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XVII
Sul Tanganika
Il Tanganika per vastità è il secondo lago della regione equatoriale africana, essendo minore del Vittoria Nianza e maggiore del Niassa, del Ciad e del Lago Rodolfo.
È lungo più di trecento miglia, mentre la sua larghezza non supera le quarantacinque e s’estende fra regioni assolutamente selvagge, toccando con la punta settentrionale la Ruanda e con quella meridionale l’Uranga. Le sue rive sono molto popolate e contano moltissimi grossi borghi come Ugige al nord, Sanelido al sud, Karema e Katanga all’est e Kapampa all’ovest.
Ultimamente sono state impiantate alcune piccole stazioni europee tenute per lo più da missionari inglesi, esposti a continui pericoli trovandosi fra tribù bellicose.
Il Germania, che aveva continuato a scendere in causa della fuga dell’idrogeno, era entrato nel lago al nord di Karema, seguendo il corso dell’Iunguvo, uno dei tanti fiumi che si scaricano in quel bacino.
In quel luogo il lago appariva deserto, non scorgendovisi, in quel momento, alcuna barca. Più al nord invece e verso l’ovest, in direzione di alcune isolette, si scorgevano numerosi punti neri che potevano essere barche di pescatori.
La superficie del lago era tranquilla e rifletteva splendidamente i raggi solari, assumendo delle tinte strane con certi bagliori che accecavano.
Matteo e Ottone, curvi sul parapetto, contemplavano con ammirazione quella vasta distesa d’acqua che pareva salisse verso di loro, senza occuparsi del Germania, il quale continuava a cadere con dei larghi dondolamenti.
Un grido di El-Kabir li avvertì del pericolo.
— Cadiamo!
— Mi ero dimenticato che il nostro treno era invalido — disse Ottone.
— Non siamo che a sessanta metri — disse Matteo. — Dove andremo a posare?
— Vedo laggiù un’isola boscosa — rispose Ottone. — Caleremo sopra di essa.
— È lontana, mi pare.
— Non più di sei miglia.
— Sarà disabitata?
— Te lo dirò più tardi.
— Siamo prudenti — disse El-Kabir. — Le isole del Tanganika sono abitate da pirati sanguinari.
— Siamo bene armati e d’altronde non possiamo attraversare il lago in queste condizioni.
— Mettiamo in movimento i motori? — chiese Matteo.
— Sì, così ci sosterremo meglio. Abbiamo ancora carbone?
— Una decina di chilogrammi — rispose Heggia.
— Accendi i motori e getta l’àncora.
— Ed io mando nel lago qualche cassa.
— È inutile, Matteo — disse Ottone. — Giungeremo egualmente all’isola.
L’àncora fu subito gettata e s’immerse nel lago sollevando uno spruzzo altissimo. Il Germania si trovava allora a soli quaranta metri dalla superficie, però il vento soffiava forte e l’isola ingrandiva rapidamente.
Era quella una terra bassa, coperta tutt’intorno da folti canneti e più oltre da cespugli e da alberi grandissimi, per lo più sicomori e palme di bellissimo aspetto. Non si vedevano capanne: essendo però la vegetazione folta, non si poteva escludere che ve ne fossero sotto gli alberi.
Il Germania non distava ormai che due o trecento metri, quando diede un balzo così improvviso e così forte, da scagliare gli aeronauti uno addosso all’altro.
— Cosa è accaduto? — domandò Ottone, alzandosi subito.
— Non siamo ancora giunti sull’isola per urtare contro gli alberi.
— Il dirigibile ha subito uno strappo — disse Matteo. — Non vedi che danza?
— Che l’àncora si sia impigliata su qualche bassofondo?
— O che abbia ramponato qualche grosso pesce? — chiese l’arabo. — La fune subisce degli strappi continui.
Si curvarono sul parapetto e guardarono. Qualche cosa avveniva sott’acqua, perchè della spuma montava alla superficie e non era candida.
— Abbiamo preso qualche pesce — disse Matteo.
In quel momento una testa emerse, o meglio sorsero due mascelle armate di lunghi denti che si chiudevano e si aprivano con sordo rumore.
— Abbiamo preso un coccodrillo! — esclamò Ottone.
Era vero. L’ancora era stata scambiata per un oggetto mangiabile ed un grosso sauriano l’aveva addentata, rimanendone preso.
Una punta era penetrata nella mascella superiore del ghiottone, traforandogliela.
Il sauriano, pazzo di dolore, era salito alla superficie, dibattendosi ferocemente. Era lungo tre o quattro metri e coperto da piastre ossee di tale spessore da sfidare le palle dei migliori fucili.
— Ben ramponato! — esclamò Matteo.
— Si poteva fare a meno di questo intruso — disse Ottone.
— Come sbarazzarcene?
— Le nostre palle a nulla serviranno.
