< Il tulipano nero < Parte prima
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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
VIII - La Camera di famiglia.
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VIII


La Camera di famiglia.


Tutto ciò che è accaduto, era, come ognuno se lo indovina, l’opera diabolica d’Isacco Boxtel.

Ci si rammenti che con l’aiuto del suo cannocchiale, non avea perduto la minima cosa dell’abboccamento di Cornelio de Witt e il suo battezzato.

Ci si rammenti che non avea inteso nulla, ma che avea visto tutto.

Ci si rammenti, ch’egli aveva indovinato l’importanza di quelle carte confidate dal ruward di Pulten al suo figlioccio, vedendo quest’ultimo chiudere accuratamente l’involto a lui rimesso nella cassetta, dove serrava le sue cipollette le più preziose.

Ne resultò che, allorquando Boxtel, che seguiva la politica con un poco più di attenzione del suo vicino Cornelio, seppe che Cornelio de Witt era stato arrestato come colpevole di alto tradimento verso gli Stati, pensò tra sè che ei non aveva che ad aprir bocca per fare arrestare il figlioccio contemporaneamente al compare.

Però per quanto iroso fosse il cuore di Boxtel, ei abbrividì sulle prime all’idea di denunziare un uomo, che da una tal denunzia potrebbe essere condotto al patibolo.

Ma il terribile delle idee cattive si è che a poco a poco li spiriti malvagi si familiarizzino con quelle. D’altronde Isacco Boxtel incoraggiavasi con questo sofisma:

«Cornelio de Witt è un cattivo cittadino, dacchè è accusato di alto tradimento e arrestato.

Io sono un buon cittadino, dacchè non sono accusato di niente al mondo e che sono libero come l’aria.

Ora se Cornelio de Witt è un cattivo cittadino, il che è indubitato, dacchè è accusato di alto tradimento e arrestato, il suo complice Cornelio Van Baerle è ira cittadino non meno cattivo di lui.

Dunque, siccome io sono un buon cittadino, ed è dovere dei buoni cittadini di denunziare i cattivi, è dovere di me Isacco Boxtel di denunziare Cornelio Van Baerle».

Ma questo ragionamento non avrebbe forse, per ispecioso che fosse, predominato completamente su lui, e forse l’invido non avrebbe ceduto al semplice desiderio di vendetta che rodevalo, se a quel demone non si fosse unito quello della cupidigia.

Boxtel non ignorava il punto in cui era delle sue ricerche Van Baerle intorno al gran tulipano nero. Per modesto che fosse il dottor Cornelio, non aveva potuto nascondere ai suoi più intimi che egli aveva la quasi certezza di guadagnare nell’anno di grazia 1673 il premio di centomila fiorini proposto dalla società di orticultura di Harlem.

Ora questa quasi certezza di Cornelio Van Baerle l’era la febbre che consumava Isacco Boxtel. Se Cornelio fosse stato arrestato, ciò cagionerebbe certamente un grande scompiglio nella di lui casa; e perciò la notte successiva all’arresto nessuno avrebbe pensato a vigilare su i tulipani del giardino.

Ora in quella notte Boxtel scavalcherebbe il muro, e siccome egli sapeva dov’era la cipolletta, che doveva dare il gran tulipano nero, la porterebbe via; e così invece di fiorire presso Cornelio, il tulipano nero fiorirebbe presso di lui, ed egli ne avrebbe i centomila fiorini di premio invece di Van Baerle, senza porre in conto il supremo onore di chiamare il nuovo fiore tulipa nigra Boxtellensis, resultato che non solo appagava la sua vendetta, ma ancora la sua cupidigia.

Sveglio, non pensava che al gran tulipano nero; addormentato non sognava che quello. Finalmente il 19 agosto verso le due dopo mezzogiorno, la tentazione fu così forte, che Isacco non vi seppe più resistere a lungo.

In conseguenza indirizzò una denunzia anonima, alla quale suppliva, per autenticarla, la precisione delle indicazioni, e gettolla alla posta. Mai carta più venefica sdrucciolata per le buche di bronzo di Venezia produsse un più pronto e un più terribile effetto.

La stessa sera il primo magistrato ricevè il dispaccio; e all’istante convocò i suoi colleghi per l’indomani mattina. La dimane eransi riuniti, ne aveano deciso l’arresto e rimesso l’ordine, affinchè fosse eseguito, a messer Van Spennen, che erasi assunto, come abbiam visto, tal dovere di degno olandese, ed aveva arrestato Cornelio Van Baerle proprio nel momento in cui gli orangisti dell’Aya arrostivano i pezzi dei cadaveri di Cornelio e di Giovanni de Witt.

