< Il tulipano nero < Parte prima
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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
VI - L'odio di un Tulipaniere.
Parte prima - V Parte prima - VII

VI


L’odio di un Tulipaniere.


Da questo momento invece di una preoccupazione Boxtel ebbe una paura. Tutto ciò, che dà vigore e nobiltà agli sforzi del corpo e dello spirito, la cultura di un’idea favorita, Boxtel la perdette, macinando tutti li svantaggi, che causavagli il progetto del vicino.

Van Baerle, come si può pensare, dal momento che intese a questo scopo la perfetta intelligenza, di cui avealo dotato la natura, riuscì ad allevare i più bei tulipani.

Meglio degli orticultori dell’Aya e di Leida, città che offrono i terreni migliori e il clima il più sano, Cornelio riuscì a variarne i colori, a modificarne le forme, a moltiplicarne le specie.

Egli era di quella ingegnosa e originale scuola del secolo VII la quale prese per divisa questo aforismo sviluppato nel 1653 da uno dei suoi adetti;

È disprezzare Dio il disprezzare i fiori.

Premessa di cui la scuola tulipaniera, la più esclusiva delle scuole, fece nel 1653 il seguente sillogismo:

È disprezzare Dio il disprezzare i fiori.
Più il fiore è bello, più disprezzandolo si offende Dio.
Il tulipano è il più bello di tutti i fiori.
Dunque chi disprezza il tulipano offende smisuratamente Dio.

Col qual ragionamento, si vede bene, se aiutato da cattiva volontà, i quattro o cinquemila tulipanieri di Olanda, di Francia e di Portogallo senza contare quelli del Ceylan, dell’India e della Cina, avrebbero messo l’universo fuori della legge e dichiarato scismatici, eretici e degni di morte più centinaia di milioni di uomini freddi pel tulipano.

Non v’è dubbio nessuno che Boxtel per simile cagione, quantunque nemico mortale di Van Baerle, non avesse militato sotto la medesima bandiera.

Dunque Van Baerle ottenne numerosi successi e fece parlare di sè tanto, che Boxel disparve affatto dalla lista dei notabili tulipanieri dell’Olanda, e che la tulipaneria di Dordrecht fu rappresentata da Cornelio Van Baerle, modesto e inoffensivo sapiente.

Similmente dal fusto il più umile la gemma fa germogliare i rampolli i più superbi, e la rosa canina dai quattro pètali incolori dà vita alla rosa gigantesca e profumata. Così le case reali hanno preso qualche volta nascimento dalla taberna di un beccaio o dalla capanna d’un pescatore.

Van Baerle dedicato tutto ai lavori di semente, di piantagioni e di ricolte, carezzato da tutti i tulipanieri di Europa, non sospettava neppure per idea, che accanto a lui vi fosse un disgraziato tolto di piedistallo, di cui egli era l’usurpatore. Egli continuò le sue esperienze e per conseguenza le sue vittorie, e in due anni coperse le sue caselle di oggetti talmente maravigliosi, che nessuno mai, eccetto forse Shakspeare e Rubens, dopo Dio aveane tanti creati.

Bisognava per avere un’idea d’un dannato dimenticato da Dante, vedere Boxtel in quel tempo. Mentre che Van Baerle sarchiava, sugava, innaffiava le sue caselle; mentre che inginocchiato sulle piote erbose analizzava ogni vena del tulipano in fioritura e meditava le modificazioni che vi si potevano fare, i maritaggi dei colori, che ivi si potevano sperimentare, Boxtel nascosto dietro un piccolo sicomoro, che avea piantato lungo il muro, e di cui facevasi un ventaglio, seguiva con gli occhi gonfi, con la bocca spumante, ogni passo, ogni gesto del suo vicino; e quando credeva vederlo gioioso, quando sorprendeva un sorriso sulle di lui labbra, un lampo di contentezza nei di lui occhi, allora scagliavagli tante maledizioni, tante minacce furibonde, che non potevasi concepire, come quei soffi appestati d’invidia e di collera non andassero infiltrandosi negli steli dei fiori, a portarvi principii di scadimento e germi di morte.

Ben presto, tanto il male una volta padrone di un’anima umana favvi rapidi progressi, Boxtel non gli piacque di veder più Van Baerle; ma volle vedere però i suoi fiori. Egli in fondo era artista, e stavangli a cuore i capi d’opera di un rivale.

Egli comprò un telescopio, coll’aiuto del quale poteva seguire, bene quanto il proprietario ciascuna rivoluzione del fiore dal momento che germoglia nel primo anno il suo pallido rampollo fuori di terra fino a che dopo aver compito il suo periodo di cinque anni ei rotondeggia il suo nobile e grazioso cilindro, sul quale apparisce l’incerta vicenda del suo colore e si sviluppano i petali del fiore, che allora soltanto rivela i segreti tesori del suo calice.

Oh! quante volte lo sfortunato invidioso, montato sulla sua scala, vide nelle caselle di Van Baerle tulipani che abbagliavano con la loro beltà, soffocavanlo per la loro perfezione!

