Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.


GRAZIA DELEDDA

Il vecchio e i fanciulli

romanzo

milano

fratelli treves editori

Quinto migliaio.

Da cinque mesi il vecchio proprietario Ulpiano Melis cercava inutilmente un servo per il suo ovile: tutti erano alla guerra, ed i padroni che ancora ne avevano uno, si guardavano bene dal lasciarselo pigliare.

Durante l’inverno, il vecchio Ulpiano aveva fatto tutto da sè, nell’ovile, ma con l'avvicinarsi della buona stagione e lo sgravarsi delle pecore, la cosa diventava sempre più difficile: ed ecco, ai primi di quaresima, come inviato da Dio, si presentò un giovine in cerca di lavoro.

Era alto, con le spalle quadrate, i piedi e le mani da gigante; ma dal viso liscio, sebbene guarnito di foruncoli, quasi a metà occupato dai grandi occhi neri e dalle foltissime sopracciglia che andavano a perdersi sotto i capelli ondulati, si sarebbe giudicato un bambino. Vestiva bene, di fustagno marrone; aveva le scarpe nuove, ed uno zaino invece di bisaccia.

Il vecchio Ulpiano cominciò ad interrogarlo:

— Di dove sei?

— Di Arbius, — rispose il giovine, guardando verso i monti dove biancheggiava come un rimasuglio di neve questo piccolo paese di pastori.

— Ho un compare, ad Arbius, Francesco Stefano Farina: lo conosci?

— Lo conosco. Era compare anche del mio povero padre.

— Tuo padre è morto?

— È morto da tre settimane: il giorno dopo è morta anche mia madre. Anche un mio fratello è morto in guerra.

— Gesù Signore nostro! Sei ben male avventurato, — disse il vecchio; ma non credeva ciecamente a quanto il giovine raccontava. — Oh, dimmi dunque, tuo padre che faceva?

— Possedeva trenta vacche: in pochi giorni sono morte tutte, di afta epizootica, e neppure il cuoio è stato buono da vendersi. Per questo disastro, mio padre, già tanto disturbato per la perdita di mio fratello, è morto di crepacuore: e mia madre anche.

— Gesù Signore nostro! Ma è vero quanto mi racconti? E lo racconti così, tranquillo come un gatto?

— Che volete che faccia? La cosa è tale e non si può cambiare. Domandatelo al vostro compare. Anche a lui sono morte quasi tutte le vacche.

Zio1 Ulpiano sapeva che infatti, nei paesi di montagna c’era una grande morìa di bestiame; morìa di bestiame e di cristiani, e fame e disastri. La causa, secondo lui, consisteva in questo:

— Dio è stanco dei nostri peccati: guerra, quindi, peste e carestia. E, dimmi un po’, perché tu hai lasciato il tuo paese?

— Avevo paura di morire anch’io. Qualcuno diceva che tutta la mia famiglia era stregata.

— E chi ti ha indicato di venire qui?

— A dire il vero non lo ricordo: forse sarà stato il vostro compare.

— Infatti, sì, mandai a dire anche



a lui che mi trovasse un servo. Ma sei bravo, tu, per le pecore?

— Vacche o pecore, per me è lo stesso. Provatemi.

— E, dimmi un po’, quanto pretendi?

— Quello che usate con gli altri.

— Ho avuto sempre servi anziani e uomini fatti. Tu mi sembri un ragazzino. Quanti anni hai?

E lo guardò fisso, perché qui non c’era posto per una bugia: tutti i giovani sani, come questo appariva, tutti, dai diciotto anni in su, erano sotto le armi.

— Ebbene, vi dirò la verità: ho sedici anni compiuti a Natale.

— Dio ti guardi, sei ben sviluppato. Ad ogni modo, se hai la forza, non hai la pratica: e ti darò sei scudi al mese.

— È poco: adesso il lavoro vale.

Il vecchio aumentò la somma: il giovine ascoltava calmo, serio, docile, ma rispondeva invariabilmente:

— È poco: adesso il lavoro vale.

Tanto che zio Ulpiano arrivò a cento venti scudi all’anno, somma che un tempo si dava ai servi più famosi. In ultimo domandò:

— Come ti chiami?

— Luca Doneddu. — Allora, metti giù quel carico. Vuoi mangiare? Guarda, il pane è qui, il formaggio, l’olio, il lardo, qui. Il latte sai dove trovarlo.

Tutto era a portata di mano, nella capanna ancora all’antica, fatta di un muro a secco circolare ricoperto di assi e di frasche: pelli di montone, stuoie di giunco e sacchi di lana che parevano vecchi tappeti macerati dal sonno di parecchie tribù di beduini, servivano per la notte: nel focolare centrale tre sassi anneriti dal fumo sostenevano a mo’ di treppiede il paiuolo di rame per bollire il latte; e qualche cestino pendente dai rami sporgenti del tetto funzionava da guardaroba e da credenza.

Luca si sfilò lentamente lo zaino prima da un braccio, poi dall’altro, e lo attaccò accanto ai cestini; poi sedette per terra, e senza far complimenti cominciò a mangiare dal canestro che il nuovo padrone gli deponeva davanti. E finalmente il nuovo padrone, oltre la soddisfazione di avere un servo, ebbe quella di poter chiacchierare.

— Anche mio nipote si chiama Luca, ed ha circa la tua età; ma non intende di fare il pastore; e neppure il proprietario. Studia; vuol fare il dottore. Mia figlia, Anna Maria Carta, avrebbe preferito il contrario, perché è vedova, e Luca è il solo maschio della casa. Le altre sono tutte ragazze; belle, ma ragazze, e non possono badare alla campagna, né venir qui a guardare le pecore. Una, a dire il vero, è un po’ maschia; Francesca, si chiama, e va a cavallo come un diavolo: ma il pastore, certo, non può farlo. Le altre due sono fidanzate, con due ricconi del paese, forse li avrai sentiti nominare, i proprietari cugini Pirastru; avranno, ciascuno, sei mila scudi di entrata. La maggiore, poi, Gonaria, ha marito, ma è come che non lo abbia, perché il disgraziato è paralitico.

Sospirò, ricordando questa sventura, sola ombra che oscurava la fortuna della famiglia: la sua tristezza però non gli impediva di osservare il veramente notevole appetito del nuovo servo. Pensò:

— Gesù Signore nostro! Non che io ti misuri i bocconi, piccolo vitello marino2, ma pare che tu non abbi mai veduto ben di Dio.



Poi parlò dei parenti, tutta gente benestante, che doveva pensare a badare alla propria roba, e con alcuni dei quali era anzi in lite per ragioni d’interesse.

