa imaginata sincerità avesse tratto gli accenti di profonda tenerezza e le attitudini dolenti e le lacrime. Accadeva in lei un fenomeno a lui ben noto. Ella giungeva a creder verace e grave un moto dell’anima fittizio e fuggevole; ella aveva, per dir così, l’allucinazione sentimentale come altri ha l’allucinazione fisica. Perdeva la conscienza della sua menzogna; e non sapeva più se si trovasse nel vero o nel falso, nella finzione o nella sincerità.
Ora, questo a punto era lo stesso fenomeno morale che ripetevasi in lui di continuo. Egli dunque non poteva con giustizia accusarla. Ma, naturalmente, la scoperta toglieva a lui ogni speranza d’altro piacere che non fosse carnale. Oramai la diffidenza gli impediva qualunque dolcezza d’abbandono, qualunque ebrezza dello spirito. Ingannare una donna sicura e fedele, riscaldarsi a una grande fiamma suscitata con un baglior fallace, dominare un’anima con l’artifizio, possederla tutta e farla vibrare come uno stromento, habere non haberi, può essere un alto diletto. Ma ingannare sapendo d’essere ingannato è una sciocca e sterile fatica, è un giuoco nojoso e inutile.
Egli doveva dunque ottener che Elena rinunziasse all’idea di fraternizzare e gli tornasse fra le braccia come un tempo. Egli doveva riprendere il possesso materiale della bellissima donna, trarre dalla bellezza di lei il maggior possibile godimento, e quindi esserne per sempre liberato dalla sazietà. Ma in questa impresa conveniva usar prudenza e pazienza. Già nel primo colloquio l’ardor violento aveva fatto cattiva prova. Appariva manifesto ch’ella fondava il suo progetto di impeccabilità su la famosa frase: “Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?„ La grande macchina platonica era mossa da questo santo orrore delle mescolanze. Poteva anche darsi che, in fondo in fondo, questo orrore fosse sincero. Quasi tutte le donne d’amorosa vita, se giungono a concluder nozze, affettano ne’ primi tempi del matrimonio una feroce purità e si pongono a far professione di mogli caste con leale proposito. Poteva quindi anche darsi che Elena fosse presa dal comune scrupolo. Nulla di peggio, allora, che assalirla di fronte e apertamente urtare la sua novella virtù. In vece, conveniva secondarla nelle aspirazioni spirituali, accettarla come “la sorella più cara, l’amica più dolce„, inebriarla d’ideale, platonizzando con accortezza; e a poco a poco trarla dalla candida fraternità a un’amicizia voluttuosa, e da un’amicizia voluttuosa alla total resa del corpo. Probabilmente queste transizioni sarebbero state rapidissime. Tutto dipendeva dalla circostanza.... Così ragionava Andrea Sperelli, d’innanzi al camino che aveva illuminata l’amante Elena ignuda, avvolta nel drappo dello Zodiaco, ridente tra le rose sparse. E l’occupava una stanchezza immensa, una stanchezza che non chiedeva il sonno, una stanchezza così vacua e sconsolata che quasi pareva un bisogno di morire; mentre il fuoco spegnevasi in su gli alari e la bevanda freddavasi nella tazza.
Ne’ giorni che seguirono, egli in vano aspettò il biglietto promesso. “Vi scriverò un biglietto per dirvi quando potrò vedervi.„ Elena dunque intendeva dargli un nuovo convegno. Ma dove? Ancora nella casa Zuccari? Avrebbe ella commessa la seconda imprudenza? L’incertezza gli dava torture indicibili. Egli passava tutte le sue ore a ricercare un qualunque mezzo per incontrarla, per vederla. Piú d’una volta andò all’Albergo del Quirinale, con la speranza d’esser ricevuto, ma non la trovò mai. La rivide una sera col marito, con Mumps, com’ella diceva, di nuovo al teatro. Parlando di cose leggere, della musica, dei cantanti, delle dame, egli mise nel suo sguardo una tristezza supplichevole. Ella si mostrò molto preoccupata del suo appartamento: ― rientrava nel palazzo Barberini, nel suo antico quartiere ma ampliato; ed era sempre con i tappezzieri a dare ordini, a disporre.
