< Il tulipano nero < Parte prima
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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
V - L'amatore dei Tulipani e il suo vicino.
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V


L’amatore dei Tulipani e il suo vicino.


Intanto, mentrechè i paesani dell’Aya mettevano in pezzi i cadaveri di Giovanni e di Cornelio, mentrechè Guglielmo d’Orange dopo essersi assicurato che i suoi due antagonisti erano per certo morti, galoppava sulla strada di Leyda seguito dal colonnello Van Deken, che egli trovava un poco troppo compassionevole per continuargli la confidenza di cui avealo onorato fin allora: Craeke servo fedele montato dal suo canto sopra un buon cavallo e ben lungi dal sospettare i terribili avvenimenti che erano accaduti dopo la sua partenza, correva sugli argini fiancheggiati di alberi finchè non fu fuori della città e dei villaggi vicini.

Una volta in sicuro per suscitare sospetti, lasciò il suo cavallo in una stalla e continuò tranquillamente il suo viaggio in barchetta, che lo menò a Dordrecht, passando destramente per le scorciatoie di quei bracci sinuosi del fiume, i quali stringono accarezzando con umido amplesso quelle isolette graziose fiancheggiate di salci, di giunchi e d’erbe fiorite, le quali pascola a suo bell’agio il grasso armento rilucente ai raggi del sole.

Craeke riconobbe da lungi Dordrecht, città ridente al piè della sua collina seminata di molini; vide le belle case rosse a strisce bianche, bagnanti nell’acqua i loro piedi di mattoni e facenti sventolare dai balconi aperti sul fiume i loro tappeti di seta con fiori d’oro a rilievo, meraviglie indiane e chinesi, e presso la gran linea dei tappeti le reti permanenti per prendere le anguille voraci che attirano intorno alle abitazioni le giornaliere immondezze che le cuoche gettano nell’acqua dalle finestre.

Craeke dal ponte della barca a traverso a tutti quei molini ad ali giranti, scorgeva al declive del poggio la casa bianca e rossa scopo della sua missione. Ella nascondeva i comignoli del suo tetto tra’ fogliami giallastri di una siepe di pioppi, e spiccava dal fondo scuro, che facevale un bosco d’olmi giganteschi. Ell’era situata di tal maniera, che il sole piombando su lei come in un imbuto, vi veniva a prosciugare, intiepidire e fecondare anche l’ultima guazza, che la barriera di verdura non poteva impedire che mattina e sera non ve la portasse il venticello del fiume.

Sbarcato in mezzo all’ordinario andirivieni della città, Craeke si diresse prontamente verso la casa, della quale andiamo a presentare ai nostri lettori una indispensabile descrizione.

Bianca, netta, rilucente, più propriamente lavata, più diligentemente incerata nei quartieri nascosti, che in quelli aperti, questa casa racchiudeva un mortale felice.

Quel mortale felice, rara avis (la Fenice) come dice Giovenale, era il dottore Van Baerle battezzato di Cornelio. Egli abitava la casa da noi descritta fino dalla sua infanzia; perchè era la casa natale di suo padre e del suo nonno, antichi nobili mercanti della nobile città di Dordrecht.

Van Baerle padre aveva ammassato nel commercio delle Indie tre o quattro cento mila franchi, che Van Baerle figlio aveva trovati tutti nuovi nel 1668 alla morte de’ suoi buoni e cari parenti, benchè quei fiorini non fossero tutti dello stesso millesimo, gli uni del 1640, gli altri del 1610; il che provavano che v’erano fiorini del padre e del nonno Van Baerle. Questi quattrocento mila fiorini, ci affrettiamo a dirlo, non erano che la borsa, il denaro di tasca di Cornelius Van Baerle, eroe di questa storia, chè le sue proprietà della provincia davangli un’entrata di circa diecimila fiorini.

Allorchè il degno cittadino padre di Cornelio era per passare dalla vita alla morte, tre mesi dopo i funerali di sua moglie, che sembrava essere partita la prima per rendergli facile il cammino della morte, com’ella aveagli reso facile il cammino della vita, egli aveva detto a suo figlio, abbracciandolo per l’ultima volta:

— Bevi, mangia e spendi, se vuoi vivere realmente, perchè non è vivere lavorare tutto il giorno sopra una seggiola di legno o sopra una poltrona di pelle in un laboratorio o in un magazzino. Tu morrai la tua volta, e se tu non hai la fortuna di non avere un figliuolo lascerai estinguere il nostro nome, e i miei fiorini ammassati troverannosi ad avere un padrone sconosciuto, que’ fiorini nuovi che nessuno ha mai contati fuorchè mio padre, io e il monetiere. Soprattutto non imitare il tuo padrino Cornelio de Witt, che si è gettato nella politica, la più ingrata delle carriere, e che certamente finirà male.

Poi morì quel degno Van Baerle, lasciando tutto desolato il suo figlio Cornelio, il quale amava pochissimo i fiorini, e moltissimo suo padre. Cornelio restò dunque solo nella gran casa.

Invano il suo compare Cornelio gli offerse impiegarlo in servigi pubblici; invano volle fargli gustare la gloria, quando Cornelio per obbedire al suo padrino si imbarcò con il de Ruyter sul vascello le Sette Province, il quale comandava a cento trentanove bastimenti, coi quali l'illustre ammiraglio andava solo a bilanciare la fortuna di Francia e d’Inghilterra riunite. Allorchè condotto dal pilota Lèger giunse a un tiro di moschetto dal vascello il Principe, sul quale trovavasi il duca di York fratello del re d'Inghilterra; allorchè l'attacco di Ruyter suo principale fu sì fiero e sì abile, che il duca d'York vedendo il suo bastimento vicino all’arrembaggio, ebbe appena il tempo di salire a bordo del S. Michele; allorchè ebbe visto il S. Michele conquassato, traforato dalle palle olandesi, escire di combattimento; allorchè ebbe visto saltare in aria un vascello, il Conte di Sanwick, e perire tra i flutti o nel fuoco quattrocento marinari; allorchè ebbe visto che dopo tutto questo, dopo aver messo in pezzi venti bastimenti, dopo tre mila morti, dopo cinque mila feriti, rimase indecisa da una parte e dall’altra, che ciascuno attribuivasi, la vittoria, che bisognava ricominciare, e che solamente un nome di più, la battaglia di Southwood-Bay, erasi aggiunto al catalogo delle battaglie; quando egli ebbe calcolato quello che perda di tempo, ammazzandosi gli occhi e gli orecchi un uomo che voglia riflettere nel momento che i suoi simili si cannoneggiano tra loro: Cornelio disse addio a Ruyter, al ruward di Pulten e alla gloria, baciò le ginocchia del gran Pensionario, ch’egli aveva in profonda venerazione, e rientrato nella sua casa di Dordrecht, ricco del suo riacquistato riposo, de’ suoi ventotto anni, di una salute di ferro, di una vista acuta, e più che dei suoi quattro cento mila fiorini e de’ suoi dieci mila fiorini di rendita, ricco della convinzione che un uomo ha ricevuto dal cielo tanto per essere felice, molto per non esserlo.

In conseguenza per farsi una felicità a suo modo Cornelio si mise a studiare i vegetabili e gli insetti, raccolse e classò tutta la flora delle isole, appuntò tutta l’antomologia della provincia, sulla quale compose un trattato manoscritto con tavole disegnate di sua mano, e finalmente non sapendo più cosa farsi del suo tempo e soprattutto del suo danaro, che andavasi accrescendo smisuratamente, si mise a cercare tra tutte le follie del suo paese e dell’epoca sua una delle più eleganti e delle più cortesi. Egli amò i Tulipani.

Era il tempo, come ognun sa, in cui i Fiamminghi e i Portoghesi, invidiandosi tal genere d’orticoltura, erano arrivati a divinizzare il Tulipano e a fare di questo fiore venuto dall’Oriente ciò che mai nessun naturalista aveva osato fare della razza umana per paura di non dare gelosia a Dio.

Ben presto da Dordrecht a Mons non si parlava d’altro che dei tulipani del mynheer Van Baerle, e le sue tavole, i suoi irrigatorii, le sue stanze da prosciugare, le sue carte di cipollette furono visitate come una volta le gallerie è le biblioteche di Alessandria dagli illustri viaggiatori romani.

Van Baerle cominciò per spendere le sue rendite annuali a stabilire la sua collezione, poi ad intaccare i suoi fiorini nuovi per perfezionarla. Però la sua fatica fu ricompensata da un resultato magnifico: ne trovò cinque specie differenti, che nominò la Giovanna dal nome di sua madre, la Baerl dal nome di suo padre, la Cornelia dal nome del suo compare; gli altri nomi ci sfuggono, ma gli amatori li possono ritrovare con tutta sicurezza nei cataloghi del tempo.

Nel 1672 al principio dell’anno Cornelio de Witt venne a Dordrecht per starvi tre mesi nella sua antica casa di famiglia; perchè si sa che non solo Cornelio era nativo di Dordrecht ma che la famiglia dei Witt era originaria di quella città.

Cornelio cominciava allora, come diceva Guglielmo d’Orange, a godere della più perfetta impopolarità; tuttavia per i suoi concittadini, i buoni abitanti di Dordrecht, e’ non era ancora uno scellerato da forca, e quantunque poco soddisfatti del suo repubblicanismo un poco troppo puro, ma fieri del suo valor personale, vollero offrirgli il vino della città alla sua entrata.

Dopo aver ringraziati i suoi concittadini, Cornelio andò a rivedere la sua vecchia casa paterna e ordinò qualche acconcime prima che la signora de Witt sua moglie vi si venisse a stabilire co’ suoi bambini.

Poi il ruward si diresse verso la casa del suo figlioccio, che forse era il solo a Dordrecht che ignorasse ancora la presenza del de Witt nella sua città natale.

Quanto Cornelio de Witt aveva sollevato invidia maneggiando il mal seme che chiamasi passione politica, tanto Van Baerle aveva accumulato simpatie, trascurando completamente la coltura della politica, assorto come gli era nella cultura dei suoi tulipani.

Però Van Baerle era prediletto da’ suoi domestici e da’ suoi operanti; talchè egli non poteva supporre che esistesse al mondo un uomo che volesse male a un altr’uomo.

E nulladimanco sia detto a vergogna della umanità, Cornelio Van Baerle aveva senza saperlo un nemico ben altrimenti inferocito, ben altrimenti arrabbiato, ben altrimenti irreconciliabile che fino allora non ne avessero avuti il ruward e il suo fratello tra gli orangisti i più ostili a quell’ammirabile fratellevolezza, che senza nube durante la vita prolungavasi per attaccamento al di là della morte.

Quando Cornelio cominciò a addarsi ai tulipani e vi gettò le sue rendite annuali e i fiorini d’oro di suo padre, eravi a Dordrecht, dimorando nella casa accanto, un certo paesano nominato Isacco Boxtel; che dal giorno che aveva cominciato ad avere il lume della ragione, aveva seguito la medesima inclinazione e andava in deliquio al solo sentire la parola tulban, che a quanto ci assicura il Fiorista francese che è quanto dire lo storiografo il più sapiente di questo fiore, è la prima parola che nel linguaggio dei Cordeglieri ha servito a designare quel capo d’opera della creazione che si chiama tulipano.

Boxtel non aveva la fortuna d’esser ricco come Van Baerle; erasi dunque fatto a grande stento e a forza di cure e di pazienza nella sua casa di Dordrecht un giardino comodo alla coltura; avea manipolato il terreno secondo le prescrizioni volute e dato a’ suoi postimi precisamente tanto calore e frescura quanta ne prescrive il codice dei giardinieri.

Isacco sapeva quasi appuntino la temperatura delle sue cassette; sapeva il peso del vento e lo cribrava in maniera da bilanciarlo giusto giusto allo stelo de’ suoi fiori; talchè i suoi prodotti cominciavano a piacere; ed erano belli e ricercati. Molti amatori erano venuti a visitare i tulipani di Boxtel, che alla fine aveva lanciato nel mondo dei Linnei e dei Tournefort un tulipano col suo nome. Questo tulipano aveva viaggiato, traversata la Francia, entrando in Ispagna era penetrato in Portogallo, dove il re don Alfonso VI il quale, cacciato da Lisbona erasi ritirato nell’isola di Terzeira, ove divertivasi non già come il gran Condè ad annaffiare aglietti, ma a coltivare tulipani, aveva detto «Non c’è male» osservando il suddetto Boxtel.

Tutto ad un tratto in seguito di tutti li studi ai quali erasi dedicato, la passione del tulipano avendo invaso Cornelio Van Baerle, lo fece risolvere a modificare la casa di Dordrecht che, come abbiamo detto, era vicina a quella di Boxtel, e fece alzare di un piano un certo fabbricato d’in sulla corte, che con la elevazione tolse un mezzo grado circa di calore e in iscambio rese un mezzo grado di freddo al giardino di Boxtel, senza contare che diminuivagli la ventilazione, sconcertava tutti i calcoli e tutta l’economia orticola del suo vicino.

Postutto non era questo il solo malanno agli occhi del vicino Boxtel. Van Baerle non era che un pittore, quanto dire una specie di pazzo, che cerca di riprodurre sulla tela, sfigurandole, le meraviglie della natura. Il pittore faceva alzare di un piano il suo laboratorio per aver luce migliore, ed era nel suo diritto. Van Baerle era pittore come Boxtel filotulipaniere; voleaci sole pe’ suoi quadri; e prendevane un mezzo grado ai tulipani di Boxtel.

La legge era per Van Baerle: Bene sit; ma d’altronde Boxtel aveva scoperto che il troppo sole nuoce a1 tulipano, e che questo fiore germoglia meglio e più colorito col tiepido sole del mattino o della sera, che col brucente sole del mezzo giorno.

Ne seppe dunque quasi buon grado a Cornelio Van Baerle d’avergli fabbricato gratis un parasole.

Forse non era tutt’affatto vero, e ciò che Boxtel diceva sul conto del suo vicino Van Baerle, non era l’intera espressione del suo pensiero. Ma le grandi anime trovano nella filosofia stupende risorse in mezzo alle grandi catastrofi.

Ma ohimè! come divenne quello sfortunato Boxtel, quando vide i vetri del piano novellamente fabbricato guarnirsi di cipollette, di talli, di tulipani in vegetazione, di tulipani in postime, finalmente di tutto ciò che concerne la professione di monomane Tulipaniere?

V’erano gl’involti galanti, v’erano le cassette, v’erano le buchette a spartimenti e le reti di ferro destinate a chiudere le cassette per rinnovarvi l’aria senza dare accesso ai topi, ai punteruoli, ai ghiri, alle donnole e alle talpe, tutti curiosi amatori dei tulipani a duemila franchi la cipolletta.

Boxtel fu fortemente sorpreso, allorchè vide tutto quel materiale, ma non comprendeva ancora tutta la grandezza della sua disgrazia. Sapevasi che Van Baerle era amico di tutto ciò che rallegrasse la vista; studiava a fondo la natura per i suoi quadri, finiti come quelli di Gherardo Dow suo maestro e di Mièris suo amico. Non poteva darsi che volendo dipingere l’interno di un Tulipaniere, avesse ammassato nel suo nuovo studio tutti gli accessorii della decorazione?

Intanto, benchè uccellato da questa lusinghiera idea, Boxtel non poteva resistere all’ardente curiosità che lo divorava. Venuta la sera, egli appoggiò una scala al muro a confine e spiando là il suo vicino Baerle, si convinse che la terra di un quadrato smisurato, popolato poco fa di piante differenti, era stata rimescolata e deposta in tante caselle di terriccio mischiato di belletta di fiume, composizione essenzialmente simpatica ai tulipani, il tutto rinforzato di piote per impedirne i riscaldamenti. Inoltre sole di levante, sole di ponente, ombra fatta in maniera da smussare il caldo del meriggio; acqua abbondante prossima, esposizione al sud-sud-ovest, condizioni di necessità di mezzo non solo per la riuscita, ma per il progresso. Non più dubbio, Van Baerle era diventato tulipaniere.

Boxtel figurossi su due piedi quel sapiente dai quattrocentomila fiorini di contante, dai diecimila fiorini di rendita, impiegante le sue risorse morali e fisiche alla cultura in grande dei tulipani. Ne travide il successo in un vago ma non lontano avvenire, e concepì anticipatamente un tal dolore, che le sue mani rilassandosi, le sue ginocchia piegandosi, ei disperato rotolò giù dalla sua scala.

Cosicchè non era pe’ tulipani dipinti, ma pe’ tulipani reali che Van Baerle toglievagli un mezzo grado di calore; e di più aveva la più ammirabile delle esposizioni solari e una vasta stanza, dove conservare le sue cipollette e i suoi talli; stanza luminosa, ariosa, ventilata, ricchezze interdette a Boxtel, che era stato costretto di consacrare a quest’uso la sua camera, e che per non nuocere con l’influenza degli spiriti animali ai suoi talli e ai suoi ovoletti aveva fatto la privazione di dormire in granaio.

Così uscio a uscio, muro a muro Boxtel andava ad avere un rivale, il quale invece di essere un giardiniere oscuro, sconosciuto, era il figlioccio di messer Cornelio de Witt, quanto dire una celebrità.

Boxtel, si vede bene, aveva lo spirito men generoso di Poro, che consolavasi d’essere stato vinto dal grande Alessandro, precisamente a cagione della celebrità del suo vincitore.

Difatti che accaderebbe se mai Van Baerle trovasse un nuovo tulipano e lo nominasse Giovanni de Witt dopo averne nominato un altro la Cornelia? Sarebbe lo stesso che crepare di rabbia.

Così nella sua previdenza invidiosa Boxtel profeta del suo male, indovinava quello che sarebbe accaduto. Per lo che fatta questa scoperta, egli passò una notte la più esecrabile a immaginarsi.


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