Luca ascoltava rispettoso, se non con troppa attenzione, e pur mangiando con gusto, di tanto in tanto sospirava anche lui, ricordando certo i suoi guai.

— Così non avete nessuno che vi aiuti: sono tutti troppo ricchi, i vostri parenti, — disse con un accento vago, che poteva essere d’ingenuità, ma anche di beffa.

— Il guaio è che nessuno vuole più lavorare; né ricchi né poveri: eppure tutti pensano al denaro; tutti vogliono molto denaro.

— La vita è cara.

— No, si vuole il denaro per il divertimento, per il vizio; ed i ricchi ne sono più avidi dei poveri. Adesso ti racconto una cosa; guarda, — riprese zio Ulpiano, indicando il paesaggio che l’apertura della capanna incorniciava come un quadro: un avvallamento tutto verde, con lo sfondo celeste senza montagne, dove fra l’erba ed i cespugli dorati dalle nuove foglie, si vedevano gli avanzi di muri antichissimi, — quella era la ricca città di Oppia. E sai perché fu distrutta? perché i suoi abitanti, corrotti da una vita di benessere e di lusso, si erano dati, più per desiderio di novità che per animo perverso, al culto del diavolo. Alcuni giovani di buona famiglia si riunivano tutte le notti in una cantina, bevevano e scavavano un passaggio sotterraneo, in pendìo, con la speranza di arrivare all’inferno. Dicevano ridendo: poiché non possiamo fare una scala che porti al cielo, ebbene, facciamone una che scenda all’inferno.

— Loro intenzione, del resto, era di beffarsi del diavolo, se riuscivano a scovarlo: poiché il diavolo vero, il diavolo grande, Lucifero, non può mai uscire dall’inferno, e deve contentarsi di mandare nel mondo, a sconvolgerlo, i diavoli minori.

— Or dunque, quei valenti ragazzi di Oppia, non avendo altro da fare, tentavano di giungere fino a Lucifero, per beffa invitarlo ad uscire, a unirsi con loro e prender parte alle loro ribotte: e deriderlo, quindi, per la sua impotenza a muoversi.

— E scava e scava, essi perdevano le notti nel loro misterioso lavoro: di giorno dormivano, e apparivano vecchi prima del tempo. Finalmente, dopo anni di fatica, arrivarono alle viscere più profonde della terra, e videro Lucifero; ma tali erano le fiamme ed il rumore che lo circondavano, e lui stesso così sfolgorante, che non lo si poteva fissare. Tanto che essi lo scambiarono con Dio, e si buttarono in ginocchio per adorarlo.

«E adesso sentirai cosa succede. Lucifero, oltre all’impossibilità di uscire dall’inferno, è condannato a non poter più ridere né sorridere per l’eternità; non rise, quindi, per la scempiaggine dei suoi adoratori di Oppia; ma su per il passaggio da loro stessi scavato, scatenò tutti i suoi diavoli peggiori, che irruppero nella città, si godettero le donne, bevettero tutto il vino delle cantine, incendiarono e distrussero in una sola notte i palazzi e le chiese, riducendo il luogo ad un mucchio di rovine.

Impressionato dalle sue stesse parole, il vecchio spalancò gli occhi e tese le mani come per guardare ed ascoltare l’orrore ed il fragore del disastro. Luca adesso ascoltava più attento, anche perché si era saziato, e quando il narratore accennò alla luce insostenibile di Lucifero, chiuse gli occhi abbagliato; tuttavia in ultimo osservò, fra lo scettico e l’ingenuo:

— Forse ci sarà stata la guerra anche allora.

Il vecchio si riscosse; gridò severo:

— No, ti dico. È perché i giovani di Oppia avevano cercato l’inferno per divertirsi; ed anche il male bisogna farlo con serietà, altrimenti si offende non solo Dio ma pure il diavolo.

— Il male non bisogna farlo per niente, — disse Luca con tristezza: — anche la preghiera dice: liberaci dalle tentazioni.

— Bravo! Non ho mai veduto un ragazzo così assennato. Ma il dolore e le disgrazie hanno già fatto di te un uomo; e se i giovani di Oppia fossero stati come te, la città esisterebbe ancora.

Gli occhi del vecchio, ancora vivacissimi e limpidi sotto le sopracciglia d’argento, tornarono a fissare le rovine, intorno alle quali le pecore e le cavalle brucavano l’erba indugiandosi a lungo col muso a terra come per cercare qualche cosa di cui sentivano l’odore ma che non riuscivano a scovare: Luca seguiva quello sguardo col suo, ed anche nei suoi occhi umidi passavano ombre e luci, come destate dalla ricerca di un mistero da chiarire.


Ogni due giorni, verso sera, zio Ulpiano tornava in paese, a cavallo, portando i prodotti dell’ovile: adesso pensò che ci si poteva mandare Luca.

A dire il vero, Luca non si mostrò entusiasta dell’incombenza: pareva che, fuori dell’ovile, si sentisse a disagio nella sua condizione di servo: ma poiché bisognava obbedire obbedì.

La prima volta che andò nella casa del padrone, già preceduto dalle lodi che questi faceva di lui, si accorse che le donne lo guardavano con una certa compassione materna: specialmente Gonaria, che aveva una figura alquanto fantastica, tutta scura, come veduta di notte, lo fissava senza parlargli, con gli occhi dolci languenti: e la madre di lei gli preparò da mangiare con premura ed abbondanza, come si trattasse non di un servo ma di un ospite.

Poi tentarono a più riprese di interrogarlo, di fargli raccontare le sue molte sventure, ma senza insistere, poiché egli non pareva disposto a chiacchierare con loro; anzi non nascondeva la fretta che aveva di andarsene, e badava solo a mangiare, sebbene non col solito appetito, senza neppure sollevare gli occhi.

Ripartì che non sapeva com’erano le fisionomie delle nuove padrone; ricordava solo, confusamente, quella di Gonaria, scura, mascherata di dolore.

Per Pasqua, il vecchio gli domandò se voleva andare a confessarsi e comunicarsi: egli rispose con tristezza calma:

— Se vi fa piacere ci vado; ma io non credo più a queste cose.

Zio Ulpiano fu per fargli una predica; poi, considerato che, certo, in quell’occasione, Luca doveva ricordare con maggior pena il bene perduto e l’ingiustizia della sorte, gli domandò solamente se credeva in Dio.

