< Il prato maledetto
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XIX. Per che modo il diavolo lasciasse la casa della bianca Getruda
XVIII XX

Capitolo XIX.

Per che modo il diavolo lasciasse la casa della bianca Getruda.

Così parlava Luitprando; e afferrata la croce che balenava nelle mani tremanti del chierico, entrò animoso nella casa di Dodone.

— Sia benedetta la croce! — disse il vecchio aldione, inchinandosi. — È il segno della redenzione, è il conforto di chi soffre. Quando uno ha la sua croce, non teme più nulla; può morire sperando. Ma chi mi ha detto di sperare, poc’anzi? — soggiunse egli, cercando di collegare nella sua mente sconvolta i brandelli del pensiero che aveva dispersi la follia improvvisa. — Mio Dio! non so più. Ma dov’è Getruda, mia figlia, che io non la trovo? Chi di voi l’ha veduta? Io l’ho lasciata pur qua, prima di andare alla macchia dei pini! —

Luitprando lo prese per mano, e amorevolmente gli disse:

— Vieni, buon vecchio! Andiamo a cercare Getruda. Ella è probabilmente nella sua camera. —

Dodone si lasciò trascinare dentro la casa. — Ecce crucem Domini! — ripigliava frattanto il canonico, — Fugite partes adversae!

Gli altri lo seguirono salmodiando; e così a lenti passi, a croci trinciate nell’aria, a versetti alternati del salmo Deus in nomine tuo salvum me fac, girarono per tutte le stanze, giungendo finalmente in quella di Getruda, dove li attendeva un miserando spettacolo.

Mezzo rovesciata sul pavimento, ma con la testa contro la sponda del suo letticciuolo, si vedeva la figliuola di Dodone, con la fronte spaccata, gli occhi aperti ad espressione di terrore, e i capegli, il volto, il seno imbrattati di sangue.

— Dio di misericordia! — gridò Luitprando, inorridito.

Marbaudo si era precipitato avanti, e raccolto quel corpo sanguinolento, lo aveva adagiato sul letticciuolo.

Colà, amorosamente inchinato sulla faccia di Getruda, singhiozzava, chiamandola a nome. Ma Getruda non rispose alle grida di Marbaudo; Getruda era morta, e la sua testa, sollevata un istante sulle braccia del giovane, ricadde inerte sull’origliere.

Dodone guardava attorno istupidito.

— Che è ciò? — diceva egli. — Perchè siete entrati qua, nella camera di Getruda? Mia figlia dorme; mia figlia ha troppo vegliato. Lasciatela dormire. —

E rideva, così dicendo; ma poi, tutto ad un tratto, diede in uno scoppio di pianto.

Alcuni pietosi cercarono di condurlo fuori. Resisteva egli; ma il numero e la forza delle braccia vinsero la sua resistenza.

— Sentite? — gridò uno degli astanti.

— Che cosa? — domandarono gli altri.

— Un riso nell’aria.... là, dal capezzale!

— È lui; è lo spirito maligno; è il principe delle tenebre che ride. —

Un senso di terrore invase gli animi. Tutti sentirono il riso beffardo dello spirito infernale; tutti, istintivamente ritirandosi dal letto, fecero il segno della croce.

Solo, accanto a Marbaudo inginocchiato, che nulla sentiva e singhiozzava disperato, rimase il vecchio Luitprando. Preso in mano l’aspersorio, spruzzò la persona di Getruda e il capezzale del letto con l’acqua santa; poi cominciò lo scongiuro:

Exorcizo te, immundissime spiritus, omnis incursio adversarii, omne phantasma, omnis Legio, in nomine Domini nostri Jesu Christi, eradicare et effugare ab hoc plasmate Dei.

Qui, come poco innanzi al vocabolo Christi, il venerando uomo segnò in aria la croce; poi continuò:

Ipse tibi imperat, qui te de supernis coelorum in inferiora terrae demergi praecepit. Ipse tibi imperat, qui mari, ventis et tempestatibus imperavit. Audi ergo, et time, Satana, inimice fidei, hostis generis humani, mortis adductor, vitae raptor, justitiae declinator, malorum radix, fomes vitiorum, seductor hominum, proditor gentium, incitator invidiae, origo avariliae, causa discordiae, excitator dolorum: quid stas et resistis, cum scias Christum Dominum vires tuas perdere?... —

E continuava, leggendo le pagine del sacramentario; allorquando si udì un grido che veniva dall’aia.

