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Traduzione dal russo di Louis Delâtre (1856)
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II.
La conoscesti alfine, o vergine del Caucaso, la conoscesti l’ebbrezza dell’anima, l’estasi e la beatitudine dei sensi. Le tue luci divampano d’amore e di gioia. Quando il tuo protetto, nell’orror della notte, t’infiamma le guance con un muto bacio, tutta ansante di giubbilo e di brama, più non pensi che a lui solo, ed esclami: “O gentil prigioniero, rasserena lo sguardo ottenebrato; adagia il capo sul mio grembo, oblía la libertà e la patria. Son pronta a viver teco nel deserto, o arbitro del mio fato! Amami! Nessuno innanzi a te m’avea baciato gli occhi; niun Circasso dalle pupille nere s’accostò mai di notte alla mia coltrice: mi credono una fanciulla spietata e inesorabile. So che sorte mi attende: il padre e il fratello voglion vendermi a prezzo d’oro a un ricco cui aborrisco; ma supplicherò il padre e il fratello, e se non li piego.... troverò un pugnale o un veleno. Una forza irresistibile, soprannaturale, mi spinge verso di te; io t’amo, o gentil prigioniero, e l’anima mia è tutta tua....”
Il prigioniero fisa con simpatia, ma senza far motto, la appassionata giovinetta, e ascolta con un tetro presentimento quelle affettuose parole. L’immagine dei giorni andati gli si affaccia al pensiero, e oppresso dalla piena del dolore, prorompe in pianto.... La vista di quell’amore disperato gli pesa sulla coscienza più che piombo. Finalmente confida alla pietosa le sue ambasce: “Dimenticami;” egli le dice; “non son degno della tua bontà. Non perder meco i dì preziosi di gioventù; dona il cuore a uno che meriti di goderlo e che ti vendichi della mia freddezza. Egli ti sarà fedele; saprà apprezzare la tua bellezza, il tuo soave sguardo, i tuoi baci di miele, i tuoi divini accenti.... Vittima delle passioni, io mi consumo privo di desideri e d’entusiasmo. Mira sulla mia fronte tutti gli indizi d’un infelice amore e d’una interna lotta.... Lasciami per pietà; non inasprire le mie piaghe. Sventurata donzella, perchè non ti conobbi prima, allorquando io credeva alla speranza e ai sogni del cuore? Ormai è troppo tardi. Io son morto alla felicità; tramontò per me l’astro del piacere; i miei sensi intorpiditi più non fremono alla voce dell’amore....
”Quanto è penoso dover contraccambiare l’affetto coll’indifferenza, le lacrime di due begli occhi con un gelido riso! Dura condizione quella d’un amante, che, punto dalla gelosia, pensa ad una altra donna fralle braccia d’una appassionata fanciulla!...
”Quando delibi i miei baci con lenta avidità, e immersa nella voluttà, lasci scorrere inosservato il tempo fugace, io, astratto, meditabondo, discerno innanzi a me, quasi in sogno, le sembianze della mia diletta; io la chiamo per nome; a lei mi appresso; non vedo, non sento più altro che lei: e mentre io giaccio a te allato, io mi stringo al seno, non te, ma quella forma aerea, invisibile; per quella io bagno di lacrime l’arena; ovunque io vada, essa mi accompagna, e, senza di essa, l’anima mia è simile ad una vedova derelitta e tribolata....
”Lasciami dunque le catene, le solitarie angosce, le acerbe memorie, e il pianto che non puoi divider meco. Udisti le mie sciagure; dammi un amplesso e separiamoci. Dolore di donna poco dura; presto ti scorderai di me; sopravverrà la noia, e amerai di nuovo.”
