< Il piacere
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Capitolo XII
XI XIII


XII



― Maria, lasciate a questo minuto la sua dolcezza, lasciate ch’io esprima tutto il mio pensiero!

Ella si levò. Disse piano, senza sdegno, senza severità, con commozione palese nella voce:

― Perdonatemi. Io non posso ascoltarvi. Mi fate molto male.

― Tacerò. Rimanete, Maria; vi prego.

Di nuovo, ella sedette. Era come al tempo di Schifanoja. Nulla superava la grazia della finissima testa che pareva esser travagliata dalla profonda massa de’ capelli, come da un divino castigo. Un’ombra morbida, tenera, simile alla fusione di due tinte diafane, d’un violetto e d’un azzurro ideali, le circondava gli occhi che volgevan l’iride lionata degli angeli bruni.

― Io non voleva ― soggiunse Andrea, umilmente ― non voleva che ricordarvi le mie parole d’un tempo, quelle che ascoltaste una mattina nel parco, sul sedile di marmo, sotto gli álbatri, in un’ora indimenticabile per me e quasi sacra nella memoria...

― Io le ricordo.

― Ebbene, Maria, da quel tempo la mia miseria è divenuta più trista, più oscura, più crudele. Io non saprò mai dirvi tutte le mie sofferenze, tutte le mie abjezioni; non saprò mai dirvi quante volte la mia anima vi ha chiamata, credendo di morire; non saprò mai dirvi il brivido di felicità, la sollevazione di tutto il mio essere verso la speranza, se per un momento io osava pensare che il ricordo di me forse ancora viveva nel vostro cuore.

Egli parlava con l’accento medesimo di quella mattina lontana; pareva ripreso da quella medesima ebrezza sentimentale. Tutte le malinconie gli risalivano alle labbra. Ed ella ascoltava, a capo chino, immobile, quasi nell’attitudine di quella volta; e la sua bocca, l’espression della sua bocca, invano serrata con violenza, come quella volta, tradiva una sorta di dolorosa voluttà.

― Vi ricordate di Vicomíle? Vi ricordate del bosco, in quella sera d’ottobre, quando traversammo soli?

Donna Maria accennò lievemente col capo, come in atto d’assenso.

― E della parola che mi diceste? ― soggiunse il giovine, più sommesso, ma con nella voce un’espressione intensa di passion contenuta, piegandosi verso di lei molto, come per giungere a guardarla nelli occhi ch’ella teneva ancora chini. Ella li alzò, que’ buoni pietosi dolenti occhi, su lui.

― Di tutto io mi ricordo, ― rispose ― di tutto, di tutto. Perchè dovrei nascondervi l’anima mia? Voi siete uno spirito nobile e grande; ed io ho fede nella vostra generosità. Perchè dovrei condurmi verso di voi come una donna volgare? Quella sera, non vi dissi che vi amavo? Io intendo nella vostra domanda un’altra domanda. Voi mi chiedete se ancora io vi ami.

Ella esitò, un attimo. Le labbra le tremarono.

― Vi amo.

― Maria!

― Ma voi dovete rinunziar per sempre al mio amore, voi dovete allontanarvi da me; dovete essere nobile e grande, e generoso, risparmiandomi una lotta che mi fa paura. Io ho molto sofferto, Andrea, e saputo soffrire; ma il pensiero di dover combattere contro di voi, di dovermi difendere contro di voi, mi dà un terrore folle. Voi non sapete a costo di quali sacrifizi ero giunta ad ottenere la calma del cuore; non sapete a quali alti e carissimi ideali ho rinunziato... Poveri ideali! Sono diventata un’altra donna, perchè era necessario che io diventassi un’altra; sono diventata una donna comune, perchè così chiedeva il dovere.

Ella aveva nella voce una malinconia grave e soave.

― Incontrandovi, sentii d’un tratto risorgere in me i vecchi sogni, sentii rivivere l’anima antica; e ne’ primi giorni mi abbandonai alla dolcezza, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano. Pensavo: ― egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua. ― Ero quasi senza rimorso, senza quasi paura. Ma voi parlaste; voi mi diceste parole che io non aveva udite mai; voi mi strappaste una confessione... il pericolo m’apparve, certo, aperto, manifesto. E ancora m’abbandonai a un sogno. Le vostre angosce mi stringevano, mi facevano una pena profonda. Pensavo: l’impuro l’ha macchiato; s’io bastassi a purificarlo! Sarei felice d’esser l’olocausto della sua rinnovazione. ― La vostra tristezza attirava la mia tristezza. Mi pareva che forse io non avrei saputo consolarvi ma che forse avreste provato un sollievo sentendo un’anima rispondere eternamente amen alle volontà del vostro dolore.

Ella proferì queste ultime parole con tale elevazion spirituale in tutta la figura, che Andrea fu invaso da un’onda di gaudio quasi mistico; e il suo unico desiderio, in quel momento, era di prenderle ambo le mani e d’esalare l’ineffabile ebrezza su quelle care delicate immacolate mani.

― Non è possibile! Non è possibile! ― ella seguitò, scotendo la testa in atto di rammarico. ― Noi dobbiamo rinunziar per sempre a qualunque speranza. La vita è implacabile. Senza volere, voi distruggereste un’intera esistenza e forse non una sola...

― Maria, Maria, non dite queste cose! ― interruppe il giovine, piegandosi ancora verso di lei, prendendole una mano, senza impeto, ma con una specie di trepidazione supplichevole come se prima di compier l’atto egli aspettasse un segno di consenso. ― Io farò quel che vorrete; io sarò umile e obediente; la mia unica aspirazione è d’obedirvi; il mio unico desiderio è di morire nel vostro nome. Rinunziare a voi è rinunziare alla salvezza, ricader per sempre nella rovina, non rialzarsi mai più. Io vi amo come nessuna parola umana potrà mai esprimere. Ho bisogno di voi. Voi soltanto siete vera; voi siete la Verità che il mio spirito cerca. Il resto è vano; il resto è nulla. Rinunziare a voi è come entrar nella morte. Ma se il sacrifizio di me vale a conservarvi la pace, io vi debbo il sacrifizio. Non temete, Maria. Io non vi farò alcun male.

Egli teneva la mano di lei nella sua, ma senza premerla. La sua parola non aveva ardore ma era sommessa, scorata, accorante, piena d’una immensa prostrazione. E la pietà illudeva Maria così ch’ella non ritrasse la mano e s’abbandonò per qualche minuto alla pura voluttà di quel contatto leggero. Era in lei una voluttà tanto sottile che quasi pareva non aver ripercussione organica; era come se un fluido essenziale le si partisse dall’intimo cuore e pel braccio le affluisse alle dita e le si dilatasse oltre le dita con un’onda indefinitamente armoniosa. Quando Andrea tacque, certe parole proferite nel parco, nella mattina indimenticabile, le tornarono alla memoria rianimate dal suon recente della voce di lui, mosse dalla nuova commozione: “La sola presenza vostra visibile bastava a darmi l’ebrezza. Io la sentiva fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano...„

Successe un intervallo di silenzio. Si udiva di tratto in tratto il vento scuotere i vetri delle finestre. Giungeva col vento un clamore lontano, misto al rombo delle vetture. Entrava una luce fredda e limpida come un’acqua sorgiva; negli angoli si raccoglieva l’ombra, e fra le tende composte di tessuti dell’Estremo Oriente; luccicavano qua e là su i mobili le incrostazioni di giada, di avorio, di madreperla; un gran Buddha dorato appariva in fondo, sotto una musa paradisiaca. Quelle forme esotiche davano alla stanza un po’ del loro mistero.

