< Il prato maledetto
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XII. Dove i cinque falciatori in gara si riducono a quattro
XI XIII

Capitolo XII.

Dove i cinque falciatori in gara si riducono a quattro.

Come aveva detto il fosco personaggio ad Ansperto, o com’egli, il pauroso canonico, sapendolo già, aveva credulo che un altro gli dicesse, il conte Anselmo, signore di quelle terre, si era messo in cammino da Acqui verso i confini di Cairo.

Il secondogenito del grande Aleramo viaggiava con orrevole corteggio di liberi uomini, tutti militi del suo seguito e compagni delle sue cavalcate, qualunque fossero, o di guerra o di caccia.

A quel tempo (e mi pare di averlo già accennato) non potevano esser militi che gli uomini liberi. Questi, poi, erano uomini liberi di varie derivazioni: o di legge salica, burgundica, gotica, longobarda, i cui padri a tempi diversi erano sccsi come guerrieri e invasori in Italia, o di legge romana, cioè a dire cittadini italiani che l’invasione aveva trovati, ridotti qua e là confusamente in servitù, ma in servitù non potuti ritenere, e più facilmente usati, essi e i loro discendenti, ad uffizi civili, dove la destrezza e l’ingegno ridavano loro quel credito onde la condizione di vinti li aveva spogliati.

Qui naturalmente si parla degli abitanti delle città. Nei campi e nei piccoli borghi, che incominciavano a formarsi sul territorio dei vichi e dei latifondi romani, gli uomini liberi, non avevano altra alternativa che di coltivare la terra come aldioni e consuarii, col pericolo di cadere in servitù, accomunati ai servi della gleba, o di darsi al mestiere delle armi, diventando così veri compagni, quantunque inferiori, dei conti di marca, e da questa domesticità più onorata passando agli uffici di castellani, castaldi, gasindi, valvassori e vassalli.

Erano i cortigiani d’allora, ma cortigiani militari; ed ogni signore investito di alta sovranità, duca, conte di palazzo o di marca, ad esempio del re e dell’imperatore da cui aveva ricevuto egli il suo titolo, faceva di que’ militi la sua corte e la sua nobiltà secondaria, che poi doveva anche riuscire a liberarsi dalla dipendenza del conte, non riconoscendo più altra autorità fuor quella dell’imperatore.

Autorità lontana, costretta a farsi temere soltanto a punti di luna, l’imperatore concedeva e confermava il dominio ai grandi sui piccoli, o ai piccoli contro i grandi, e imponendo a tutti prestazioni di denaro o di braccia, secondo il bisogno del momento.

Alle stesse città che male lo riconoscevano, l’imperatore porgeva aiuto, o muoveva guerra, secondo il proprio interesse. E perchè tra gli eredi dell’impero di Carlomagno (vasta potenza non potuta durare in una mano sola) si erano moltiplicate le divisioni e le contese, ne venne la conseguenza che si formassero due nuove condizioni di vita: i signori indipendenti nei contadi, i comuni indipendenti nelle grosse città.

E quelli e queste ricorrevano all’imperatore quando non potevano farne di meno, o quando avevano mestieri di lui, per difendere e custodire i lor privilegi. Nell’un caso e nell’altro, s’intende, erano oboli d’oro, che bisognava sempre pagare alla Camera imperiale, che sarebbe come dire all’erario di quei Cesari imbarbariti.

Non siamo ancora al tempo dei vicarii imperiali, stabiliti nell’intento di ridare una certa apparenza d’unità alla compagine sconnessa della forza o del caso. Nè siamo ancora all’infierire della contesa tra l’Impero e la Corte papale. Perciò il discreto lettore consentirà che noi lasciamo questi elementi nuovi fuori del quadro modesto che abbiamo preso a tratteggiare. Noi dobbiamo restringerci a considerare il grande Aleramo, anzi la spartizione avvenuta dei suoi dominii tra i due figliuoli di lui; perchè quei dominii non ebbero la sorte di diventare uno Stato, e rimasero piuttosto un patrimonio; o meglio, non rimasero neanche in tal forma. È la sorte dei patrimoni di andare in dileguo, quando incominciano a spartirsi tra un paio di eredi. Anselmo, come sapete, comandava a ponente di Acqui fin verso il mare. Il suo fratello maggiore comandava in Acqui e di là verso il confluente del Tanaro e della Bormida, e più su verso Asti, dando così fondamento e principio alla marca di Monferrato, mentre il suo fratello minore dava principio alla marca delle Langhe e a quelle del Finaro e di Savona.