Ma fosse vergogna o debolezza nel delitto, Isacco Boxtel non aveva avuto il coraggio di puntare in quel giorno il suo canocchiale nè sul giardino, nè sullo studio, nè sul prosciugatoio.

Ei sapeva troppo bene ciò che andasse a succedere in casa del povero dottore Cornelio per aver di bisogno di guardarvi. Non si alzò neppure, allorquando il suo unico servitore, che invidiava la sorte dei servitori di Van Baerle, non meno amaramente che invidiasse Boxtel la sorte del padrone, entrò nella sua camera. Boxtel gli disse:

— Oggi non mi leverei; mi sento male.

Verso le nove sentì un gran baccano nella strada e rabbrividì a quello strepito; in quel momento era più pallido di un vero ammalato, più tremante di un vero febbroso.

Il suo servo entrò; Boxtel cacciossi dentro le coperte.

— Ah! signore, esclamò il servo senza porre in dubbio che egli, deplorando la disgrazia sopraggiunta a Van Baerle, andava a dare una buona nuova al suo padrone; ah! signore, voi non sapete ciò che ora succede?

— Come vuoi che io lo sappia? rispose Boxtel con voce quasi inintelligibile.

— Ebbene! in questo momento si arresta il vostro vicino Van Baerle come complice di alto tradimento.

— Uh! mormorò Boxtel con una voce fioca, non è possibile!

— Madonna! almeno è ciò che si dice; d’altronde ho veduto entrare da lui il cancelliere Van Spennen e gli arcieri.

— Oh! se hai visto, sarà.

— In ogni caso, vogli informarmi di nuovo, disse il servo, e non dubitate, o signore, che terrovvi in corrente.

Boxtel contentossi d’incoraggire con un cenno lo zelo del suo servitore, che uscì e tornò un quarto d’ora dopo.

— Oh! signore, tutto quello che vi ho raccontato, l’era pretta verità?

— Come và?

— Il signor Van Baerle è arrestato, messo in una vettura e spedito all’Aya.

— All’Aya?

— Sì; e dove, se è vero ciò che si dice, non gli anderà bene.

— E che si dice? domandò Boxtel.

— Madonna! si dice, ma questo non è ben sicuro, si dice, o signore, che i paesani siano sul tiro a quest’ora d’avere assassinato i signori Cornelio e Giovanni de Witt.

— Oh! mormorò o piuttosto ragghiò Boxtel chiudendo gli occhi come per non vedere la terribile immagine che offrivasi senza dubbio ai suoi sguardi.

— Diavolo! fece il servo ritirandosi, bisogna che il padrone sia ben malato per non aver saltato dal letto a un simile annunzio.

Difatti Boxtel era veramente malato, malato come un uomo che ha assassinato un altro uomo. Ma egli aveva assassinato uno con doppio scopo; il primo era compiuto; il secondo restava a compirsi.

Venne la notte; era quella che aspettava Boxtel. Alzossi, e poi montò sul suo sicomoro.

Egli aveva ben calcolato: nessuno pensava a guardare il giardino; casa e servitori erano silenziosi. Egli sentì in seguito battere le dieci, le undici, mezzanotte.

A mezzanotte il cuore palpitante, le mani convulse, il viso livido, scese dal suo albero, prese una scala, appoggiolla al muro, salì fino al penultimo scalino e si mise in orecchi. Tutto era tranquillo; nemmeno un alito rompeva il silenzio della notte.

Un solo lume vigilava in tutta la casa: era quello della balia.

Il silenzio e l’oscurità fecero ardito Boxtel; cavalcò il muro; e poi ben sicuro che non aveva nulla a temere, passò la scala dal suo nell’altro giardino e discese.

Quindi, siccome sapeva la direzione del luogo, ov’erano sotterrate le cipollette del futuro tulipano nero, vi corse, seguendo però le viottole per non essere tradito dalle orme de’ suoi piedi, e arrivato al luogo preciso, con una gioia di tigre ficcò le sue mani nel molle terreno.

Non trovò nulla e credette essersi ingannato.

Intanto il sudore gli gocciava dalla fronte. Frugò accanto: niente; frugò a diritta e a sinistra: niente; frugò d’avanti e di dietro: niente.

Fu per divenir pazzo, perchè alla fine si accorse che in quella stessa mattina la terra era stata smossa.