― Ora, che pensate? ― chiese Andrea. ― Non pensate alla mia fine?

Ella pareva assorta in un pensier dubitoso. Era, in vista, irresoluta come se ascoltasse due voci interiori.

― Io non so dirvi ― ella rispose, passandosi la mano su la fronte con un gesto lieve ― non so dirvi che strano presentimento mi opprima, da lungo tempo. Non so; ma io temo.

Ella soggiunse, dopo una pausa:

― Pensare che voi soffrite, che voi siete malato, povero amico, e che io non potrò alleviarvi la pena, che io vi mancherò nella vostra ora d’angoscia, che io non saprò se voi mi chiamerete... Mio Dio!

Ella aveva nella voce un tremito e una fievolezza quasi di pianto, come se le si fosse chiusa la gola. Andrea teneva il capo chino, tacendo.

― Pensare che la mia anima sempre vi seguirà, sempre, e che non potrà mai mai confondersi con la vostra, non potrà mai da voi essere compresa... Povero amore! Ella aveva la voce piena di lacrime, la bocca atteggiata di dolore.

― Non mi abbandonate! Non mi abbandonate! ― proruppe il giovine, prendendole ambo le mani, quasi inginocchiandosi, in preda a una grande esaltazione. ― Io non vi chiederò nulla; non voglio da voi che la pietà. La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra: voi lo sapete. Le vostre sole mani mi potranno guarire; mi potranno ricondurre alla vita, sollevare dalla bassezza, ridonare la fede, liberare da tutte le cattive cose che m’infettano e mi empiono d’orrore. Care, care mani...

Egli si chinò a baciarle, vi tenne premuta la bocca. Socchiuse gli occhi, in atto di somma dolcezza, mentre diceva piano, con un accento indefinibile:

― Vi sento tremare.

Ella si levò, tremante, smarrita, più pallida di quando, nella mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Il vento scoteva i vetri; giungeva un clamore come d’una moltitudine ammutinata. Quelle grida nel vento, che venivano dal Quirinale, le aumentarono l’agitazione.

― Addio. Vi prego, Andrea; non rimanete più qui, mi vedrete un’altra volta, quando vorrete. Ma ora, addio. Vi prego!

― Dove vi vedrò?

― Al concerto, domani. Addio.

Ella era tutta sconvolta, come se avesse commessa una colpa. Lo accompagnò fino alla porta della stanza. Rimasta sola, esitò, non sapendo che fare, ancor tenuta dallo sbigottimento. Si sentiva ardere le guance e le tempie, intorno agli occhi, d’un ardore intenso, mentre pel resto del corpo rabbrividiva; su le mani l’impressione della bocca amata persisteva come un suggello, ed era un’impressione deliziosa, ed ella avrebbe voluto che fosse indelebile come un suggello divino.

Guardò in giro. Nella stanza la luce diminuiva, le forme si perdevano nella mezz’ombra, il gran Buddha raccoglieva nella sua doratura un chiaror singolare. Or sì or no giungevano le grida. Ella andò verso una finestra, l’aprì, si sporse. Un vento gelido soffiava su la strada, ove già verso la piazza di Termini cominciavano ad accendersi i fanali. Incontro, gli alberi della Villa Aldobrandini svettavano, a pena tinti d’un riflesso rossastro. Su la Torre delle Milizie pendeva una enorme nuvola paonazza, solitaria nel cielo.

La sera le parve lugubre. Ella si ritrasse; andò a sedersi nel luogo medesimo del colloquio recente. ― Perchè Delfina non tornava ancora? ― Avrebbe voluto evitare ogni riflessione, ogni meditazione; eppure non so che debolezza la tratteneva in quel luogo ove, pochi minuti innanzi, Andrea aveva respirato, aveva parlato, aveva esalato il suo amore e il suo dolore. Gli sforzi, i propositi, le contrizioni, le preghiere, le penitenze di quattro mesi si disperdevano, si disfacevano, diventavano inutili, in un attimo. Ella ricadeva, sentendosi forse più stanca, più vinta, senza volontà e senza potere contro i fenomeni morali che la sorprendevano, contro le sensazioni che la sconvolgevano; e, mentre s’abbandonava all’angoscia e al languore d’una conscienza in cui ogni coraggio veniva meno, le pareva che qualche cosa di lui fluttuasse nell’ombra della stanza e le avvolgesse tutta la persona, d’una carezza infinitamente soave.

E, il giorno dopo, ella salì al Palazzo dei Sabini, con il cuor palpitante sotto un mazzo di violette.

Andrea già era ad attenderla su la porta della sala. Stringendole la mano, le disse:

― Grazie.

La condusse a una sedia, le si mise accanto. Le disse:

― Credevo di morire aspettandovi. Temevo che non veniste. Come vi son grato!

Le disse:

― Jersera, tardi, io passai dalla vostra casa. Vidi un lume a una finestra, alla terza finestra verso il Quirinale. Non so che avrei dato per conoscere se voi eravate là...

Anche, le chiese:

― Da chi avete avute quelle violette?

― Da Delfina ― ella rispose.

― Vi ha raccontato Delfina il nostro incontro di stamani su la piazza di Spagna?

― Sì; tutto.

Il concerto incominciò con un Quartetto del Mendelssohn. La sala era già quasi interamente occupata. L’uditorio componevasi, in massima parte, di dame straniere; ed era un uditorio biondo, pieno di modestia nelli abiti, pieno di raccoglimento nelle attitudini, silenzioso e religioso come in un luogo pio. L’onda della musica passava su teste immobili, coperte di cappelli scuri, dilatandosi in una luce aurea, in una luce che fluiva dall’alto, temperata dalle tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e nude. E la vecchia sala dei Filarmonici, disadorna, dove appena rimaneva su l’egual candore qualche traccia d’un fregio e dove le misere portiere azzurre stavan per cadere, offriva imagine d’un luogo che fosse rimasto chiuso per un secolo e fosse stato riaperto proprio in quel giorno. Ma quel color di vecchiezza, quell’aria di povertà, quella nudità delle pareti aggiungevano non so che strano sapore allo squisito diletto dell’udizione; e il diletto pareva più segreto, più alto, più puro là dentro, per ragion d’un contrasto. Era il 2 di febbrajo, un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento disputava per il fatto di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati.

I ricordi musicali di Schifanoja sorsero nello spirito de’ due amanti; un riflesso di quell’autunno illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto mendelssohniano si svolgeva la visione della villa maritima, della sala profumata dai giardini sottoposti, dove negli intercolunnii del vestibolo si levavano le cime dei cipressi, si scorgevano le vele di fiamma su un lembo di mare sereno.

Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva piano:

― Che pensate?

Ella rispondeva con un sorriso così tenue ch’egli appena giungeva a coglierlo.

― Vi ricordate del 23 settembre? ― ella disse. Andrea non aveva ben distinto nella memoria quel ricordo, ma assentì col capo.

L'Andante calmo e solenne, dominato da un’alta melodia patetica, dopo estesi sviluppi aveva uno scoppio di dolore. Il Finale insisteva in una certa monotonia ritmica, piena di stanchezza.

Ella disse:

― Ora viene il vostro Bach.

