< Il tulipano nero < Parte prima
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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
X - La figlia del Carceriere.
Parte prima - IX Parte prima - XI

X


La figlia del Carceriere.


In quella stessa sera Grifo portando da mangiare al prigioniero, nell’aprire la porta della carcere sdrucciolò sull’impiantito umidiccio e cadde sforzandosi invano di sorreggersi. Battuta la mano in falso, si ruppe il braccio al disotto del pugno.

Cornelio fece un movimento verso il carceriere; ma siccome non sospettava della gravità del caso:

— Non è niente, disse Grifo; zitto.

E volle rialzarsi appoggiandosi al suo braccio, ma si piegò l’osso; allora soltanto Grifo sentì il dolore e cacciò un grido.

Si avvide che aveva il braccio rotto; e costui sì duro per gli altri ricadde svenuto sulla soglia della porta, dove rimase inerte e freddo simile a un morto.

Per tutto quel tempo la porta della prigione era rimasta aperta, e Cornelio trovavasi quasi libero. Non gli passò per la mente neppure l’idea di profittare di quell’accidente. Egli aveva veduto nel modo, con cui erasi piegato il braccio, allo scatto che aveva fatto piegandosi, che v’era dolore; perciò non pensò ad altro che a soccorrere il ferito, per quanto male intenzionato gli fosse paruto costui a suo riguardo nell’unico abboccamento, che egli aveva avuto con lui.

Al fracasso che Grifo aveva fatto cadendo, al rammarico che erasi lasciato sfuggire, fecesi sentire un passo precipitoso per le scale, e alla apparizione, che seguì immediatamente lo strepito del calpestio, Cornelio cacciò una voce, alla quale rispose il grido di una giovinetta.

Aveva risposto al gridò la bella Frisona, che vedendo suo padre disteso in terra e il prigioniero chinato sopra di lui, aveva creduto dapprima che Grifo, di cui ella conosceva la brutalità, fosse caduto per una rissa attaccata tra lui e il prigioniero.

Cornelio ne comprese il pensiero; ma la giovinetta, essendosi al primo colpo d’occhio assicurata della verità, e vergognandosi d’averlo solo sospettato, alzò sul giovine i suoi begli occhi lacrimosi, e gli disse:

— Perdono e grazie, o signore. Perdono di ciò che ho pensato, e grazie di ciò che avete fatto.

Cornelio arrossì, e rispose:

— Non ho fatto che il mio dovere di cristiano, soccorrendo il mio simile.

— Sì, e soccorrendolo stasera, avete dimenticato le ingiurie che vi ha detto questa mattina. Signore, è più che da uomo, è più che da cristiano.

Cornelio alzò gli occhi sulla bella fanciulla, tutto maravigliato di sentire dalla bocca di una figlia del popolo una parola al tempo stesso così nobile e così compassionevole.

Ma egli non ebbe tempo di testimoniarle la sua sorpresa; chè Grifo riavutosi aprì gli occhi, e con la vita ritornò la sua usuale brutalità:

— Ah! d’ecco cosa tocca! diss’egli, ci si affretta a portare da mangiare al prigioniero, si cade sorreggendosi, e cadendo ci si rompe il braccio, e lascianvi là sul mattonato.

— Zitto, babbo mio, disse Rosa, voi siete ingiusto verso questo signore, che ho trovato tutto occupato a soccorrervi.

— Lui? fece Grifo non persuaso.

— Gli è tanto vero, o signore, che sono pronto ancora a soccorrervi.

— Voi? disse Grifo; che siete dunque medico?

— È la mia prima professione, rispose il prigioniero.

— Talchè mi potreste rimettere il braccio?

— Perfettamente.

— E che ci vuole, vediamo?

— Due spranghette di legno e fasce di lino.

— Senti, Rosa, disse Grifo, il prigioniero mi rimette il braccio; vediamo, aiutami ad alzarmi: — sono di piombo.

— Rosa presentò al ferito la sua spalla; ed egli abbracciò il collo della giovinetta col braccio sano, e facendo uno sforzo, rizzossi, mentrechè Cornelio per risparmiargli di muoversi, tirò verso lui una seggiola. Grifo vi si assise, e poi volgendosi alla sua figlia, le disse:

— Hai bene inteso? Va’ a cercare ciò che ci vuole.

Rosa scese e ritornò poco dopo con due doghe da barile e una gran fascia di lino. Cornelio si era intanto occupato a levare il vestito al carceriere e a rovesciargli le maniche.

— Va bene così? domandò Rosa.