Allora, dopo il periodo di ammirazione ch’egli non poteva vincere, lo dibatteva la febbre dell’invidia, male che rode gl’intestini e che cangia il cuore in una miriade di serpentelli, che divoransi l’un l’altro, sorgente infame di orribili dolori.

Qualche volta in mezzo ai suoi martirii, di cui descrizione nessuna potrebbe darne un’idea, Boxtel fu tentato di saltare di notte nel giardino, di sperperarvi le piante, di stritolare coi denti le cipolle e di sacrificare alla sua collera lo stesso proprietario se avesse osato difendere i suoi tulipani.

Ma uccidere un tulipano agli occhi di un vero orticultore è un delitto troppo spaventevole! Uccidere un uomo meno assai.

Intanto in grazia dei progressi che faceva ogni giorno Van Baerle nella scienza, che egli sembrava indovinare per istinto, Boxtel montò in tal parossismo di furore, che meditò di gettare pietre e randelli nelle caselle dei tulipani del suo vicino.

Ma siccome riflettè che l’indomani alla vista del guasto Van Baerle farebbe il referto che si costaterebbe, essendo la strada lontana, che pietre e randelli non potevano cadere dal cielo nel XVII secolo, come ai tempi degli Amaleciti: che l’autore del delitto, benchè consumato nella notte, sarebbe scoperto e non solo punito dalla legge ma disonorato ancora per sempre agli occhi dell’Europa tulipaniera; perciò Boxtel assottigliò l’odio con la frode, risolvendo impiegare un mezzo che non lo potesse compromettere. Lo cercò, è vero, per un pezzo, ma alfine trovollo.

Una sera attaccò due gatti per un piede di dietro con una funicella lunga dieci piedi, e gettolli dall’alto del muro in mezzo della casella maestra, della casella principesca e della casella reale, la quale conteneva non solo la Cornelia de Witt, ma anco la Brabaziana bianca lattata, porporina e rosacea, la Marbrèa di Rotre color panno greggio, rossa e incarnata accesa, e la Meraviglia di Harlem, il tulipano Tortora scuro e Tortora chiaro sbiadito.

Quegli animali inferociti precipitando dall’alto del muro, ruzzolarono dapprima sulla casella, ciascuno dal canto suo cercando di fuggire, tantochè il filo che tenevali uniti, fu teso; ma allora sentendola impossibilità dell’allontanarsi, vagarono qua e là con spaventevoli miagolati, troncando con la corda i fiori, in mezzo ai quali dibattevansi; poi finalmente dopo un quarto d’ora di lotta accanita, essendo giunti a strappare il filo, che accoppiavali, disparvero.

Boxtel nascosto dietro il suo sicomoro non vedeva nulla a cagione della oscurità della notte; ma al grido arrabbiato dei gatti si figurò tutto, e il suo cuore traboccante di fiele riempissi di gioia.

Il desiderio di assicurarsi del guasto commesso era sì grande nel cuore di Boxtel che restò fino a giorno per godere con gli occhi proprii dello stato, in cui la lotta, dei due gattacci avesse messo la casella del suo vicino.

Egli era gelato per la brina mattinale; ma non sentiva il freddo, perchè scaldavalo la speranza della vendetta. Il crepacuore del suo rivale l’avrebbe ricompensato di tante sue pene.

Ai primi raggi del sole si aperse la porta della casa bianca; Van Baerle mostrossi, e si avvicinò alle sue caselle, sorridendo come un uomo che ha riposato nel suo letto, e che vi ha fatto dei buoni sogni.

Tutto a un tratto s’accorse dei solchi e dei monticelli su quel terreno che la vigilia avea lasciato pari come uno specchio; tutto a un tratto si accorse che le file simmetriche de’ suoi tulipani erano scomposte, come sono le picche di un battaglione in mezzo a cui sia caduta una bomba. Tutto pallido accorse; e Boxtel trasalì di contento.

Quindici o venti tulipani sminuzzati, pestati giacevano curvi o tronchi affatto già appassiti; colava il latte dalle loro ferite, il latte, prezioso sangue che Van Baerle avrebbe voluto ricomprare a prezzo del proprio.

Ma oh! sorpresa! oh! gioia di Van Baerle! oh! dolore inesplicabile di Boxtel! neppur’uno dei quattro tulipani minacciati dall’attentato dell’ultimo erano stati tocchi; e alzavano superbamente le loro nobili teste sopra i cadaveri dei loro compagni. Ciò era molto per consolare Van Baerle, ciò era molto per far crepare di rabbia l’assassino, che stracciavasi i capelli alla vista del suo commesso delitto e commesso inutilmente.

Van Baerle, deplorando la sciagura che colpivalo, sciagura che per grazia di Dio era del resto meno grande che non avrebbe potuto essere, non potè indovinarne la causa. Informossi solo, e intese tutta la notte era stata turbata da terribili miagolati. Di fatti ei conobbe che v’erano passati dei gatti per le tracce improntate da’ loro artigli, per il pelo lasciato sul campo di battaglia, sui quale le gocce impassibili della rugiada tremolavano come facevano accanto sopra le foglie di un fiore calpestato; onde per evitare che un simile malore si rinnovasse in avvenire, ordinò che un garzone giardiniere dormisse ogni notte nel giardino dentro un casotto presso la casella.

