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Capitolo XI.
Legio, legionis.
L’uscio della stanza si aperse. Ma non era Bertrada, che appariva nel vano; era un uomo, uno sconosciuto, un coso lungo, dalla faccia sinistra.
Ansperto si tirò istintivamente indietro, facendo scricchiolare, nella furia dell’atto, il suo seggiolone di quercia.
— Chi sei tu? — domandò egli frattanto, con la voce chioccia e soffocata dell’uomo sbigottito.
— Niente paura, messer canonico! — disse io sconosciuto, restando ancora con cavalleresco ritegno nel vano dell’uscio. — Son uno che tu hai chiamato dianzi più matto del Matto. Che credi tu? che ad un par mio non possa venire il ticchio di prender moglie? È una scioccheria che tutti, qual più, qual meno, la fanno, e non sono da annoverarsi tra quelli che la fanno meno quei tali che hanno l’aria di non farla.
— Che arzigogoli son questi? io non t’intendo; — borbottò il canonico Ansperto, niente raffidato da quella pacata stravaganza di discorso. — Bertrada!
— Lascia stare la tua segaligna nipote, che io non ho nessuna intenzione di sposare; — ripigliò lo sconosciuto. — È troppo magra e stagionata, e a me non mancano legna per alimentare il mio fuoco.
— Vade retro!... — urlò il canonico, — Vade retro!...
Lo sconosciuto si era appunto allora fatto innanzi due passi. A quel latino si fermò, ma più offeso che spaventato.
— Ebbene? — diss’egli, con accento di rimprovero. — Che accoglienze son queste? Son tutti così rustici, i canonici di Santa Maria? Vedete qua! Si viene a trovare un personaggio di cui tutti fanno gran lodi, un luminare della Chiesa, un fiume di sacra eloquenza, un’arca di dottrina, un pozzo....
— Basta! basta! — mormorò Ansperto. — Non merito tanto. Sono un povero servo di Dio.
— Come me, dolce canonico, come me. Siam tutti servi di Dio, e lo serviamo come possiamo, non è vero? e secondo dove batte la luna. Ma offrimi una sedia, perbacco baccone! Infine, sono stato creduto degno di sedere alla tavola del principale, e tu, che resta ancor dubbio se andrai di sopra o di sotto, mi fai ora lo schizzinoso? Bada, messer canonico! potrebbe accadere che io fossi al caso di renderti pan per focaccia.
— Siedi! siedi! Là, ecco una sedia! Ma non ti accostare, ti supplico!
— Non dubitare, starò qua, due braccia lontano. E calmati, intanto, egregio amico; ricogli il fiato; non è mia intenzione di farti paura. Sono un buon diavolo; amo la creatura ancor io, perchè nella sua formazione ci ho avuta ancor io la mia parte.
— La tua parte! — balbettò il canonico.
— Sicuramente. Il principale ha fatto il corpo, c poi ci ha soffiato su per dargli l’anima; quell’anima tanto carina, nella sua primitiva innocenza. Ma poi ci ho soffiato io, e l’innocenza è svanita, sottentrando la scienza del bene e del male, e del distinguere tra questo e quello. Distingue frequenter! La logica, a buon conto, è un’opera mia. Avverti che so distinguere tra creatura e creatura. Non scelgo, per esempio, i canonici. Amo e cerco le belle donnine, io, vere e proprie aiutanti della mia potestà, e capaci di far loro con una semplice occhiata quello che io non sarei buono ad ottenere con dieci anni di tentazioni. Voi altri, canonici, quando siete così atticciati e bofficioni, mi servite, non lo nego, mi servite a quel Dio, per far scoppiettare più allegramente il mio buon focherello.
— Empio! — gridò Ansperto, sentendosi correre un brivido tra carne e pelle.
— Ahimè, padre, questo è il mio stato, c non posso mutarlo, — ripigliò il visitatore ciarliero. — Vedi un po’ quello che mi è toccato, per un primo errore commesso!... Io, veramente, ho sempre sostenuto che è stata una ingiustizia, quella parzialità per Michele. Ma lasciamola lì; non è questione da trattarsi ora con te.