Infatti, mentre Boxtel era in letto, Cornelio era sceso nel suo giardino, aveva disotterrato la cipolletta e, come lo abbiamo visto, aveala divisa in tre talli.

Boxtel non poteva decidersi ad abbandonare il posto. Aveva rimescolato con le mani più di dieci piedi quadrati di terra.

Finalmente non restavagli più nessun dubbio sulla sua disgrazia. Bianco di collera, riguadagnò la sua scala, ricalvalcò il muro, ripassò la scala nel suo giardino, e vi scese incontinente.

Ad un tratto gli sopravvenne un’ultima speranza: che i talli fossero nel prosciugatoio. Bisognava penetrare nel prosciugatoio come era penetrato nel giardino. Colà li troverebbe. Del resto non eravi altra difficoltà.

Le vetrate del prosciugatoio alzavansi come quelle di una chiusa. Cornelio aveale aperte la stessa mattina e nessuno aveva pensato a richiuderle. Il forte era di procurarsi una scala assai più lunga, una scala di venti piedi invece di dodici.

Boxtel aveva rimarcato nella via dov’egli abitava, una casa in riattazione, a cui stava appoggiata una scala gigantesca. L’era a proposito per lui, se i manifattori non l’avessero remossa.

Corse alla casa, e la scala v’era. Boxtel la prese e la portò a mala pena nel suo giardino; e con pena anche maggiore dirizzolla alla muraglia della casa di Cornelio.

La scala era alla precisa lunghezza. Boxtel mise una lanterna cieca in tasca, montò la scala e penetrò nel prosciugatoio.

Giunto in quel tabernacolo, si arrestò, si appoggiò alla tavola; le gambe gli mancavano sotto, il suo cuore batteva da soffocarlo.

Là era ben peggio che nel giardino: direbbesi che l’aria aperta togliesse alla proprietà ciò che ella ha di rispettabile; perchè chi salta una siepe, o chi scala un muro, si arresta poi alla porta o alla finestra di una stanza.

Nel giardino Boxtel non era che uno scorridore; nella stanza era un ladro.

Non pertanto riprese cuore: non era là venuto per tenere le mani a cintola.

Ma ebbe un bel cercare, aprire e chiudere tutte le cassette, e la privilegiata pure, dov’era il deposito stato così fatale a Cornelio; trovò etichette come in un giardino di piante, la Giovanna, la de Witt, il tulipano bistro, il tulipano caffè bruciato: ma del tulipano nero, o piuttosto dei talli, dove esso era ancora addormentato e nascosto nel limbo della fioritura, non eranvi tracce.

Ma però sul registro dei semi e delle cipollette tenuto in doppia scrittura da Van Baerle con più cura e esattezza del registro commerciale delle prime case di Amsterdam, Boxtel lesse queste linee:

«Oggi 20 agosto 1672 io ho disotterrato la cipolletta del gran tulipano nero, che ho separato in tre talli perfetti.»

— Questi talli! questi talli! urlò Boxtel rovistando dappertutto nel prosciugatoio, dove mai li ha cacciati?

Poi tutto a un tratto battendosi in fronte da ammaccarsi il cervello:

— Oh! miserabile che sono! egli esclamò; ah! Boxtel sfortunatissimo, che gli è inseparabile dai suoi talli? Come non lasciarli a Dordrecht, partendo per l’Aya? Ma che non può vivere senza i suoi talli; i talli del tulipano nero? L’infame! si vede che ha avuto il tempo di prenderli, se li è nascosti e li ha portati all’Aya!

Era un lampo che mostrava a Boxtel l’abisso di un inutile delitto. Ei cadde fulminato su quella medesima tavola, a quel medesimo posto, dove alcune ore innanzi lo sfortunato Van Baerle aveva ammirato sì lungamente e sì compiacentemente i talli del tulipano nero.

— Ebbene! al postutto, disse l’invidioso alzando la testa livida, se li ha seco, non può custodirli che fino a tanto che sia vivo, e...

Il resto del suo orrendo pensiero si assorbì in uno spaventevole sorriso.

— I talli sono all’Aya, riprese; dunque non posso più vivere a Dordrecht. All’Aya per i talli! all’Aya!

Boxtel, senza fare attenzione alle ricchezze immense che lasciava, tanto egli era preoccupato da un’altra inestimabile ricchezza, escì per dove era venuto, si lasciò strisciare giù per la scala, riportò l’istrumento del furto, dove avealo preso, e simile a un animale da preda rientrò ruggendo in casa sua.

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