— Che è ciò? — chiese il canonico Ansperto, che stava dietro a Luitprando.

— Sono fuggiti! — dissero alcune voci dalla camera attigua. — Son fuggiti i demonii! Li han veduti, quelli di fuori! Li vedono ancora. Sono uno sciame infinito, come di cavallette; e vanno ad ali distese, laggiù verso tramontana. —

Queste le notizie che giungevano, portate di bocca in bocca. Molti escirono per vedere anch’ essi; ma già, o perchè i sinistri volatori fossero già troppo lontani, o perchè li nascondesse all’occhio la massa nera dei monti sopra Cengio, non fu più dato di scorgerli. Ma bene affermavano, sacramentavano di averli veduti coloro che erano rimasti sull’aia, non potendo penetrar nella casa. Primo avevano veduto fuggire un gran cavaliere dalla berretta rossa, sormontata da due penne di gallo, e con un rosso mantello svolazzante dagli omeri. Inforcava un cavallo alato, con una lunga criniera d’aspidi dardeggianti le teste triangolari all’intorno, e con una gran coda di serpente che aveva mandato un fischio acuto, partendo. Dietro a lui, da una finestra della casa erano esciti a volo più di cento, più di mille spiriti affollati, quali rossi come fiamma, quali neri come fuliggine, battendo le grandi ali di pipistrello e stridendo a guisa di uccelli rapaci.

— Ringraziamo il Signore, che ha liberata la casa; — disse Luitprando; — e preghiamo per questa morta, sperando che Iddio misericordioso le perdoni i suoi falli. —

I sacerdoti s’inginocchiarono e dissero intorno al letticciuolo di Getruda le preghiere dei defunti.

All’estinta alcune donne caritatevoli avevano chiusi gli occhi e tirato un pannilino sul volto. Luitprando aveva appoggiata sul letto la croce.

Pregavano tutti, tranne Dodone, che rideva e piangeva alternamente, e che fu pietoso consiglio di amici condurre all’aperto, dove non avesse più sotto gli occhi il triste spettacolo della morta figliuola.

Anche Marbaudo avrebbero voluto strappare di là; ma egli non si lasciò persuadere, e rimase a singhiozzare in un angolo della stanza. Il poveretto faceva pietà; condannato a soffrire, se quella donna fosse vissuta, condannato a soffrire poichè quella donna era morta.

Non pregato da alcuno, escì il conte Anselmo a passeggiare sull’aia, ma senza osar più di metter il piede in quel punto dove lo avevano attorniato i saltatori beffardi. Ma era poi vero che quella scena gli fosse accaduta? Ci pensava, e non sapeva capacitarsene. Pensava ancora al suo dolce colloquio con la bella Gctruda e gli pareva di avere sognato. Forse sognava ancora, ed era quella la parte brutta del sogno. Ah, se avesse potuto svegliarsi, laggiù, nelle sue stanze di Acqui, e ridere de’ suoi terrori notturni! Ma no, non poteva essere, pur troppo, non poteva essere ch’egli avesse sognato. Anche nel sogno, quando un barlume di coscienza ci fa dubitare, anche nel sogno sentiamo che l’inganno della fantasia finirà tra non molto! Ma là, sull’aia del manso di Croceferrea il conte Anselmo sentiva dentro di sò che quei casi strani avvenuti erano la verità, e sognò in quella vece i suoi dubbi.

Tra questi pensieri ondeggiava, quando gli si accostò il vecchio Dodone, con atto rispettoso.

— Sei tu il nostro signor conte? — diceva l’aldione, levandosi la berretta e inchinandosi profondamente. — È un giorno fortunato per me, che tu ti degni di visitar la casa del tuo servo, poichè avrei qualche cosa da dirti.

— Grazie! — mormorò tristamente Anselmo.

