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IX
La Camera di famiglia.
Era circa la mezza notte, quando il povero Van Baerle fu recluso nella prigione di Buitenhof.
La previsione di Rosa erasi avverata. Trovando la stanza di Cornelio de Witt vuota, era stata immensa la collera popolare; e se Grifo fosse caduto tra le mani di quei furibondi, l’avrebbe certamente scontata pel suo prigioniero.
Ma quella collera avea trovato da sbramarsi largamente sopra i due fratelli, che erano stati raggiunti dagli assassini in grazia della precauzione stati presa da Guglielmo, uomo delle precauzioni, di far chiudere le porte della città.
Vi fu dunque un momento, in cui la prigione essendo stata sgombrata, il silenzio era successo al rimbombo spaventevole degli urli che romoreggiavano giù per le scale.
Rosa profittò di questo momento, escì dalla segrete e ne fece uscire suo padre.
La prigione era completamente deserta; a che prò restare nella prigione, quando scannavasi al Tol-Hek?
Grifo escì tutto tremante dietro la coraggiosa Rosa; e insieme andarono a chiudere alla meglio la porta principale; e diciamo alla meglio perchè era per metà fracassata. Scorgevasi che il trabocco di una potente collera era di là passato.
Verso le quattro s’intese il romorio che ritornava, ma non presagiva nulla d’inquietante per Grifo e per sua figlia. Quel romorio era dei cadaveri che erano strascinati e condotti ad essere appiccati nella piazza solita alle esecuzioni.
Anco questa volta Rosa si nascose non per paura ma per non vedere l’orribile spettacolo.
A mezza notte fu picchiato alla porta del Buitenhof, o piuttosto alla barriera che aveala rimpiazzata. Era Cornelio Van Baerle che colà era condotto.
Quando Grifo carceriere ricevette quel nuovo ospite, ed ebbe veduto sul mandato di reclusione la qualità del personaggio:
— Figlioccio di Cornelio de Witt, mormorò col sogghigno del carceriere; oh! giovanotto! abbiamo qui appunto la camera di famiglia; eccoci a darvela.
E contento del bel garbo da lui disimpegnato, il tristo orangista prese la sua lanterna e le chiavi per condurre Cornelio nella cella, che Cornelio de Witt aveva lasciato quella stessa mattina per l’esilio tale, quale lo intendono in tempo di rivoluzione quei moralisti sublimi, che spacciano come assioma di alta politica:
«I morti soli non tornano.»
Grifo dunque si preparò a condurre il figlioccio nella camera del compare. Per dove bisognava passassero per arrivare a quella stanza, il disperato coltivatore di fiori altro non intese che l’abbaiare di un cane, altro non vide che la faccia di una giovinetta.
Il cane escì da una nicchia praticata nel muro scuotendo una grossa catena, e fiutò Cornelio affine di bene riconoscerlo al momento che gli fosse comandato di divorarlo.
La giovinetta, quando il prigioniero fece cigolare l’appoggiatoio della scala sotto la sua mano sbalordita, semiaperse la bussola di una stanza, che ella abitava, sulla grossezza della scala medesima; e col lume nella mano diritta ella rischiarò al tempo stesso la sua rosea faccia avvenente, contornata da stupendi capelli biondi a grosse ciocche, tanto che dalla sinistra scendeanle sotto il petto giù per la bianca veste da notte, perocchè ell’era stata svegliata dal suo primo sonno dall’arrivo inatteso di Cornelio.
Era un quadro degno di essere dipinto dal maestro Rembrandt cominciando dall’oscura spira della scala illuminata dal fanale rossastro di Grifo dal sembiante arcigno di carceriere; in cima la melanconica figura di Cornelio, che piegasi, sull’appoggiatoio per guardare al di sotto di lui il soave viso di Rosa incorniciato dalla porticella illuminata, e il di lei fare pudico cagionato forse dall’essere Cornelio sopra di lei nella scala, da dove il di lui curioso sguardo compiacevasi incerto e tristo vagheggiare le bianche e pienotte spalle della giovinetta.
Poi in basso tutt’affatto nell’ombra a quel punto della scala, dove l’oscurità fa sparire i dettagli, gli occhi di bragia del molosso strascinante la sua catena, dalla quale il doppio lume della lucerna di Rosa e del fanale di Grifo faccia rimbalzare un brillante chiarore.
Ma ciò che in questo suo quadro non avrebbe potuto rendere il sublime maestro, l’è la espressione dolorosa sfumata sul viso di Rosa, quando ella vide quel bel giovine pallido salire lentamente la scala, nel sentirgli dirigere da suo padre queste sinistre parole:
— Voi avrete la camera di famiglia.
Questo colpo pittoresco durò un momento e meno tempo assai che non abbiamo messo a descriverlo. Grifo continuò la sua via. Cornelio fu obbligato a seguirlo, e dopo cinque minuti entrava nella segrete, che gli è inutile descrivere, dappoichè il lettore già la conosce.