― Rimarrete a Roma lungo tempo? ― le chiese Andrea.
― Sì ― ella rispose. ― Roma sarà la nostra residenza invernale.
Poco dopo, soggiunse: ― Voi, veramente, potreste darci qualche consiglio per l’addobbo. Venite una di queste mattine al palazzo. Io ci son sempre tra le dieci e mezzogiorno.
Egli profittò d’un momento in cui Lord Heathfield parlava con Giulio Muséllaro, giunto allora nel palco; e chiese guardandola negli occhi:
― Domani?
Ella rispose, con semplicità, come se non avesse badato all’accento di quella interrogazione:
― Tanto meglio.
La mattina dopo, egli andò, verso le undici, a piedi, lungo la via Sistina, per la piazza Barberini e su per la salita. Era un cammino ben noto. Gli parve di ritrovare le impressioni d’una volta; ebbe un’illusione momentanea: il cuore gli si sollevò. La fontana del Bernini brillava singolarmente al sole, come se i delfini, la conchiglia e il Tritone fosser divenuti d’una materia più diafana, non pietra e non ancor cristallo, per una metamorfosi interrotta. L’operosità della nuova Roma empiva di romore tutta la piazza e le vie prossime. Tra i carri e i giumenti guizzavano i piccoli ciociari offrendo le violette.
Quando egli oltrepassò il cancello ed entrò nel giardino, sentendosi prendere da un tremito, pensò: ― Ma l’amo io dunque ancora? Ancora la sogno? ― Gli pareva che il tremito fosse quel d’una volta. Guardò il gran palazzo radiante e il suo spirito volò ai tempi in cui quella dimora, in certe albe fredde e nebbiose, prendeva per lui un aspetto d’incanto. Erano i primissimi tempi della felicità: egli usciva caldo di baci, pieno della recente gioja; le campane della Trinità de’ Monti, di Sant’Isidoro, de’ Cappuccini sonavano l’Angelus nel crepuscolo, confusamente, come se fossero assai più lontane; all’angolo della via rosseggiavano i fuochi intorno le caldaje dell’asfalto; un gruppo di capre stava lungo il muro biancastro, sotto una casa addormentata; i gridi fiochi degli acquavitari si perdevano nella nebbia....
Egli sentì risalir dal profondo quelle sensazioni obliate; per un momento, si sentì passar su l’anima un’onda dell’antico amore; per un momento provò ad imaginare che Elena fosse la Elena d’una volta e che le cose tristi non fossero vere e che la felicità seguitasse. Tutto l’ingannevole fermento cadde, a pena egli varcò la soglia e vide venire in contro il marchese di Mount Edgcumbe sorridente di quel suo sorriso fine e un po’ ambiguo.
Allora incominciò il supplizio.
Elena comparve, gli tese la mano con molta cordialità, innanzi al marito, dicendo:
― Bravo Andrea! Ajutateci, ajutateci....
Ella era molto vivace, nelle parole, ne’ gesti. Aveva un’aria molto giovenile. Portava una giacca di panno azzurro cupo, guarnita d’astrakan nero su li orli, sul collo diritto e su le maniche; e un cordoncino di lana faceva nell’astrakan un ricamo elegante, passandovi sopra intrecciato. Ella teneva una mano nella tasca, in atto grazioso; e con l’altra indicava le opere di tappezzeria, i mobili, i quadri. Domandava consiglio.
― Dove mettereste voi questi due cassoni? Vedete: li ha trovati Mumps a Lucca. Le pitture sono del vostro Botticelli. Dove mettereste questi arazzi?
