< Il treno volante
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XVII XIX

XVIII

Il prigioniero

La traversata del lago, in quel luogo relativamente stretto, poichè non superava i trenta chilometri, fu compiuta senza nessun nuovo incidente.

Alle cinque del pomeriggio il Germania toccava la riva opposta, passando sopra Kapampa, una delle più considerevoli borgate del Tanganika, popolata da parecchie migliaia di negri e da alcuni arabi dediti per lo più al traffico dell’avorio.

Ormai poche giornate di marcia li separavano dal Kassongo, forse non più di due se il vento continuava a mantenersi favorevole.

Il paese non cambiava. Erano sempre i soliti boschi e le solite pianure tagliate da qualche fiume ed interrotte da stagni, per lo più ampi, sulle cui rive si vedevano gruppi di capanne.

Abbondava la selvaggina. In mezzo ai boschi si vedevano galoppare branchi di bufali, di giraffe, di zebre, di antilopi e qualche volta si vedevano, presso gli stagni, anche degli elefanti di forme mostruose.

Ottone, vedendo tanta selvaggina, non poteva tenersi fermo e smaniava di non potersi slanciare in mezzo a quei boschi e aprire un fuoco infernale contro quelle bestie.

— È un vero peccato non poter scendere — diceva. — Là vi sono bistecche a profusione.

— Lascia andare e pensiamo invece a giungere più presto che possiamo nel Kassongo — rispondeva Matteo. — Non dimentichiamoci che anche Altarik marcia verso lo stesso punto.

— È a Kilemba, è vero, che deve trovarsi l’inglese? — chiese Ottone all’arabo.

— Sì — rispose questi.

— Ci siete mai stato?

— Trent’anni fa.

— È una borgata grossa?

— Contava allora circa diecimila abitanti.

— Cattiva gente?

— Si dice che siano antropofagi.

— Corriamo forse il pericolo di venire mangiati anche noi? — chiese Matteo.

— L’uomo bianco viene rispettato — rispose El-Kabir. — Se non lo fosse, l’inglese sarebbe già stato divorato.

— Questo è vero — disse Ottone. — Come ci accoglieranno?

— Ci faremo credere figli della Luna — disse El-Kabir. — Vedendoci scendere dal cielo, non avranno difficoltà a crederlo.

— L’idea è buona — rispose Ottone.

— Quanto distiamo ancora da Kilemba? — chiese Matteo.

— Se il vento si mantiene sempre così, domani a mezzodì ci saremo — disse il tedesco. — Ho calcolato esattamente la distanza.

— Tieni conto delle miglia che percorriamo?

— Sì, Matteo.

— Vedo un fiume — disse in quel momento Heggia.

— Dove?

— Taglia l’orizzonte verso l’ovest.

— Che fiume sarà? — chiese Matteo.

— Il Luvrea — disse El-Kabir. — Noi, signori, siamo giunti alle sorgenti del Congo.

— È qui che nasce quell’importantissimo fiume? — chiese Ottone con stupore.

— Sì, perchè esce dal lago Moero che si trova una trentina di miglia più al sud — rispose l’arabo. — Questo è il fiume che Livingstone si ostinava a scambiare col Nilo.

Ottone e Matteo s’erano curvati sul parapetto, guardando con vivo interesse quell’importante corso d’acqua che può riguardarsi come il vero Congo.

Era largo più di cinquanta metri e scorreva fra due rive tagliate quasi a picco, aprendosi faticosamente il passo fra un numero infinito d’isole e di banchi coperti da una folta vegetazione. Numerosi ippopotami sonnecchiavano sulle rive delle isole, mentre i loro piccini si trastullavano inseguendosi, avvoltolandosi nell’acqua e muggendo come vitelli.

Trovandosi il Germania a soli cinquanta metri, Ottone si provò a far fuoco sopra una grossa femmina che stava coricata sulla punta d’un isolotto.

La bestia, colpita dalla palla del bravo cacciatore, si levò tutta d’un colpo, mandando un muggito sonoro, poi si scagliò in acqua dibattendosi ferocemente.

Girava su se stessa come fosse impazzita, cercando senza dubbio il suo feritore; poi calò a picco, nè fu più riveduta.

— Che l’abbia uccisa? — chiese Ottone.

— È probabile — rispose El-Kabir. — Perdeva sangue presso l’occhio e forse la vostra palla le ha offeso il cervello.

— Se scendessimo?

— Dovreste aspettare molto prima che tornasse a galla.

