Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
A chi gli diceva: «Tu sei un Prometeo nel dire»
Questo testo fa parte della raccolta Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini

I.

IL SOGNO,

o

LA VITA DI LUCIANO.



Avevo pur allora smesso di andare alle scuole, essendo già della persona un giovanotto, e mio padre si consultava con gli amici a che mi dovesse applicare. I più opinavano che la Letteratura vuole fatica assai, e tempo lungo, e spesa non poca, e fortuna splendida; e in casa nostra c’era poco, e ci voleva presto un aiuto: se io imparassi una di queste arti meccaniche, subito avrei dall’arte il necessario per me, non dovendo più all’età mia logorare di quel di casa, e indi a non molto darei anche un sollievo a mio padre recandogli il mio guadagno. Il secondo punto fu, quale fosse la migliore arte, e più facile ad apprendere, e conveniente ad uomo libero, e di più poca spesa ad imparare, e che desse un guadagno sufficiente. Qui, chi ne lodava una, chi un’altra, secondo che ciascuno ne aveva conoscenza o esperienza: quando mio padre, voltosi allo zio (chè v’era presente un mio zio materno tenuto un bravo scultore di Mercurii), disse: Non va che un’altr’arte sia preferita, quando sei tu qui. Prenditi costui (e additò me), e fammene un buon artefice, un marmoraio, uno statuario; ei ci può riuscire, perchè sai come ci ha buona attitudine. Argomentava ei così da certi balocchi di cera ch’io facevo: chè quando io tornavo di scuola, mi mettevo a raschiar cera, e formavo buoi, o cavalli, o anche uomini con un certo garbo, come pareva al babbo. Per quei balocchi ne avevo toccato nerbate dai maestri, e allora n’avevo lode di buona disposizione d’ingegno! Onde si avevano le più belle speranze di me, che in breve imparerei l’arte per quelle figurine ch’io formavo.

Quando dunque parve giunto il giorno di mettermi all’arte, mi consegnarono allo zio, e io non ero di mala voglia, anzi mi pareva che ci avrei uno spasso, e mi farei bello coi compagni, se scolpissi iddii ed altre immaginette da tenerle per me, o darle a chi più mi piaceva. E primamente mi avvenne quel che suole ai principianti. Lo zio mi diede uno scalpello, e mi disse di leggermente sgrossare una tavola di marmo che stava in mezzo all’officina, aggiungendomi quel proverbio: chi principia ha mezzo fatto. Ma io che non sapevo, diedi forte un po’, e il marmo ruppesi. Egli adirato piglia un randello che gli viene a mano, e mi picchia senza una pietà; sicchè la prima lezione fu picchiate e lagrime. Me ne scappai, e giunto a casa singhiozzando e piangendo a caldi occhi, raccontai di quel randello, e mostrai i lividori, e dissi che quegli era un crudele, e me l’aveva fatto per invidia che io non lo sorpassassi nell’arte. La mamma ne fu corrucciata, e n’ebbe a garrire col fratello: ed io la sera andai a letto, e m’addormentai piangendo ancora, e ripensandoci tutta notte.

Finora v’ho detto cose da ridere e fanciullate: ma ora verrà il buono, che è da udire attentamente. Imperocchè per dirvela con Omero

... Divino a me veniva un sogno
Nella dolcezza della notte,

e così chiaro che non differiva punto dal vero: e infatti anche dopo tanto tempo, le immagini che mi apparirono, mi stanno ancora innanzi agli occhi; e sento ancora il suono delle parole: tanta era la chiarezza.

Due donne, presomi per le mani, mi tiravano ciascuna a sè con sì gran forza e violenza che per poco in quel tira tira non mi fecero in due pezzi: chè ora prevaleva una e mi teneva tutto a sè, ora venivo in potere dell’altra. Si bisticciavano e gridavano: Egli è mio, e me lo vo’ tenere. No, non è tuo, e non devi pigliarti l’altrui. L’una era un donnone, un’artigiana, coi capelli scomposti, le mani callose, la veste succinta, tutta impolverata, com’era lo zio quando scalpellava i marmi; l’altra di assai bell’aspetto, e composta, e ornatamente vestita. Infine lasciarono a me decidere con chi volessi andare. E prima quel duro donnone parlò in questa guisa:

Io, o bimbo mio, sono l’arte della Scultura, che tu ieri cominciasti ad imparare; sono di casa tua, e tua parente; chè il tuo avo (e mi nominò il padre di mia madre) era scultore, e i tuoi zii amendue, ed ebbero fama per me. Se tu vuoi tenerti lontano dalle inezie e dai cicalecci di costei (additando l’altra), e venire e startene con me, io ti alleverò da uomo, e tu avrai braccia robuste; non sarai invidiato affatto, non anderai in paesi forestieri lasciando la patria e i congiunti, e non per chiacchiere, ma per opere sarai da tutti lodato. Nè ti dispiaccia l’umiltà della persona, e la sordidezza della veste, chè cominciando così Fidia fece il suo Giove, e Policleto formò la Giunone, e Mirone fu celebrato, e Prassitele fu ammirato, ed ora sono anche adorati coi loro iddii. Oh, se tu divenissi uno di costoro, che gloria avresti dagli uomini, quanto sarebbe invidiato tuo padre, che lustro daresti alla tua patria!

Queste cose e più di queste ancora balbettando e mezzo in barbaro mi disse l’Arte, raccozzandole con molto studio, e sforzandosi di persuadermi. Ma non me ne ricordo più, chè la maggior parte m’è uscita di mente. E quando ella cessò, l’altra così prese a dire:

Ed io, o figliuolo, sono l’Eloquenza, già tua amica e conoscente, quantunque tu non mi conosca bene a fondo. Quanti beni avrai diventando uno scultore, te l’ha detto costei: tu non sarai altro che un operaio, uno che lavora con la persona e in questa ripone ogni speranza della vita, un uomo oscuro, avente sottile e ignobile mercede, poca levatura di mente, nessun seguito nelle vie; non difensore degli amici nei giudizi, non terrore ai nemici, non invidiabile ai cittadini, ma soltanto un operaio, uno come tanti altri, sempre soggetto al potente, sempre a riverire chi sa parlare; vivrai la vita del lepre, e sarai boccone del più forte. E se pure divenissi un Fidia o un Policleto, e facessi molte opere stupende, l’arte loderebbero tutti, ma nessun uomo di senno che le vedesse, vorrebbe esser simile a te: chè per miracoli che tu facessi, saresti tenuto sempre un artefice, un manuale, uno che vive delle sue braccia. Ma se ti affidi a me, io primamente ti mostrerò molte opere degli antichi uomini, e i loro fatti maravigliosi, e recitandoti i loro scritti, ti farò, per così dire, conoscere tutte le cose. L’anima tua, che è sì nobil parte di te, io adornerò di molti e belli ornamenti: la temperanza, la giustizia, la pietà, la mansuetudine, la modestia, la prudenza, la costanza, l’amore del bello, il desiderio dell’onesto: chè questi sono i veri e incorruttibili ornamenti dell’anima. Non ti sfuggirà nulla del passato, nulla che al presente convien fare, e con me prevederai anche il futuro: insomma tosto io t’insegnerò tutte le cose divine e le umane. E tu ora poveretto, e figliuolo d’un tale, e che consultavi non so che intorno ad un’arte così ignobile, tu in breve sarai da tutti invidiato, onorato, lodato, pregiato per il tuo valore, riguardato dai nobili e dai ricchi, rivestito di questa veste (e mi mostrò la sua che era splendidissima), creduto degno dei primi uffizi e dei primi seggi. E se anderai in altri paesi, non vi sarai nè sconosciuto nè oscuro, chè io ti darò tanto lustro, che chiunque ti vedrà, scotendo il vicino e mostrando te a dito, dirà: Questi è colui. Se accaderà qualche grave caso o agli amici o alla città tuttaquanta, in te riguarderanno tutti: e dove tu parlerai, tutti ti ascolteranno a bocca aperta, ammirandoti, e dicendo: beato lui che parla con tanta facondia, e beato il padre che l’ha generato. Si dice che alcuni di uomini diventano iddii: ebbene, tale io ti renderò: chè quando uscirai di vita, non cesserai di startene coi savi, e converserai con gli uomini migliori. Vedi Demostene di chi era figliuolo, e chi lo feci io divenire? Vedi Eschine, figliuolo d’una sonatrice di tamburello, quanto fu carezzato da Filippo per amor mio! E Socrate stesso, allevato dalla Scultura, e poi, veduto il suo meglio, lasciatala, e venuto nelle braccia mie, quanto è celebrato nel mondo! Or tu lasciando da banda tanti e tal-mini, ed mini, ed opere splendide, e scritti sapienti, e nobile aspetto, e onori, e gloria, e lodi, e primi seggi, e potenza, e uffizi, e il plauso che si dà alla facondia ed alla prudenza, tu ti metterai indosso una vestaccia impolverata, piglierai l’aria d’un servo, e con in mano leve, scalpelli, martelli e raspe, starai curvo sul lavoro, prostrato proprio a terra, non solleverai mai il capo, non avrai mai forti e liberi pensieri: attenderai a dare acconcezza ed ornamento alle tue opere, e non baderai ad essere tu acconcio ed ornato, anzi renderai te stesso da meno dei sassi.

