Questo testo è completo. |
◄ | XVII | XIX | ► |
Capitolo XVIII.
Di un tristo ballo che fece il conte Anselmo, e come al vecchio Dodone dèsse volta il cervello.
Al giovanotto degli Arirnanni il misterioso falciatore si era svelato meglio che non avesse fatto agli altri. O forse è da dire che Marbaudo, guidato dalla potenza dell’amor suo, non si era lasciato ingannare come gli altri dalle menzogne del nemico.
Già nella falce che si allungava, recidendo l’erba dal centro ai confini del prato, egli aveva fiutata la malìa; nè gli era parso che Legio dicesse il vero, vantando le virtù prodigiose del salcio.
A tutta prima, vedendo perduta Getruda, avrebbe voluto scagliarsi contro il vincitore. Ma come tener testa al principe delle tenebre? A quella impresa non si poteva accingere che un santo; ed egli, Marbaudo, non era che un povero peccatore, agitato da tutte le passioni della misera creta umana. Che cosa avrebbe potuto fare? Che cosa tentare? La buona ispirazione gli venne, quando Legio gli ebbe intimato di levarsi di là, se pur gli era cara la vita. A lui non era punto cara la vita; ma gli premeva di salvare Getruda, anche ingrata e sconoscente, com’ella si era dimostrata con lui.
Seguendo la buona ispirazione, Marbaudo aveva obbedito al comando di Legio; si era levato di là; ma non per ritornare, pauroso, sconfitto, alla casa degli Arimanni. Davanti alla chiesuola di San Donato non era gran tratto di sentiero per giungere infine al greto della Bormida. Marbaudosi avviò prontamente a quella volta, come se volesse prendere quella strada e fare il giro più largo, ma tanto più sicuro, per ritornarsene a casa sua. Appena si ritrovò egli al riparo tra i salici e gli ontani che imboscavano la riva del fiume, volse rapidamente a tramontana, e fece a volo il miglio di strada che separava la chiesuola di San Donato dalle porte di Cairo.
Giunto al chiostro di Santa Maria, non ebbe a dir nulla di nuovo, poichè là erano corsi già per aiuto gli scabili di Rainerio e i trombettieri di mastro Scarrone. E gii uni e gli altri confusamente, come ad essi dettava il terrore, avevano narrato l’accaduto ai canonici, chiedendo gii ufizi del loro ministero contro le male arti del diavolo.
Il diavolo! che si canzona? Ansperto, che pure ricordava con un certo senso di sbigottimento la visita del maligno, Ansperto non voleva credere al racconto di quella gente atterrita.
Già, egli stesso aveva dovuto ricredersi, per ciò che riguardava la visita di Legio, non vedendo in quel fatto che una allucinazione della sua mente, stravolta dalla paura del castellano Rainerio.
Non potevano essere gli scabimi e i trombettieri allucinati del pari, e aver dato a qualche fatto singolare una spiegazione troppo frettolosa?
Il diavolo! è presto detto, il diavolo! Bisogna vedere, bisogna ponderare. Ci vogliono delle prove. Non si mette mano agli esorcismi, se non si ha la certezza di aver davanti il maligno, proprio lui, proprio lui, in carne ed ossa, in ispirito e verità; anzi peggio, poichè si tratta di un tal personaggio, in ispirito.... e bugia.
Ansperto le sentiva, le gravi testimonianze degli scabini, e gravissime tra tutte quella della falce che si allungava, tagliando tutta l’erba del prato nello spazio di un’ora. Ma anche su quell’ora egli trovava a ridire.
— Se fosse il diavolo, — notava egli, — non avrebbe avuto bisogno di un’ora di lavoro. Una falciata sola, e ziffete! il prato doveva essere pulito come la palma della mano.