— Sì, mia fanciulla, le rispose Cornelio gettando un’occhiata sugli oggetti portati; sì, va bene. Intanto accostate cotesta tavola, mentre che io sorreggo il braccio di vostro padre.

Rosa accostò la tavola, su cui Cornelio stese il braccio rotto, e con una perfetta abilità, raggiustò la frattura, adattovvi l’incannucciatura e strinse le fasce.

All’ultima stretta il carceriere si svenne per la seconda volta.

— Andate a cercare dell’aceto, mia cara giovine, disse Cornelio; gli bagneremo le tempie e riavrassi.

Ma invece di adempire la prescrizione, che erale stata data, Rosa dopo essersi assicurata che suo padre era fuori dei sensi, si avanzò verso Cornelio:

— Signore, diss’ella, piacere per piacere.

— Cioè? mia bella fanciulla? domandò Cornelio.

— Cioè, signore, che il cancelliere che vi deve interrogare dimani è venuto oggi ad informarsi della stanza che occupate; e che essendogli stato risposto che occupate la carcere di Cornelio de Witt, egli ha sogghignato sinistramente; il che mi fa credere che nulla di buono vi attenda.

— Ma, domandò Cornelio, che cosa mi possono fare?

— Vedete di qui quelle forche?

— Ma non sono colpevole, soggiunse Cornelio.

— Eranlo pure quelli laggiù, appiccati, mutilati, sbranati?

— Gli è vero, disse Cornelio attristandosi.

— D’altronde, continuò Rosa, l’opinione pubblica vuole che voi siate colpevole. Ma colpevole o non colpevole, il vostro processo comincerà dimani e posdimani sarete condannato: le cose vanno presto ai tempi che corrono.

— Ebbene, che concludete con ciò?

— Concludo, che io sono sola, che sono debole, che mio padre è svenuto, che il cane ha la musoliera, che niente per conseguenza v’impedisce di salvarvi. Salvatevi dunque, ecco la conclusione.

— Che dite?

— Io dico, ohimè! che non ho potuto salvare nè Cornelio nè Giovanni de Witt, e che vorrei salvarvi... voi. Solamente fate presto; ecco la respirazione che ritorna a mio padre, forse tra un minuto riaprirà gli occhi e allora sarà troppo tardi. Esitate?

Effettivamente Cornelio stava immobile, guardando Rosa, ma come s’ei la guardasse senza intenderla.

— Non capite? disse la giovinetta impazientita.

— Capisco, rispose Cornelio, ma....

— Ma?

— Non accetto. Sareste processata.

— Che importa? disse, Rosa arrossendo.

— Grazie, fanciulla mia, rispose Cornelio; ma io resto.

— Voi restate! Mio Dio! mio Dio! Non avete dunque capito che sarete condannato... condannato a morte, giustiziato sopra un palco e forse assassinato, messo in pezzi come sono stati assassinati e messi in pezzi Giovanni e Cornelio? A nome del cielo, non vi occupate di me, e fuggite questa stanza dove voi siete. Guardatevene, che fu fatale ai de Witt.

— Ohè! esclamò il carceriere riavendosi. Chi parla di quei malanni, di que’ miserabili, di quegli scellerati dei de Witt?

— Non ve ne importi, mio brav’uomo, disse Cornelio col suo amabile sorriso; chè ciò che v’ha di peggio per le fratture, è il riscaldamento del sangue.

Poi sotto voce a Rosa:

— Mia ragazza, soggiunse, io sono innocente, aspetterò i miei giudici con la tranquillità e con la calma di uno innocente.

— Zitto! disse Rosa.

— Zitto e perchè?

— Bisogna che mio padre non si accorga che abbiamo insieme discorso.

— E che male sarebbe?

— Che male sarebbe? D’impedirmi che io qui più tornassi, disse la giovinetta.

Cornelio accolse questa infantile confidenza con un sorriso; sembravagli che un raggio di bene splendesse sopra la sua disgrazia.

— Ebbene! che cosa barbottate costì voi due? disse Grifo alzandosi e sorreggendo il suo braccio diritto col suo sinistro.

— Niente! rispose Rosa; il signore mi prescrive il regime che dovete seguire.

— Il regime che io devo seguire! eh! il regime che io devo seguire! Voi pure, o graziosina, voi pure ne dovete seguire uno!

— E quale, babbo mio?

— Di non affacciarvi neppure alle carceri dei prigionieri, e quando vi comparirete, d’andarvene il più presto possibile; via dunque innanzi a me, e lesta!

Rosa e Cornelio cambiaronsi un’occhiata; quello di Rosa voleva dire:

— Voi lo vedete!

Quello di Cornelio:

— Sia fatta la volontà del Signore!

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