La vezzosa sen stava assisa colle labbra socchiuse, col ciglio asciutto; il di lei sguardo torbido e immoto esprimeva un rimprovero; pallida come uno spettro essa tremava, e teneva la fredda mano impalmata in quella dello straniero; finalmente sfogò l’interno affanno in questo modo:
”O Russo, Russo! Come mai mi diedi a te per la vita prima di conoscere i tuoi casi? Poche notti la giovine circassa ha riposato nel tuo letto, e poche furono le ore felici che le concesse il cielo. Torneranno esse mai? Svanì per sempre la mia gioia? Potevi, o forestiero, lasciarmi nell’errore; potevi, tacendo, illudermi, e almeno pietosamente bearmi di finte carezze. Avrei molciuto le tue doglie colle mie cure umili e devole, avrei vegliato al tuo capezzale durante il tuo sonno irrequieto.... Non hai voluto. Ma chi è mai questa bella che adori? Tu ami, o Russo, e sei amato! — Io comprendo il tuo disgusto, il tuo lutto.... Perdona il mio pianto.... non ridere del mio martíre....”
Tacque. I singhiozzi, i gemiti straziavano l’animo della fanciulla. La rampogna venne meno sulla di lei bocca. Priva di sentimento, stretta alle ginocchia dello straniero, appena aveva essa la forza di trarre il fiato. Il prigioniero rialzandola gentilmente da terra così parlolle: ”Non piangere, o infelice! Anch’io provo gli oltraggi dell’avversa fortuna e i rigori dell’indifferenza. Amo, e non sono amato.... amo solo, soffro solo, e passerò da questa vita qual sinistra meteora che si dilegua nella valle deserta.... Morrò lontano dal lido a me caro; queste steppe mi saran sepoltura.... e il ferro di queste catene righerà le mie ossa esiliate....”
Le lampade della notte s’offuscano; i monti mitriati di candida neve si illuminano dalla parte d’oriente, i due sventurati si separano in silenzio colla testa bassa e gli occhi appannati dal pianto. Da quell’ora in poi, il prigioniero scoraggito si diede a vagar solo intorno all’aúl. L’aurora succede all’aurora; la sera sussegue alla sera; egli sospira la libertà, ma non l’ottiene. Se guizza una camoscia fra i burroni, se un daino balza fralle nebbie, egli scuote i suoi ceppi e mira attorno, credendo sentire il Cosacco che sen viene furtivamente ad assalire l’aúl, e a liberare i Russi ivi detenuti. Chiama.... ma nessun risponde, e non ode altro suono che il mormorío delle acque e lo strisciar delle fiere, le quali, all’avvicinare dell’uomo, si rintanano nelle loro buche.
Un giorno, il Russo udì muggire nelle gole dei monti il grido di guerra circasso: i cavalli! i cavalli! Quindi un correre, un urlare confuso nell’accampamento, uno strascicar di bridoni, un nereggiar di burche, un luccicar di corazze, un nitrir di cavalli.... tutto l’aúl parte per una spedizione. Gli indomiti alunni di Marte precipitano a guisa di cataratte dalle alture del Caucaso, e vanno a mettere a sacco le opulenti campagne del Cubano.
Ma ora, l’aúl giace sepolto nel riposo. I cani vigilanti cucciano al sole davanti alle soglie; i bambini brunetti e nudi ruzzano e schiamazzano in libertà; i vecchi siedono attorno in crocchio venerando; il fumo delle loro pipe vola al cielo in ghirlande azzurrine. Ascoltano con sussiego gli stornelli nazionali cantati dalle ragazze, e a quella melodia sembra loro di sentirsi ringiovanire.
canzone circassa.
I.
Regna il silenzio sulla steppa vasta;
Tace il Caucaso avvolto in velo bianco;
Dorme il Cosacco spensierato e stanco
Col capo chino sulla fulgid’asta.
Mira quell’onde, o amico, e quelle spume:
I Cecceneti scendono sul fiume.
II.
Va il Cosacco in barchetta per pescare,
Ma del lido non sa tutti i ripieghi.
Bada, o Cosacco, che tu non t’anneghi
Come un bambino che non sa notare
E che pur di varcare il rio presume:
Il Circasso t’aspetta in riva al fiume.
III.
In riva al fiumicel con lento passo
Van le fanciulle a coglier le viole,
O tesson qua e là gaie carole.