Andrea riconobbe i quattro arazzi della Storia di Narcisso ch’erano alla Vendita del cardinale Immenraet. Guardò Elena, ma non incontrò li occhi di lei. Una irritazione sorda lo prese, contro di lei, contro il marito, contro quelli oggetti. Egli avrebbe voluto andarsene; ma gli convenne mettere in servigio dei cónjugi Heathfield il suo buon gusto; gli convenne anche sofferire l’erudizione archeologica di Mumps, ch’era un collezionista ardente e che volle mostrargli qualcuna delle sue raccolte. Egli riconobbe in una vetrina l’elmo del Pollajuolo, e in un’altra la tazza di cristallo di rocca appartenuta a Niccolò Niccoli. La presenza di quella tazza in quel luogo lo turbò stranamente, gli fece balenare allo spirito folli sospetti. Era dunque caduta in mano di lord Heathfield? Dopo la famosa contesa che non ebbe esito, nessuno più si occupò del cimelio, nessuno tornò alla Vendita, il giorno dopo; l’eccitazione efimera languì, si spense, passò come tutto passa nella vita mondana; e il cristallo rimase al contrasto di altri. La cosa era naturalissima; ma in quel momento ad Andrea parve straordinaria.
Ad arte, egli si fermò d’innanzi alla vetrina e guardò molto la coppa preziosa dove la storia d’Anchise e di Venere scintillava come intagliata in un puro diamante.
― Niccolò Niccoli ― disse Elena, pronunziando quel nome con un accento indefinibile in cui il giovine credè sentire un poco di malinconia.
Il marito era passato nella stanza attigua per aprire un armario.
― Ricordatevi! Ricordatevi! ― mormorò Andrea, volgendosi.
― Mi ricordo.
― Quando dunque vi vedrò?
― Chi sa!
― Mi prometteste....
Ricomparve il Mount Edgcumbe. Passarono nell’altra stanza, seguitarono il giro. Ovunque i tappezzieri attendevano a stendere parati, ad alzar tende, a trasportar mobili. Andrea, ogni volta che l’amica gli chiedeva un consiglio, doveva fare uno sforzo per rispondere, per vincere la mala voglia, per dominare l’impazienza. In un momento che il marito parlava con uno di quelli uomini, egli le disse, a bassa voce, mostrando chiaro il suo fastidio:
― Perchè darmi questa tortura? Io sperava di trovarvi sola.
A una porta, il cappellino di Elena urtò una portiera mal messa e si piegò tutto da un lato. Ella, ridendo, chiamò Mumps perchè le sciogliesse il nodo del velo. E Andrea vide quelle mani odiose sciogliere il nodo su la nuca della desiderata, sfiorare i piccoli riccioli neri, quei riccioli vivi che un tempo sotto i baci rendevano un profumo misterioso, non paragonabile ad alcuno de’ profumi conosciuti, ma più di tutti soave, più di tutti inebriante.
Senza indugio, egli si congedò, affermando d’essere aspettato a colazione.
― Noi verremo a star qui definitivamente il primo di febbrajo, martedì ― gli disse Elena. ― Allora sarete, spero, un nostro assiduo.
Andrea s’inchinò.
Avrebbe dato qualunque cosa per non toccare la mano di lord Heathfield. Se ne andò pieno di rancore, di gelosia, di disgusto.
La sera medesima, sul tardi, essendo capitato per caso al Circolo, dove non saliva da molto tempo, egli vide seduto a un tavolo di giuoco Don Manuel Ferres y Capdevila, il ministro del Guatemala. Lo salutò con premura; gli chiese notizie di Donna Maria, di Delfina.
― Sono ancora a Siena? Quando verranno?
Il ministro, memore d’aver guadagnate alcune migliaja di lire giocando col giovine conte nell’ultima notte di Schifanoja, rispose con grande cortesia alla premura. Egli aveva conosciuto Andrea Sperelli giocatore ammirabile, d’alto stile, perfetto.
― Sono qui tutt’e due, da qualche giorno. Arrivarono lunedì. Maria è molto dispiacente di non aver trovata la marchesa d’Ateleta. Io credo che una vostra visita le sarà molto gradita. Stiamo nella via Nazionale. Eccovi l’indirizzo esatto.
Gli diede un suo biglietto. Quindi si rimise al giuoco. Andrea si sentì chiamare dal duca di Beffi ch’era in un crocchio di altri gentiluomini.
― Perchè non sei venuto stamani a Cento Celle? ― gli domandò il duca.
― Avevo un altro appuntamento ― rispose Andrea, senza pensarci, per una scusa qualunque. Il duca si mise a ridacchiare in coro con gli altri amici.