— Non ci penso: mi fa paura, a pensarci. — Tu forse hai ragione. Io sono un buon cristiano, e per conto mio non ho che a lodarmi della sorte; ma ci sono cose che non si spiegano: per esempio, perché Gonaria, la più buona delle mie nipoti, dev’essere così disgraziata? Lei non ha mai fatto male a nessuno: da piccola amava le bestie come fossero cristiani, e piangeva quando portavo a casa gli agnelli sgozzati. Mai che ci abbia dato un dispiacere, mai che abbia risposto male a sua madre, e tanto meno a me. E non è a dire che abbia fatto un matrimonio d’interesse: no, si è sposata per amore, perché il marito era un bell’uomo, forte, coi denti che parevano di marmo. La sua disgrazia è ancora più grande per questo: ella ama il marito, e se lo vede lì davanti a soffrire, a morire un po’ per giorno, senza poterlo aiutare. Non ti lamentare, tu, quindi, se i tuoi parenti sono morti. La morte non è il peggiore dei guai: il dolore più grande è il veder soffrire o andar male le persone amate. Tu sei solo; sei giovane e sano; puoi aver fortuna. Sta allegro, dunque.

Come incoraggiato da queste parole di conforto, Luca cominciò a mostrarsi allegro davvero. Cantava, rincorreva i cani e gli agnelli, scherzava con le altre bestie che popolavano l’ovile, specialmente con un bel muflone addomesticato ed una coppia di cornacchie nere.

Una sera il vecchio vide salire su per il sentiero dell’avvallamento dove sorgevano le rovine, un essere misterioso, tutto nero, con una enorme testa ricciuta e cornuta: arrivato a poca distanza dalle mandrie, il fantasma diabolico cominciò a mugolare, destando l’allarme dei cani.

Zio Ulpiano era uomo coraggioso; eppure rabbrividì e fece tre volte in aria il segno della croce, recitando uno scongiuro:

Si ses cosa bona, bae in orobona;
Si ses cosa mala, bae in oromala.3

Poi si avanzò col bastone in mano. Una risata sonora rispose ai suoi gridi di minaccia, e Luca si strappò di dosso le pelli di pecora nera con le quali si era camuffato.



— Mi avete creduto proprio il diavolo?

— Ancora un momento e ti bastonavo, altro che diavolo!

— Eppure io credo che vi tremino le viscere. E che ne sapete voi, del resto, che io non sia davvero il diavolo? Uno di quei diavoli minori che Lucifero, secondo voi, manda a mettere confusione in terra? Non posso avervi raccontato frottole? Vedrete, un giorno sparirò, come sono venuto, ma prima, Dio sa quante disgrazie vi accadranno. Se non posso altro vi farò innamorare e riprender moglie.

Così egli cominciava a pigliarsi confidenza col padrone, che lo ascoltava benigno sebbene gli dicesse: — la primavera ti svita il cervello; — ed anche quando ritornava in paese, Luca si divertiva a raccontare alle donne, con le quali era diventato amico, cose che sembravano inverosimili. Una sera, dopo Pasqua, poiché Francesca leggeva alla madre e alle sorelle una cartolina del fratello studente, egli sospirò e disse:

— Anch’io studiavo; sono arrivato fino alla terza ginnasiale: dopo, le disgrazie mi hanno rotto la strada. — Vattene, — disse Francesca scuotendo la cartolina come per scacciare le mosche; — allora potresti fare l’impiegato, non il servo.

— Meglio servo che impiegato. Se non altro mi sazio di latte e di carne d’agnello.

La madre, che rimpiangeva sempre l’assenza del suo Luca e la stoltezza di lui a non voler fare il proprietario, gli diede ragione.

— È vero. L’impiegato è servo anche lui e non si sazia mai di nulla. La sua casa è vuota, ed egli deve comprare la roba a libbre, mentre noi invece abbiamo ogni ben di Dio a portata di mano.

Francesca replicò storditamente:

— I proprietarî; non i servi.

Allora Luca allungò il collo, sollevò la testa come una pantera, e disse con fierezza:

— I servi dei proprietarî sono più ricchi dei padroni stessi. E se noi non vi serviamo, voi non siete buoni a niente.

— E vattene, — insisteva Francesca, incalzandolo con la cartolina in mano: e pareva lo scacciasse davvero.

Egli la fissò negli occhi, con uno sguardo rude; poi andò via senza salutarla.

Questa Francesca era veramente nata per essere un maschio; con la testa grossa, la voce grossa, i peli sul labbro: anche la sua persona era forte, sebbene di piccola statura, con le gambe alquanto aperte, come per l’uso del cavalcare. Le due sorelle fidanzate, alte e fini, di una bellezza bizantina, perfette in ogni particolare, e coscienti di esserlo, dicevano che Francesca era brutta; ma la sua bocca sensuale, di un rosso di fragola, acceso di un po’ di perversione, i suoi occhi dalla grande pupilla nera e l’iride dorata nuotante nel bianco azzurrognolo della sclerotica, occhi che, senza saperlo, avevano un languore e uno splendore di passione divorante, attiravano il desiderio di tutti gli uomini.

Se qualcuno di essi però rivolgeva a Francesca parole d’amore, questi occhi si nascondevano in un’ombra malvagia, d’agguato, come il bandito che disturbato mentre si gode la pace del bosco si rintana e si arma: del resto ella rispondeva sgarbatamente a tutti, e, diceva il nonno, trattava la gente a turba, vale a dire nel modo come si spinge il gregge.

Sebbene non gliene lasciasse passare una, la madre la compativa, pensando che Francesca aveva appena quindici anni, età ancora critica per una ragazza: anche lei era stata così. Gli anni e il dolore l’avevano domata; adesso era la donna più triste, calma e prudente del mondo.

Sempre vestita di nero, col capo coperto come fosse vedova del giorno avanti, non si abbandonava mai, però, all’inerzia delle persone che sentono il vuoto della vita entro di loro; lavorava tutto il giorno, e di notte filava: quando andava a letto la si sentiva sbadigliare come uno che ha camminato a lungo e si addormenta con la speranza che il suo vano andare sia finito.

Invece il giorno dopo bisogna ricominciare. Era lei che, senza parerlo, governava la casa ed il patrimonio, e si faceva obbedire anche dal padre: per questo aveva preso a voler bene a Luca, e lo trattava come un figlio per un suo vago sogno egoista: pensava che dai generi, dal marito in casa che non sarebbe mai guarito, da gli altri che troppo avevano da badare alle cose loro, non avrebbe ricavato in avvenire utilità alcuna; mentre il giovinetto straniero, se si affezionava, poteva fermarsi con lei come certi servi ch’ella conosceva, di altre famiglie del paese, invecchiati in casa dei padroni, e più attaccati dei padroni stessi alla roba che guardavano.