— Meno male! — mormorò il canonico, che ripigliava il flato per davvero, incominciando ad agguerrirsi con la familiarità del suo ospite. — Veniamo al fatto: che vuoi tu ora da me?
— Nulla; son venuto per ringraziarti. È un ufficio di cortesia, e a questi uffici non son venuto mai meno. Avrai dalle Sacre Carte che io non mi trattengo nemmeno, quando occorre, di visitare il principale, alle sue feste solenni. Dovevo ringraziarti, ed eccomi qua.
— Ringraziarmi? e di che? — rispose il canonico. — Sono un misero peccatore, lo so; ma non credo, nel mio ministero, di aver mai lavorato per te.
— Ecco! qui ti casca l’asino, Ansperto. Se mi lasci parlare, vedi subito che l’obbligo mio era questo. Non sei tu che hai posto sulla via il castellano Rainerio? Il brav’uomo, con tutta la sua furia amorosa, non sapeva ancora a qual santo votarsi, per riescire ai suoi fini.
Da una parte aveva l’autorità di un padre, che gli guastava le uova nel paniere; dall’altra l’autorità del conte, che poteva fargli costar caro un atto d’arbitrio, un colpo di testa. Poteva rapir la ragazza? Non avrebbe saputo dove portarla e nasconderla. Poi, quella ragazza, se è disposta a lasciarsi rapire, non è ugualmente disposta a lasciarsi nascondere. E d’altra parte, se tu avessi mai consigliato al vecchio Dodone di rivolgersi al conte Anselmo, d’invocare la sua protezione contro la prepotenza del castellano, chi sa? le cose potevano andar altrimenti. Ma tu, prudentissimo uomo, ti sci ristretto a raccomandare Marbaudo alla bontà di Rainerio, sapendo benissimo di pestar l’acqua nel mortaio.
— Ahimè! — disse Ansperto. — È questo il mio cruccio.
— Benissimo! Tu sai che io sono il diavolo, ma puoi credere che sono anche il rimorso. Tu non hai fatto quel che dovevi. E per sostenere così timidamente le ragioni di Marbaudo, di quel poveraccio, non hai avuto altro da ricordare che la sua robustezza, la sua alacrità al lavoro, e finalmente la bella impresa da lui compiuta l’anno scorso nel prato di San Donato. Quella è stata la semente gittata da te, ed ha germogliato assai bene. Rainerio è andato dal conte, e gli ha proposto di fare quella graziosa burletta. Il conte ha riso, non ci ha visto il baco, e n’è venuta fuori quella cara pagina comitale che ha stabilita la gara dei falciatori; gara naturalissima, come una festa villereccia che si accompagna alle nozze, abbellimento di cerimonia, non atto di prepotenza. Così almeno si giudica dai più, che non vanno oltre la scorza delle cose. Dunque, io dico, la prima idea è venuta dal mio buon canonico Ansperto; ed io sento l’obbligo di ringraziarlo. Poteva nuocermi; ha preferito darmi una mano.
— Che c’entri tu, finalmente? — disse Ansperto, seccato da quella ironia continuata.
— Vuoi tu esser leale nel giuoco? La gara è da senno, o per celia?
— È da senno; che vuoi tu dire con ciò?
— Voglio dire che in questo caso vincerà il più robusto e il più pronto. E la vittoria, per conseguenza, sarà di Marbaudo.
— Lo credi?
— Ne son certo. I falciatori che ha fatto entrare in gara il castellano sono scherani suoi, giù uomini della gleba, ma oramai disavvezzi al lavoro dei campi.
— Concedo; — rispose quell’altro.
— Quanto al Matto.... — ripigliò il canonico, animato dalla concessione. — Quanto al Matto, io penso....
— Pensa pure che non conti nulla; — interruppe il visitatore ciarliero. — Quello si ferma a mezzodì.
— O allora! — gridò Ansperto, con aria di trionfo.