― Al palazzo Barberini?
― Potrebbe darsi.
― Potrebbe darsi? T’ha visto entrare Ludovico...
― E tu dov’eri? ― chiese Andrea al Barbarisi.
― Da mia zia Saviano.
― Ah!
― Non so se tu abbia fatto miglior caccia, ― seguitò il duca di Beffi ― ma noi abbiamo avuto un galoppo veloce di quarantadue minuti e due volpi. Giovedì, alle Tre Fontane.
― Capisci? Non alle Quattro... ― ammonì, con la sua solita gravità comica, Gino Bommìnaco.
Gli amici risero, al motto; e il riso si propagò anche allo Sperelli. Non gli dispiaceva quella malignità. Anzi, ora appunto che mancava il fondamento, egli godeva che gli amici credessero riannodata la sua relazione con Elena. Si volse a discorrere con Giulio Muséllaro sopravvenuto. Da alcune parole giuntegli all’orecchio, s’accorse che nel crocchio si parlava di Lord Heathfield.
― Io lo conobbi a Londra sei o sett’anni fa ― diceva il duca di Beffi. ― Era Lord of the Bedchamber del principe di Galles, mi pare....
Poi la voce s’abbassò. Il duca doveva raccontare cose enormi. All’orecchio d’Andrea giunse, tra frammenti di frasi erotiche, due o tre volte il titolo d’un giornale famoso nella stagione degli scandali di Londra: Pall Mall Gazette. Egli avrebbe voluto ascoltare: una terribile curiosità l’invadeva. Rivide nell’imaginazione le mani di Lord Heathfield, quelle pallide mani, così espressive, così significative, così rivelatrici, indimenticabili. Ma il Muséllaro seguitava a discorrere. Il Muséllaro gli disse:
― Usciamo. Ti racconterò....
Giù per le scale incontrarono il conte Albonico che saliva. Era vestito a lutto per la morte di Donna Ippolita. Andrea si fermò: gli chiese qualche notizia del fatto doloroso. Egli aveva saputo la sventura, nel novembre, a Parigi, da Guido Montelatici, cugino di Donna Ippolita.
― Ma fu un tifo?
Il vedovo biondiccio e scolorito colse l’occasione per versar la sua pena. Egli portava in giro il suo dolore come un tempo aveva portato la bellezza della moglie. La balbuzie immiseriva le sue parole afflitte: e pareva che gli occhi biancastri gli si dovessero sgonfiare, come due bolle di siero, da un momento all’altro.
Giulio Muséllaro, vedendo che l’elegia del vedovo andava un po’ per le lunghe, sollecitò Andrea dicendogli:
― Bada, ci faremo aspettar troppo.
Andrea si licenziò, rimettendo a un prossimo incontro il séguito della commemorazione funebre. Ed uscì con l’amico.
Le parole dell’Albonico gli avevano rinnovato quel sentimento singolare, misto d’un tormentoso desiderio e poi d’una specie di compiacenza, che a Parigi l’aveva per alcuni giorni occupato dopo la notizia della morte. In quei giorni l’imagine di Donna Ippolita, quasi avvolta d’oblio, gli era apparsa, a traverso il tempo della malattia e della convalescenza, a traverso tante altre vicende, a traverso l’amore di Donna Maria Ferres, molto lontana ma avvolta di non so che idealità. Egli aveva da lei ottenuto il consenso; e, pur non essendo giunto a possederla, ne aveva tratto una delle più grandi ebrezze umane: l’ebrezza della vittoria sopra un rivale, d’una vittoria clamorosa, in conspetto della donna desiderata. In quei giorni, il desiderio non potuto appagare gli era risorto; e sotto l’impero dell’imaginazione, l’impossibilità di appagarlo gli aveva dato una inquietudine indicibile, qualche ora di vero supplizio. Poi, tra il desiderio e il rimpianto era nato un altro sentimento, quasi di compiacenza, direi quasi d’elevazione lirica. Gli piaceva che la sua avventura terminasse così, per sempre. Quella donna non posseduta, pel cui acquisto egli era stato sul punto di rimanere ucciso, quella donna quasi sconosciuta gli si levava unica intatta su le cime dello spirito, nella divina idealità della morte. Tibi, Hippolyta, semper!