E ambedue, quando la musica ricominciò, provarono un bisogno istintivo di riavvicinarsi. I loro gomiti si sfioravano. Alla fine d’ogni tempo, Andrea si chinava verso di lei per legger nel programma ch’ella teneva spiegato fra le mani; e, nell’atto, le premeva il braccio, sentiva l’odore delle viole, le comunicava un brivido di delizia. L'Adagio aveva una elevazion di canto così possente, saliva con tal volo alle sommità dell’estasi, con tal piena sicurezza allargavasi nell’Infinito, che parve la voce d’una creatura sopraumana la quale effondesse nel ritmo il giubilo d’una sua conquista immortale. Tutti gli spiriti erano trascinati dall’onda irresistibile. Quando la musica cessò, lo stesso fremito degli strumenti durò qualche minuto nell’uditorio. Un susurro corse da un capo all’altro della sala. L’applauso irruppe, dopo l’indugio, più vivo.

I due si guardarono, con gli occhi alterati, come se si distaccassero dopo un amplesso d’insostenibile piacere. La musica continuava; la luce della sala diveniva più discreta; un tepor dilettoso addolciva l’aria; intiepidite, le violette di Donna Maria esalavano un profumo più forte. Andrea aveva quasi l’illusione d’essere solo con lei, poichè non vedeva d’innanzi a sè persone ch’egli conoscesse.

Ma s’ingannava. In un intervallo, volgendosi, vide Elena Muti diritta in fondo alla sala, accompagnata dalla principessa di Ferentino. Súbito, il suo sguardo incontrò quel di lei. Da lontano, egli salutò. Gli parve di scorgere su le labbra di Elena un sorriso singolare.

― Chi salutate? ― chiese Donna Maria, anche volgendosi. ― Chi sono quelle signore?

― Lady Heathfield e la principessa di Ferentino.

Ella credè sentire nella voce di lui un turbamento.

― Qual è la Ferentino?

― La bionda.

― L’altra è molto bella.

Andrea tacque.

― Ma è una inglese? ― ella soggiunse.

― No; è una romana; è la vedova del duca di Scerni, passata a Lord Heathfield in seconde nozze.

― È molto bella.

Andrea domandò, con premura:

― Ora, che soneranno?

― Il Quartetto del Brahms, in do minore.

― Lo conoscete?

― No.

― Il secondo tempo è meraviglioso.

Per celare la sua inquietudine, egli parlava.

― Quando vi vedrò, ancora?

― Non so.

― Domani? Ella titubò. Pareva che le fosse discesa pel volto una lieve ombra. Rispose:

― Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina su la piazza di Spagna, verso mezzogiorno.

― E se il sole mancasse?

― Sabato sera, andrò dalla contessa Starnina...

La musica ricominciava. Il primo tempo esprimeva un lottar cupo e virile, pieno di vigore. La Romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un’alba assai lontana. Una chiara frase melodica si svolgeva con profonde modulazioni. Era un sentimento assai diverso da quel che animava l'Adagio del Bach: era più umano, più terreno, più elegiaco. Passava in quella musica un soffio di Ludovico Beethoven.

Andrea fu invaso da una così terribile ansia che temè di tradirsi. Tutta la dolcezza di prima gli si convertì in amarezza. Egli non aveva la conscienza esatta di questo suo nuovo sofferire; non sapeva raccogliersi nè dominarsi; ondeggiava perduto fra la duplice attrazion feminile e il fascino della musica, da nessuna delle tre forze penetrato; provava, dentro, un’impressione indefinibile, come d’un vuoto in cui risonassero di continuo grandi urti con un’eco dolorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille frammenti, si sconnetteva, si disfaceva; e le due imagini feminili si sovrapponevano, si confondevano, si distruggevano a vicenda, senza ch’egli potesse giungere a separarle, senza ch’egli potesse giungere a definire il suo sentimento verso l’una, il suo sentimento verso l’altra. E a fior di questa torbida sofferenza interiore si moveva l’inquietudine prodotta dalla immediata realità, dalle preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli sfuggiva un leggero cambiamento nell’attitudine di Donna Maria verso di lui; e credeva sentire lo sguardo di Elena assiduo e fisso; e non giungeva a trovare un modo di contenersi, non sapeva se dovesse accompagnar Donna Maria nell’uscir dalla sala o se dovesse avvicinarsi a Elena, nè sapeva se quel caso gli avrebbe giovato o nociuto presso l’una e l’altra.

― Io vado ― disse Donna Maria levandosi, dopo la Romanza.

― Non aspettate la fine?

― No; debbo essere a casa per le cinque.

― Ricordatevi, domattina...

Ella gli tese la mano. Forse pel calore dell’aria chiusa, una lieve Fiamma le avvivava la pallidezza. Un mantello di velluto, d’un color cupo di piombo, orlato d’una larga zona di chinchilla, le copriva tutta la persona: e tra la pelliccia cinerea le violette morivano squisitamente. Nell’uscire, ella camminava con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi a guardarla. E per la prima volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale, nella pura madonna senese, la dama di mondo.

Il Quartetto entrava nel terzo tempo. Poichè la luce diurna diminuiva, furono alzate le tendine gialle, come in una chiesa. Altre signore abbandonarono la sala. Sorgeva qua e là qualche bisbiglio. Cominciavano nell’uditorio la stanchezza e la disattenzione, che son proprie della fine d’ogni concerto. Per uno di que’ singolari fenomeni d’elasticità e di volubilità repentini, Andrea provò un senso di sollievo, quasi gajo. Egli perse ogni preoccupazion sentimentale e passionale, d’un tratto; e l’avventura di piacere apparve sola alla sua vanità, alla sua viziosità, lucidamente. Egli pensò che Donna Maria, concedendogli quei convegni innocui, già aveva messo il piede su la dolce china in fondo a cui è il peccato inevitabile anche per le anime più vigili; pensò che forse un po’ di gelosia avrebbe potuto spingere Elena a ricadergli nelle braccia, e che quindi forse l’una avventura avrebbe ajutata l’altra; pensò che forse appunto un vago timore, un presentimento geloso avevano affrettato l’assenso di Donna Maria al prossimo convegno. Egli era dunque su la via di una duplice conquista; e sorrise notando che in ambedue le imprese la difficoltà si presentava sotto un medesimo aspetto. Egli doveva convertire in amanti due sorelle, cioè due che volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre simiglianze fra i due casi egli notò, sorridendo. ― Quella voce! Com’erano strani nella voce di Donna Maria gli accenti d’Elena! ― Gli balenò un pensiero folle. ― Quella voce poteva esser per lui l’elemento d’un’opera d’imaginazione: in virtù d’una tale affinità egli poteva fondere le due bellezze per possederne una terza imaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perchè ideale...

Il terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, finiva tra gli applausi. Andrea si levò; si avvicinò a Elena.

― Oh, Ugenta, dove siete stato fino ad ora? ― gli disse la principessa di Ferentino. ― Au pays du Tendre?

― E quell’incognita? ― gli disse Elena, con un’aria leggera, odorando un mazzo di viole tirato fuori dal manicotto di martora.

― È una grande amica di mia cugina: Donna Maria Ferres y Capdevila, moglie del nuovo ministro di Guatemala ― rispose Andrea, senza turbarsi. ― Una bella creatura, assai fine. Era da Francesca, a Schifanoja, in settembre.

― E Francesca? ― interruppe Elena. ― Non sapete quando tornerà?

― Ho notizie sue, da San Remo, recenti. Ferdinando migliora. Ma temo ch’ella dovrà trattenersi là qualche altro mese, forse più.

― Che peccato!

Il Quartetto entrava nell’ultimo tempo, molto breve. Elena e la Ferentino avevano occupato due sedie, in fondo, lungo la parete, sotto il pallido specchio dove si rifletteva la sala malinconica. Elena ascoltava, con la testa china, facendo scorrere tra le sue mani le estremità d’un lucido boa di martora.