— Allora — rispose il contradittore — continuerà un altro, che è già iscritto tra i falciatori. Io Legio (e ti permetto anche di declinarmi in Legio, Legionis!), falcerò io il maggese, vincerò io, guadagnerò io la bianca Getruda.
— Ah sì, Legio; Legionis! — ripetè il povero prete, crollando melancohicamente la testa. — Il tuo nome è Legione. Ma che ti salta in capo di metterti in gara?
— Ti ho detto già che vo’ prender moglie.
— Tu, Legione?
— Io, sì, io. La gente non dice forse che quando sarò vecchio mi farò frate? Sarà, non sarà; nessuno può giurare per il futuro. Per intanto, prima di diventar vecchio ed invalido, vo’ prender moglie e avere una bella nidiata di figliuoli. L’occasione, sai, fa l’uomo ladro. Quella diavola di ragazza è bella; e non somiglia punto a Dodone. Scommetterei che in quel sangue c’è mistura di più superbo legnaggio. Peccati vecchi, canonico! Tu che confessi da trent’anni, saprai forse anche questo. —
Ansperto chinò la testa, e aggiunse all’atto rassegnato il sospiro dell’uomo che sa e non vuol dire.
— La tua Getruda, — proseguiva frattanto quell’altro, — è bella per cento, orgogliosa per mille, ed ambiziosa per diecimila. Gliel hanno detto tanti, che è un occhio di sole, che può sperare ogni fortuna più grande! e tanti, che non glielo hanno detto, gliel hanno fatto pensare! Il sangue non è acqua; e il sangue di Getruda si è manifestato nel lavoro assiduo delle più matte ambizioni. Non vuol restare tra censuarii, accomunata ai vili servi della gleba. Oggi fa assegnamento sull’amore del castellano, di quel fosco e losco Rainerio, che la mariti lui e la porti via. Farà costui tutto ciò che ella spera? lascerà il certo per l’incerto? lascerà la sua condizione invidiabile abbastanza, e che potrà fare, in processo di tempo, dei suoi figliuoli e discendenti una schiatta di feudatarii minori? e ciò per correre ventura, con una bella ambiziosa, alla corte di Tolosa, o a quella di Reims, o presso alcuno degli eterni contendenti per la corona imperiale di Lamagna? Io già l’ho poco in pratica. È tanto tristo, quell’uomo, che io non ho mai pensato di perdere il mio tempo con lui. Quando un’anima va da sè, il diavolo non ha da guidarla sul buon sentiero che mette ai suoi regni. Io dunque penso che quella ragazza la indovini, o la sbagli, secondo i casi. E poi, se non sarà il castellano Rainerio, sarà un altro, che la avrà di seconda mano e la condurrà egli altrove, e cercherà di farla piacere ad un potente della terra. In quella bionda testina, canonico mio, c’è tutto l’ingegno c l’audacia di un cercator di ventura. Filava: non vuol più filare; questo è l’essenziale. —
Ansperto era stato a sentire molto attentamente quella esposizione sommaria di due anime, e non vedeva che ci fosse niente a ridire. Ma un punto restava oscuro. Se il maligno lavorava per gli altri, che bisogno c’era egli che entrasse in gara coi falciatori?
— E sia; — diss’egli; — ma tu, che parte ti serbi in questa faccenda? Vuoi le anime, lo so; ma dianzi mi parlavi....
— Di voler anche l’involucro, non è vero? — interruppe il maligno. — Ebbene, sì; accanto al mio solito fine metto questa volta anche quello di contentare un capriccio. Vincerò io la gara, sposerò io la bianca Getruda, la condurrò io dove sarà necessario. Quella è una sirena che farà naufragare più d’uno.
— Che follie!