Dicendo ella così, io non aspettai che finisse, e decisi: lasciai quella brutta e artigiana, e me n’andai dall’Eloquenza tutto lieto, massime perchè mi venne a mente quel randello, e le gran picchiate del giorno innanzi che incominciai l’arte. Ella così piantata, primamente sdegnossi, e battè le mani, e arrotò i denti; poi, come Niobe, rimase immobile e si mutò in sasso. Se la cosa vi parrà strana, credetela pure; chè i sogni fanno vedere maraviglie.

L’altra volgendosi a me, disse: Ed io ti ricompenserò di questa giustizia con la quale hai giudicato questa lite. Vieni, monta sù questo carro (e mi mostrò un carro con alati cavalli simili al Pegaso), acciocchè tu veda quali e quante cose avresti ignorato, se non m’avessi seguito. Come io montai, ella prese le briglie e guidò: ed io levato in alto andava contemplando dall’Oriente sino all’Occidente città, nazioni e popoli, spargendo come Trittolemo certi semi sù la terra;1 ma non mi ricorda più che semi eran quelli, se non che mi sovviene che gli uomini di giù rimirando mi lodavano, e dovunque io m’avvicinavo in quel volare, m’accoglievano a grand’onore. Poichè ella mostrò a me tante belle cose, e me a quelli che mi lodavano, mi ricondusse in patria non più vestito di quella veste che avevo quando montai sul cocchio, ma mi pareva tornarci da gran signore. Ed avendo ella scontrato mio padre che mi stava aspettando, gli mostrava quella veste, e l’aria con che io tornavo, e gli ricordò ancora che poco mancò e non mi rovinava la consulta fatta su di me. Questo mi ricorda ch’io sognai essendo ancor garzonetto, turbata la mente, cred’io, dal timore delle busse.

Ma qui taluno m’interrompe, e dice: Oh, che sogno lungo, e proprio sogno d’avvocato! Un altro soggiunge: Gli è un sogno d’inverno, quando sono sì lunghe le notti; e forse fu fatto in tre notti, come Ercole.2 Come è venuto in mente a costui contarci queste fanfaluche, e ricordare i sogni della fanciullezza? Le son cose rifritte coteste. O ci ha preso egli per disfinitori di sogni? — No, caro mio. Senofonte quando narrava quel suo sogno, come gli pareva che s’era appiccato il fuoco alla casa paterna, e il resto che sai,3 non raccontava egli quella visione come una fiaba, o con intenzione di scherzare, massime allora che la guerra gli ardeva intorno, i nemici l’accerchiavano, e non c’era scampo; ma quel racconto aveva un certo utile. Così anch’io v’ho raccontato questo mio sogno, affinchè i giovani si volgano al meglio, e si diano all’eloquenza, specialmente se alcuno di essi, scorato dalla povertà, inclinasse al peggior partito, e lasciasse guastare una natura non ignobile. Ei si conforterà a questo racconto, e avrà innanzi agli occhi l’esempio mio, pensando chi era io quando feci il buon proponimento e mi diedi a studiare eloquenza, senza temere le strette della povertà d’allora, e chi sono ora che a voi ritorno, non dico altro, tanto famoso quanto ogni altro scultore.



  1. Si crede che Luciano voglia intendere i suoi primi lavori che cominciarono a farlo conoscere, e dei quali egli più non ricordava, come crebbe di anni e di fama.
  2. Per generare Ercole, Giove di tre notti ne fece una.
  3. Nell’Anabasi, lib. III, c. I, § 11.

Note

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