― Accompagnateci ― ella disse, quando il concerto fu finito, allo Sperelli.

Montando in carrozza, dopo la Ferentino, ella disse:

― Montate anche voi. Lasciamo Eva al palazzo Fiano. Vi poso poi dove volete.

― Grazie.

Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perchè tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l’orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d’Africa.

― Per quattrocento bruti, morti brutalmente! ― mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.

― Ma che dite? ― esclamò la Ferentino.

Su l’angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu costretta a fermarsi. Elena si chinò per guardare; e il suo volto fuor dell’ombra illuminandosi al riflesso del fanale e alla luce del crepuscolo apparve d’una bianchezza quasi funeraria, d’una bianchezza gelida e un po’ livida, che risvegliò in Andrea il ricordo vago d’una testa veduta ― non sapeva più quando, non sapeva più dove ― in una galleria, in una cappella.

― Eccoci ― disse la principessa, poichè la carrozza era giunta finalmente al palazzo Fiano. ― Addio dunque. Ci ritroveremo stasera dall’Angelieri. Addio, Ugenta. Venite domani a colazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti e mio cugino.

― L’ora?

― Mezz’ora dopo mezzogiorno.

― Va bene. Grazie.

La principessa discese. Il servo aspettava un ordine.

― Dove volete ch’io vi porti? ― domandò Elena allo Sperelli che le si era già seduto accanto, nel posto dell’amica.

Far, far away...

― Su via, dite: a casa vostra?

E senza aspettare altra risposta, ella ordinò:

― Trinità de’ Monti, palazzo Zuccari.

Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per la via Frattina, lasciando dietro di sè la folla, le grida, i romori.

― Oh, Elena, dopo tanto... ― proruppe Andrea, chinandosi a guardare la desiderata che s’era raccolta nell’ombra, in fondo, come schiva d’un contatto.

Il chiaror d’una vetrina, al passaggio, traversò l’ombra; ed egli vide che Elena sorrideva, bianca, d’un sorriso attirante.

Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d’un laccio. Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza parlare.

Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni terribili e soavi che duravano fino all’ambascia e davano al cuore la sensazione illusoria come d’un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli sali per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al palazzo Zuccari. Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli disse, con la voce un po’ velata:

― Discendi. Addio.

― Quando verrai?

― Chi sa!

Il servo aprì lo sportello. Andrea discese. La carrozza voltò di nuovo, per riprendere la via Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con gli occhi ancor fluttuanti in una nebbia torbida, guardava se apparisse dietro il vetro il volto di Elena; ma non vide nulla. La carrozza si allontanò.

Risalendo le scale, egli pensava: ― Al fine, ella si converte! Gli rimaneva nel capo quasi un vapore d’ebrezza, gli rimaneva nella bocca il gusto del bacio, gli rimaneva nella pupilla il balen del sorriso con cui Elena gli aveva gittato al collo quella specie di serpe rilucente e aulente. ― E Donna Maria? ― Egli, certo, doveva alla senese l’inaspettata voluttà. Senz’alcun dubbio, in fondo all’atto strano e fantastico di Elena era un principio di gelosia. Temendo forse ch’egli le sfuggisse, ella aveva voluto legarlo, adescarlo, accendergli di nuovo la sete. ― Mi ama? Non mi ama? ― E che importava a lui saperlo? Che gli giovava? Omai l’incanto era rotto. Nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della felicità morta. Conveniva a lui occuparsi della carne che era ancora divina.

Si compiacque a lungo nel considerar l’avventura. Si compiacque, in ispecie, della maniera elegante e singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio. E l’imagine del boa suscitò l’imagine della treccia di Donna Maria, suscitò in confuso tutti gli amorosi sogni da lui sognati intorno a quella vasta capellatura vergine che un tempo faceva languir d’amore le educande nel monastero fiorentino. Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la duplicità del godimento; travide la terza Amante ideale.

Entrava in una disposizion di spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo, ripensava: ― Jeri, una grande scena di passione, quasi con lacrime; oggi una piccola scena muta di sensualità. E a me pareva jeri d’essere sincero nel sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi stesso, un’ora prima del bacio d’Elena, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani, certo, ricomincerò. Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l’unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch’io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge.

Rise di sè medesimo. E da quell’ora ebbe principio la nuova fase della sua miseria morale.

Senza alcun riguardo, senza alcun ritegno, senza alcun rimorso, egli si diede tutto a porre in opera le sue imaginazioni malsane. Per trarre Maria Ferres a cedergli, usò i più sottili artifizii, i più delicati intrichi, illudendola a punto nelle cose dell’anima, nella spiritualità, nell’idealità, nell’intima vita del cuore. Per proseguire con egual prestezza nell’acquisto della nuova amante e nel riacquisto dell’antica, per profittar d’ogni circostanza nell’una e nell’altra impresa, egli andò incontro a una quantità di contrattempi, d’impacci, di bizzarri casi; e ricorse, per uscirne, a una quantità di menzogne, di trovati, di ripieghi meschini, di sotterfugi degradanti, di bassi raggiri. La bontà, la fede, il candore di Donna Maria non lo soggiogavano. Egli aveva messo a fondamento della sua seduzione il versetto d’un salmo: “Asperges me hyssopo et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbabor.„ La povera creatura credeva di salvare un’anima, di redimere un’intelligenza, di purificare con la sua purità un uomo macchiato; credeva ancor profondamente alle parole indimenticabili udite nel parco, in quella Epifania dell’Amore, al conspetto del mare, sotto gli alberi floridi. E questa fede appunto la ristorava e la sollevava in mezzo alle lotte cristiane che di continuo si combattevano nella sua conscienza, la liberava dal sospetto, la inebriava d’una specie di misticismo voluttuoso in cui ella effondeva tesori di tenerezza, tutta l’onda raccolta de’ suoi languori, il fior più dolce della sua vita.

Per la prima volta, forse, Andrea Sperelli si trovava innanzi a una vera passione; per la prima volta si trovava innanzi a uno di quei grandi sentimenti feminili, rarissimi, che illuminano d’un bello e terribile baleno il ciel grigio e mutevole degli amori umani. Egli non se ne curò. Divenne lo spietato carnefice di sè stesso e della povera creatura.

Ogni giorno un inganno, una viltà.

Il giovedì, il 3 febbraio, su la piazza di Spagna, secondo la parola corsa al concerto, egli la incontrò davanti alla mostra d’un orafo con Delfina. Appena udì il saluto di lui, ella si volse; e una fiamma le tinse il pallore. Guardarono insieme i gioielli del Settecento, le fibbie e i diademi di stras, gli spilli e gli orologi di smalto, le tabacchiere d’oro, d’avorio, di tartaruga, tutte quelle minuterie d’un secolo morto, che in quella chiara luce mattinale formavano una ricchezza armoniosa. D’intorno, i fiorai andavano offerendo in canestri le giunchiglie gialle e bianche, le violette doppie, lunghi rami di mandorlo. Un fiato di primavera passava nell’aria. La colonna della Concezione saliva agile al sole, come uno stelo, con la Rosa mystica in sommo; la Barcaccia era carica di diamanti; la scala della Trinità slargava in letizia i suoi bracci verso la chiesa di Carlo VIII erta con le due torri in un azzurro annobilito da’ nuvoli, in un cielo antico del Piranesi.

― Che meraviglia!― esclamò Donna Maria. ― Avete ragione d’esser tanto innamorato di Roma.