— Chiamale pure così. Le mie son debolezze di cuore; le tue, Ansperto, son debolezze di spirito. Che io lavori anche un pochino per altri, non allontana me dal mio fine. Che tu lavori solamente per darla vinta al castellano Rainerio, è imperdonabile davvero. Aggiungi che il chinar la fronte agli impuri capricci del castellano non ò conforme alla dignità del tuo ministero. Tu sei fiacco, Ansperto. L’obbligo di ringraziarti, che mi ha condotto da te, non esclude il piacere di farti un rimprovero. Siamo a quattr’occhi, infine, e qui, mentre nessuno ci ascolta, posso ben dirti che sei uno spirito debole; due volte debole, perchè dimentichi insieme la cura delle anime e i diritti della Chiesa.
— Non è vero! — rispose Ansperto. — Questi diritti li ho ricordati ancora l’altro dì al castellano Rainerio.
— SI, ma timidamente, come si farebbe una preghiera.
— Ed oggi ancora li ho ribaditi.
— Ah sì, un bel coraggio, in fede mia! — replicò l’implacabile ragionatore. — Quando il castellano è venuto a darti la prova manifesta di aver paura di me! Ti è nato allora, l’ardimento del rimprovero. Ma queste son chiacchiere; nel fatto, tu e i tuoi, vi adattate benissimo alla violenza, e al trono dei violenti conducete per sacrificio, vittime legate, e neanche inghirlandate, i poveri figli della gleba. Perchè non gridar alto? Sarebbe questa una nobile occasione di combattere per il buon diritto delle creature di Dio; ed anche il diavolo vi rispetterebbe.
— Ma non così il conte, che ci farebbe impiccare ai merli del suo castello; — rispose il canonico.
— Davvero? E dimmi; che religione professi tu, Ansperto mio dolce?
— Quella di nostro Signor Gesù Cristo!
— Conosco, sì, conosco. È dunque la stessa religione dei martiri. Quei primi cristiani si facevano ammazzare allegramente, solo per il gusto di proclamare il loro Dio. C’era tanto amore in quel sacrifizio, c’era tanta giovinezza di sentimento, da rendermi perfino invidioso. Mi pareva, vedendoli, di essere ritornato a quel giorno che uscimmo noi, angeli, allegro sciame di alati pensieri, dalla mente dell’Eterno. Noi fummo il fiore della creazione; voi, uomini, ne siete stati la feccia. Ed io li amai, vedi, li amai quei poveri confessori di una fede di cui essi medesimi non dovevano salutare il trionfo. Incantato, rintontito, stetti cento e più anni a contemplare la magnifica scena. Qualche volta, bensì, per effetto d’abitudine, mi accadeva di ripigliarmi qualche catecumeno; ma poi me lo lasciavo scappar di mano. Va, gli dicevo, va a farti ammazzare per il tuo Dio. Questa, fin che dura, è ancora una ribellione contro qualcuno, e le ribellioni mi piacciono. Del resto, povere vittime, vedrete poi che bel frutto avrà il mondo dal vostro sangue purissimo. Tra papi e imperatori, i vostri nepoti saranno conciati per il dì delle feste. Quella gente là leveranno anche l’incomodo a me. Verrà giorno che il diavolo sarà licenziato, come un buon veterano, e mandato a godersi il suo peculio castrense.
— Eretico! — brontolò Ansperto. — Eretico! eretico! —
Quell’altro gli rispose con una spallucciata, che aveva l’aria di dire; gran che! nel più si comprende il meno.
— Parole! — soggiunse egli poscia. — Quanto sarebbe meglio che tu affrontassi il martirio! Eccola qua, una stupenda occasione! Io, vedi, se fossi nella tua pelle, vorrei andarmene subito a convocare il Capitolo, gli esporrei bravamente quel che succede, e gli domanderei di gridare, in nome della legge divina, contro il capriccio di Rainerio, la cui malvagità è riuscita ad ingannare la buona fede del conte Anselmo. Ed io, poi, anche a rischio di dover consigliare Dodone a portar via la figliuola, per sottrarla agli effetti di questa gara che offende il libero arbitrio di lei come l’autorità di suo padre, andrei difilato dal conte, a dirgli come stanno le cose. E gliene direi tante, che egli si persuaderebbe, e manderebbe il castellano a marcire in prigione; o non si persuaderebbe, e manderebbe me a far quella fine. —
Il canonico Ansperto rimase un istante sovra pensiero, come se meditasse il pro ed il contro dell’ardita proposta. Ma dopo quell’istante di pausa, crollò il capo e rispose:
— Non ci sarà più tempo.