In quel mentre capitava Marbaudo, e alla presenza di tutti i canonici, raccolti nella sagrestia della chiesa, narrava per filo e per segno, tutto ciò che era accaduto laggiù. Gli altri erano fuggiti; ma egli aveva tenuto testa al falciatore misterioso. E poi, dal riparo dei salici, guardando indietro, lo aveva visto salire verso Croceferrea, in compagnia del banditore Scarrone, con un grande corteo di fanti c di cavalieri, sbucati lì per lì dalla macchia, e tutti vestiti di rosso. Evidentemente, il vincitore andava a prendere la sposa, lasciando il castellano Rainerio svenuto, forse morto dallo spavento, sul sagrato della chiesuola, e due scherani di lui malconci sul prato.
— Non c’è tempo da perdere, — disse uno dei canonici, — bisogna correre a Croceferrea, per impedire un guaio più grande. —
Infatti, lassù era andato quella mattina il conte Anselmo, e a lui poteva capitare una disgrazia irreparabile; il conte, a dir vero, non trattava bene la chiesa, poichè usurpava le sue terre; ma, infine, non mostrava di sprezzarne i ministri, e qualche bel presente lo aveva anche fatto, alla chiesa di Santa Maria. Poi, era il conte; in lui risiedeva, per volontà del cielo, l’autorità suprema; in lui era una valida difesa contro i predoni della montagna e contro i Saraceni, che già qualche volta avevano osato mostrarsi nelle alte valli della Bormida, non contenti di far bottino sulle spiagge indifese della Liguria.
— Ebbene, — disse Ànsperto, non osando di resistere più oltre, — se questo è il vostro pensiero, o fratelli, mandiamo un esorcista. Bono, che giustamente ha detto non esserci tempo da perdere, e che, grazie al cielo, ha buone gambe per correre, potrebbe andar egli; non vi pare? —
Ma il vecchio Luitprando, primicerio del capitolo, rispose in questa forma alla proposta di Ansperto:
— Bono ò il più giovane di tutti noi, e certamente accetterà di gran cuore l’invito. Ma io, se credete, trattandosi di un caso gravissimo, sarei d’avviso che si andasse tutti. Le potenze d’Averno si scatenano contro di noi? È debito nostro di opporre all’assalto tutte le forze della povera chiesa di Cairo. So bene che le mie, particolarmente considerate, valgono poco, e forse ritarderanno l’arrivo. Non mi sarà doluto mai, come oggi, di esser vecchio e cadente. Ma verrò come potrò, e Dio misericordioso vorrà benedire i miei sforzi.
— Io ti porterò sulle braccia; — disse Marbaudo.
— E noi tutti siam pronti a portarti, quando sarà stanco Marbaudo, — gridarono parecchi cittadini, che erano accorsi alla voce del gravissimo caso.
— Vedete? — riprese allora Luitprando. — Iddio stesso ci manda il soccorso, ispirando questi sensi al suo popolo. Andiamo, dunque, nel suo santissimo nome, e non si perda più tempo. —
Alle parole del vecchio primicerio, tutti i canonici di Santa Maria indossarono il rocchetto e la stola.
Uno dei chierici prese il secchiolino dell’acqua santa e l’aspersorio; un altro il sacramentario, grosso codice di pergamena, che era messale e rituale ad un tempo; un terzo prese la grande asta sormontata dal segno della redenzione, e s’avviò, per aprire la marcia.
Al nostro canonico Ansperto piaceva poco la gita. Ma pensò che nella sua qualità di confessore della bianca Getruda avrebbero potuto consigliargli di andare lui solo. E questo non avevano fatto, i suoi buoni colleghi; avevano abbracciato in quella vece il partito di andar tutti.
Così la numerosa compagnia diede un po’ di coraggio ad Ansperto, che non fu degli ultimi a giungere sul colmo della collina, visitata dai diavoli. S’intende che non fece tutta la strada con le sole sue gambe. Anche lui portarono molto sulle braccia i buoni popolani di Cairo.
La croce andava innanzi, portata da un chierichetto animoso. E fu quella che il conte Anselmo vide comparire dietro alle spalle di Marbaudo, quando il giovanotto degli Arimanni, veduto Scarrone che fuggiva spaventato, e udito dalle sue rotte parole il grave pericolo del conte, si era cacciato avanti con tanta sollecitudine. Dietro alla croce, ansanti, trafelati, cantando, o piuttosio cincischiando con tremola voce i versetti di un salmo, venivano i canonici di Santa Maria.
All’apparir della croce si sciolse prontamente la fitta catena che stringeva d’ogni parte il povero conte Anselmo. La turba dei rossi persecutori si dileguò in un baleno.
— Che è ciò? — disse il conte,guardandosi intorno con aria trasognata. — Più nulla! Tutti quegli orridi ceffi sono spariti ad un tratto.
— Virtù della croce, o conte! — rispose il canonico Ansperto, felice di escire a così buon patto da una grande difficolta. Ella si mostra, e cedono il campo le potenze infernali. —
Ma dov’era Getruda? E dove Legio, il maledetto vincitor della gara? Questo era il nodo della quistione, mentre la ridda dei diavoli minori intorno al conte Anselmo si poteva considerare come uno scherzo.
Riavutosi dal suo smarrimento, il conte Anselmo potè raccontar brevemente agli astanti come Regio avesse condotta entro casa la figlia di Dodone, e come la coppia nuziale fosse stata seguita da un numeroso stuolo di donzelli, recanti su guanciali di seta o in coppe di prezioso metallo, o in custodie di cristallo e stipi d’ebano intarsiati d’avorio, i donativi dello sposo. Naturalmente fiutando una stregoneria in tutto quell’apparato sontuoso, e sopra tutto non credendo affatto alla chiacchiera di Regio, che si era spacciato per Costantino Macèdone, fratello dell’imperatore di Bisanzio, e cognato del morto imperator di Ramaglia, Anselmo aveva voluto scagliarsi su di lui, per istrappargli dalle mani Getruda; ma ne era stato impedito da una frotta di ignoti personaggi, veri dèmoni scatenati, che avevano preso a saltargli intorno, facendogli mille scherni, e stringendoglisi addosso per guisa, che oramai non aveva quasi più modo di respirare. Ed anche, sul bel principio di quella ridda diabolica, egli aveva sentito un concerto di trombe e di timpani, musica sinistra che pareva escir dall’interno della casa di Dodone. Ma poco dopo era anche cessata la musica, e nella casa regnava un silenzio di tomba.
La guardavano tutti, mentre egli parlava; la guardavano tutti, la modesta dimora, il cui uscio era spalancato, ma non invitava nessuno ad entrare. E si faceva parlamento tra i canonici, proponendo qualcuno di metter mano agli esorcismi, allorquando, su dal ciglio della costiera sovrastante, si vide apparire Dodone, che ritornava dai boschi con la sua scure in ispalla.
Era meditabondo, il vecchio; veniva a passo lento e con gli occhi bassi, come uomo che sia afflitto da un grave pensiero. E bisognò che arrivasse molto vicino, perchè egli finalmente si avvedesse di quella folla che stava sull’aia, aspettandolo.
A tutta prima diede un’occhiata di stupore; poi vide i canonici con le stole, vide la croce sorgente dal mezzo del sacro corteo, ed ebbe l’aria di cercare dentro di sè la ragione di un fatto così strano.
Bene avrebbe potuto chiederla agli astanti, che conosceva tutti per nome; ma in quel punto gli si affacciò alla mente il timore di una disgrazia, avvenuta in casa sua. E non istette a pigliar lingua; si scosse, diè un urlo, agitò la lunga capigliatura scarmigliata, e con rapido moto si volse alla soglia.
— Che si fa? — domandò qualcheduno. — Sarà bene seguirlo. —
Marbaudo si muoveva, per andar egli; ma lo trattenne il canonico Ansperto. — Egli entra in casa sua; non disturbiamo il padrone; — diss’egli. — Vedremo tosto se gli bisognerà il nostro aiuto. —
Si rimase alcuni istanti in silenzio, ansanti, con l’orecchio teso, aspettando.
Tutto ad un tratto si udì rumore di dentro, come di persone che lottassero; poi un grido acuto, e un colpo sordo di qualche cosa, o corpo umano, od arnese pesante che fosse stramazzato sul terreno; poi più nulla. Marbaudo non istette alle mosse.
Ma egli era a mala pena davanti alla soglia, che si vide ricomparire Dodone.
— Ebbene, che è? — domandò ansioso Marbaudo.
Dodone guardò il giovane con occhi sbarrati, ma non rispose parola.
— Tua figlia.... — riprese Marbaudo, atterrito. — Che è di tua figlia?
— Figlia! — mormorò il vecchio ripetendo la parola, ma senza intendere il senso della domanda. — Che figlia? di chi?
— Getruda, la figlia tua, la tua diletta Getruda. Non sei tu entrato or ora, per cercare tua figlia? E l’hai veduta, perchè essa è in casa, non è vero?
— Vero! che cosa è il vero? — disse Dodone, tentando di aggrapparsi all’ultima parola del suo interlocutore. — Perchè dici tu il vero? —
Marbaudo capì che il povero vecchio aveva smarrita la ragione. Nondimeno, tentò ancora di richiamarlo alla memoria delle cose.
— Dodone, ti prego, raccogli i tuoi pensieri. Non vieni tu ora dalla stanza di tua figlia?
— Vengo, sì, — rispose Dodone, — vengo dal bosco; vengo da abbattere gli alti pini sottili, per farne pali alla vigna.... alla vigna del conte. È del conte, la vigna; e dica Ansperto quel che gli pare; la vigna è del conte. È il più forte, quegli che possiede; è il più forte, quegli che beve.
— Padre mio.... ti prego!...
— Padre! chi sei tu, che mi chiami padre?
— Non mi conosci più? Son Marbaudo, quegli che tu amavi chiamar figlio, e che sperava....
— Speravi? Non sperar nulla, — interruppe Dodone. — Anche il pino sperava, povero pino! sperava di durare all’aria aperta e di crescere al sole. Ma vedi la mia scure? Essa lo ha inesorabilmente colpito. —
Gli occhi di Marbaudo corsero alla scure, che Dodone serrava ancora nel pugno.
— Che vedo? — gridò egli, inorridito. — Gronda sangue la tua scure, o Dodone.
— Sangue del pino! L’ho ben colpito io! e nel punto vitale! Anche il pino, mi capisci? anche il pino ha un’anima, come ogni creatura di Dio. Anche noi, nati sulla terra, vissuti sulla terra, schiavi della terra, abbiamo un’anima anche noi; e conti e castellani non lo vogliono credere.... non lo vogliono credere!..
— Pace alla tua anima afflitta, povero vecchio Dodone! — disse dolcemente il primicerio Luilprando, facendosi innanzi per cessare quella scena dolorosa. — Lascia ora che entriamo nella tua casa.
— Per che fare? — domandò il vecchio, stupito. — Tutti volete entrare nella casa di Dodone! Ora, vi permetterà il castellano, l’amante di mia figlia? Venga egli, e vedrà come ella lo tradisse già, prima di appartenergli. 11 conte ha fatta la legge; la figlia deve appartenere a chi ha vinta la gara dei falciatori.... e chi ha vinta la gara? L’uomo dagli occhi di fiamma; l’ha vinta lui, l’ha presa lui la figlia, che non volle ascoltare suo padre!
— Calmati, buon vecchio! Tu ed io, ricordalo, abbiamo oramai un piede nella fossa.... dobbiamo pensare a Dio, più che alle cose della terra; e perdonare le offese degli uomini, perchè Iddio si degni di perdonare le nostre. Lasciami entrare, o Dodone, e lascia che passi davanti a noi tutti la croce del Signore. —