— E poi vi sono dei negri che ci stanno guardando — disse Heggia.

Sulla riva, infatti, si erano radunati dodici o quindici negri e pareva che discutessero animatamente.

Il Germania, spinto da un vento piuttosto forte, li lasciò ben presto indietro, filando sopra dei boschi foltissimi.

Durante la notte il treno aereo continuò la sua corsa, guadagnando miglia su miglia e l’indomani giungeva in vista di un secondo fiume, il quale formava una lunga serie di laghetti di qualche miglio d’estensione.

Era il Liralabo, ragguardevole corso d’acqua che ha le sue sorgenti nel cuore del continente africano e che col Luvrea concorre a formare il Congo.

— Siamo vicini a Kilemba — disse El-Kabir rivolgendosi verso Ottone, il quale era intento a guardare gli ippopotami che popolavano il fiume.

— Quanto dista ancora?

— Una trentina di miglia.

— Allora giungeremo presto. Il Germania si avanza con una velocità di venti miglia all’ora.

— Che sia già arrivato Altarik? — chiese Matteo.

— Non lo credo — rispose El-Kabir. — Per quanto abbia affrettate le marce, non può essere giunto ancora qui. Forse si trova al di là del Luvrea.

— Quando giungerà troverà una bella sorpresa — disse Ottone, — Non si immaginerà certo di essere stato così ben giocato.

Il paese a poco a poco si popolava; si vedevano campi coltivati e molti aggruppamenti di capanne.

Gli abitanti, scorgendo il Germania, fuggivano in tutte le direzioni urlando. Perfino i buoi e le capre avevano paura e muggivano e belavano, correndo attraverso i campi coltivati.

Alcuni negri però, più arditi degli altri, lanciavano delle frecce che non potevano giungere fino alla piattaforma.

Verso le dieci del mattino, Heggia, che si era posto in vedetta dinanzi alla piattaforma, segnalava un grossissimo aggruppamento di capanne, il quale occupava uno spazio considerevole.

— È Kilemba! — esclamò El-Kabir.

— Prepariamo le nostre armi — disse Ottone. — Non si può sapere quale accoglienza ci faranno quegli abitanti.

La borgata ingrandiva a vista d’occhio. Essa occupava la radura di una collina e spingeva le sole punte estreme fin sul margine dei boschi.

Il Germania doveva essere stato già scorto. Si distinguevano già numerosi punti neri muoversi in tutte le direzioni e addensarsi sulla piazza del mercato, presso la quale sorgeva un capannone di dimensioni colossali: la dimora del Sultano, di certo.

— Siamo già stati scoperti — disse Ottone, il quale aveva puntato il cannocchiale verso la città.

— Che si preparino a moschettarci? — chiese Matteo.

— Dubito che abbiano dei fucili — disse El-Kabir. — Se ne avranno, saranno così guasti, da non poter sparare più di un colpo.

— Tuttavia prepariamoci a qualunque evento — disse Ottone.

Di mano in mano che il Germania si avvicinava, l’animazione aumentava in Kilemba. I negri accorrevano da tutte le parti concentrandosi sulla piazza del mercato e qualche colpo di fucile, molto prematuro, rimbombava.

Quando il treno volante giunse sopra la città, la piazza del mercato era affollatissima.

Centinaia e centinaia di negri, quasi nudi, non avendo ai fianchi che minuscoli gonnellini di erba intrecciata, si dimenavano, alzando le braccia verso il cielo per poi precipitarsi al suolo a coprirsi la testa con la polvere della via.

In mezzo a loro, un vecchio negro, di statura gigantesca, armato di un moschetto, e col corpo adorno di braccialetti di rame, d’avorio e di conchigliette bianche, vociava come un ossesso, alzando ambe le mani verso il treno volante che stava scendendo lentamente.

Ottone si era curvato sul parapetto della navicella, gridando a pieni polmoni:

— Popolo di Kilemba, largo agl’inviati del Cielo che scendono fra voi.

I negri, vedendo calare il mostro, si ritirarono da tutte le parti mandando grida di terrore. Anche il vecchio capo si era allontanato verso la sua immensa capanna, circondato dalla sua scorta armata di lance e di archi.

Quando il Germania fu a venti metri dal suolo, Heggia lanciò l’àncora fra i rami d’un enorme miombo che cresceva in mezzo alla piazza, quindi calò la scala.

Ottone, Matteo e l’arabo scesero, portando le loro armi e alcune cassette contenenti i regali pel sultano.

Vedendo apparire quei due uomini bianchi, la folla si era gettata in ginocchio, continuando ad urlare.

— Genti di Kilemba! — gridò Ottone in arabo. — Vi porto la benedizione del Sole e della Luna.

Il vecchio capo negro si era avanzato lentamente, con esitazione e si era inginocchiato dinanzi ai due europei, dicendo pure in arabo:

— Pembo, sultano di Kilemba, saluta i figli del Sole e della Luna.

Ottone prese le cassette e consegnandole al negro, disse:

— Prendi, il Sole e la Luna ti inviano questi doni.

— Siete dunque amici? — chiese il negro.

— Noi non vogliamo farti alcun male — rispose Ottone. — Il Sole e la Luna proteggono i negri di Kilemba. Perchè la Luna ci ha incaricati di cercare un suo figlio scomparso da qualche anno.

— Un suo figlio! — balbettò il capo, guardando i due europei con terrore.

— E che si trova presso di te. ... — Ecco il tesoro! — dichiarò l’inglese...
(Cap. XVIII).

— Un uomo bianco come voi?

— Sì.

— È anche lui figlio della Luna?

— Il primogenito.

— Oh, disgraziato che io sono! — urlò il negro.

Ottone assunse un aspetto severo.

— L’hai ucciso? — chiese Ottone, terribile.

— No, no! — si affrettò a dire il capo. — Io non l’ho ucciso, ma non l’ho trattato con quei riguardi che spettavano ad un figlio del Sole e della Luna.

— Dove si trova quell’uomo? Rispondi o il mio mostro divorerà d’un colpo solo tutti i tuoi sudditi.

— È presso di me — balbettò il capo. — Sta tritando del grano.

— Conducimi subito da lui, se ti preme la vita.

— Vieni!

Con un gesto congedò la folla accalcata sulla piazza del mercato, poi condusse i tre aeronauti verso la grande capanna, mentre Heggia si metteva a guardia della scala di corda e dell’àncora con due fucili e una rivoltella.

Appena entrati nella casa del capo, in un angolo videro un uomo bianco, coi capelli e la barba rossa, macilento, magrissimo e coperto solamente da alcuni stracci che non avevano più forma d’abiti. Inginocchiato dinanzi ad una pietra, stava stritolando del mais, guardato da due ragazzi negri, armati di bastoni.

Vedendo entrare i due europei e l’arabo, quel disgraziato si era rizzato mandando un grido di stupore e di gioia, poi era divenuto così pallido da far temere che fosse per cadere svenuto.

— Signori! — esclamò con voce rotta dai singhiozzi.

Non potè più aggiungere parola. Si era appoggiato alla parete, mentre due lagrime gli gocciolavano lungo le scarne gote.

Ottone e Matteo si erano slanciati verso di lui, tendendogli le mani.

— Sono ben lieto di potervi vedere — disse il tedesco, abbracciandolo. — Coraggio, ci siamo noi qui, ormai, e non avete più nulla da temere.

— Signori... non è un sogno?... — balbettò l’inglese. — Credevo di non dover più mai rivedere alcun volto di europeo. Quanti tormenti, in questo lungo tempo! Guardate in quale stato mi han ridotto questi crudeli negri. Dio sia ringraziato! Spero che le mie pene siano finalmente terminate.

— Vi condurremo con noi, signore — disse Matteo. — Siamo venuti da Zanzibar per salvarvi.

L’inglese guardò il greco con stupore.

— Siete venuti qui appositamente? — esclamò.

— Sì — disse Ottone.

— Chi può avervi informato della mia prigionia?

— Il vostro biglietto appeso alle corna di un’antilope.

— Bisogna credere che Dio abbia vegliato su di me — disse l’inglese, con voce commossa. — Non avrei mai creduto che quella carta attaccata da me all’antilope, che ero riuscito a prendere viva, potesse giungere fino alla costa. Signori, con quale mezzo siete giunti fin qui?

— Con un pallone — rispose Ottóne.

— Con un pallone?! — esclamò l’inglese.

— E fatto costruire appositamente in Germania.

— Allora... — balbettò l’inglese, tornando a impallidire.

— Che volete dire? — chiese Matteo.

— Come farete a trasportare il tesoro che io ho promesso ai miei salvatori?

— Diteci innanzi tutto in che cosa consiste questo tesoro — disse Ottone.

— In una tonnellata e mezzo di polvere d’oro che si trova rinchiusa in una caverna e che questi stupidi negri credono priva di valore.

— Parecchi milioni di lire! — esclamò Ottone. — È un vero tesoro che noi non lasceremo qui!

— Potrete trasportare in un pallone simile peso?

— Non inquietatevi per questo. Il nostro treno aereo può caricarsi d’un peso anche maggiore.

— Mi lascerà partire il sultano? — chiese l’inglese.

— Gli abbiamo detto che noi siamo figli della Luna e che se non ci ubbidisce faremo divorare dal pallone tutti i suoi sudditi. Credo che sia perfino troppo spaventato per opporsi alla vostra partenza.

— La città è popolosa.

— Cosa importa? La spaventeremo con delle bombe alla dinamite, se sarà necessario — disse Ottone. — Intanto prendete questa rivoltella e non risparmiate le cartucce.

— E questo tesoro, si trova lontano da qui? — chiese El-Kabir.

— A sole cinque miglia, sulla vetta di una montagna — rispose l’inglese.

— Ce lo lasceranno raccogliere?

— Non danno alcun valore a quella polvere d’oro.

— Allora bisogna affrettarsi — disse Matteo. — Forse Altarik non è lontano.

— Chi è questo Altarik? — chiese l’inglese.

— Un arabo che è partito non per venirvi a salvare, bensì per carpirvi il tesoro — rispose Matteo. — Egli è nostro nemico e se si trova qui è capace di perderci tutti.

— È lontano?

— Non si sa.

— Ci affretteremo — disse l’inglese. — Vedo che il sultano è spaventato.

— Ci gioveremo del suo spavento per far presto — disse Ottone, con accento risoluto.

Il sultano si era ritirato in un canto insieme con i suoi ministri e guardava curiosamente gli oggetti rinchiusi nelle cassette, mandando grida di stupore e battendo le mani come un bambino.

In quelle cassette vi erano specchietti, collane di perle, braccialetti di metallo dorato, profumerie e varî giocattoli.

Ottone, tenendo in mano il fucile, gli si avvicinò, dicendogli in arabo:

— Tu hai maltrattato il figlio del Sole e della Luna e meriteresti che il mostro che montiamo divorasse te e tutta la tua tribù.

— Io non sapevo che egli fosse un uomo del cielo — balbettò il sultano, tremando. — Te l’ho già detto. D’altronde vedi che io non l’ho ucciso, mentre qui vi è l’abitudine di uccidere tutti gli stranieri che senza permesso mettono piede sul mio territorio.

— È solamente per questo che io non ti faccio divorare dal mio mostro. Però, se ti perdono, tu devi concedermi una cosa.

— Quale?

— Di raccogliere la polvere gialla che si trova sulla montagna.

— Cosa vuoi farne?

— Serve per far rilucere maggiormente i raggi del Sole.

— Avremo così maggior luce e calore?

— Sicuramente, ed i tuoi raccolti matureranno più presto.

— Non bruceranno invece? È molto tempo che non piove sulle nostre campagne.

— Incaricherò la Luna di far venire le nubi e di inaffiare abbondantemente le tue terre.

— Mi prometti tutto ciò?

— Te lo prometto.

— La polvere gialla è tua.

— Mi occorreranno degli uomini per trasportarla qui.

— Metto a tua disposizione tutti i miei schiavi.

— Mi sono necessari subito — disse Ottone, con tono imperioso.

Il sultano si volse verso uno dei suoi ministri e gli disse alcune parole in una lingua sconosciuta agli europei.

Poco dopo venti negri robustissimi si radunavano dinanzi alla capanna, muniti di ceste grandissime.

— Sono a tua disposizione — disse il sultano, a Ottone.

— Non perdiamo tempo — disse questo volgendosi verso l’inglese. — Temo l’arrivo di Altarik. Conoscete la via?

— Sono stato già parecchie volte alla caverna — rispose il prigioniero.

— Allora partiamo — disse il tedesco.

Prima però di uscire si volse verso il sultano, dicendogli: ... i tre europei e l’arabo riaprirono il fuoco...
(Cap. XIX).

— Che nessuno tocchi la bestia che ci ha condotti fino qui, se non vuoi assistere alla distruzione totale della tua tribù e anche della tua città.

— Ho troppa paura di essa per irritarla — disse il sultano. — Nessuno dei miei sudditi oserà toccarla.

— Partiamo — disse Ottone. — Heggia intanto rimarrà a guardia del treno volante.

Diedero all’inglese uno dei due fucili del negro, poi si misero in cammino attraversando la città.

La popolazione, vedendoli, si affollava sul loro passaggio gettandosi in ginocchio e coprendosi la testa di polvere.

Alcune guardie del sultano respingevano brutalmente uomini, donne e fanciulli, percuotendoli senza misericordia con le aste delle lance.

Usciti dalla città, l’inglese fece attraversare ai suoi salvatori dei campi coltivati a sorgo, poi si inoltrò in mezzo ad una fitta foresta, la quale copriva i fianchi di una collina che sorgeva isolata.

— Sta lassù il tesoro — disse l’inglese, mostrando la vetta.

L’ascensione non fu difficile, avendo essi trovato un sentiero che doveva essere stato, in altri tempi, frequentato dagli indigeni.

Giunti sulla cima, l’inglese si arrestò dinanzi ad una nera apertura, la quale pareva che mettesse in qualche caverna.

— È qui — disse l’inglese, facendosi dare da uno degli schiavi un ramo resinoso.

— Il tesoro? — chiese Ottone, il cui cuore palpitava.

— Sì.

— Che vi sia ancora?

— L’ho veduto quattro giorni or sono.

Prese la torcia e si inoltrò nell’oscuro passaggio, il quale formava una galleria molto bassa e molto stretta.

Ottone, Matteo e l’arabo l’avevano seguito assieme ai venti schiavi.

Dopo d’aver percorso duecento passi, l’inglese sboccò in una caverna molto ampia, dalle arcate spaziose, coperta di stalattiti le quali si incrociavano bizzarramente.

In un angolo Ottone ed i suoi compagni videro subito scintillare un ammasso di polvere giallastra che aveva dei bagliori fulvi.

— Ecco il tesoro! — dichiarò l’inglese.

I tre aeronauti si erano precipitati innanzi, mandando un grido di gioia e di stupore.

Quell’ammasso era di polvere d’oro mescolata a pepite grosse come ceci.

L’inglese aveva detto il vero. Là ve n’era per lo meno una tonnellata e mezza.

— Oro, oro puro! — aveva esclamato Ottone, tuffandovi le mani. — Amico, qui vi sono dei milioni da raccogliere.

— Mi viene la voglia di buttarmi lì in mezzo e di seppellirmici dentro — disse Matteo. — Non ho mai veduto un tesoro uguale.

— Chi può aver radunato qui tutta questa polvere? — chiese Ottone, che stentava a mantenersi calmo dinanzi a tanta ricchezza.

— Pare che siano stati gli antichi abitanti di Kilemba — rispose l’inglese. — Mi hanno raccontato che molti anni or sono un sultano, che forse conosceva il valore dell’oro, aveva dato ordine di raccogliere tutta la polvere gialla che si trovava nel paese e di accumularla in questa caverna. Morto in guerra il sultano, il tesoro fu trascurato perchè ritenuto di nessun valore.

— Vi sono qui per lo meno venti milioni di franchi — disse Matteo.

— Che io cedo tutti a voi in ricompensa della mia liberazione.

— No, voi avrete la vostra parte — disse Ottone. — Solo a questa condizione noi lo accetteremo.

— Farete quello che vorrete — rispose l’inglese, sorridendo.

Chiamò gli schiavi e ordinò loro di caricare tutta la polvere che si trovava nella caverna, raccomandando di non disperderla. I negri avevano già riempiti dieci canestri, quando in lontananza si udirono rimbombare improvvisamente alcune scariche.

Matteo e Ottone balzarono in piedi guardandosi l’un l’altro con sgomento.

— Che i negri abbiano assalito Heggia?! — esclamarono.

— Venite! — gridò l’inglese.

Tutti si precipitarono verso l’uscita, percorrendo tutto d’un fiato il corridoio.

Quando si trovarono all’aperto, un grido di rabbia sfuggì dai petti dei tre aeronauti.

Una carovana composta di quaranta o cinquanta negri, guidata da un arabo montato su di un asino, stava entrando in Kilemba.

I negri, secondo il loro uso, salutavano la popolazione scaricando i fucili.

— Altarik! — aveva gridato El-Kabir, impallidendo.

— Siamo perduti! — esclamò Matteo.

— È il vostro nemico? — chiese l’inglese senza commuoversi.

— Sì, è lui — disse Ottone il quale pareva annichilito.

— La cosa è grave — disse l’inglese. — Quell’uomo dirà al sultano che voi lo avete ingannato e che non siamo affatto figli del Sole e della Luna. Io conosco troppo bene il sultano. Diverrà furioso e cercherà di vendicarsi d’essersi lasciato burlare.

— Cosa fare? — chiese Ottone che non sapeva decidere nulla.

— Volete un consiglio? — disse l’inglese.

— Datelo pure.

— Mi avete detto che l’arabo è venuto qui non per salvare me, ma per impadronirsi del tesoro.

— Questo è vero.

— Ebbene, rimaniamo qui a guardia dell’oro.

— Ed il nostro treno aereo?

— Lasciatelo andare pel momento.

— L’arabo me lo prenderà.

— Faccia pure; suppongo che non valga tutto l’oro che si trova qui.

— Nemmeno la decima parte.

— Dunque, restiamo qui.

— Altarik verrà ad assalirci — disse Matteo.

— E noi ci difenderemo.

— E questi negri?

— Promettendo loro la libertà ne faremo dei fedeli alleati.

— Non hanno armi — disse El-Kabir.

— Vi sono qui dei macigni che possono supplire vantaggiosamente alle frecce.

— Ed i guerrieri del sultano?

— Ai primi colpi di fucile scapperanno. Hanno troppo paura delle armi da fuoco per impegnarsi in un combattimento.

— Ottone — disse Matteo, — cosa ti pare?

— Il consiglio mi pare ottimo. Quest’oro vale ben di più del nostro treno aereo. Trinceriamoci sulla cinta di questa montagna e aspettiamo l’attacco dell’arabo. Se si mostra non lo risparmierò.

— Ed Heggia?

— Più tardi penseremo a salvarlo.

Mentre si scambiavano quelle parole, l’inglese discuteva animatamente coi venti schiavi. Dopo qualche minuto tornò verso Ottone, dicendo:

— Questi negri sono pronti ad aiutarci, a condizione di essere liberati. Sono tutti robusti e nel loro paese erano guerrieri valenti.

— Pensiamo a fortificarci — rispose il tedesco. — Cercheremo di rendere la cima del colle inespugnabile.

— E poi abbiamo la caverna — disse Matteo. — Un rifugio inattaccabile.

— All’opera — disse Ottone. — Trinceriamoci.

— Lasciate fare a me — disse l’inglese. — Prima di venire in Africa ero ufficiale del genio nell’esercito delle Indie, e di fortificazioni me ne intendo. Voi andate a sorvegliare il sentiero che mette quassù, insieme coi vostri compagni, e a cercare di ritardare, più che vi sarà possibile, l’avanzata del nemico. Quanti colpi avete da sparare?

— Abbiamo cento cartucce ciascuno.

— Trecento colpi sono bastanti per tenere indietro negri e arabi.

— All’avanguardia — disse Ottone — faremo miracoli.

Mentre i venti schiavi sotto la direzione dell’inglese rompevano rami spinosi e rotolavano macigni, i tre aeronauti scesero lungo il sentiero che serpeggiava sul fianco della collina e andarono ad appostarsi su di una rupe isolata, la quale dominava i boschi circostanti.

Essendo alta una ventina di metri, potevano di lassù osservare quanto succedeva in città.

La carovana era già entrata in Kilemba e nelle vie e sulla piazza del mercato si vedeva un’animazione straordinaria. Drappelli di negri armati di lance e di archi correvano in tutte le direzioni, mentre dei colpi di fucile rimbombavano verso il capannone del sultano.

— Si sta preparando qualche cosa contro di noi — disse Ottone. — Altarik avrà già persuaso il sultano a darci battaglia.

— E il nostro Germania? — chiese Matteo.

— Per ora non mi pare che sia stato toccato. Si libra sempre sulla piazza del mercato. Forse non si osa tirarlo a terra.

— Ed Heggia? — disse El-Kabir.

— Sarà già stato fatto prigioniero — disse Ottone.

— O che lo abbiano ucciso?

— Guai a loro! — gridò Ottone. — Lo vendicheremo e terribilmente.

— Vedo degli uomini che escono dalla città — disse Matteo.

— Mi pare che siano guidati dall’arabo.

— Sì, è lui — disse El-Kabir. — Se crede di portarci via il tesoro s’inganna assai. La mia prima palla sarà per lui.

— E anche la mia — disse Ottone.

Una colonna numerosa usciva allora dalla città dirigendosi verso la collina. Era composta di trecento negri, alcuni armati di fucili e altri di lance e di archi. La precedeva un drappello guidato dall’arabo e che componeva la scorta della carovana.

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