― Dunque ― raccontava Giulio Muséllaro ― ella è venuta oggi, verso le due.
Raccontava la resa di Giulia Moceto, con un certo entusiasmo, con molte particolarità intorno la rara e segreta bellezza della Pandora infeconda.
― Hai ragione. È una coppa d’avorio, uno scudo raggiante, speculum voluptatis...
In Andrea una certa lieve puntura provata alcuni giorni a dietro, nella notte di luna, dopo il teatro, quando l’amico era salito solo al palazzetto Borghese, facevasi ora di nuovo sentire; mutavasi in un rincrescimento non bene definito ma in fondo a cui si movevano forse, confuse con le memorie, la gelosia, l’invidia e quella suprema intolleranza egoistica e tirannica ch’era nella sua natura e che lo spingeva talvolta a desiderare quasi la distruzione d’una donna già preferita e goduta, affinchè ella non fosse più goduta da altri. Nessuno doveva bevere al bicchiere dove aveva egli bevuto una volta. Il ricordo del suo passaggio doveva bastare a riempire una intera vita. Le amanti dovevano rimaner fedeli in eterno alla sua infedeltà. Questo era il suo sogno orgoglioso. E poi gli spiaceva la publicazione, la divulgazione d’un segreto di bellezza. Certo, s’egli avesse posseduto il Discobolo di Mirone o il Doriforo di Policleto o la Venere cnidia, la sua prima cura sarebbe stata di chiudere il capolavoro in un luogo inaccessibile e di goderne da solo, perchè il godimento altrui non diminuisse il suo proprio. E allora perchè egli medesimo aveva concorso a publicare il segreto? Perchè egli medesimo aveva stimolato la curiosità dell’amico? Perchè egli medesimo gli aveva fatto un augurio? La facilità stessa con cui quella donna s’era data gli metteva ira e disgusto, e anche un poco lo umiliava.
― Ma dove andiamo? ― chiese Giulio Muséllaro, fermandosi nella piazza di Venezia.
In fondo ai varii moti dell’animo e ai varii pensieri Andrea manteneva l’agitazione in lui suscitata dall’incontro con Don Manuel Ferres, il pensiero di Donna Maria, un’imagine balenante. E appunto, in mezzo a quei contrasti momentanei, una sorta di ansietà lo traeva verso la casa di lei.
― Io torno a casa ― rispose. ― Passiamo per la via Nazionale. Accompagnami.
Da allora egli non ascoltò più le parole dell’amico. Il pensiero di Donna Maria lo dominò tutto. Giunto d’innanzi al Teatro ebbe un momento d’esitazione, non sapendo se scegliere il marciapiede di destra o quel di sinistra. Egli voleva scoprire la casa leggendo i numeri delle porte.
― Ma che hai? ― gli chiese il Muséllaro.
― Nulla. T’ascolto.
Guardò un numero e calcolò che la casa doveva essere a manca, non molto lontana, forse in vicinanza della Villa Aldobrandini. I grandi pini della villa apparvero leggeri nel cielo stellato, poichè la notte era gelida ma serena; la Torre delle Milizie levava la sua mole quadrata, cupa fra le stelle; le palme, che crescono su le mura di Servio, al chiaror de’ fanali dormivano immobili.
Pochi numeri mancavano a raggiunger quello segnato sul biglietto di Don Manuel. Andrea trepidava come se Donna Maria fosse per venirgli incontro. La casa era, infatti, vicina. Egli passò rasente il portone chiuso; non potè tenersi dal guardare in su.
― Ma che guardi? ― gli chiese il Muséllaro.
― Nulla. Dammi una sigaretta. Affrettiamo il passo, chè fa freddo.
Percorsero la via Nazionale fino alle Quattro Fontane, in silenzio. La preoccupazione di Andrea era manifesta. L’amico gli disse: ― Tu certo hai qualche cosa che ti tormenta.