Il conte Anselmo comandava come poteva, perchè a quei tempi le condizioni del comando e dell’obbedienza erano turbate per tutti. Ma in quel turbamento medesimo covavano i germi di una nuova società.

Per allora, il conte Anselmo doveva mettere castellani a governare in suo nome le terre lontane; e quei castellani erano uomini liberi della sua corte, che dovevano a lor volta far progenie di nobili campestri, e poscia ancora di conti, quando i titoli via via mutarono significato.

E per allora non si vedevano conti nel seguito di Anselmo; ma semplici militi, o cavalieri che vogliam dire. Perchè i militi erano combattenti a cavallo; laddove i combattenti pedestri erano tutti uomini dei campi, raccolti dalla condizione incerta di aldioni e censuarii, costretti a prestar servizio in certe occasioni, e per certo spazio di tempo, secondo il costume dei luoghi; oppure erano tolti senz’altro alla gleba, e messi nella schiera, come si è detto; donde il lor nome di scherani, anch’esso poi volto a significare altra cosa.

Mi duole nell’anima di dovermi indugiare in queste minuzie. Ma non c’intenderemmo mai più, se queste benedette minuzie non fossero almeno brevemente accennate.

Il conte Anselmo visitava i suoi dominii nelle alte valli della Bormida, col pretesto della caccia, che in ogni altra circostanza avrebbe potuto essere una buona ragione.

Per quella volta il movente della gita era la curiosità di vedere quella bella Getruda, di cui gli aveva tenuto discorso il castellano Rainerio, e per la quale si faceva la gara dei falciatori.

Quella del conte, uomo giovane ancora, amante del piacere, e pronto ad ammirar la bellezza più che non fosse inchinevole ad onorare la virtù, era una curiosità giustificata dai fatti che erano seguiti, domandando a lui un editto munito del suo comitale sigillo. Sicuramente era un fior di ragazza, quella figliuola di Dodone.

Ma si doveva credere che fosse un miracolo di bellezza, una Venere ritornata in terra, per far girar la testa ai fedeli cristiani? No davvero; il conte non lo credeva, quantunque, per sincerarsene, si muovesse da Acqui in veste di cacciatore; pensava bensì di trovare una ragazza avvenente, ma non si aspettava nulla di meraviglioso.

Nondimeno, voi sapete com’è fatto il cacciatore. Egli, che guarda poco le dame della città, e quasi non intende la bellezza, circondata di veli protettori e rinterzata da una sapiente associazione di colori e di profumi, va in estasi per una forosetta, incontrata sul margine di una fontana, o alla svolta di un sentiero boschereccio, col viso arso dal sole, e coi colori vivaci della salute sotto l’arsiccio del viso, ex con la tranquilla audacia dipinta su quella fronte, agguerrita alle carezze del sole e agli ardori volgari di mandriani e bifolchi.

La sera precedente il conte Anselmo si era fermato con la sua comitiva a Dego; e quei terrazzani, secondo il costume, avevano dovuto recare alla casa del suo castaldo tante misure di fieno e di biada quanti erano i cavalli della gualdana, senza contare il tributo di pane, vino e pollame, a quel padrone che si degnava di venire come ospite.

Nella notte si era dormito poco, volendo Anselmo giungere a Cairo prima dell’alba. Egli, infatti, si era alzato nel cuor della notte dal suo giaciglio e aveva destati i suoi militi.

— Amici, sbrighiamoci! — aveva detto. — Fate sellare i cavalli. Mi preme di essere a Cairo prima di giorno, per vedere questa gara di falciatori. Una graziosa novità, in fede mia, e bisognerà darne lode al nostro castellano Rainerio. —

Mezz’ora dopo erano tutti a cavallo, e gli arcieri tenendo a guinzaglio i cani, e i falconieri coi falconi incappucciati sul pugno, aprivano la marcia.

Sul bruzzico la comitiva era giunta alla porta del castello di Cairo, donde per l’appunto esciva il castellano Rainerio, per recarsi a San Donato, insieme coi due scabini che dovevano assistere al giudizio.

— E così? — disse il conte. — Il nostro buon Rainerio si prepara a cogliere il frutto delle sue invenzioni? Ma sai che più ci penso, a questa tua gara, e più mi va a sangue? Son d’avviso che tutti i matrimoni si dovrebbero fare quind’innanzi per gara. La donna, miei cari, ò la più bella cosa che al mondo sia; ed è giusto che si ottenga come premio al valore, per isforzo di braccia o d’ingegno. Aggiungete che è sempre due tanti più caro quello che ci ò costato fatica ottenere. Ma che hai tu, castellano, che mi stai lì muto come un pesce? Forse non ti pare che io ragioni abbastanza diritto?

— Dio tolga, che io non approvi col pensiero, quando parla il mio signore, — rispose Rainerio, inchinandosi. — Io ascoltavo con reverenza.

Il conte Anselmo era di buon umore; e diede, a quelle parole, in una matta risata.

— Ecco una gravità di discorso — diss’egli — che tu hai portato con te per accrescere la dignità del tuo ufficio di giudice. Ma qui, caro mio, non sei giudice ancora.

— Nè sarò tale a San Donato; — replicò il castellano. — Dove tu sei, la giustizia è tuo diritto.

— Che! che! non mi parlar di restare un giorno a vedere quei tuoi falciatori. Non vedi, Rainerio? Abbiam cani e falconi; faremo caccia, stamane. Ritorneremo stasera, e vedremo quello che tu e gli scabini avrete giudicato. Quanti sono in gara!

— Cinque; — rispose Rainerio, sospirando.

— Cinque! — ripetè il conte. — Così pochi? Ma non è dunque un prodigio di bellezza, questa decantata Getruda?

— Erano molti di più; — disse Rainerio, evitando di rispondere alle ultime parole del conte. — Ma li ha spaventati la parola di un ultimo venuto, che ha offerto di falciare tutto il prato in un dì.

— Nientedimeno! — esclamò il conte Anseimo. — Ma che grandezza ha egli, quel prato? Mi par di ricordare che non è la palma della mia mano.

— Quanto abbraccia l’occhio di un uomo a cavallo, tanto è lungo; quanto abbraccia l’occhio di un uomo a piedi, tanto è largo; — rispose Rainerio.

— E costui si propone di falciarlo in un giorno? Ma è pazzo da legare! — disse il conte. — E chi è questo matto?

— Un certo Legio.

— Di queste terre?

— No, vien da lontano. Tu hai consentito, o signore, che tutti, di qualunque terra, anche fuori de’ tuoi domimi, potessero entrar nella gara.

— E non mi disdico. Se egli accetta di servire a Dodone, nel manso di Croceferrea, diventa uno dei nostri, in quella stessa guisa che la fanciulla è sua, se egli vince la prova. Ma tu non hai risposto ad una mia domanda. È poi così bella, questa Getruda?

— Eh, così così! — rispose il castellano, torcendo il collo e abbassando l’orecchio verso la spalla, come per indicare lo sforzo che faceva, a concedere quel poco. — Bellezza montanina!

— Ce ne sono di maravigliose, in montagna; — disse il conte Anselmo, meno schizzinoso del suo castellano di Cairo. — Sappi, Mainerò, che l’altro giorno mi è accaduto di vederne una stupenda, fiorellino campestre, nascosto nel fondo di una valletta solitaria. Passavo sul margine di una ripa, lungo il letto di un torrente; il verde fitto dei càrpini mi nascondeva la persona, e l’erba folta della proda spegneva il rumore de’ miei passi. Una cantilena mi giunse all’orecchio, venendo dal basso; la cantilena era monotona, ma la voce era argentina. Mi fermai a guardare tra i rami, e vidi allora, inginocchiata sulla sponda di un borro, colle braccia e il collo ignudi, una bellissima giovane. Bellissima, ti dico, e molte delle nostre donne avrebbero potuto invidiarle quella sua vita snella, le braccia tonde e bianche, il collo e l’òmero fatti a pennello. Insomma, castellano mio, un prodigio di bellezza; e quando si voltò, mostrandomi il profilo del viso, pensai che il più bello non avessi veduto mai. Ed era una montanina, Rainerio. Tu sei giudice, oggi; rendi dunque giustizia alle bellezze di montagna, come ho saputo renderla io. —

Rainerio s’inchinò, facendo bocca da ridere. Bisognava ridere, infatti, perchè il conte era di buon umore.

— Fu ella riconoscente al suo signore per la grazia che egli le faceva.... guardandola? — domandò poscia il castellano.