— Che vuoi tu buon Dodone? —

E così dicendo, chetava col gesto gli amici del vecchio, i quali si erano avanzati, per trattenerlo.

— Nulla per me; — disse Dodone. — Io son vecchio e non desidero nulla. Vivo qui, sulla terra dove son nato, e mi basta. Ma ho da farti una confessione, mio signore. Tu sei buono, mi dicono tutti, e l’ascolterai benignamente; non farai come Rainerio, il tuo malvagio castellano, che non vuol sentir la ragione. Ora, se io non parlo, un giorno o l’altro Iddio mi punirà. Il manso di Croceferrea non è tuo, conte Anselmo. Esso appartiene alla Chiesa.

— Alla Chiesa! — esclamò il conte. — Ben so di queste pretese. Ma non so che ci sia una carta, per dimostrarlo.

— C’è la memoria dei vecchi; — riprese Dodonc. — I miei mi han sempre detto che questo manso doveva essere della Curia.

— Ebbene, sia pure, ammettiamolo per un istante; — disse il conte. — Di qual Curia? d’Alba, o di Savona? Le due parti contendenti non sanno mettersi d’accordo su ciò. E vuoi tu che io riconosca un dritto, il quale non riesce nemmeno a trovare il suo fondamento nella concordia delle testimonianze orali? A giudicarne dalle apparenze, questa terra, se non è mia, dovrebb’essere piuttosto dei padri tuoi, che l’hanno coltivata e messa a frutto.

— Eh, così fosse! — gridò il vecchio Dodone. — Ma così non è, perchè altrimenti i miei padri lo avrebbero detto. Essi invece hanno sempre detto che apparteneva alla Chiesa. La terra è sempre di qualcheduno, perchè Dio a qualcheduno la dà. E non l’ha data ai miei padri. Non è stata giustizia, lo so, perchè essi ci hanno sparso il loro sudore, ci son nati e ci sono morti, come io ci sono nato e ci morrò; mentre i padroni non fanno altro che prendersi il frutto dei nostri sudori. Sono i padroni, che dirti di più? hanno la forza dell’ingegno, per dominarci. Anche noi, come soggiogheremmo i buoi, pazienti ed ignoranti animali che ci potrebbero mandare in aria con una cornata, se non avessimo la forza dell’astuzia, che è tanto da più della forza dei nervi? E così durerà, fino al gran giorno... che del resto è vicino, per quel che dicono. E a me non importa che sia vicino o lontano. Se viene, mi defrauda di poco. Vorrei che fosse oggi la vigilia e domani la festa. A noi, del resto, scendendo nella sua gloria, il giudice supremo dirà: “Povera gente, che avete sempre faticato e sempre obbedito, venite qua, c’è un buon posto alla mia destra per voi. Quegli altri, che hanno fatto in ogni cosa il piacer loro, che nel vostro sudore si sono abbeverati, delle vostre miserie rallegrati, delle vostre donne, quando erano belle e fiorenti.... „

Ma gli amici di Dodone non permisero che egli continuasse, e furono pronti a dargli sulla voce.

— Perdonagli, rnesser conte! — gridarono essi, intromettendosi. — Vedi che ha perso il lume della ragione!

— Lo so, — disse Anselmo; — lo so. Povero vecchio padre!...

E si ritrasse, turbato, lasciando che il pazzo dicesse a quegli altri il resto delle sue verità.

Un suono improvviso di corno venne per grande fortuna a disviare il corso delle sue meditazioni. Il conte Anselmo si affacciò al ciglio del poggio, e vide apparire sulla strada campestre le mute dei suoi cani e lo stuolo dei suoi falconieri.

— Ah, vivaddio, miei fedeli! — gridò egli, come furono tanto vicini da poter sentire la sua voce. — Era tempo che ritornaste!

— Messer conte, — disse il capo dei militi, — noi siamo stati sulla traccia di un cervo, che ci ha fatto girare lungamente, ed anche senza frutto.

— Come! — esclamò Anselmo, — i miei valenti cacciatori si saranno imbattuti in una così nobile preda, e l’avranno lasciata fuggire?

