< Il prato maledetto
Questo testo è completo.
X. I rimorsi del canonico Ansperto e le paure del castellano Rainerio
IX XI

Capitolo X.

I rimorsi del canonico Ansperto e le paure del castellano Rainerio.

I giorni passavano, secondo il loro uso antico e spiacevole. Si giunse così alla vigilia della gara, di quella gara bizzarra, che era l’argomento di tutti i discorsi nelle tre valli della Burmia. Già molti si erano presentati per sostenere la prova, perchè la bellezza di Getruda era grande, e la faceva più grande il pregio che le era aggiunto da tanta solennità di editto comitale. Sapete bene che vanno così le faccende di questo povero mondo, dove uno è sempre da più quanto più è reputato dagli altri. Datemi aria e vado in cielo, dice un vecchio proverbio. Mettetevi in cento a dire che una donna è bellissima, e diecimila crederanno che non ce ne sia un’altra da entrare in paragone con lei.

Nondimeno, se molti erano entrati in gara, una gran parte avevano dovuto ritirarsi, disanimati dalla tracotanza di quel tale che prometteva di falciare il prato in tre giorni. Quel tale, a farlo apposta, era uno degli scherani di Rainerio. Voi mi direte che, tracotanza per tracotanza, data l’altezza del premio, si poteva tentare egualmente. Ma no; il castellano era venuto fuori con una certa postilla che aveva sgomentato senz’altro. Egli dichiarava che al premio, da una parte, per coloro che avessero dimostrato di non andare coi fatti molto lungi dalle promesse, il conte Anselmo voleva far corrispondere una pena, dall’altra, per coloro che fossero rimasti in gara, dimostrandosi da meno. Questi, se aldioni o censuarii, sarebbero divenuti servi della gleba; se servi, avrebbero sentito il sapore del frassino. Ed era giusto giudizio, soggiungeva il castellano Rainerio; non dovendosi prendere a gabbo la benignità del conte, nè la solennità della prova che egli aveva ordinata.

La conseguenza della minaccia fu questa, che molti si ritrassero, e non restarono in gara che quattro: Marbaudo, naturalmente, che era pronto ad ogni sorte peggiore; due uomini di masnada, creature di Rainerio, e un povero villano, giovane e forte, si, ma di cervello balzano, che a Brania, dov’era nato, e nelle terre circostanti, chiamavano il Matto.

Di un quinto, e sconosciuto, si era dubitato che potesse presentarsi in gara anche lui, perchè due sere innanzi il gran giorno, essendo egli seduto ad una panca d’osteria, e udendo parlare della grande impresa, aveva esclamato:

— Bella forza, in tre giorni! Io ho veduto il prato, e mi sentirei di falciarvelo in uno. —

Ma a quella smargiassata gli astanti avevano fatto spallucce; ed uno di loro aveva anche soggiunto, per chiosa:

— Affeddidio! Tu sei più matto del Matto. —

Lasciamo stare i discorsi dei contadini all’osteria, e andiamo a fare una visitina al canonico Ansperto, nel chiostro di Santa Maria.

Se si volesse argomentare dall’aspetto che quell’uomo era molto contento di sè medesimo, si direbbe una grossa bugia, tanto è vero che l’apparenza inganna. Sotto quell’adipe correva invece una larga vena di rammarico, e in quel rammarico fermentava già un pochettino di rimorso.

Il povero canonico incominciava a pentirsi di non avere parlato più animosamente al castellano e di non aver consigliato più risolutamente Getruda.

Poc’anzi il vecchio Dodone era stato da lui, lagnandosi amaramente della figliuola, diventata più stizzosa che mai.

Di sicuro gliel’aveva stregata il castellano Rainerio; quel maledetto castellano che dal giorno dell’editto non si era più lasciato vedere a Croceferrea. Restasse pure, non ritornasse più; così non ci fosse capitato mai!

Per altro, quella assenza dopo tanto spesseggiar di visite, voleva dire qualche cosa; voleva dire, per esempio, che Rainerio era molto sicuro del fatto suo; che aveva molto bene lavorato l’animo della fanciulla, e senza che di tanto lavoro sapesse nulla il suo confessore.