Scappate, o forosette! ecco il Circasso
Che rapir le ragazze ha per costume:
Il Circasso vi coglie in riva al fiume.
Così cantavano le verginelle. Seduto sulla sponda, il Russo macchinava la fuga; ma i ceppi suoi son gravi, il flutto è alto, la corrente è veloce. Frattanto la steppa s’imbruna, le cuspidi dei monti s’annebbiano; appena di quando in quando echeggia nelle valli la pedata di un corsiero; cessò il crocitar dell’aquila; i cervi riposano nelle boscaglie ombrose sull’orlo de’ fiumi; gli aúl s’addormentano, e il roseo barlume della luna riverbera sulle capanne bianche dei Circassi.
Il prigioniero ode in vicinanza un passo a lui ben noto: scorge un velo femminile che svolazza al vento: è dessa. Vacillante, smorta, la figlia del deserto non sa trovar sul labbro le parole; la mestizia adombra quei begli occhi, e i capelli le tremolano sciolti sul seno e sulle spalle. Nella destra stringe una lima, colla sinistra un pugnale; diresti che move a una congiura o a un assalto notturno. Fisa lo sguardo sullo straniero, e: “Fuggi!” gli grida: “fuggi! i Circassi non ti possono incontrare. Affréttati.... non perder l’ora propizia.... Togli questo pugnale; nessuno scoprirà la tua traccia nella caliginosa oscurità....”
Così dicendo, essa si prostra a terra, e con mano incerta si accinge a rompere gli anelli che gli accerchiano i piedi. Il ferro cigola sotto la lima mordace: una lacrima involontaria zampilla dal ciglio della giovinetta; la catena crepita, e si spezza. “Sei libero,” essa esclama; “fuggi!” Ma sul volto di lei trapela l’amore e il dolore che le straziano il petto. La brezza stridula gonfia e sbatte la di lei gonna. “O fida amica,” grida il Russo; “son tuo per la vita! son tuo fino al sepolcro. Abbandoniamo insieme queste atroci regioni; vientene meco....”
“Non mai, Russo, non mai....” interrompe essa, “il calice della vita è per me esausto. Ho provato tutto; ho gustato la felicità. Passò quel tempo; non ne riman vestigio.... Come! Tu ami una altra?... raggiungila, adorala; a che sospiro io così?... che dritto ho io ai tuoi affetti? Addio!... ogni istante del giorno io ti benedirò.... addio!... dimentica le mie torture, e porgimi la mano per l’ultima volta....”
Il prigioniero ebro di giubilo, aprendo ambo le braccia, ne circonda la bella Circassa, e con un lungo bacio di separazione, suggellano la sincerità del loro amore. Stretti in un melancolico amplesso, calano silenziosi verso la piaggia.... Ecco, già il Russo s’attuffa nel rio; già nuota e fa biancheggiar l’acqua intorno; già approda agli scogli opposti, già li agguanta e respira; ma, in quel punto, ode un tonfo e un lamento indistinto: s’arrampica sui balzi diroccati, e volge in giro la vista.... l’argentea spuma risplende sulla cresta dell’onda, ma la giovine Circassa non appare nè sul margine del fiume nè a piè del monte; tutto è muto.... Appena si sente l’alito di zeffiro fra i giunchi del lido; e già i vortici formatisi sull’acqua a poco a poco si cancellano nella corrente imbrillantata dalla luna.
Egli indovina l’accaduto. Dà uno estremo sguardo all’aúl circondato di siepi, ai prati ove menava a pascer le pecorelle, ai dirupi ove trascinava le sue catene, al ruscelletto ove si sdraiava a mezzogiorno, mentre il ruvido Circasso gorgheggiava sui monti un inno di libertà. Le dense tenebre incominciano a diradarsi; i primi albori lambiscono le cime; l’aurora spunta. Il prigioniero sprigionato calca il sentiero che conduce in Russia: già le baionette dei Cosacchi gli scintillano davantï fra le nebbie mattutine, e i soldati in vedetta sui poggi annunziano il suo arrivo.