― Oh, voi non la conoscete ancora! ― le disse Andrea. ― Io vorrei essere il vostro duca...

Ella sorrise.

― ... compiere presso di voi, in questa primavera, un vergiliato sentimentale.

Ella sorrideva, con in tutta la persona un’apparenza men triste, men grave. Il suo abbigliamento di mattina aveva un’eleganza sobria ma rivelava la finissima ricerca d’un gusto educato alle cose dell’arte, alle delicatezze del colore. La sua giacca incrociata in forma di scialle, era d’un panno grigio pendente un poco nel verde; e una striscia di lontra ne ornava gli orli e su la lontra correva un ricamo fatto d’un cordoncino di seta. E la giacca si apriva su una sottoveste anche di lontra. E come il taglio era d’eletto stile così l’accordo de’ due toni, di quell’indescrivibile grigio e di quel fulvo opulento, era una delizia delli occhi.

Ella domandò:

― Dove foste jer sera?

― Uscii dal concerto pochi minuti dopo di voi. Tornai a casa; restai là, perchè mi parve che il vostro spirito fosse presente. Pensai molto. Non sentiste il mio pensiero?

― No, non lo sentii. La mia sera fu cupa, non so perchè. Mi parve d’essere tanto sola!

Passò la contessa di Lúcoli in un dog―cart guidando un roano. Passò, a piedi, Giulia Moceto accompagnata da Giulio Muséllaro. Passò Donna Isotta Cellesi.

Andrea salutava. Donna Maria gli chiedeva i nomi delle signore: quello della Moceto non le fu nuovo. Si rammentò del giorno in cui venne pronunziato da Francesca, innanzi all’arcangelo Michele del Perugino, quando Andrea sfogliava i suoi disegni nella stanza di Schifanoja; e seguì con lo sguardo l’antica amante dell’amato. Un’inquietudine la strinse. Tutto ciò che legava Andrea alla vita anteriore le dava ombra. Ella avrebbe voluto che quella vita, a lei ignota, non fosse mai stata; avrebbe voluto interamente cancellarla dalla memoria di chi vi s’era immerso con tanta avidità e n’era emerso con tanta stanchezza, con tanta perdita, con tanti mali. “Vivere unicamente in voi e per voi, senza domani, senza jeri, senza alcun altro legame, senza alcuna altra preferenza, fuor del mondo...„ Erano le parole di lui. Oh sogno!

E stringeva Andrea una diversa inquietudine. S’avvicinava l’ora della colazione offerta dalla principessa di Ferentino.

― Per dove siete diretta? ― domandò.

― Io e Delfina abbiamo preso tè e sandwiches dal Nazzarri, con l’intenzione di godere il sole. Saliremo al Pincio e visiteremo forse la Villa Medici. Se volete farci compagnia...

Egli ondeggiò, dentro, penosamente. ― Il Pincio, Villa Medici, in un pomeriggio di febbrajo, con lei! ― Ma non poteva mancare all’invito; e lo tormentava anche la curiosità d’incontrare Elena dopo la scena della sera, poichè, sebbene egli fosse andato in casa Angelieri, ella non vi era apparsa. Disse, con un’aria desolata:

― Che sfortuna! Devo trovarmi a una colazione, fra un quarto d’ora. Accettai l’invito, la settimana scorsa. Ma se avessi saputo, avrei potuto liberarmi da qualunque impegno. Che sfortuna!

― Andate; non perdete tempo. Vi fareste aspettare....

Egli guardò l’oriolo.

― Posso ancora accompagnarvi per un tratto.

― Mamma, ― pregò Delfina ― andiamo su per la scala. Andai su, ieri, con miss Dorothy. Se tu vedessi!

Come erano in vicinanza del Babuino, voltarono per attraversare la piazza. Un fanciullo li seguiva pertinace nell’offrire un gran ramo di mandorlo che Andrea comprò e donò a Delfina. Dagli alberghi uscivano signore bionde con in mano il libro rosso del Baedeker; le pesanti vetture a due cavalli s’incrociavano, con un luccichio metallico nei guarnimenti di vecchia foggia; i fiorai sollevavano verso le straniere i canestri colmi, vociferando, a gara.

― Promettetemi ― disse Andrea a Donna Maria, ponendo il piede sul primo gradino ― promettetemi che non entrerete nella Villa Medici senza di me. Oggi, rinunziate; vi prego.

Ella pareva occupata da un pensiero triste. Disse:

― Rinunzierò.

― Grazie.

La scala d’innanzi a loro levavasi in trionfo, emanando dalla pietra riscaldata un tepore mitissimo; e la pietra aveva un colore d’antica argenteria, simile a quel delle fontane di Schifanoja. E Delfina precedeva correndo, col ramo fiorito, mentre nel vento della corsa qualche fragile foglia rosea s’involava come una farfalla.

Un acuto rammarico punse il cuore del giovine. Gli apparvero tutte le dolcezze d’una passeggiata sentimentale pei sentieri medìcei, sotto i bossoli muti, in quella prima ora del pomeriggio.

― Da chi andate? ― gli domandò Donna Maria, dopo un intervallo di silenzio.

― Dalla vecchia principessa Alberoni ― rispose Andrea. ― Tavola cattolica.

Mentì anche una volta, poichè un istinto l’avvertiva che forse il nome della Ferentino avrebbe suscitato in Donna Maria qualche sospetto. ― Dunque, addio ― ella soggiunse, porgendogli la mano.

― No; vengo fin su la piazza. Ho il mio legno che m’attende là. Guardate: quella è la mia casa.

E le indicò il palazzo Zuccari, il buen retiro, inondato dal sole, che dava imagine d’una strana serra diventata opaca e bruna pel tempo.

Donna Maria guardò.

― Ora che la conoscete, non verrete qualche volta... in ispirito?

― In ispirito, sempre.

― Prima di sabato sera non i rivedrò?

― Difficilmente.

Si salutarono. Ella, con Delfina, si mise pel viale arborato. Egli montò nel suo legno e s’allontanò per la via Gregoriana.

Giunse dalla Ferentino con qualche minuto di ritardo. Si scusò. Elena era là col marito.

La colazione fu servita in un’allegra sala tappezzata d’arazzi della fabbrica barberina rappresentanti Bambocciate su lo stile di Pietro Loar. Fra quel bel Seicento grottesco incominciò a scintillare e a scoppiettare un fuoco di maldicenza meraviglioso. Tutt’e tre le dame avevano lo spirito gaio e pronto. Barbarella Viti rideva del suo forte riso maschile, arrovesciando un po’ indietro la bella testa efebica; e i suoi occhi neri s’incontravano e si mescevano troppe volte con i verdi occhi della principessa. Elena motteggiava con una straordinaria vivacità; e sembrava ad Andrea così discosta, così estranea, così incurante ch’egli quasi dubitò ― Ma jersera fu un sogno? ― Ludovico Barbarisi e il principe di Ferentino secondavano le dame. Il marchese di Mount Edgcumbe si prendeva cura d’annojare il suo giovine amico chiedendogli notizie intorno le prossime Vendite e parlandogli d’una rarissima edizione del romanzo d’Apulejo Metamorphoseon da lui acquistata pochi giorni innanzi, per mille cinquecento venti lire: ― ROMA, 1469, in folio. ― Di tratto in tratto egli s’interrompeva per seguire un gesto di Barbarella; e passava ne’ suoi occhi lo sguardo del maniaco e nelle sue mani odiose un tremito singolare.