E Andrea si sentiva il cuore così gonfio che fu sul punto di abbandonarsi alla confidenza. Ma si trattenne. Egli era ancóra sotto l’impressione delle malignità udite al Circolo, del racconto di Giulio, di tutta quella indiscreta leggerezza da lui stesso provocata, da lui stesso professata. L’assenza completa di mistero nell’avventura, la compiacenza vanitosa degli amanti nell’accogliere i motti e i sorrisi altrui, la cinica indifferenza con cui gli amanti d’un tempo lodano le qualità della donna a coloro che già sono su la via di goderle, e l’affettazione con cui quelli dànno a questi i consigli per giunger meglio allo scopo, e la premura con cui questi danno a quelli i più minuti ragguagli su un primo convegno per sapere se la maniera tenuta ora dalla dama nel concedersi si riconfronti con quella tenuta altre volte, e le cessioni, e le concessioni, e le successioni, e insomma tutte le piccole e grandi viltà che accompagnano i dolci adulterii mondani, gli parvero ridur l’amore una mescolanza insipida e immonda, una volgarità ignobile, una prostituzion senza nome. Le memorie di Schifanoja gli attraversavano l’anima, come profumi cordiali. La figura di Donna Maria gli splendeva dentro con tal vivezza ch’egli n’era quasi attonito; e un’attitudine egli vedeva sopra le altre distinta, sopra le altre luminosa: l’attitudine di lei quando nel bosco di Vicomíle aveva pronunziata la parola ardente. Avrebbe egli riudita quella parola da quella bocca? Che aveva fatto ella, che aveva pensato, come aveva vissuto nel tempo della lontananza? L’agitazione interiore gli cresceva ad ogni passo. Come fantasmagorie mobili e fuggevoli gli passavano nello spirito frammenti di visioni: un lembo di paesaggio, un lembo di mare, una scala tra i rosai, l’interno d’una stanza, tutti i luoghi ov’era nato un sentimento, ov’erasi effusa una dolcezza, ov’ella aveva sparso il fascino della sua persona. Ed egli provava un tremore intimo e profondo a pensare che forse nel cuor di lei ancora viveva la passione, che forse ella aveva sofferto e pianto e forse anche sognato e sperato. Chi sa!
― Ebbene? ― disse Giulio Muséllaro. ― Come vanno le cose con Lady Heathfield?
Scendevano giù per la via delle Quattro Fontane, erano d’innanzi al palazzo Barberini. A traverso i cancelli, tra i colossi di pietra, appariva il giardino oscuro animato da un mormorio fioco di acque, dominato dall’edifizio biancheggiante ove il solo portico aveva ancora un lume.
― Che dici? ― domandò Andrea.
― Come vanno le cose con Donna Elena?
Andrea guardò il palazzo. Gli sembrò, in quel momento, di sentirsi nel cuore una grande indifferenza, la morte vera del desiderio, la finale rinunzia; e trovò, per rispondere, una frase qualunque.
― Seguo il consiglio. Non riaccendo la sigaretta...
― Eppure, vedi, questa volta forse varrebbe la pena. L’hai guardata bene? Mi pare più bella; mi pare, non so, che abbia qualche cosa di nuovo, inesprimibile.... Forse dico male a dir nuovo. È come divenuta più intensa, conservando tutto il suo carattere di bellezza; è insomma, dirò così, più Elena dell’Elena di due o tre anni fa: “essenzia quinta„ . Sarà, forse, effetto della seconda primavera; perchè credo ch’ella debba stare lì lì per toccar la trentina. Non ti sembra?
Andrea si sentì da queste parole pungere, di nuovo accendere. Nulla vale a ravvivare e ad esasperare il desiderio d’un uomo quanto l’udire da altri lodar la donna da lui troppo a lungo posseduta, o troppo a lungo vagheggiata in vano. Ci sono amori in agonia che si protraggono ancora, per virtù dell’altrui invidia, dell’altrui ammirazione; poichè l’amante disgustato o stanco teme di rinunziare al suo possesso o al suo assedio in favore della felicità di chi potrebbe succedergli.
― Non ti sembra? E poi, menelaizzare quell’Heathfield dovrebbe essere un gaudio straordinario.
― Credo anch’io ― disse Andrea, sforzandosi di prendere il tono frivolo dell’amico. ― Vedremo.