Grifo, dopo aver mostrato col dito al prigioniero il letto, sul quale avea tanto sofferto il martire, che in quella giornata medesima aveva resa l’anima a Dio, riprese la sua lanterna e uscì.
Quanto a Cornelio, rimasto solo, gettossi sul letto, ma non chiuse occhio, e tenevalo sempre fisso sulla stretta finestra inferriata, la quale corrispondeva sul Buitenhof; di tal maniera che vide biancheggiare al di là degli alberi il primo albore, che il cielo lascia cadere sopra la terra come un bianco lenzuolo.
Durante la notte qualche cavallo aveva galoppato in su e in giù sul Buitenhof. Il passo cadenzato delle pattuglie avevano percosso il selciato della piazza, e le micce degli archibusi, infiammandosi al vento di ponente, avevano lanciato fino ai vetri della prigione lampi di luce passeggiera.
Ma quando il dì nascente illuminò i culminati cammini delle case, Cornelio impaziente di sapere, se fosse attorno di lui anima viva, si accostò alla finestra, e volse intorno un mesto sguardo.
Alla estremità della piazza una massa nerastra; velata dalla brina mattinale di un turchino cupo, alzavasi riflettendo la sua ombra irregolare sulle pallide abitazioni.
Cornelio riconobbe la forca, a cui pendevano due informi avanzi, i quali non erano più che due scheletrì ancora sanguinanti.
Il buon popolo dell’Aya aveva spezzato le carni delle sue vittime, ma riportato fedelmente alla forca il pretesto di una doppia iscrizione tracciata sopra un cartellone enorme; sul quale con i suoi occhi di ventotto anni Cornelio arrivò a leggere le seguenti linee impresse dalla spada appuntata di qualche imbrattatore d’insegne:
«Quì pendono il grande scellerato Giovanni de Witt e il meno briccone Cornelio de Witt di lui fratello, due nemici del popolo, ma amici grandi del re di Francia.»
Cornelio gettò un grido di orrore, e nel trasporto del suo terrore frenetico percosse con le mani e coi piedi con tal violenza e con tale impeto la porta che Grifo accorse frettoloso coi suo mazzo enorme di chiavi in mano.
Aperse, e scagliando orribili imprecazioni contro il prigioniero, che incomodavalo fuori delle ore cui era solito incomodarsi, gridò:
— Olà? anco quest’altro de Witt che gli è arrabbiato? Tutti i de Witt hanno il diavolo in corpo!
— Signore, signore, disse Cornelio prendendo il carceriere pel braccio e traendolo verso la finestra; signore che mai ho letto laggiù?
— Dove laggiù?
— Su quel cartellone.
E tremante, pallido e ansante mostrogli in fonda alla piazza la forca sormontata dalla cinica iscrizione.
Grifo si mise a ridere.
— Ah! ah! Sì, voi avete letto.... Ebbene, mio caro signore, ecco dove s’incappa quando si hanno intelligenze coi nemici del signor principe d’Orange.
— I de Witt sono stati assassinati! mormorò Cornelio grondante sudore e lasciandosi cadere sul suo letto con le braccia spenzolate e con gli occhi chiusi.
— I signori de Witt hanno subita la giustizia del popolo, disse Grifo; chiamate assassinati quelli? Io per me dico: giustiziati.
E vedendo che il prigioniero non solo era in istato di calma, ma di annientamento, escì dalla stanza, tirando la porta con violenza, e facendo strisciare rumorosamente i chiavistelli.
Tornando in sè, Cornelio trovossi solo, e riconobbe la camera in cui era, la camera di famiglia, come aveala chiamata Grifo, quel passaggio fatale che doveva portarlo a una misera morte.
E siccome gli era un filosofo, siccome gli era soprattutto un cristiano, cominciò a pregare per l’anima del suo compare, poi per quella del gran Pensionario, poi alla fine rassegnossi egli stesso a tutti i mali, che a Dio piacesse mandargli.
Quindi dopo essere ridisceso dal cielo in terra, dopo di terra essere rientrato nella segrete e bene assicurato che in quella egli era solo, cavò di seno i tre talli del tulipano nero e nascoseli dietro un palchetto sul quale posavasi il tradizionale boccale, in un canto il più oscuro della prigione.
Inutile fatica di tanti anni! dolci speranze perdute! La sua scoperta avrebbe fatto capo al niente, com’egli alla morte! In quella prigione nemmeno un filo d’erba, un briciolo di terra, un raggio di sole.
A questo pensiero Cornelio fu preso da tetra disperazione, da cui non escì che per una circostanza straordinaria.
Qual fu questa circostanza?
Ci serbiamo dirlo nel capitolo seguente.