— Pur troppo, messer conte. Tre volte abbiamo sperato di raggiungere quello stupendo animale; tre volte gli abbiamo scagliate le nostre verrette, ma invano; chiedine a Bertrando, che ci ha speso inutilmente i suoi dardi infallibili. Quando il fatto singolare è avvenuto, eravamo al limitare della macchia del Ronco di Maglio. 11 cervo evitò il colpo, spiccando un salto prodigioso, e si gittò in una forra. Son così fìtti lassù i faggi e gli abeti, che non abbiamo potuto avventurarci le nostre cavalcature. E allora, vedendo che forse ci eravamo già troppo allontanati, abbiam fatto consiglio, e deliberato di cessare la caccia, per ritornare da te.

— Avete fatto bene, — disse il conte, assentendo. — Nè altra selvaggina vi ha pagati delle vostre corse?

— Triste caccia, signore! — rispose il capo dei militi. — Queste valli, dove altre volte abbiamo avuto tanta fortuna, sembrano oggi colpite da una maledizione del cielo.

— Che dici tu mai? — gridò il conte Anselmo, rabbrividendo. — Una maledizione! e perchè?

— Il caso di Bertrando ne è già una prima prova, messer conte. Bertrando non ha mai fallito un colpo, quando era a un trar d’arco dalla preda. E poi, al ritorno, abbiamo veduto certi uceellacci mostruosi!...

— Dove?

— Assai vicini a questo luogo, donde parevano aver spiccato il volo. Andavano in lunga schiera come le gru, e sono spariti dietro i monti del Cengio.

— E non avete lanciati i falconi?

— Sì, l’abbiam fatto. Ma i falconi, messi in caccia, non raggiunsero nemmeno la schiera degli strani uccelli, e ritornarono indietro spaventati. Chiedine al capo falconiere: ti dirà che tremano ancora. —

Il capo falconiere confermò le parole del milite.

— Non posso intendere che cosa sia stato; — diss’egli. — Sospetto quasi una malìa. Le mie povere bestie rifiutarono perfino il cibo, con cui avevo disegnato di confortarli. Anche i cani, messer conte, quando passò davanti a noi quel negro stormo, diedero segni di terrore. Si tiravano indietro, si accostavano gli uni agli altri, e guaivano, come quando la terra trema. Oh i brutti uccelli neri! e non mai veduti finora!

— Speriamo di non vederli mai più; — disse il conte.

— Dio guardi, se pronosticassero la fine del mondo! — mormorò uno dei militi.

— Come! anche tu credi?...

— Eh, messer conte, io sono un povero ignorante di cose sacre; ma quelli che sanno, dicono che la fine del mondo sarà annunziata da strani prodigi.

— Orbene, — disse il conte, sforzandosi di sorridere, — venga pure la fine del mondo. Il gran fatto non ci coglierà alla sprovveduta. Per intanto, non verremo più in questi luoghi maledetti. A cavallo. —

E balzato in arcioni, spronò il suo morello, che mise un nitrito d’allegrezza,come se avesse capito il discorso del suo signore, e godesse di non aver più a far sosta su quel poggio, dove non era stato neppure lui senza fremiti di terrore.

Triste, muto, non osando voltarsi più indietro, il conte Anselmo prese la via di San Donato.

Quando fu alla discesa, donde non si poteva evitare la vista del prato su cui era stata fatta la gara, egli e i suoi militi maravigliarono, scorgendo il maggese falciato per modo che gii steli rimasti a giuste distanze più lunghi segnassero una sequela di cerchi concentrici.

Uno solo aveva falciato a quel modo: e con qual falce smisurata, perdio! La maraviglia dei riguardanti si convertì nel più alto stupore, quando videro che il fieno abbattuto era già secco e giallo, come se fosse stato sette giorni al sole di luglio.

— Che è ciò? — disse il conte in cuor suo. — Gli strani prodigi annunzieranno davvero la fine del mondo? —

I militi avrebbero voluto parlare a lungo di quello spettacolo, essi che non sapevano nulla dell’accaduto.

Ma il conte non rispose alle loro domande, e ben presto cessarono anch’essi i discorsi.

Lassù, nella casa visitata dalla morte, i canonici di Santa Maria pregavano ancora.

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