Quel giorno, dunque, partito Luca, sgridò Francesca per il modo con cui trattava il giovine servo.

— Lo devi rispettare, inteso hai? Non ti devi permettere confidenza alcuna, con lui: e trattarlo anzi con buone maniere.

Francesca si mise a ridere, piegandosi di qua e di là e battendosi sguaiatamente le mani sulle anche. Gridava:

— Ma da quando in qua sono entrata al suo servizio?

— Sì, sì, piccola asina. Dobbiamo esser noi, adesso, i servi dei servi, ancora non l’hai capito? Se Luca se ne va, tarderemo a trovarne un altro, come lui.

— E andrò io, all’ovile. Perché non mi ci lasciate andare? Ma se camperemo vedrete che...

La madre non le permise di finire: afferrò il lungo bastone che serviva per rincalzare il fuoco nel forno quando si faceva il pane, e le si volse contro pronunziando una sola parola:

— Continua!

Francesca non continuò, anche perché le due sorelle fidanzate, sedute davanti alla porta a cucire il loro corredo, la guardavano di sotto in su sorridendo beffarde: ma dopo essere passata in mezzo a loro pestando i lembi della tela ch’esse lavoravano, andò a spaccare legna sotto la tettoia: ed a bassa voce cominciò a recitare le più nefande imprecazioni contro di loro, contro il servo, contro la casa.


Era antichissima, la casa del vecchio Ulpiano Melis, e pure essendo spesso riattata conservava il suo carattere locale primitivo, non paragonabile ad altro.

Tutta interna, con le facciate laterali senza finestre, e appena una porticina e quattro finestruole munite d’inferriata, e sempre chiuse, sulla facciata principale, che del resto dava su una straducola solitaria, pareva fatta per una vita di famiglia quasi religiosa, quasi misteriosa.

La porta principale e le finestre del pian terreno davano sul cortile quadrato ricinto di muri alti tempestati in cima di pezzetti di vetro: il tetto, da questa parte, sostenuto da colonne di legno, che erano semplici fusti di pioppo ripuliti, spioveva sopra una loggia pure di legno lunga quanto la facciata, una specie di veranda che ricordava l’antico calcidicum, e sulla quale si aprivano gli usci delle camere superiori. Una scaletta esterna conduceva a questo portico sospeso, sul quale sboccava, con le sue coperte, i suoi panni, i sacchi, le pelli, le bisacce, i vasi di sughero, i mobili da ripulire, tutta la vita intima della famiglia; altre scalette scendevano da strane porticine aperte qua e là negli angoli dei muri: lo stesso pagliaio e la stalla, la tettoia che riparava il portone del cortile, e che formava pur essa una specie di portico, tutte costruzioni fatte e rifatte più volte, ma sempre all'uso antico, con pietre connesse quasi a secco, avevano un carattere nuraghico, sospettoso eppur sicuro di sé. Pareva che ogni pietra, granito, calcare o porfido che fosse, bruna o pallida o rossiccia, ma egualmente rivestita dalla maschera opaca del tempo, avesse una espressione speciale; e tutta la casa dicesse: sono antica, non vecchia; e resisto al tempo per la mia fermezza a non mutare.


Eppure in estate questa casa abitata quasi esclusivamente da donne, si animava di una vita giovanile e gaia: il portone e le finestre si spalancavano, come sospinti da un potente respiro interiore, come si apre la bocca al riso e al grido di gioia: note di mandolino e di chitarra smovevano la frangia d’ombra della veranda: tutti i giovanetti borghesi del paesetto si davano convegno nella straducola che per nove mesi dell’anno taceva del silenzio ancora dei suoi ciottoli, frequentati solo dalle tarantole e dalle scolopendre. Poiché Luca, o Luka, com’egli amava firmarsi, tornava per le vacanze.

Non che fosse un ragazzo chiassoso o discolo; anzi era equilibrato e studiosissimo: ma i suoi diciassette anni lo portavano più verso la gioia che la malinconia; e quindi c’era come un malinteso, fra lui e la severa casa del nonno, le cui pietre lo ricevevano arcigne, le porticine chiuse e misteriose lo guardavano dall’alto delle scalette sfidandolo ad aprirle: gli usci e le finestre che egli spalancava con violenza si ostinavano a richiudersi da sé, e s’egli li riapriva si sbattevano con dispetto.

Anche il nonno, e la madre stessa, non erano molto entusiasti di lui.

Il vecchio, tuttavia, si preparava a tornare a casa la sera stessa dell’arrivo di lui, e pensava di portargli un dono eccezionale.

— Mio nipote arriva in questo momento, — dice al servo; — mi sembra di vederlo: vola come un uccello. Appena entra in casa dà un bacio alla madre, uno alle sorelle, senza neppure guardare se hanno buon aspetto; poi corre, apre porte e finestre, mette tutto a soqquadro, si lava, si cambia, lascia qua e là sparsa la sua roba come appunto l’uccello lascia le sue piume, poi se ne va con gli amici. E torna solo quando ha fame, portandosi sempre appresso la compagnia; e chi suona, chi canta, chi balla. La mia casa pare diventata un veglione. E domani lui parla subito di ripartire, di andare in un altro paese, o su un monte, o al mare.

— E lasciatelo andare; è la sua età, — ribatte giudiziosamente il servo. — Eppoi sento che è il primo della scuola.

— Che m’importa della scuola? Al diavolo chi l’ha inventata. Noi, in casa, abbiamo bisogno di uno che guardi la roba, non che legga il latino.

Intanto, pur brontolando così, accarezzava le corna al giovine muflone dal pelo dorato che si stringeva a lui con la tenerezza appassionata di un cane. Era questo grazioso animale che egli voleva portare in dono al nipote.

— Luca si diverte con le bestie come un bambino. Andiamo? — disse al muflone, spingendogli indietro la testa per le corna, onde guardarlo negli occhi.

Occhi di un bruno forato, in armonia col colore del pelo della bestia, dolci, languidi e tristi, che pareva rivelassero nel muflone una profonda nostalgia per una sua vita passata in un paese d’origine, tra alti picchi argentei e macchie e selve aeree, in un mondo oramai disperso come un miraggio.

Cresciuto nell’ovile, il grazioso animale seguiva sempre il vecchio, che si serviva di lui per far precedere il gregge quando si trattava di superare un passaggio difficile, e spesso lo conduceva con sé anche in paese.

Questa volta però il muflone, con sorpresa di zio Ulpiano, si scostava e disobbediva.

— Ha capito che volete lasciarlo in paese, e non gli va, — disse il servo, al quale dispiaceva quella partenza.

A dire il vero, dispiaceva anche al vecchio: ma che cosa non si fa per Luca? si brontola sempre, contro Luca, ma ben altri sacrifizi che quello di privarsi della compagnia di una bestia, si farebbero perché Luca abbia un po’ di svago e cerchi di stare in famiglia.

— Beh, andiamo? O devo pigliare la corda e legarti? Oh, guarda, guarda, faremo proprio così? Il muflone capì e si mosse: ogni tanto però si fermava col muso fra l’erba, pensieroso, e pareva sperasse in una dimenticanza o in una distrazione del vecchio per tornare indietro. Il vecchio non si distraeva; lo aspettava quindi, e voleva si andasse ben vicini, anche per evitare che qualche pastore, nel veder solo il muflone, gli tirasse una fucilata.

Arrivarono in paese ch’era già notte: in casa le donne stavano sedute al fresco nel cortile, ed il vecchio non si meravigliò nel sentire che le cose erano andate come lui immaginava.

Arrivato alle cinque del pomeriggio, Luca, dopo aver spalancato porte e finestre, rovesciato una catinella d’acqua nella sua stanza e fatto cadere l’attaccapanni con una crosta di parete, se n’era andato in giro coi figli del Segretario ed altri amici. Non si meravigliò, il vecchio Ulpiano, ma neppure si rallegrò.

— Lasciamolo andare, — disse tuttavia, conducendo il cavallo alla stalla.

Nella stalla, illuminata in parte dal chiarore della luna, vide accovacciata in un angolo una bestia che dapprima gli sembrò il cane: poi si accorse che era il muflone, andato dritto a mettersi là, mentre le altre volte si aggirava curioso per la casa, fingendo adesso di essere stanco e di dormire per farsi dimenticare.

Ed egli non lo disturbò; un fondo di amarezza gli disgustava il cuore: e l’andare che fece subito dopo a salutare il marito della nipote Gonaria non giovò certo a consolarlo.

L’uomo giaceva paralitico da due anni, si diceva per eccesso di piaceri. Lo avevano messo in una camera attigua alla cucina perché non restasse mai isolato e le donne potessero assisterlo meglio; ma pareva ch’egli non prendesse più parte alla vita comune, sempre semisdraiato sul letto grande, dove alla notte dormiva anche la moglie, col petto incavato, le mani scarne e stanche, e nel viso giallo, fra il nero della barba e dei capelli folti, gli occhi verdastri che guardavano da una lontana profondità liquida, come quelli di uno che annega e non spera più di essere salvato.

Il vecchio gli posò sulla mano inerte la sua ancora calda della briglia del cavallo, e domandò con voce viva e forte:

— Come andiamo, dunque? — Bene, — l’altro rispose con indifferenza: ma sotto quel velo d’apatia tremolava il desiderio di non far pena al vecchio, e questi se ne accorse e la sua pena aumentò: egli però sapeva nascondere i suoi sentimenti di debolezza.

Guardò, attraverso l’uscio aperto, il focolare acceso dove bollivano le pentole, e domandò:

— Hai mangiato?

— Aspettiamo Luca.

Allora zio Ulpiano s’irritò:

— Ma che Luca o non Luca! Lui fa il comodo suo, quel moccioso insolente, e noi lo stiamo ad aspettare, quasi sia lui il riverito padrone.

Poi chiamò la figlia e le nipoti, perché si cenasse immediatamente.

Per tener compagnia all’infermo, mangiavano nella camera di lui, lungo una tavola addossata alla parete. La moglie lo sollevò, gli mise una tovaglia davanti, altri guanciali alle spalle, lo imboccò come un bambino.

La madre aveva tratto tutta intera dalla pentola la gallina grassa ammazzata per Luca, e scuotendo la testa con cenni di rimprovero la spezzava con le forbici da potare; pareva domandasse scusa alla gallina, per averla inutilmente disturbata. Sulla mensa luccicavano le focacce di fior di farina, con le impronte visuali, come la luna: anch’esse preparate per Luca; e nell’anfora di cristallo odorava il vino della valle, che piaceva a lui: tutto per questo moccioso insolente che non voleva bene a nessuno.

— Ti è venuto almeno a salutare? — domandò il nonno all’infermo: e l’infermo spalancò gli occhi improvvisamente animati.

— Diavolo! Mi ha dato anche un bacio. Eppoi mi ha portato una pipa nuova: dove l’hai messa, Gonaria?

La moglie aveva messo via la pipa, perché egli non fumava: e il nonno, quando la ebbe in mano, bella lucida e odorosa come una piccola coppa d’onice, la volse e rivolse guardandola con occhio d’intenditore e con gelosia: l’avrebbe voluta lui, ma non lo disse; d’altronde l’infermo la richiese e la nascose fra i guanciali.

— Anche a voi ha portato un regalo; ma dice che ve lo darà lui.

Il vecchio gridò che lui non voleva niente, da quell’ingrato.

— Dia le sue cianfrusaglie ai suoi amici.

Ecco però d’un tratto la sua stizza svanisce; la camera triste, la cucina, il cortile, s’illuminano come per una improvvisa fiammata; se l’infermo si fosse alzato, guarito per miracolo, non avrebbe destato altrettanta gioia. È Luca che rientra, un po’ affannato perchè sa di aver fatto tardi, e che il nonno deve essere a casa.

— Oh, babbo Melis!

— Oh, come va?

Il nonno si alza quasi con rispetto, e gli sembra di baciare ancora le guancie della sua fidanzata, — nel tempo dei tempi. — Solo che la pelle del viso di Luca è ancora più liscia e profumata di quella dell’antica fanciulla; e quando egli siede a tavola, i suoi capelli divisi in due ondate, una più grande dell’altra, hanno al riflesso del lume uno splendore di rame lucidato.

— Ebbene, — dice il vecchio, — raccontami.

Luca comincia a raccontare, divorando con la bocca e con gli occhi le cose buone che pare siano felici di lasciarsi divorare da lui; e intorno si spande un’atmosfera di festa fiabesca, come quando nelle sere di primavera arriva dalla piazza del paese la musica dell’organino ambulante del suonatore girovago, che porta dalle lontananze del vasto mondo la canzonetta alla moda.

Dopo cena, la madre disse:

— E il regalo per il nonno? Non lo tiri fuori? Anche lui ti ha portato un dono.

— Ah, non mi ricordavo. Adesso vado a prenderlo.

Ma fuori nella strada già si sentivano i fischi degli amici; ed egli tendeva le orecchie, pronto a volar via di nuovo. Come si poteva stare a casa, in quella camera dove le esalazioni calde delle vivande, e l’odore di selvatico del vecchio si mischiavano a quello del sudore di espiazione dell’infermo, mentre fuori c’era la luna e dai campi arrivava il profumo delle stoppie inumidite dalla notte?

— Va, va, — disse il nonno; — il regalo me lo darai quando mi sposo.

E Luca se ne andò, senza neppure domandare che cosa il nonno gli aveva portato dall’ovile.

Quando però, il giorno dopo, venne a saperlo, parve compiacersene molto: chiamò gli amici, e tutti si divertirono col muflone, aizzandolo contro il cane, lisciandolo e accarezzandolo: gli fecero anche la fotografia. L’animale lasciava fare, timido e restìo, con gli occhi tristi e il pensiero lontano. Nel veder ripartire il vecchio tentò di seguirlo, pur sapendo che la sua sorte era decisa: e si guardarono, zio Ulpiano dall’alto del cavallo, il muflone appoggiato al muro in atto supplichevole: uno sguardo di addio, di dolore, di rassegnazione al sacrifizio che entrambi consumavano.

Per tre giorni la mite bestia fu il passatempo di Luca e dei suoi amici: i ragazzi del paese venivano a guardarla attraverso il buco della serratura del portone: le donne, dentro, le davano da mangiare e vigilavano perchè non scappasse.

Non scappava, no, ma deperiva, sebbene mangiasse e sembrasse rassegnata alla sua sorte. La sera del terzo giorno rifiutò il cibo e si sdraiò accanto al portone come aspettando il ritorno del vecchio.

Luca, che era già stanco del muflone, o meglio non ci pensava più, nell’uscire di casa, mentre fuori gli amici fischiavano per chiamarlo, ed uno suonava il mandolino invitandolo all’aperto, vide l’animale e ne sentì pietà; o piuttosto pensò alla disperazione di dover vivere chiusi per sempre nel recinto dell’antica casa del nonno.

Tirò su dunque per le corna la bestia e se la portò appresso, nonostante le proteste delle donne.

— Lo conduco a spasso con me; poi torniamo assieme.

Andarono, con gli amici, in fondo al paese, poi lungo lo stradone provinciale, fino al bivio dove da una parte cominciavano le vigne e dall’altra i pascoli ed i campi di stoppia.

La notte era di una bellezza quasi angosciosa: bellezza di luna, di ombre, di lontananze azzurre. Fra le stoppie luccicanti guizzavano le lepri in amore, ed i ciglioni lungo le vigne parevano dune in riva ad un mare immoto e solitario.

Uno della compagnia disse:

— La terra stanotte è una pagina bianca con su scritti versi del buon Dio.

Gli altri cominciarono ad urlare, e il mandolino trillò imitando una risata beffarda. Luca teneva sempre con sé il muflone, ma ne era già stufo.

— E vattene, — gridò, spingendolo per il fianco fremente: — se non te ne vai, sei ben stupido.

La bestia si mise subito a correre, con agilità fantastica, volando a fior di terra; tanto che la sua ombra segnava come una scia dietro di lei: arrivata al principio della strada delle vigne fece una giravolta e saltò giù per la strada dei pascoli, ben presto ingoiata dalla lontananza.

E nella notte il vecchio se la vide ricomparire davanti come in sogno.

In quelle chiare notti estive anche le donne, in casa, erano meno quiete del solito: Francesca usciva nella strada e questionava con le vicine; la stessa Gonaria abbandonava la camera afosa dell’infermo per respirare un po’ d’aria nel cortile. A volte saliva nelle camere di sopra e vagava qua e là senza sapere perchè, fermandosi a guardare lo sfondo degli usci aperti sulla veranda illuminata dalla luna: le sembrava di essere più che mai triste per la sorte del marito, condannato a vivere come un grande colpevole in un fetido carcere, mentre fuori c’era tanta gioia di frescura e di luce; e si domandava perchè Dio manda in terra gli uomini per farli soffrire; ma in fondo era per la sorte sua stessa ch’ella si disperava; e un desiderio angoscioso di vita, di liberazione e di amore, la spingeva a vagare come un fantasma nella casa silenziosa.

Quasi poi non bastasse la quotidiana disgrazia, una sera, pochi giorni dopo l’avventura del muflone, anche il nonno tornò a casa con la febbre. Tutte le donne gli furono attorno ansiose; ma egli le respinse, con le mani ardenti e nervose, infastidito.

— Se non mi lasciate in pace, riprendo subito la strada per andarmene: si tratta di prendere la purga, e basta. Va a comprarmela, Francesca, intanto che lo speziale è ancora sveglio.

Parlava a voce alta, ma ansava alquanto, e gli si sentiva la febbre al solo avvicinarlo. Gonaria pensò:

«Ecco, era quest’altra disgrazia che presentivo, tutte queste sere».

E subito immaginò la morte e i funerali del nonno, i lunghi anni di dolore e di lutto che avrebbero sepolto la famiglia entro la casa desolata.

Più tranquilla era la madre: nulla la spaventava, neppure la morte; poiché con la morte stessa ella aveva già fatto conoscenza: pensava piuttosto alla roba che sarebbe andata alla malora se il vecchio si ammalava sul serio e moriva.

Nonostante le proteste di lui, gli andò appresso, mentre egli saliva pesantemente le scale, gli preparò il letto, mise in ordine le vesti ch’egli si toglieva e che puzzavano come spoglie di bestia selvatica.

— Detto glielo avete, a Luca Doneddu, che domani state a casa per prendere la purga?

— È lui, che mi ha spinto a tornare; se no me ne restavo là, e bevevo un otre d’acqua, per purga.

— Quella, sì, vi faceva bene.

— Lasciami la finestra e l’uscio aperti: qui si soffoca. E vattene, — egli ordinò. Ma com’ella obbediva, la richiamò: — Non dite nulla a Luca. È in giro, s’intende! Non ditegli nulla.

Ma già Francesca aveva incontrato Luca con gli amici, nella piazza davanti alla farmacia, e Luca correva dal nonno.

— Babbo Melis, ebbene, che avete fatto?

— Ma nulla. Ho bevuto tutta la borraccia del vino, in viaggio, e adesso ho un po’ di caldo. Sai che quel birbante del muflone è tornato all’ovile? — disse poi, con la voce già vaga di una sonnolenza febbrile, ma col cuore felice per la vicinanza di Luca. — Dimmi però la verità: non è scappato; sei tu che lo hai lasciato andare.

— No, no, è proprio scappato. Lo portavo in giro per fargli prendere un po’ d’aria, e m’è sgusciato di mano come un uccello. Come volete che lo mandassi via, dopo che mi era stato regalato da voi?

Il nonno non ci credeva, a queste belle parole; ma era contento che Luca mentisse per fargli piacere.

— Basta, adesso è là; quando ti vuoi divertire con lui te lo porto ancora.

— Verrò io, all’ovile.

— Tu? Sono anni, che fai questa promessa. A te piace meglio stare fra la polvere della piazza.

— Vedrete che verrò. Intanto state tranquillo. Devo chiamare il Dottore?

— A far che? Ad ammazzarmi? Se viene qui lo butto dalla loggia.

Ma quella sventata di Francesca aveva già consultato il Dottore, che alla sera stava sempre seduto al fresco davanti alla porta della farmacia, e portava la quantità di sale inglese che egli le aveva ordinato di dare al nonno.

— Ci ho pure questionato, col Dottore, perché non si è alzato quando gli parlavo. Dopo tutto lo paghiamo, in fine d’anno: non siamo fra i malati poveri noi.

— Metti i sali a bagno, lì, sul tavolino: e andatevene, andate al fresco; — disse il nonno, tutto avvoltolato nella coperta rossa del grande letto il cui pagliericcio odorava di stoppia; — domani alle otto sono più sano io del Dottore.

I nipoti se ne andarono, e Luca tornò dai suoi amici come se niente fosse, mentre le donne ogni tanto risalivano tacite sulla veranda, ed ora l’una ora l’altra si avanzavano lievi ad ascoltare il respiro del vecchio.

Respiro pesante, che pareva emanasse un vapore ardente: il nonno sonnecchiava, ma di un sopore agitato, e di tanto in tanto gridava per spingere il gregge alla pastura, o chiamava il servo per dargli qualche ordine.

D’un tratto si svolse dalle lenzuola, si alzò, grande, nudo, peloso come un vecchio satiro, si accostò al tavolino e trangugiò i sali non ancora bene sciolti, masticandone i granellini e mandandoli giù con la saliva, poi tornò a coricarsi e a vaneggiare.

Il giorno dopo il Dottore venne di sua iniziativa a visitarlo: poiché era una famiglia da tenersi buona, la famiglia Melis: pagava bene e mandava regali; e il Dottore, oltre ad una famiglia numerosissima, aveva anche un’amica da mantenere.

Il vecchio non fu in grado di eseguire le sue minaccie: aveva quasi perduto la conoscenza, tanto la febbre era forte, sebbene vaneggiando parlasse di alzarsi, di ripartire, preoccupato per la roba e per il servo che era rimasto senza pane.

Il Dottore disse che si trattava di una infezione intestinale: ordinò quindi di tenerlo a letto e a dieta.

— Il pane, il pane... Uh, la roba! La pecora nera muore... Luca muore di fame. Gesù Signore nostro...

— Tranquillo, babbo Melis. Andrò io a portare le provviste e a vedere come vanno le cose, — promise Luca, aggiustandosi la cravatta davanti allo specchietto d’argento ch’era stato della nonna e che pendeva, con altre reliquie, accanto al letto. Questo specchietto, con la cornice cesellata, faceva gola a tutti i nipoti; l’uno però vigilava l’altro perché non lo toccasse, ed anche il nonno, pur con la febbre alta, disse:

— Lascialo, eh? Servirà per la tua sposa.

— Hai voglia! — pensò Luca.

— Il sole ti farà male, — riprese ansimando il vecchio. — È forte, oggi: senti come scotta.

— Ma no; è voi che sentite caldo, per la febbre. Eppoi prenderò l’ombrello.

Francesca sogghignava, beffandosi del fratello, che voleva andar a vedere le pecore con l’ombrello; e per vendicarsi, quando furono giù nel cortile, egli le disse:

— Allora ci andrai tu, scimmia.

Cominciarono quindi a questionare, tanto che la madre chiuse l’uscio della veranda perché il nonno non sentisse: poi preparò dentro la bisaccia il pane per il servo, mise la sella al cavallo che già s’immelanconiva nella stalla, e aspettò che Luca, uscito per comprarsi le sigarette, rientrasse per partire. Aspetta, aspetta, Luca non rientrava: senza dubbio s’era dimenticato dei suoi buoni propositi.

Francesca spazzava il cortile, sotto il sole scottante; tanto per esercitarsi distribuiva furiosi colpi di scopa alle galline che fuggivano starnazzando, e poiché il cavallo batteva la zampa al suolo quasi per richiamare l’attenzione dei padroni, — si parte o non si parte? — ne regalò due anche a lui, uno per coscia.

— Si parte, si parte, — gridò; poi alla madre, che usciva ogni tanto sul portone per vedere se tornava Luca, disse con voce ironica:

— Potete aspettare finché son cotti e conditi i maccheroni: allora, sì, tornerà, per mangiarseli.

E avrebbe voluto dare un colpo di scopa anche a lei, che, sempre timorosa delle critiche dei servi, diceva lamentandosi:

— E quel disgraziato lassù, che è rimasto senza pane! Dirà che gli facciamo patire la fame per avarizia.

— In quanto a lui può anche crepare: non m’importa nulla. M’importa del nonno che s’inquieta, e del cavallo che sta qui impalato ad aspettare, — disse Francesca: e d’un tratto ebbe un’idea avvampante. — Sentite, ci vado io. Sì, sì, — gridò minacciosa: — è inutile che mi guardiate così, con gli occhi di gatto selvatico. Vado e vengo in un lampo. Lascio giù la bisaccia senza neppure scendere di cavallo. Non vado a fare il fatto mio?

Intanto faceva accostare il cavallo al pozzo, sul cui parapetto si arrampicò agilmente: di lì saltò d’un balzo seduta in sella: prese la briglia, si aggiustò ben strette le sottane intorno alle gambe, si annodò sotto il mento il fazzoletto.

— Apritemi il portone, — disse alla madre; e come suggestionata, e in fondo orgogliosa e commossa per la forza e la volontà virili che la figlia dimostrava, la donna spalancò il portone.

I ragazzi della strada, e qualche vicina di casa affacciatasi alla sua porta, salutarono con un po’ d’irrisione.

— Alla festa vai, Francesca?

— Vado a fare il fatto mio.

— Babbo è malato, e nell’ovile il servo è rimasto senza pane, — disse la madre dal portone, per scusare l’insolito viaggio della figlia.

La figlia, intanto, non si curava che di trottare allegramente: le sembrava di essere alta fin sopra i tetti del paese, e respirava con avidità l’aria libera dello stradone.

Le parve d’intravedere Luca ed i suoi amici; ma non le importava nulla di Luca né di altri; aveva dimenticato anche il nonno, e provava solo la gioia di andare così, sola, alta e forte, quasi volando.

Anche il cavallo, sebbene anziano e prudente, come animato dalla giovinezza e dalla felicità di lei, nitriva e scuoteva la coda. Il paesaggio stesso, di solito triste, arcigno di pietre e di rovi, adesso sorrideva, dorato di stoppie, con le siepi di spini brillanti di fili di ragni, l’ombra dei radi alberi fatta grigia dalle pecore che vi meriggiavano: all’orizzonte, sopra le linee azzurre degli altipiani, vapori rosei disegnavano altri paesaggi.

Ed ecco d’un tratto il cavallo si ferma e volge la testa a sinistra per indicare a Francesca una nuova direzione da prendere.

— Ho capito: vuoi bere. Ho sete anch’io, sebbene non abbia ancora mangiato; — dice lei a voce alta, e rallenta la briglia, lasciandosi portare dal cavallo. Percorsero una scia di sentiero, tracciata fra le stoppie e poi attraverso un prato umido e verde, fino al letto asciutto del fiume, dove solo un filo d’acqua alimentava una specie di laghetto circondato d’oleandri in fiore. L’acqua rifletteva l’azzurro del cielo, i giunchi, le stelle rosee degli oleandri; e pareva odorasse del loro profumo amarognolo.

Francesca ebbe voglia di cantare, ma una canzone triste.

Saltò giù di sella e tolse la briglia al cavallo che cominciò a bere con lentezza, quasi con voluttà, ogni tanto sollevando il muso sgocciolante mentre pur continuava a guardare dentro l’acqua come specchiandovisi.

Anche lei cercò l’acqua corrente, dov’era più limpida; s’inginocchiò sulla sabbia e si piegò a bere come faceva il cavallo: poi si lavò il viso e si asciugò col lembo della sottana.

— Al ritorno faccio un bagno, com’è vero Dio, — disse al cavallo, riprendendolo dal posto dove pareva si fosse incantato; e l’animale adesso scosse la testa come approvando il proposito di lei. Ripresero la strada; ma adesso Francesca si divertiva a passare lungo i campi, senza perdere di vista lo stradone; e quando era sicura che nessuno poteva ascoltarla, emetteva gridi belluini, come li aveva sentiti ai giovinastri un po’ alticci di ritorno dalle feste campestri.

Ed ecco di nuovo il cavallo si ferma, questa volta però frenato dalla mano di lei: tutt’e due rasentano una muriccia assiepata, di là dalla quale si vede sorgere come per miracolo, in mezzo ad un campo sterile, un fico basso, scuro, carico di frutti violacei.

Francesca crede di aver le traveggole, e si meraviglia che, fra tanta arsura, nessuno pensi a cogliere e godersi i bei fichi, alcuni dei quali spaccati lievemente lasciano colare il loro miele: quindi ci pensa subito lei.

Camminò col cavallo lungo la muriccia, fin dove questa offriva un punto facile da scavalcarsi; ci scivolò sopra, fermò con un sasso la briglia, con un salto fu dentro il recinto del fico.

Un cane abbaiò in lontananza: il luogo dunque non era disabitato; eppure ella andò avanti, con un sasso in mano, pronta a difendersi: staccò i fichi torcendone il picciuolo con un senso di crudeltà, e ancora sgocciolanti di latte se li ficcò nelle tasche, nelle maniche della camicia e nel seno: qualcuno lo perdette nel correre indietro, qualche altro le si schiacciò dentro le maniche imbrattandole con la sua polpa le braccia. Il cuore intanto le batteva forte, di paura ed anche di vergogna: che avrebbe detto il nonno se veniva a sapere ch’ella rubava i fichi di un povero pastore, mentre a casa ce n’erano grandi canestri colmi? — Beh, vuol dire che sono ancora una ragazzina, — si scusò col cavallo e con sé stessa; e pensò di portare i fichi al servo, ch’era anche lui un ragazzo orfano e senza nessuno al mondo.

Ma il modo con cui glieli diede, quando egli le venne incontro sorpreso dell’insolito arrivo, fu tutt’altro che pietoso.

— Prendi, — disse gettandoglieli addosso. — Li ho rubati per te.

Egli lasciò che i fichi cadessero a terra, mentre il suo sguardo, che aveva accolto mite e sorpreso l’arrivo di lei, si faceva duro, quasi sinistro.

— Come sta il padrone? — domandò tuttavia con premura. — Il dottore lo avete chiamato?

— No, aspettavamo che tu ce lo consigliassi.

Egli la lasciava dire; quando ella saltò a terra, prese il cavallo e per abitudine cominciò a levargli la briglia.

— Credi forse che io voglia passare qui la notte con te? — disse lei, tirando giù con forza la bisaccia.

— Che male ci sarebbe? Sì, — riprese il servo con aria trasognata, — il padrone si sentiva male da parecchi giorni, e non voleva tornare a casa: la notte parlava in sogno e credeva di veder gente salire dalle rovine laggiù; gente morta, s’intende; e anche il diavolo. Anch’io, quando sono solo, di notte, — confessò sollevando le braccia, — ho quasi paura. E fegato ce n’ho, porca miseria! La questione è che il luogo è solitario e realmente di notte vi si aggirano fantasmi che masticano pane e tentano di rubare qualche pecora; però ieri notte, giù nelle rovine, si vedevano fuochi gialli e scoppiavano come delle fucilate.

— Ma vattene! Saranno ragazzi che fanno scoppiare dello zolfo, — disse Francesca, dandogli un colpo alle spalle come si fa coi bambini ingozzati: ed egli si rasserenò.

Intanto erano entrati nella capanna, ed egli tirava fuori della bisaccia il pane e le altre provviste che la padrona gli aveva mandato. La padrona gli mandava anche una bottiglia di vino, ed egli se la strinse al petto, facendo un giro su sé stesso per l’allegria. Questo non garbò a Francesca.

— Così stanotte ti ubbriacherai e i ladri ci faranno la festa.

— E io non aspetto a stanotte, allora. Giusto, stavo mangiando.

Si vedeva infatti sulla stuoia della capanna un tagliere con pezzetti di carne magra, nerastra, arrostita allo spiedo; e poiché Francesca guardava con diffidenza, il servo sollevò il tagliere e glielo accostò al viso.

— Non credere che io ammazzi le tue pecore per mangiarmele: è una lepre che ho preso al laccio; vedi la pelle distesa fuori?

— Ha buon odore, — disse lei fiutando la carne. — Beato te: io ancora non ho mangiato.

— E profitta, allora; mangia con me. