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III
Donna e Fiore.
Ma la povera Rosa chiusa nella sua camera non poteva indovinare chi sognasse Cornelio.
Ne conseguitava però che da ciò ch’egli aveale detto, Rosa era ben più inclinata a credere ch’egli sognasse i suoi tulipani che lei, e non pertanto Rosa ingannavasi.
Ma siccome non era là nessuno per dire a Rosa che s’ingannava, avvegnachè le imprudenti parole di Cornelio erano cadute sulla di lei anima come goccie di veleno, Rosa non sognò già, ma pianse.
Difatti essendo Rosa una creatura di spirito elevato, di un senso diritto e profondo, rendevasi giustizia, non già quanto alle sue qualità morali e fisiche, ma quanto alla sua posizione sociale.
Cornelio era sapiente e ricco, almeno innanzi la confisca de’ beni; Cornelio era di quella borghesia commerciale, più fiera delle sue insegne di bottega delineate a guisa di blasone, di quello che non lo sia mai stata la nobiltà di razza delle sue armerie ereditarie. Cornelio poteva dunque trovare Rosa buona per una distrazione, ma a colpo sicuro quando si trattasse d’impegnare il suo cuore per un tulipano, cioè pel più nobile e pel più fiero dei fiorì, egli lo impegnerebbe piuttosto, che per Rosa umile figlia di un carceriere.
Rosa dunque comprendeva questa preferenza che Cornelio dava al tulipano nero invece che a lei; ma la non era meno disperata appunto perchè lo comprendeva.
Cosicchè aveva preso una risoluzione durante questa nottata terribile, questa nottata d’insonnie che aveva passato. La risoluzione si era di non tornare più alla graticola.
Ma com’ella sapeva l’ardente desiderio che nutriva Cornelio d’avere nuove del suo tulipano; come ella non volevasi esporre a rivedere un uomo per cui ella sentiva accrescersi la sua pietà al punto che dopo essere passata per la simpatia, quella stessa pietà incamminavasi diritta diritta e a gran passi verso l’amore; ma come ella non voleva mettere alla disperazione costui, risolvette di solo proseguire le lezioni di lettura e di scritto già cominciate, e fortunatamente progredite a tale profitto, che un maestro non sarebbe stato più necessario, se quel maestro non si fosse chiamato Cornelio.
Rosa dunque si mise accanitamente a leggere nella Bibbia del povero Cornelio de Witt, sopra la cui seconda pagina, divenuta la prima dacchè l’altra era stata staccata, era scritto il testamento di Cornelio Van Baerle.
— Ah! mormorò rileggendo quel testamento che la non terminava mai senza che una lacrima, perla d’amore, scorresse da’ suoi occhi sereni sopra le sue pallide guancie, ah! che allora credetti che egli mi amasse!
Povera Rosa! s’ingannava. Mai l’amore del prigioniero era stato più effettiva che al momento in cui ora ci troviamo, dappoichè, l’abbiamo detto con un po’ d’imbarazzo, nella lotta tra il gran tulipano nero e Rosa, il gran tulipano nero aveva dovuto soccombere.
Ma Rosa, lo ripetiamo, ignorava la disfatta del gran tulipano nero.
Cosicchè la sua lettura finita, in cui Rosa aveva molto profittato, prendeva la penna e mettevasi accanitamente all’opera non meno lodevole e ben più difficile dello scritto.
Ma siccome Rosa scriveva già quasi leggibilmente il giorno che Cornelio aveva così imprudentemente lasciato parlare il suo cuore, ella punto disperossi di far progressi assai rapidi per dare al più tardi tra otto giorni nuove del suo tulipano al prigioniero.
Non aveva dimenticato neppure una sillaba delle raccomandazioni che aveale fatto Cornelio. Del resto Rosa mai dimenticava una sillaba di ciò che dicevale Cornelio, anche quando non avesse avuto l’aspetto della raccomandazione.
Egli dal canto suo svegliossi più innamorato di prima. Il tulipano ancora era ben luminoso e vivido nel suo pensiere, ma non vedealo già più come un tesoro a cui tutto egli dovesse sacrificare, anche Rosa, ma come un fiore prezioso, una maravigliosa combinazione della natura e dell’arte che Dio accordavagli per abbellimento della sua donna.
Pertanto tutta la giornata perseguitavalo una vaga inquietitudine, simile a quegli uomini, il cui spirito è abbastanza forte per dimenticare momentaneamente che un gran danno la sera o l’indomani li minacci. La preoccupazione una volta vinta, vivono della vita ordinaria, soltanto di tempo in tempo il male dimenticato loro morde il cuore ad un tratto con l’acuto suo dente. Trasaliscono, s’interrogano perchè abbiano trasalito, poi rappellandosì ciò che avevano dimenticato:
— Oh! sì, dicono con un sospiro, è questo!
Il questo di Cornelio l’era la paura che Rosa non venisse punto nè poco nella sera secondo il solito. E a misura che avanzavasi la notte, la preoccupazione diventava più viva e più pressante fino al punto che impadronivasi di tutto il corpo di Cornelio e che egli non poteva più vivere senza di lei.
Fu per questo che salutò l’oscurità con un battito prolungato di cuore; a misura che l’oscurità cresceva, le parole da lui dette la sera innanzi a Rosa, le quali avevano tanto afflitto quella povera ragazza, facevansi più presenti al suo spirito, e dimandavasi come avesse potuto dire alla sua consolatrice di posporla al suo tulipano, quanto dire, se bisogno ci fosse, di rinunziare di vederla, quando per lui la vista di Rosa era divenuta una necessità della sua vita.
Dalla camera di Cornelio sentivasi battere le ore all’orologio della fortezza. Suonarono le sette, le otto, poi le nove; mai squillo di bronzo vibrò più profondamente al fondo di un cuore che nol facesse il martello battente il nono colpo delle nove ore.
Poi tutto fu silenzio. Cornelio appoggiò la sua mano sul cuore per soffocarne i battiti, e si pose in ascolto.
Lo stropiccio de’ piedi e lo scartocciare delle vesti di Rosa a’ primi gradini della scala era assuefatto a conoscere così bene, quando ella saliva, che diceva:
— Ah! ecco Rosa.
Quella sera nessuno strepito turbò il silenzio del corridore; l’orologio battè le nove e un quarto; poi con due suoni distinti nove ore e mezzo; poi nove ore e tre quarti; poi infine col suo tuono grave annunziò non solo agli ospiti della fortezza ma ancora agli abitanti di Loevestein che l’erano le dieci.
Era l’ora che secondo il solito Rosa lasciava Cornelio; l’ora era suonata e Rosa non era ancora venuta. Di guisa che i suoi presentimenti non l’aveano ingannato: Rosa irritata se ne stava nella sua camera, e abbandonavalo.
— Oh! che ho ben meritato ciò che mi accade, diceva Cornelio; oh! non verrà, e farà santamente, che io in suo luogo farei altrettanto.
E a malgrado ciò Cornelio ascoltava, aspettava e sperava sempre.
Ascoltò e aspettò così fino alla mezza notte; ma a quest’ora cessò d’aspettare e tutto vestito si gettò sul letto.
La notte fu lunga e trista, poi si fece giorno; ma il giorno non portò speranza alcuna al prigioniero.
Alle otto di mattina la sua porta si aperse: ma Cornelio non volse neppure la testa, che aveva conosciuto il passo pesante di Grifo, e avealo sentito perfettamente solo.
Non guardò neppure dalla parte del carceriere; e nonpertanto avrebbe ben voluto interrogarlo, domandargli nuove di Rosa. Fu sul punto per stravangante che sembrato fosse al di lei padre, di fargli tale dimanda. Sperava l’egoista che Grifo gli rispondesse, che sua figlia l’era malata.
A meno che in casi straordinarii Rosa non veniva mai di giorno; perlochè Cornelio non sperava vederla. Contuttociò alle sue subite scosse, al suo stare in orecchi verso la porta, alle sue rapide occhiate gettate sulla graticola, vedevasi bene che il prigioniero aveva la muta speranza che Rosa farebbe una infrazione alle sue abitudini.
Alla seconda visita di Grifo, Cornelio contro ogni sua aspettativa aveva dimandato al vecchio carceriere e ciò della più dolce maniera del mondo, nuove della sua salute; ma Grifo laconico come uno Spartano, si era ristretto a rispondere.
— Va bene.
Alla terza visita Cornelio variò la forma della interrogazione, dimandando:
— C’è nessuno malato al Loevestein?
— Nessuno! rispose più laconicamente ancora della prima volta, chiudendo Grifo la porta sul muso al prigioniero.
Grifo, punto abituato a simili leziosaggini da parte di Cornelio, sospettò nel suo prigioniero un indizio di attentata corruzione.
Cornelio ritrovossi solo; l’erano le sette di sera. Si rinnovarono allora con una gradazione più intensa della sera antecedente le angosce che ci siamo sforzati descrivere.
Ma, come la veglia, le ore si successero senza condurre la dolce visione che rischiarava a traverso della graticola la segrete del povero Cornelio e che, allontanandosene, vi lasciava la luce per tutto il tempo della sua assenza.
Van Baerle passò la notte in una vera disperazione.