L’irritazione, il fastidio, l’insofferenza in Andrea arrivarono a tal punto ch’egli non riusciva più a dissimularli.

― Ugenta, siete di malumore? ― gli chiese la Ferentino.

― Un poco. È malato Miching Mallecho.

E allora il Barbarisi lo annoiò con molte domande su la malattia del cavallo. E poi il Mount Edgcumbe ricominciò col Metamorphoseon. E la Ferentino, ridendo:

― Sai, Ludovico, ieri, al concerto del Quintetto, lo sorprendemmo in flirtation con una Incognita.

― Già ― fece Elena.

― Una Incognita?― esclamò Ludovico.

― Sì; ma forse tu ci potrai dare informazioni. È la moglie del nuovo ministro di Guatemala.

― Ah, ho capito.

― Dunque?

― Io, per ora, non conosco che il ministro. Lo vedo giocare al Circolo tutte le notti. ― Dite, Ugenta: è già stata ricevuta dalla Regina?

― Non so, principessa ― rispose Andrea, con un po’ d’impazienza nella voce.

Quel cicaleccio gli diveniva insopportabile; e la gajezza di Elena gli dava una orribile tortura, e la vicinanza del marito lo disgustava come non mai. Più che contro questi, egli aveva ira contro sè medesimo. In fondo alla sua irritazione, movevasi un senso di rimpianto verso la felicità dianzi ricusata. Il suo cuore, deluso e offeso dall’attitudine crudele di Elena, si rivolgeva all’altra con un acuto pentimento; ed egli la vedeva pensosa, in un viale solitario, bella e nobile come non mai.

La principessa si levò, tutti si levarono, per passare nel salone attiguo. Barbarella corse ad aprire il pianoforte che spariva sotto una vasta sciablacca di velluto rosso trapunta d’un oro opaco; e si mise a cantarellare la Tarentelle di Giorgio Bizet dedicata a Cristina Nilsson. Elena ed Eva si chinavano su di lei per leggere la pagina della musica. Ludovico stava in piedi, dietro a loro, fumando una sigaretta. Il principe era scomparso.

Ma Lord Heathfield non lasciava Andrea. L’aveva tratto nel vano d’una finestra e gli parlava di certe Coppette amatorie urbaniesi da lui acquistate nella vendita del cavalier Dávila; e quella voce stridula, con quella stucchevole intonazione interrogativa, e que’ gesti che indicavano le dimensioni delle coppette, e quello sguardo ora morto ora tagliente sotto la enorme fronte convessa, e tutte insomma quelle sembianze esose erano per Andrea un supplizio così fiero ch’egli stringeva i denti convulso come un uomo sotto i ferri d’un chirurgo.

Un solo desiderio l’occupava omai: quel d’andarsene. Egli pensava di correre al Pincio, sperava di ritrovare la Donna Maria, di condurla nella Villa Medici. Potevan esser le due. Egli vedeva dalla finestra il cornicione della casa incontro splendido di sole nel cielo azzurro. Volgendosi, vedeva al pianoforte il gruppo delle dame nel bagliore vermiglio che un fascio di raggi suscitava dalla sciablacca. Al bagliore mescevasi il fumo leggero della sigaretta; e le ciarle e le risa si mescevano a qualche accordo che le dita di Barbarella cercavano a caso su i tasti. Ludovico parlò piano nell’orecchio di sua cugina; e la cugina comunicò forse la cosa alle amiche, poichè di nuovo fu uno scroscio chiaro e brillante come d’una collana disfilata su una guantiera d’argento. E Barbarella riprese l'Allegretto del Bizet, sotto voce.

Tra la la... Le papillon s’est envolè... Tra la la...

Andrea aspettava di cogliere il momento opportuno per interrompere il discorso del Mount Edgcumbe e per quindi prender congedo. Ma il collezionista metteva fuori un séguito di periodi legati l’uno con l’altro, senza intervalli, senza pause. Una pausa avrebbe salvato il martire, e non veniva ancora; e l’ansietà cresceva ad ogni attimo.

Oui! Le papillon s’est envolè... Oui!... Ah! ah! ah! ah! ah!...

Andrea guardò l’oriolo. ― Sono già le due! Perdonatemi, marchese. Bisogna ch’io vada.

E accostandosi al gruppo:

― Perdonatemi, principessa. Alle due ho un consulto in scuderia coi veterinarii.

Salutò in gran fretta. Elena gli diede a stringere la punta delle dita. Barbarella gli diede un fondant, dicendogli:

― Portatelo al povero Miching da parte mia.

Ludovico voleva accompagnarlo.

― No; resta.

S’inchinò e uscì. Fece le scale in un baleno. Saltò nel suo legno, gridando al cocchiere:

― Di corsa, al Pincio!

Egli era invaso da un desiderio folle di ritrovare Maria Ferres, di ricuperare la felicità a cui dianzi aveva rinunziato. Il trotto fitto de’ suoi cavalli non gli sembrava a bastanza veloce. Guardava ansioso, per veder finalmente apparire la Trinità de’ Monti, lo stradone arborato, i cancelli.

La carrozza oltrepassò i cancelli. Egli ordinò al cocchiere di moderare il trotto e di girare per tutti i viali. Il cuore gli dava un balzo ogni volta che di lungi, tra gli alberi, appariva una figura di donna; ma in vano. Su la spianata egli discese; prese i piccoli viali chiusi alle vetture, esplorando ogni angolo: in vano. Le persone dai sedili lo seguivano con gli occhi, per curiosità, poichè la sua inquietudine era manifesta.

Essendo la Villa Borghese aperta, il Pincio riposava tranquillo sotto quel sorriso languido di febbrajo. Rare carrozze e rari pedoni interrompevano la pace del monte. Gli alberi ancor nudi, biancastri, taluni un po’ violetti, ergevano le braccia in un cielo delicato, sparso di ragnateli finissimi che il vento strappava e distruggeva col suo soffio. I pini, i cipressi, le altre piante sempre verdi assumevano un po’ del comun pallore, sfumavano, si scolorivano, si fondevano nel comune accordo. La varietà de’ tronchi, il frastaglio de’ rami rendevano più solenne l’uniformità delle erme.

Non fluttuava forse ancora in quell’aria qualche cosa della tristezza di Donna Maria? Appoggiato al cancello della Villa Medici, Andrea rimase per alcuni minuti come oppresso da un peso enorme.

E la vicenda continuò, ne’ giorni vegnenti, con le medesime torture, con torture peggiori, con più crudeli menzogne. Per un fenomeno non raro nell’abjezion morale delli uomini d’intelletto, egli aveva ora una terribile lucidità di conscienza, una lucidità continua, senza più oscurazioni, senza più eclissi. Egli sapeva quel che faceva, e giudicava poi quel che aveva fatto. E in lui il disprezzo di sè stesso era pari all’ignavia della volontà.

Ma le sue ineguaglianze appunto e le sue incertezze e i suoi strani silenzii e le sue strane effusioni e tutte insomma le singolarità di espressione, che portava un tale stato d’animo, accrescevano, incitavano la passionata misericordia di Donna Maria. Ella lo vedeva soffrire e ne provava dolore e tenerezza; e pensava: ― A poco a poco, io lo guarirò. ― E a poco a poco, senza accorgersene, ella andava perdendo la forza e piegando verso il desiderio dell’infermo.

Ella piegava dolcemente.

Nel salone della contessa Starnina, ebbe un indefinibile brivido quando sentì su le sue spalle e su le sue braccia scoperte lo sguardo di Andrea. Per la prima volta Andrea la vedeva in abito da sera. Egli di lei conosceva soltanto il volto e le mani: ora, le spalle gli parvero di squisita forma ed anche le braccia, se bene forse un po’ magre.