Frattanto, a Croceferrea non aveva più posto piede Marbaudo, che Getruda aveva trattato così male; mentre il povero ragazzo correva per lei il rischio d’esser dichiarato servo, d’aldione ch’egli era. In verità, erano servi un po’ tutti, à quel tempo; anche i censuarii; ma infine vivevano sulla terra, e, dopo pagate le taglie, erano sicuri di dormire sul campo dei loro sudori; laddove il servo vero e dichiarato tale poteva esserne tratto fuori ad ogni capriccio del padrone, usato ai più umili e repugnanti uffizi, e condannato alla più dura esistenza.

Eppure, l’onesto giovane si era adattato per Getruda a correr quel rischio; era rimasto in gara, e con due scherani del castellano Rainerio. Ah, quella gara!, quella gara dava una gran noia al vecchio Dodone. Non c’era egli altro modo di celebrare la bellezza di sua figlia? E c’era egli poi bisogno di celebrarla? Triste dono, la bellezza, e vero dono del diavolo, se doveva allontanare Getruda dal santo timor di Dio e dal rispetto dei parenti.

Ansperto sapeva bene donde fosse nata l’idea della gara. Ahimè! da una chiacchiera sua! Maledetta chiacchiera! Ma era fatta, e voce escita dal labbro non ritorna più indietro. Il canonico cercava di consolarsene, immaginando che la vittoria restasse a Marbaudo. L’amore fa miracoli; non poteva far quello di raddoppiare le forze del giovane falciatore? Ma il canonico Ansperto pensava ancora al castellano. Con che animo si era appigliato il castellano al partito della gara? Non certamente per favorire Marbaudo, sibbene per nuocergli. E su questo proposito doveva aver preveduto il caso che vincesse Marbaudo. Egli adunque, il fosco personaggio, meditava un tranello. O tra gli uomini della sua masnada era il vincitore, ed egli assegnava a lui il premio; o si vedeva imminente, sicura la vittoria di Marbaudo, ed egli avrebbe trovato il modo di turbare la gara, di sospender la prova e di farla girare a suo benefìzio.

Il castellano in quei giorni appariva di buonissimo umore; era dunque sicuro del fatto suo, e questo dava noia ad Ansperto.

Giunse la vigilia della prova solenne. Già le ombre della sera si erano distese sulla Barrili. Il prato maledetto. 12 valle del Cairo, e il buon canonico se ne stava seduto nella sua cella, digerendo la cena; quando venne Bertrada, la sua risecchita o stagionata nipote, ad annunziargli la visita di un gran personaggio; niente di meno! la visita del castellano Rainerio.

— Fallo entrare, — disse Ansperto, levandosi in fretta dal suo seggiolone. — Che vorrà egli da me? —

Rainerio entrò, con una cera più fosca dell’usato. Altro che buon umore! Pareva che avesse veduto il lupo mannaro, o la versiera.

— Padre, — diss’egli, — son venuto da te per consiglio.

— Da me? — esclamò il canonico. — E come può giovare a te il consiglio di un povero vecchio par mio, che vive nel mondo perchè c’è posto, ma così poco ne vede, e meno ancora ne intende?

— È un consiglio del tuo ministero, o temo che sia tale; — rispose Rainerio. — Ma prima di tutto odi la mia confessione. Tu sai che sono ammaliato?

— Ammaliato, fìgliuol mio? e in che modo? da chi?

— Dalla bella figliuola di Dodone.

— Ah, capisco; — disse Ansperto. — Ed altri crederà ch’ella sia ammaliata da te, quella cara figliuola.

— Così sia, — replicò quasi divotamente Rainerio. — Ne sono invaghito, e niente mi sarà più caro che di essere amato da lei.

— Ecco una confessione che non accenna a nessun pentimento! — disse Ansperto, sforzandosi di sorridere. — Tu non pensi, figliuol mio, che hai promesso amore e fedeltà ad un’altra, e che....

— Lo so, padre, lo so, e non è questo il pensiero che mi turba. L’amore non conosce questi argomenti, o non li cura.

— Ah! uomini! uomini! — mormorò Ansperto, levando le palme al cielo. — Almeno queste cose non veniste a dirle ad un ministro del tempio!