La dimane, Grifo gli parve più rotto, più brutale, più sgraziato del solito: eragli passato per la mente, o piuttosto pel cuore la lusinga che egli impedisse Rosa di venirci.
Si sentì preso da un’ira feroce di strangolare Grifo; ma strangolato che l’avesse, tutte le leggi divine e umane proibivano a Rosa di mai più rivedere Cornelio.
Il carceriere scampò dunque senza saperlo a una delle più grandi sciagure che egli avesse mai corso in sua vita.
Venne la sera, e la disperazione cangiossi in melanconia, che l’era tanto più tetra; quanto a suo malgrado le rimembranze dei suo povero tulipano mescolavansi al cordoglio che egli provava. S’era giusto all’epoca che i giardinieri i più esperti nel mese di aprile indicano come il punto preciso per la piantagione dei tulipani. Egli aveva detto a Rosa:
— V’indicherò il giorno che dovrete porre in terra il tallo.
Doveva fissare quel giorno, il domani, nella sera seguente. Il tempo era bello, l’atmosfera quantunque peranco un po’ umida cominciava ad essere temperata pe’ pallidi raggi del sole di aprile, che per essere i primi parevano così dolci ad onta del loro pallore. Se Rosa lasciasse passare il tempo della piantagione! Se al dolore di non vedere più la giovinetta si aggiungesse quello di vedere abortire il tallo per essere stato piantato troppo tardi, oppure per non essere stato nientaffatto piantato!
Per questi due dolori era certo da perdere l’appetito; e accadde il quarto giorno.
L’era un crepacuore veder Cornelio, muto pel dolore, pallido per la fissazione spenzolarsi fuori della ferrata col rischio di non poter più tirar fuori dalle traverse di ferro la sua testa, sforzandosi così di scorgere a sinistra il giardinetto, di cui aveagli parlato Rosa, e il cui parapetto, ella aveagli detto, che dava sul fiume; e tutto ciò nella speranza di scoprire a’ quei primi raggi del sole d’aprile la giovanetta o il tulipano, due suoi amori infranti.
La colazione e il pranzo portato da Grifo, appena la sera Cornelio aveali assaggiati.
Il giorno dopo non prese niente, e Grifo riportò in giù i commestibili perfettamente intatti, destinati ai due pasti.
Cornelio non erasi alzato nella giornata.
— Buono! disse Grifo scendendo dopo l’ultima visita, buono! presto ci andiamo a sbarazzare del sapiente.
Rosa trasalì.
— Eh! fece Giacobbe; come mai?
— Non beve più, non mangia più, non si leva più, disse Grifo; come Grozio escirà di qui in una cassa, ma però mortuaria.
Rosa divenne pallida come la morte.
— Oh! mormorò tra denti, capisco, è inquieto pel suo tulipano.
E alzatasi oppressa di cuore, rientrò in camera sua, dove ella prese una penna e della carta; e per tutta la notte esercitossi a tracciare lettere.
L’indomani per istrascinarsi fino alla finestra, Cornelio si avvide di una carta che era stata infilzata di sotto alla porta.
Si lanciò su quella carta, l’aprì e lesse uno scritto che avrebbe avuto pena a riconoscere per quello di Rosa, tanto ella avealo migliorato nei sette giorni di questa sua assenza:
«State tranquillo, il vostro tulipano va bene».
Benchè queste poche parole di Rosa calmassero un pochettino i dolori di Cornelio, non fu però meno sensibile all’ironia. Cosicchè, l’era un fatto, Rosa non era niente affatto malata, ma era ferita; niente affatto le si usava forza perchè non venisse da Cornelio, ma se ne teneva volontariamente lontana.
Rosa di tal fatta libera, trovava nella sua volontà la forza di non venire a vedere colui che moriva di crepacuore per non poterla più vedere.
Cornelio aveva carta e un apis che aveagli portato Rosa. Si accorse che la giovinetta aspettava la risposta, ma che non la verrebbe a prendere che nella notte; in conseguenza egli scrisse sopra un foglio simile a quello che aveva ricevuto:
«Non è già l’inquietudine, cagionatami dal mio tulipano, che mi rende malato; l’è il crepacuore, che io provo, di più non vedervi».
Escito Grifo dopo ritornato la sera, egli strisciò la carta di sotto la porta e ascoltò.
Ma per quanto egli orecchiasse, non intese nè il passo di Rosa nè lo scartocciare delle sue vesti.
Egli intese una voce leggiera come un alito di vento e dolce come una carezza, che gettogli dalla graticola queste dolci parole:
— A dimani.
Dimani era l’ottavo giorno. Negli otto giorni Cornelio e Rosa non s’erano punto veduti.