Era ella vestita d’un broccato color d’avorio, misto di zibellino. Una sottile striscia di zibellino correva intorno la scollatura, dando alla carne una indescrivibile finezza; e la linea delle spalle dall’appiccatura del collo alli omeri cadeva giù alquanto, aveva quella cadente grazia che è un segno d’aristocrazia fisica divenuto omai rarissimo. Su i capelli copiosi, disposti in quella foggia che predilesse pe’ suoi busti il Verrocchio, non splendeva nè una gemma nè un fiore.

In due o tre momenti opportuni, Andrea le mormorò parole d’ammirazione e di passione.

― È la prima volta che noi ci vediamo “nel mondo„ ― le disse. ― Mi date un guanto, per memoria?

― No.

― Perchè, Maria?

― No, no; tacete.

― Oh le vostre mani! Vi ricordate quando, a Schifanoja, le disegnai? Mi pare che mi appartengano di diritto; mi pare che voi dobbiate concedermene il possesso, e che, di tutto il vostro corpo, sieno le cose più intimamente animate dall’anima vostra, le più spiritualizzate, quasi direi le più pure... Mani di bontà, mani di perdono... Come sarei felice di possedere almeno un guanto: una larva, una parvenza della loro forma, una spoglia profumata dal loro profumo!... Mi date un guanto, prima d’andarvene?

Ella non rispose più. Il colloquio fu interrotto. Dopo qualche tempo, pregata, ella sedè al pianoforte; si tolse i guanti, li posò sul leggío. Le sue dita, fuor di quelle sottili guaine, apparvero bianchissime, lunghette, inanellate. Brillava di vivi fuochi su l’anulare sinistro un grande opale.

Sonò le due Sonate-Fantasie del Beethoven (op. 27). L’una, dedicata a Giulietta Guicciardi, esprimeva una rinunzia senza speranza, narrava il risveglio dopo un sogno troppo a lungo sognato. L’altra fin dalle prime battute dell'andante, in un ritmo soave e piano, accennava a un riposo dopo la tempesta; quindi, passando per le irrequietudini del secondo tempo, allargavasi in un adagio di luminosa serenità e finiva con un allegro vivace in cui era una sollevazion di coraggio e quasi un ardore.

Andrea sentì che, in mezzo a quell’uditorio intento, ella sonava sol per lui. Di tratto in tratto, i suoi occhi dalle dita della sonatrice andavano ai lunghi guanti che pendevano di sul leggío conservando l’impronta di quelle dita, conservando una inesprimibile grazia nella piccola apertura del polso ove dianzi appariva appena appena un po’ della cute feminile.

Donna Maria si levò, circondata d’elogi. Non riprese i guanti; s’allontanò. Invase allora Andrea la tentazion d’involarli. ― Li aveva ella forse lasciati là per lui? i Ma egli ne voleva uno solo. Come diceva finamente un fino amatore, un par di guanti è tutt’altro che un guanto solo.

Condotta di nuovo al pianoforte dall’insistenza della contessa Starnina, Donna Maria tolse dal leggío i guanti e li posò all’estremità della tastiera, nell’ombra dell’angolo. Quindi sonò la gavotta di Luigi Rameau, la Gavotta delle dame gialle, l’indimenticabile danza antica del Tedio e dell’Amore. “Certe dame biondette, non più giovini...„

Andrea la guardava fiso, con un po’ di trepidazione. Quando ella si levò, prese un guanto solo. Lasciò l’altro nell’ombra, su la tastiera, per lui.

Tre giorni dopo, essendo Roma attonita sotto la neve, Andrea trovò a casa questo biglietto: “Martedì, ore 2 pom. ― Stasera, dalle undici a mezzanotte, mi aspetterete in una carrozza, d’innanzi al palazzo Barberini, fuori del cancello. Se a mezzanotte non sarò ancora apparsa, potrete andarvene. ― A stranger„. Il biglietto aveva un tono romanzesco e misterioso. In verità la marchesa di Mount Edgcumbe faceva troppo abuso di carrozza nell’esercizio dell’amore. Era forse per un ricordo del 25 marzo 1885? Voleva forse ella riprender l’avventura nel momento medesimo con cui l’aveva interrotta? E perchè quello stranger? Andrea ne sorrise. Egli tornava allora allora da una visita a Donna Maria, da un’assai dolce visita; e il suo spirito inchinava più verso la senese che verso l’altra. Gli indugiavan nell’orecchio le vaghe e gentili parole che la senese aveva dette guardando insieme con lui a traverso i vetri cader la neve mite come il fior del pesco o il fior del melo in su gli alberi della Villa Aldobrandini già illusi da un presentimento di stagion novella. Ma, prima d’uscir pel pranzo, diede ordini molto accurati a Stephen.

Alle undici egli era d’innanzi al palazzo; e l’ansia e l’impazienza lo divoravano. La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero, l’incertezza gli accendevano l’imaginazione, lo sollevavano dalla realità.

Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbrajo, un plenilunio favoloso, di non mai veduto lume. L’aria pareva impregnata come d’un latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d’una esistenza di sogno, parevano imagini impalpabili come quelle d’una meteora, parevan esser visibili di lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. La neve copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un’opera di ricamo più leggera e più gracile d’una filigrana, che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine d’una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Barberini occupava l’aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un’ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano alla vera architettura dell’edifizio il fantasma d’una prodigiosa architettura ariostèa.

Chino a riguardare, l’aspettante sentiva sotto il fascino di quel miracolo che i fantasmi vagheggianti dell’amore si risollevavano e le sommità liriche del sentimento riscintillavano come le lance ghiacce dei cancelli alla luna. Ma egli non sapeva quale delle due donne avrebbe preferita in quello scenario fantastico: se Elena Heathfield vestita di porpora o Maria Ferres vestita d’ermellino. E, come il suo spirito piacevasi d’indugiare nell’incertezza della preferenza, accadeva che nell’ansia dell’attesa si mescessero e confondessero stranamente due ansie, la reale per Elena, l’imaginaria per Maria.

Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante; e pareva come se qualche cosa di vitreo nell’aria s’incrinasse a ognun de’ tocchi. L’orologio della Trinità de’ Monti rispose all’appello; rispose l’orologio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. Erano le undici e un quarto.

Andrea guardò, aguzzando la vista, verso il portico. ― Avrebbe ella osato attraversare a piedi il giardino? ― Pensò la figura di Elena tra il gran candore. Quella della senese risorse spontanea, oscurò l’altra, vinse il candore, candida super nivem. La notte di luna e di neve era dunque sotto il dominio di Maria Ferres, come sotto una invincibile influenza astrale. Dalla sovrana purità delle cose nasceva l’imagine dell’amante pura, simbolicamente. La forza del Simbolo soggiogava lo spirito del poeta.

Allora, sempre guardando se l’altra venisse, egli si abbandonò al sogno che gli suggerivano le apparenze delle cose.

Era un sogno poetico, quasi mistico. Egli aspettava Maria. Maria aveva eletta quella notte di soprannaturale bianchezza per immolar la sua propria bianchezza al desiderio di lui. Tutte le cose bianche intorno, consapevoli della grande immolazione, aspettavano per dire ave ed amen al passaggio della sorella. Il silenzio viveva.

“Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem. È avvolta nell’ermellino; porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è più leggero della sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave.

“Un’ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l’accompagna. I gigli enormi e difformi non s’inchinano, poichè il gelo li ha irrigiditi, poichè il gelo li ha fatti simili agli asfodilli che illuminavano i sentieri dell’Ade. Ben però, come quelli de’ paradisi cristiani, hanno una voce; dicono: ― Amen.

“Così sia. L’adorata va ad immolarsi. Così sia. Ella è già presso l’aspettante; fredda e muta, ma con occhi ardenti ed eloquenti. Ed egli prima le mani, le care mani che chiudono le piaghe e schiudono i sogni, bacia. Così sia.

“Di qua, di là, si dileguano le Chiese alte su colonne a cui la neve illustra di volute e d’acanti magici il fastigio. Si dileguano i Fòri profondi, sepolti sotto la neve, immersi in un chiarore azzurro, onde sorgono gli avanzi dei portici e degli archi verso la luna più inconsistenti delle lor medesime ombre. Si dileguano le fontane, scolpite in rocce di cristallo, che versano non acqua ma luce.

“Ed egli poi le labbra, le care labbra che non sanno le false parole, bacia. Così sia. Fuor della fascia discinta si effondono i capelli come un gran flutto oscuro, ove tutte sembran raccolte le tenebre notturne fugate dalla neve e dalla luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit. Amen.„

E l’altra non veniva! Nel silenzio e nella poesia cadevano di nuovo le ore degli uomini scoccate dalle torri e dai campanili di Roma. Qualche vettura, senza alcuno strepito, discendeva per le Quattro Fontane verso la piazza o saliva a Santa Maria Maggiore faticosamente; e i fanali erano gialli come topazii nella chiarità. Pareva che, salendo la notte al colmo, la chiarità crescesse e diventasse più limpida. Le filigrane dei cancelli riscintillavano come se i ricami d’argento vi s’ingemmassero. Nel palazzo, grandi cerchi di luce abbagliante splendevano su le vetrate, a simiglianza di scudi adamantini.

Andrea pensò: ― Se ella non venisse? ―

Quella strana onda di lirismo passátagli su lo spirito, nel nome di Maria, aveva coperta l’ansietà dell’attesa, aveva placata l’impazienza, aveva ingannato il desiderio. Per un attimo, il pensiero ch’ella non venisse gli sorrise. Poi di nuovo, più forte, lo punse il tormento dell’incertezza e lo turbò l’imagine della voluttà ch’egli avrebbe forse goduta là dentro, in quella specie di piccola alcova tiepida dove le rose esalavano un profumo tanto molle. E, come nel giorno di San Silvestro, il suo sofferire era acuito da una vanità; poichè, sopra tutto, egli si rammaricava che uno squisito apparato d’amore andasse perduto senza effetto alcuno.

Là dentro, il freddo era temperato del calore continuo che esalavano i tubi di metallo pieni d’acqua bollente. Un fascio di rose bianche, nivee, lunari, posava su la tavoletta d’innanzi al sedile. Una pelle d’orso bianco teneva calde le ginocchia. La ricerca d’una specie di Symphonie en blanc majeur era manifesta in molte altre particolarità. Come il re Francesco I sul vetro della finestra, il conte d’Ugenta aveva inciso di sua mano sul vetro dello sportello un galante motto che, nell’appannatura fatta dall’alito, pareva brillare su una lastra di opale:


Pro amore curriculum
Pro amore cubiculum.


E per la terza volta le ore sonarono. Mancavano a mezzanotte quindici minuti. L’aspettazione durava da troppo tempo: Andrea si stancava e s’irritava. Nell’appartamento abitato da Elena, nelle finestre dell’ala sinistra non vedevasi altro lume che quello esterno della luna. ― Sarebbe dunque venuta? E in che modo? Di nascosto? O con qual pretesto? Lord Heathfield era, certo, a Roma. Come avrebbe ella giustificata la sua assenza notturna? ― Di nuovo, insorsero nell’animo dell’antico amante le acri curiosità intorno le relazioni che correvano tra Elena e il marito, intorno i loro legami conjugali, intorno il loro modo di vivere in comune, nella medesima casa. Di nuovo, la gelosia lo morse e la bramosia lo accese. Egli si ricordava delle allegre parole dette da Giulio Muséllaro, una sera, a proposito del marito; e si proponeva di prendere Elena ad ogni costo, per il diletto e per il dispetto. ― Oh, s’ella fosse venuta!

Una carrozza sopraggiunse ed entrò nel giardino. Egli si chinò a guardare; riconobbe i cavalli d’Elena; intravide nell’interno una figura di dama. La carrozza disparve sotto il portico. Egli restò dubitoso. ― Tornava dunque di fuori? Sola? ― Acuì lo sguardo verso il portico, intensamente. La carrozza usciva, per il giardino, nella strada, imboccando la via Rasella: era vuota.

Mancavano due o tre minuti all’ora estrema; ed ella non veniva! L’ora sonò. Una terribile angoscia strinse il deluso. Ella non veniva!

Non comprendendo egli le cause della impuntualità di lei, le si rivolse contro; ebbe un moto di collera subitaneo; e gli balenò anche il pensiero ch’ella avesse voluto infliggergli una umiliazione, un castigo, o ch’ella avesse voluto togliersi un capriccio, esasperare un desiderio. Ordinò al cocchiere, pel portavoce:

― Piazza del Quirinale.

Egli si lasciava attrarre da Maria Ferres; si abbandonava di nuovo al vago sentimento di tenerezza che, dopo la visita pomeridiana, gli aveva lasciato nell’anima un profumo e gli aveva suggerito pensieri e imagini di poesia. La delusione recente, ch’era per lui una prova del disamore e della malvagità di Elena, lo spingeva forte verso l’amore e la bontà della senese. Il rammarico per la bellissima notte perduta gli aumentava, ma sotto il riflesso del sogno dianzi sognato. Ed era, in verità, una delle notti più belle che sien trascorse nel cielo di Roma; era uno di quegli spettacoli che opprimono d’una immensa tristezza lo spirito umano perchè soverchiano ogni potenza ammirativa e sfuggono alla piena comprension dell’intelletto.

La piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante come un’acropoli olimpica su l’Urbe silenziosa. Gli edifizii, in torno, grandeggiavano nel cielo aperto: l’alta porta papale del Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando imagine d’un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati dalle strane adunazioni della neve. Divini, a mezzo dell’egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s’allargavano nella luce; le groppe ampie brillavano come ornate di gualdrappe gemmanti; brillavano gli omeri e l’un braccio levato di ciascun semidio. E, sopra, di tra i cavalli, slanciavasi l’obelisco; e, sotto, aprivasi la tazza della fontana; e lo zampillo e l’aguglia salivano alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito.

Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simili forse ad orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La Cupola di S. Pietro, luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignígeni, bellissimi in quell’immenso candore come in un’apoteosi della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra.

La carrozza rimase ferma d’innanzi alla reggia, lungo tempo. Di nuovo, il poeta seguiva il suo sogno inarrivabile. E Maria Ferres era vicina; forse anche vegliava, sognando; forse anche sentiva gravare sul cuore tutta la grandezza della notte e ne moriva d’angoscia; inutilmente.

La carrozza passò, piano, d’innanzi alla porta di Maria Ferres, ch’era chiusa, mentre in alto i vetri delle finestre rispecchiavano il plenilunio guardando gli orti pénsili aldobrandini ove gli alberi sorgevano, aerei prodigi. E il poeta gittò il fascio delle rose bianche su la neve, come un omaggio, d’innanzi alla porta di Maria Ferres.

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