— No; — disse Anselmo. — Tu ora fantastichi Dio sa che storie, intorno alla bella fanciulla che lavava i suoi pannilini nel borro. Le parlai, veramente; e avrei anche voluto tenerle un più lungo discorso; ma la montanina bella mi dimostrò subito di avermi riconosciuto, ed io mi allontanai; sospirando un pochino, te lo confesso, ma mi allontanai. In amore, l’autorità non mi piace, per vincere. Vorrei essere amato per me, non per il comando che esercito. Essere obbedito da tutti gli uomini e amato da tutte le donne, alla pari, ecco il gran punto. Mi dorrebbe di avere per rispetto i sorrisi della bellezza, come mi ripugnerebbe di ottenerne le grazie con la violenza. —

Per un uomo come il conte Anselmo, a cui nulla resisteva, quello era già un dir molto. E al castellano Rainerio parve una allusione diretta, un acerbo rimprovero a ciò ch’egli pur meditava di fare.

Frattanto la cavalcata era giunta alla chiesuola di San Donato. Colà, sul sagrato, stavano i falciatori, aspettando.

Ma erano quattro, e Rainerio, guardandoli attentamente al bianco lume dell’alba, non vide l’ultimo iscritto.

Il castellano si sentì sollevato dalla assenza di Legio, e un gaio pensiero gli venne tosto alla mente.

Se fosse stato un sogno quel che gli era accaduto la sera innanzi!

Il nome di Legio, veramente, era scritto nel suo libro. Ma sì, scritto da lui! Poteva benissimo avere scritto quel nome, per un errore della sua mente, stravolta dai terrori di una brutta visione.

C’era bensì il fatto della gara ridotta al termine di un giorno, per riscontro alla offerta di Legio.

Ma anche quella poteva essere stata una gherminella, un’alzata d’ingegno, suggerita a lui, Rainerio, da un sentimento naturalissimo. Lavorando tutti per apparir capaci di falciare il prato in un giorno, nessuno avrebbe riportata la vittoria, ed egli allora avrebbe assegnata a suo talento la palma.

Il conte Anselmo si volse a Rainerio, dopo aver veduti gli uomini che stavano là ritti con le falci al piede.

— Che mi dicevi tu di cinque competitori? — domandò. — Io non no vedo che quattro.

— È vero, — rispose il castellano. — Molti si erano iscritti, ma soli quattro rimasero in gara, poichè l’ultimo venuto dichiarò di poter falciare il prato in un giorno. Ora, è proprio quell’uno che manca.

— Speriamo che venga. Del resto, chi tardi arriva male alloggia, — disse il conte ridendo.

— Voi altri, giovanotti, all’ora assegnata, prendete i vostri posti, e falciate animosamente. Per oggi sarà erba; ma domani, per il vincitore, vuol essere una rosa; non è vero?

— Se l’è rosa fiorirà; se l’è spina pungerà; — sentenziò quello dei falciatori che chiamavano il Matto.

— È vero, ragazzo mio! — disse il conte. — Ma siccome non c’è rosa senza spine, io ti auguro di pungerti bene.

— Ah si! e per non avere la rosa!

— Perchè dici tu questo?

— Perchè in un giorno non si falcia questo prato, nè da un uomo solo, nè da due.

— E allora perchè sei rimasto in gara?

— Perchè, mio signore? Perchè ho detto tra me; se ci sono dei matti che accettano di gareggiare ai patti del diavolo, perchè non ci starei io, che mi chiamo il Matto? Infine, se la ragazza non la dànno a Marbaudo, che è sicuramente il più forte di noi altri, potrebbero anche darla a me, che sono senza dubbio il più bello. Oh gua’! —

Così dicendo, il Matto fece una smorfia ed un salto.

— La modestia, — osservò il conte Anselmo, — non è mai passata sull’uscio di casa tua.

— Sì, mio signore, è passata; — rispose il Matto; — ma è così cenciosa, che ho pensato subito di aizzarle i cani alle calcagna. —

Bisognava ridere, e il conte Anselmo rise, alla bizzarra risposta.

— Sia pure; — diss’egli. — Ma perchè hai tu detto poc’anzi che si gareggia ai patti del diavolo?

— Perchè quell’ultimo, che ci ha guastate le uova nel paniere, è il diavolo, non può essere altri che il diavolo. Io gliel ho detto subito, quando si è vantato all’osteria di poter falciare il prato in un giorno: o tu sei il babbo dell’Anticristo, o sei un gran scimunito, che vuoi perdere il premio e farlo perdere agli altri. —

11 conte Anselmo non rise più, ma stette alquanto sovra pensiero. Quando parla un matto, o uno che abbiamo per tale, tutti proviamo questa debolezza del pensarci su, e più assai che non faremmo per le parole di un savio. Ciò forse avviene perchè sentiamo in quel momento le voci della pietà, di questo sentimento divino i cui germi ha nel cuore ogni creatura mortale, spesso dimenticati e dormenti, non mai soffocati o distrutti? O forse avviene perchè nei discorso di un matto vien voglia a noi, curiosi animali, di cercare quel tanto di saviezza che ci han lasciato le vecchie consuetudini della ragione? Passiamo questo problema ai filosofi; essi lo scioglieranno, come ne hanno sciolti tanti altri.

Rainerio pensò che il matto fosse men matto di quanto si credeva comunemente. Se fosse stato solo, lo avrebbe castigato lui, l’insolente discorritore, matto o savio che fosse; ma c’era il conte, e davanti a lui non si poteva aprir bocca.

Del resto, il castellano pensò ancora tal cosa che doveva rimettergli un po’ di fiato in corpo: pensò che la supposizione impertinente del matto avvalorava in buon punto i suoi stessi ragionamenti.

Legio, come diavolo, altro non poteva essere che un sogno del suo spirito infermo. E il sogno, sicuramente, si era formato in questa guisa. Gli avevano riferito di un tale, pazzo davvero, o scimunito, che si era vantato di poter falciare il prato in un giorno. A lui quel vanto aveva fornito il pretesto di accorciare il termine della prova. Il pretesto, naturalmente, gli aveva fatto nascere il desiderio; e il desiderio non poteva aver preso corpo in visione? Oppure lo smargiasso si era presentato davvero per farsi iscrivere nella gara, e all’ultima ora gli veniva meno l’ardimento di entrare in campo, per sostenere i suoi vanti. SI, una delle due doveva essere.

Quanto alla terza, che si trattasse del diavolo in persona, era una scioccheria da lasciare ai bambini. Che forse il diavolo ha una forma visibile e tangibile? o non è piuttosto uno spirito che opera dentro di noi, come un fumo delle nostre passioni, che c’invade il cuore e ci sale al cervello, per indurci al peccato?

— Animo dunque, — aveva detto il conte Anselmo. — Preparatevi alla vostra gara, o falciatori. Rainerio, mio castellano, e i nostri savi scabini, vi assegneranno i posti, per cominciare la prova. Buon dì, Rainerio; noi proseguiremo il nostro cammino. —

Così dicendo, il conte Anselmo si disponeva a partire.

— Non rimarrai tu, mio signore, — disse Rainerio, — a vedere questa prova?

— No, in fede mia, la cosa mi tornerebbe a fastidio; — rispose Anselmo, chinandosi sull’arcione, e mettendo amorevolmente la mano sulla spalla del castellano. — In confidenza, vo’ dirti ancora che mi basta di aver veduto questo gran prato, per intendere che nessuno potrà lavorar tanto da mostrarsi capace di falciarlo in un giorno, nè in due. Son certo che questa prova non la vincerà nessuno; e il Matto meriterebbe la sposa, solo per aver dichiarato di mettersi all’opera senza alcuna speranza di ottenerla. Ma facciamo le cose onestamente e liberamente; poichè qui tutto dipende da noi. Si potrà assegnare la fanciulla in moglie a quello dei falciatori che avrà dimostrato più alacrità nel lavoro. Quel Marbaudo, per esempio, è un bel pezzo di giovinotto, e mi pare che per forza di volontà come per robustezza di braccio si lascerà molto indietro i suoi competitori. Auguro che guadagni lui la bella sposa. Ma che sarà mai questa bellezza, per cui si combatte? Un’Elena troiana? Io vado a Croceferrea, e dò un’occhiata a questa ottava meraviglia. Se vuole, la riconduco a San Donato, perchè veda all’opera i suoi innamorati, e li animi, e li rinvigorisca di nuovi spiriti, col fuoco delle sue pupille. —

Così disse, ridendo, e poi spronò il cavallo verso la salita di Croceferrea.

Il castellano Rainerio fu molto seccato di quella risoluzione del conte.

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