— Aspettiamo che muoia.
— L’attesa sarà lunga — disse El-Kabir. — Questi sauriani hanno una vitalità straordinaria.
— Proviamo a bersagliarlo — disse Matteo.
— Non ne fareste niente — rispose l’arabo. — Bisognerebbe che il coccodrillo mostrasse il ventre.
— Tagliamo la fune.
— Sei pazzo, Matteo? Non abbiamo che questa àncora.
— E vuoi rimanere qui tutto il giorno?
— Il Germania, lo sai bene, presto comincerà a ridiscendere.
— Ho trovato! — esclamò Ottone.
— Che cosa?
— Il modo di liberarci dal coccodrillo.
— In quale modo?
— Quanto credi tu che pesi?
— Almeno due quintali.
— Abbiamo qui una cassa piena di filo di rame che destinavo ai sultani negri e che pesa press’a poco duecento chilogrammi.
— E cosa vuoi concludere?
— La faccio gettare nel lago e sollevo il coccodrillo — disse Ottone ridendo.
— Ottima idea!
— Che ci priva però della cassa — osservò El-Kabir.
— I sultani ne faranno a meno. Già, non ci mancano altri regali. Matteo, El-Kabir, aiutatemi.
Mentre Heggia sorvegliava la corda dell’àncora, i tre aeronauti ... con un salto si aggrappò all’estremità d’un ramo...
(Cap. XVI). sollevarono la pesante cassa e la precipitarono nel lago, provocando una enorme ondata.
Il Germania, scaricato di quel peso considerevole, si alzò lentamente, strappando dalle acque il coccodrillo.
Il disgraziato sauriano, sentendosi sollevare, si dibatteva furiosamente, contorcendosi come una serpe ed imprimendo alla fune delle scosse poderose.
Soffiava, muggiva, batteva le mascelle e roteava gli occhi pregni di sangue.
Certi momenti dava delle strappate così violente da far temere agli aeronauti che potesse spezzare la fune.
Il Germania s’era innalzato faticosamente di altri trenta metri, lasciandosi portare dal vento verso l’isolotto.
— Cerchiamo di ucciderlo — disse Ottone — o quando toccheremo il suolo si metterà a fuggire e ci trascinerà fra le piante.
Si armarono dei fucili e cominciare a tempestare il sauriano, mirando sul muso.
Ad ogni proiettile che riceveva, il sauriano raddoppiava i suoi contorcimenti ed i suoi balzi. Rauchi suoni gli uscivano dalla gola gorgogliante di sangue.
Al settimo colpo, il coccodrillo si irrigidì. La palla gli era entrata nella bocca, attraversandolo in tutta la sua lunghezza.
Il Germania si trovava allora sopra una piccola spianata coperta di cespugli e calava lentamente, facendo fuggire miriadi di uccelli acquatici.
— Che sia proprio morto? — chiese Matteo.
— Lo vedremo quando saremo a terra — rispose El-Kabir.
— Io dubito che abbia proprio esalato l’ultimo respiro.
— Ci terremo pronti a ricominciare il fuoco — disse Ottone.
Il Germania calava sempre e ben presto la coda del rettile toccò i cespugli. A quel contatto si vide il mostro contorcersi, come se avesse ripreso novello vigore.
Ottone, che teneva ancora in mano il fucile, gli sparò un colpo fra le mascelle spalancate. Fu quello il colpo di grazia, perchè le convulsioni subito cessarono.
Il corpo morto del rettile calò fra i cespugli e il Germania rimase immobile dondolandosi leggermente.
La scala fu subito gettata e Ottone e Matteo discesero con precauzione, aggrappandosi subito ai rami, onde il treno non risalisse portando via anche il coccodrillo.
Legarono solidamente l’estremità della scala al tronco d’un albero; poi con una scure spaccarono la mascella del sauriano liberando l’àncora ed impigliandola fra i rami d’una pianta.
Rassicurati contro la fuga del treno aereo, invitarono l’arabo ed il negro a scendere.
— Mi pare che il luogo sia propizio per rinvigorire i nostri palloni — disse Ottone. — L’isoletta mi sembra disabitata.
— Bisognerà farlo scendere fino a terra? — chiese Matteo.
— Certo.
— E come faremo?
— Vi sono molti macigni qui. Li porteremo nella piattaforma e la caricheremo tanto da costringere il Germania ad abbassarsi.
— Cominciamo subito l’operazione — disse El-Kabir. — Non è prudente fermarci troppo qui, tanto più che non sappiamo se l’isola sia proprio deserta.
— È quello che volevo proporti. L’operazione non sarà d’altronde lunga.
Si misero tosto al lavoro rimontando la scala con dei grossi macigni destinati a sostituire non solo il loro peso, ma anche quello del coccodrillo.