— Se Dodone accetta il consiglio di fuggire, e il Capitolo quello di intromettersi finchè il conte non sia avvertito, perchè no? Tu sai inoltre che non ci sarà bisogno di giungere in Acqui, perchè il conte ha promesso di assistere alla gara. Lo trovi sicuramente per via, alla stazione di Spigno, o di Dego.
— Ma io.... — balbettò Ansperto, che non sentiva davvero la voglia di una corsa notturna, e per riuscire ad un urto in cui temeva troppo di avere la peggio. — Ma io.... son vecchio.... pieno d’acciacchi....
— Ho capito! Aggiungi pure di guidaleschi, come certe bestie arrembate. Io ti ho dato un consiglio che non è da diavolo, e il diavolo (dovrai riconoscerlo) non è così brutto quanto si dipinge. Ora tu farai quel che ti parrà meglio; a me resterà la noia di compiangerti. Canonico Ansperto, a rivederci.
— Mai! — borbottò il canonico, facendo un crocione in aria tra sè ed il suo interlocutore.
— Mai? — ripetè l’altro. — Non lo giurare, Ansperto. Se vai diritto per questa via, ci si rivede di certo. Ah, che buon fuocherello per le mie veglie invernali! Come vorrà scoppiettare allegramente, rosolando i lombi di un così dolce canonico! —
Il prete sudava freddo; ma il timore di stare la collera del conte Anselmo e del suo castellano Rainerio fu per allora più forte di ogni altra considerazione.
L’altro si allontanò, sogghignando, e parve ad Ansperto che lasciasse nella stanza odore di zolfo.
Come il prete lo ebbe veduto sparire e richiudersi l’uscio dietro, gli crebbe la paura di ciò che aveva veduto ed udito.
— Berlrada! — gridò egli, appena potè riaversi. — Bertrada! — soggiunse, rinforzando ancora la voce.
— Eccomi, zio, eccomi! — rispose la nipote, accorrendo.
Ansperto la guardò fissamente; rimase un istante muto, con gli occhi sbarrati; poi, riprendendo a grado a grado gli spiriti, le disse:
— Lo hai accompagnato sino all’uscio di strada?
— Sì, mio buon zio.
— Ah, era dunque vero? era un uomo in carne ed ossa?
— Che vuol dire questa domanda, — riprese Bertrada, sbarrando gli occhi a sua volta. — Pensi tu, zio, di non aver parlato dianzi.... al castellano Rainerio?
— Sì, si, dicevo bene, — balbettò il povero canonico. — Ma mi pareva tanto strano, che venisse da me, per consiglio. È un malvagio, pur troppo, un malvagio con cui bisogna star bene. Ma senti che odore di zolfo ha lasciato qua dentro?
— Di zolfo? — disse Bertrada, — non mi pare. Piuttosto d’aglio, e viene dalla cucina.
— Ecco, sì, dalla cucina. Ah, tanto meglio! — rispose il canonico, respirando. — E che cosa mi hai tu preparato per cena?
— Hai cenato, zio; non ti ricordi? Io ora stavo facendo l’agliata, per conservare quel ch’è rimasto delle trote, che ci ha portate Landolfo, il pescatore di Brania.
— È giusto; hai fatto bene; sono anche buone con l’agliata; — disse il canonico. — Va pure, va alle tue faccende, Bertrada. Io mi ero un po’ stancato nello studio, e avevo perduto la memoria. —
Bertrada se ne andò. E il canonico Ansperto soggiunse, quando fu solo:
— Ah, sì, l’agliata! l’agliata! Vedete un po’ che paura, questi brutti sognacci! Ma che cos’è un sognaccio, nel caso mio? L’ha ben detto egli, anche nel mio sogno; è la voce della coscienza.... il rimorso. —