Boxtel senti dare l’ordine. Egli vide fare il casotto quel giorno medesimo, e troppo fortunato di non essere stato preso in sospetto, ma però più invelenito contro quel felice orticultore, attese migliori occasioni.

Ciò accadde verso l’epoca che la società tulipaniera di Harlem propose un premio per chi scoprisse, noi non osiamo dire, per chi fabbricasse il gran Tulipano Nero, però senza vergature, problema non risoluto e riguardato come insolubile, se si consideri che a questa epoca la specie non esisteva neppure allo stato del bistro in natura. Il che faceva supporre a ognuno che i promotori del primo avrebbero potuto eziandio assegnare due milioni invece di cento mila lire; tanto la cosa era impossibile.

Il mondo tulipaniero non fu meno compreso di stupore di una tale proposta. Pure alcuni amatori ne presero l’idea, ma senza credere alla sua applicazione. Nulladimeno è tale la potenza immaginaria degli orticultori, che riconosciuta fin da principio senza fondamento la loro speculazione, non pensassero al momento che al gran tulipano nero, reputato chimera come il cigno nero d’Orazio e come il merlo bianco della tradizione francese.

Van Baerle fu uno dei tulipanieri, che ne prendesse l’idea; Boxtel fu uno di quelli, che si attennero alla speculazione. Dal momento che Van Baerle si ficcò tale idea nella sua testa perspicace e ingegnosa, cominciò la sementa e le operazioni necessarie per condurre dal rosso al bruno e dal bruno al bruno assoluto, i tulipani che aveva finallora coltivati.

L’anno innanzi aveva ottenuto prodotti di un bistro perfetto, e Boxtel li vide nella di lui casella, mentrechè egli non aveva trovato ancora che il bruno chiaro.

Sarebbe forse importante spiegare ai lettori le belle teorie, che consistono a provare che il tulipano impronta agli elementi i suoi colori; ci si saprebbe forse buon grado lo stabilire che niente sia impossibile all’orticultore, che mette a contribuzione, non già la sua pazienza e il suo genio, ma la freschezza delle acque, i succhi della terra, lo spirare dell’aria e il calore del sole. Ma questo non è un trattato sul tulipano in generale, è la storia di un tulipano in particolare che noi ci siamo risoluti di scrivere; noi faremo punto per quanti attraenti vi potessero essere sul proposto soggetto.

Boxtel vinto anche una volta dalla superiorità del suo nemico, disgustossi della cultura, e mezzo pazzo dedicossi tutto alla osservazione.

La casa del suo rivale era dominata. Giardino aperto al sole, gabinetto vetriato visibile; visibili cassette, armarj, involti e etichette, alle quali il canocchiale giungeva facilmente. Boxtel lasciò perire le cipollette nei loro postimi, seccare i semi nelle loro casse, morire i tulipani nelle cassette, e ormai vivendo solo per vedere, non si occupò che di quello che accadeva presso Van Baerle, sospirando a’ bei steli dei di lui tulipani, dissetandosi con l’acqua che loro gettavasi, e saziandosi della terra molle e fine che sovrapponeva il suo vicino alle sue benamate cipollette.

Ma la più curiosa delle operazioni non operavasi nel giardino. Suonava il tocco dopo la mezzanotte; e Van Baerle saliva al laboratorio nel suo gabinetto invetriato, dove il canocchiale di Boxtel giungeva benissimo, e là mercè la lucerna del sapiente facente le veci del lume diurno, la quale illuminava muro e finestre, dava possibilità di veder funzionare il genio inventivo del rivale. Boxtel lo vedeva manipolante i suoi semi e umettanteli di sostanze destinate a modificarli o a colorirli; e osservavalo attentamente, quando riscaldando certi suoi semi, bagnandoli poi, poi combinandoli con altri con una specie d’innesto, operazione minuziosa e maravigliosamente accorta, chiudeva allo scuro quelli, che dovevano dare il color nero, esponeva al sole o al lume quelli che dovevano dare il color rosso, metteva ad un continuo reflesso dell’acqua quelli che dovevano fornire il bianco, candida rappresentanza ermetica dell’umido elemento.

Questa magia innocente, frutto delle visioni infantili e del genio virile uniti insieme, questa paziente occupazione continua, della quale Boxtel riconoscevasi incapace, faceva sì che l’invidioso versasse nel canocchiale tutta la sua vita, tutto il suo pensiero, tutta la sua speranza.

Cosa strana! tanto interesse e l’amor proprio dell’arte non avevano estinto in Isacco l’invidia feroce e l’assetata vendetta. Qualche volta avendo sotto il suo canocchiale Van Baerle, era preso dalla illusione d’imberciarlo con un moschetto infallibile, e cercava col dito il grilletto per esplodere il colpo che lo doveva uccidere. Ma è tempo che riattacchiamo a quest’epoca delle fatiche dell’uno e dello spionaggio dell’altro la visita, che Cornelio de Witt, ruward di Pulten, faceva alla sua città natale.

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