Mezz’ora dopo il Germania scendeva lentamente. Ad ogni macigno che veniva scaricato nella piattaforma, il dirigibile si abbassava da tre a quattro metri.
A mezzodì la piattaforma toccava il suolo, schiacciando col suo peso i cespugli che si trovavano sotto di essa.
Ottone fece gettare dentro alcuni quintali di massi che dovevano più tardi servire di zavorra, poi, aiutato dai compagni, staccò la tela che avvolgeva lo scheletro del treno, mettendo in vista i palloni.
Fu subito constatato che tre si erano completamente sgonfiati. Uno portava ancora quattro frecce infisse nel tessuto di seta; gli altri due avevano due lunghi strappi prodotti dalle lance dei negri.
— Leviamoli — disse Ottone. — Ci scaricheremo d’un peso inutile.
— Basteranno gli altri? — chiese Matteo.
— Ne abbiamo perfino troppi e potremo caricare ancora sei o sette quintali, pur conservando della zavorra.
I tre palloni, che, come fu detto, erano interamente vuoti, furono strappati; poi Ottone saldò la manica di gomma ad un cilindro e cominciò il gonfiamento degli altri.
Tutti avevano perduto una parte notevole d’idrogeno e nella parte inferiore avevano delle pieghe considerevoli, le quali però ben presto scomparvero.
Quell’operazione molto delicata richiese quattro lunghe ore; poi la tela che avvolgeva lo scheletro del treno aereo fu ricollocata a posto e chiusa nella parte inferiore.
Il Germania, così rinforzato, poteva continuare ora il viaggio fino al Kassongo, mantenendosi ad un’altezza considerevole e portando anche con sè una mezza tonnellata di zavorra.
— Abbiamo ancora idrogeno? — chiese Matteo.
— Ancora un cilindro, che conserveremo gelosamente — rispose Ottone. — Ci servirà per il ritorno.
— Facciamo colazione, poi ripartiremo.
— Senza visitare l’isola?
— Non bisogna perdere tempo — disse El-Kabir. — Altarik ha già attraversato il lago e forse è già molto lontano.
Heggia aveva già macellata la seconda capra e ne aveva messo un bel quarto ad arrostire. Avendo poi veduto delle banane e dei datteri freschi, ne aveva raccolti parecchi.
Gli aeronauti, molto affamati, si stesero sulla fresca erba e si misero a mangiare con molto appetito, tenendo gli sguardi sul Germania, il quale si dondolava sotto i soffi della brezza.
Avevano già accese le loro pipe, quando la loro attenzione fu richiamata dalla fuga generale degli uccelli acquatici che si trovavano imboscati fra i canneti della riva.
Splendide meropi, con le ali di smeraldo orlate di zaffiro; martin-pescatori con le penne turchine ed aranciate, dai becchi incrociati, dal mantello d’ebano e il corsetto d’argento; e molti pivieri fuggivano in tutte le direzioni, mandando grida di spavento.
— Chi può avere spaventato tutti quei volatili? — chiese Ottone prendendo il fucile.
— Qualche coccodrillo — disse Matteo.
— Non fuggirebbero in quel modo — osservò El-Kabir. — Sanno di non aver nulla da temere da quei sauriani.
— Che siano sbarcati dei negri?
A quella supposizione tutti si erano levati tenendo in mano i fucili. Le canne erano fitte sicchè non si poteva vedere se qualche barca era approdata.
— Non esponetevi — disse El-Kabir, vedendo che Ottone, stava per slanciarsi fra i canneti. — I negri di queste regioni sono arditi e hanno anche delle armi da fuoco. Una palla fa presto a troncare una vita.
— È vero — disse il tedesco. — I vostri connazionali hanno sempre la pessima abitudine di fornire i negri d’armi da fuoco.
— Silenzio! — disse Matteo. — Udite?
Verso la riva si erano alzate delle grida acute e si udivano degli strumenti musicali, dei tam-tam scavati nel tronco d’un albero e delle chiarine.
— Andiamo a vedere — disse Ottone, il quale non poteva più stare fermo. — Il nostro Germania è riparato fra le piante, quindi nulla abbiamo da temere e poi abbiamo dei fucili a retrocarica e le munizioni abbondano.
Si gettarono, dopo alcuni minuti, a raggiungere i canneti.
Arrivati quasi sulle rive del lago, a circa centocinquanta metri, scorsero un gran canotto, scavato nel tronco di un albero, lungo circa sessanta piedi e largo non più di quattro, di forme pesanti e con a poppa un pesante anello di ferro, il quale, presso i battellieri del Tanganika, sostituisce bene o male il timone. ... — Vi porto la benedizione del Sole e della Luna!...
(Cap. XVIII).
Seduti sulle panchette, molto stretti, stavano trenta negri, i quali percuotevano con le pagaie i bordi della scialuppa cantando a piena gola.
Un altro negro, che portava un gonnellino di percalle rosso e che aveva delle penne di struzzo infisse fra i capelli, eseguiva una danza, girando e saltellando sulle panche, accoccolandosi fra gli spazi, poi balzando sopra i remiganti come se fosse indemoniato.
— Che cosa fanno? — chiese Ottone, stupito.
— Salutano la terra — rispose El-Kabir, ridendo.
— Non comprendo.
— Quando i navigatori del lago giungono presso la costa o su qualche isola, prima di prendere terra gridano e saltano per richiamare l’attenzione degli abitanti.
— Credono che qui ci siano degli abitanti?
— Forse hanno veduto il fumo che si innalzava dal nostro campo.
— Cosa facciamo?
— Lasciamoli urlare — disse Matteo. — Mostrandoci, nulla abbiamo da guadagnare.
— Padrone — disse Heggia volgendosi verso l’arabo, — vedo degli altri canotti muovere a questa volta.
— Che abbiano intenzione di attaccarci? — chiese Matteo. — Non mi fido affatto di questi negri.
— I bianchi non sono ben visti su queste rive — disse El-Kabir. — Qui vengono trattati come stregoni.
— Allora allontaniamoci e presto.
— È quello che volevo proporvi. Guardate, vi sono altri quattro canotti che si dirigono a questa volta, e vedo dei negri armati di fucili.
— Venite, amici — disse Ottone. — Le palle potrebbero guastare il nostro Germania.
Tornarono sollecitamente al campo e si misero a scaricare la zavorra che si trovava sulla piattaforma, sostituendovi il loro peso.
Il Germania, sbarazzato dall’àncora, cominciò ad innalzarsi fra gli alberi, con un largo dondolìo, il quale aumentava di momento in momento.
Quando comparve sopra le piante, urla terribili scoppiarono verso il lago. Gli equipaggi dei cinque canotti l’avevano veduto e si erano alzati come un sol uomo, impugnando i fucili e tendendo gli archi.
— Scendete! Scendete! — gridavano con tono minaccioso.
— Impiccatevi! — gridò Ottone, puntando verso di loro il fucile che teneva in mano.
Alcuni colpi d’arma da fuoco rimbombarono e parecchie frecce, partirono sibilando. Era troppo tardi, perchè il Germania, scaricato di un macigno del peso di mezzo quintale, si alzava con velocità fulminea, allontanandosi verso l’ovest.
I canottieri, vedendolo fuggire, avevano deposto le armi per prendere le pagaie. Arrancavano furiosamente, facendo spruzzare alta l’acqua e si animavano a vicenda con grida acutissime.
Di quando in quando i capitani sparavano qualche colpo di fucile: polvere sprecata, essendo il Germania troppo alto.
Aveva già superato l’isola e correva verso la costa occidentale con la velocità di venti miglia all’ora, lasciandosi sempre più indietro le scialuppe dei negri.
— L’avevano proprio con noi — disse Ottone.
— Sì, cercavano di darci addosso — rispose El-Kabir. — Probabilmente ci avevano veduti scendere sull’isolotto e contavano di prenderci prima che noi spiccassimo il volo.
— Avranno da correre un bel pezzo.
— Sono già scoraggiati — disse Matteo, il quale stava osservando i canotti. — Uno è già tornato verso l’isola e gli altri non tarderanno a seguire il suo esempio.
— Mi stupisce come questi negri cerchino di catturare noi uomini bianchi. Speke, Grant, Burton e soprattutto Livingstone che hanno soggiornato non poco tempo su queste coste, hanno lasciato buone memorie degli uomini bianchi.
— È in questi dintorni che è morto Livingstone?
— Sì — rispose Ottone. — Il vecchio ed illustre esploratore ha finito qui i suoi giorni, vinto dalle fatiche incessanti e dal clima.
«Dopo il suo fortunato incontro con Stanley a Ugige, invece di riposarsi, aveva voluto continuare le sue scoperte, credendo che il Nilo avesse in quei dintorni le sue sorgenti.
«Quantunque assai deperito, aveva giurato di non tornarsene in Europa senza aver prima risolto quel grande problema.
«Senza saperlo, egli andava invece alla scoperta delle sorgenti del Congo, il gran fiume dell’Africa occidentale.
«Rifornito da Stanley d’uomini, di medicine e di merci, si era diretto verso il lago di Banguelo, convinto che il Nilo uscisse di là, inoltrandosi audacemente fra tribù di antropofagi.
«Era ridotto in pessimo stato. Non era che un sacco d’ossa e una dissenteria cronica lo travagliava senza posa.
«Un giorno la malattia s’inasprì e la notte del 30 aprile 1873 lo trovarono morto sotto la tenda, inginocchiato.
«Il grande esploratore, sentendosi prossimo a morire, si era levato per pregare ed era morto in quell’atteggiamento».