— È giusto, — riprese Rainerio, sospirando. Ma volevo dirti che questo amore è più forte di me. Del resto, io non volevo nuocere al buon nome di Getruda, nè all’utile di suo padre. Se il vecchio Dodone non si fosse ostinato nell’idea di darle per marito quel suo Marbaudo, io l’avrei collocata assai meglio, con qualcuno de’ miei familiari, che un giorno o l’altro sarebbe potuto salire anche al grado di gastaldo, o di castellano, in qualche terra di questi dintorni; e ciò sarebbe stato assai meglio per lei e per la sua famiglia, che il darla in moglie ad un semplice aldione. Ma il vecchio non ha voluto, ed io ho dovuto metter mano agli spedienti.

— Ah, sì! — disse Ansperto. — La gara dei falciatori, li son io che te ne ho suggerita l’idea senza volerlo. Ma non potrebbe anche vincerla Marbaudo, la gara?

— No! — rispose il castellano, aggrottando le ciglia. — Questo non avrei consentito mai. Pensa che erano scritti per la prova i due uomini più forti della masnada, vissuti fino ai venticinque anni nel lavoro dei campi. Uno d’essi era boscaiuolo, e in quattro colpi di scure ti abbatteva un tronco di faggio.

— Sia. Egli dunque mostrerà col fatto di poter falciare il maggese di San Donato in tre giorni. Di che temi tu allora? e perchè vieni da me per consiglio?

— Perchè un altro si è presentato dianzi alla ròcca, dicendosi pronto a falciare egli solo lutto il maggese in un giorno, tra la levata e il tramonto del sole.

— Ma chi è costui! — gridò Ansperto. — Di questi prodigi non può farne che il.... presso che nol dissi!

— Vedi? Ci ho pensato ancor io. E per questo sono venuto da te.

— Che ci posso far io?

— Scongiurarlo, padre, discacciarlo da una prova che va fatta tra uomini.

— Adagio! — disse il canonico. — È presto detto, uno scongiuro! Ma io, quel personaggio, non ho mai avuto il dispiacere di vederlo in faccia. Qualche volta mi è occorso di fare gli esorcismi agli ossessi; ma egli era in forma invisibile, e in forma invisibile se ne andava, ai primi spruzzi di acqua benedetta.

— E in egual modo puoi dunque esser sicuro di rimandarlo, se. come io penso, è lui in persona, quel coso lungo, dalla faccia sinistra, che mi è capitato davanti.

— No, non mi piace di vedere costui; — disse il canonico Ansperto, con un gesto di ripugnanza. — Egli sarà poi un matto, come quell’altro che è già scritto nel tuo libro. Ma supponiamo che sia davvero il maligno. Egli potrebbe chiedermi di venire a parlamento; nè io potrei ricusarmi, senza mostrare d’aver paura di lui.

— E tu lo ascolteresti; — disse di rimando il castellano.

— Ah si! per sentirmi fare un discorso come questo: “Messere Ansperto, canonico di Santa Maria, che giustizia è mai questa vostra? Cacciate me dalla gara, per darla vinta ad uno scherano di Rainerio? Non sapete che la va tra me e lui da galeotto a marinaio ? „

Il castellano rizzò la testa, con piglio tra maravigliato e sdegnoso.

— Ti accenno quello che potrebbe dirmi il maligno; — soggiunse il canonico Ansperto. — Se egli entra in gara, è segno che vuole la fanciulla. E tu pure la vuoi: me lo hai confessato poc’anzi. Or dunque, sapendo l’animo di tutt’e due, come potrei io usare della mia autorità contro lui solo? Rainerio, ti prego, ragioniamo. Se quel nuovo venuto è il nemico dell’uman genere, diciamo pure che ciò è permesso da Dio per castigo de’ nostri peccati. Noi non badiamo abbastanza ai diritti della Chiesa, e questo prodigio che avviene per un prato di sua pertinenza, dovrebbe parere a te avvertimento salutare.

— Il prato non lo usurpo io; — rispose Rainerio. — Il conte lo possiede; e certi avvertimenti, caso mai paressero necessarii, dovrebbero toccare a lui, non a me.

— Non sei tu che fai tutto, e che comandi in suo nome? Qui, poi, non ti arrogili ancora l’autorità, non solo di comandare alla terra, ma di fare il piacer tuo delle anime che ci vivono, e che incontrastabilmente appartengono a Dio? Rainerio, bada; io ti parlo così per tuo bene. Castellano, non avrei nulla a dirti, pover uomo qual sono. Cristiano, che ti volgi a me per consiglio, ti esorto a far senno, a mutar la tua strada. E prima di tutto, credi a me, disdici la gara.

— Impossibile! — rispose il castellano. — È bandita per domani, e ci sono uomini iscritti.

— Quali uomini! — ribattè il vecchio prete. — Due di costoro appartengono alla tua masnada; sei tu che li hai messi avanti; potrai anche ritirarli. Di Marbaudo non è a credere che desideri la prova, se tu, che l’hai voluta per nuocergli, dichiari di non volerla più. Resta il Matto; un cervello balzano, che persuaderemo noi, e che ad ogni modo non conta.

— E l’altro, che è capitato quest’oggi?

— L’altro? ah si, capisco; c’è l’altro. Ma se questi è il maligno, e se tu venivi a me per chiedere alla Chiesa la virtù de’ suoi esorcismi, io debbo pensare che tu stesso non lo abbia per un concorrente di cui vadano molto rispettate le ragioni. —

Rainerio senti “il velen dell’argomento„ ma non seppe che rispondergli.

— E se poi non fosse.... quel ch’io temevo? — diss’egli annaspando, dopo un momento di pausa.

— Ecco per l’appunto quel che pensavo ancor io! Se non fosse?... — gridò Ansperto, dando una rifiatata di sollievo. — Te lo avevo detto fin da principio: questo è un matto più matto del Matto.

— In verità — riprese il castellano — aveva certi occhi spiritati!...

— Come i matti, naturalmente! — replicò Ansperto. — I matti guardano tutti cosi. Ed anche nel discorso avrai notate le stravaganze.

— No, se togli la millanteria di falciare il prato in un giorno, dall’alba al tramonto. Parlò franco, dopo avermi dato il suo nome di Legio.... un nome breve, come vedi, e facile a dirsi.... Parlò franco e spedito, come uno che ha girata la sua parte di mondo; ma infine, non disse nulla che potesse farlo credere più savio di un altro. E sono sciocco io, — soggiunse il castellano, — a mettermi in testa certe idee. Se è il diavolo, vedremo le corna, e faremo il segno della santa croce; non è vero? Se è un matto, come tu pensi, e come incomincio a crederlo anch’io, lo vedremo fallire alla prova.

— Alla prova si scortica l’asino; — conchiuse Ansperto, facendo bocca da ridere. — Oh, dunque, sia lodato il cielo, tu sei persuaso di questo. Così potess’io persuaderti dell’altro! Ma confidando nell’aiuto del Signore; — aggiunse sospirando il canonico. — Almeno sii giusto, o Rainerio, e se quel povero ragazzo degli Arimani lavora come ha promesso, mostrando di poter vincere i suoi competitori, tu non negare a Marbaudo ciò ch’egli avrà guadagnato. —

Rainerio non istette più oltre a sentire la predica; se ne andò, non credendo più al diavolo, ma avendone, vi so dir io, uno per occhio.

In materia d’occhi, debbo soggiungere che Ansperto non potè quella sera chiudere i suoi, come faceva di solito, per il gusto di schiacciare un sonnellino, prima di recitare il resto delle sue ore.

— In un giorno! — andava borbottando egli. — In un giorno! Ma quello è un matto, senz’altro. E il castellano voleva che fosse.... l’avversario! Eh via! l’avversario ha ben altro da fare che occuparsi di queste piccolezze. E poi, perchè si metterebbe egli in gara con quattro falciatori, povera gente e rozza delle nostre vallate! Che forse, dopo aver tentato tante anime, sarebbe tentato egli di prender moglie? Non ci mancherebbe più altro che il maligno facesse famiglia, e ci diventasse davvero legione! Legione! Legio, legionis!...

Il monologo del canonico Ansperto fu interrotto da un colpo battuto discretamente contro l’uscio della stanza.

— Avanti! — gridò il canonico, scuotendosi. — Che cosa vuoi tu, Berlrada? —

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.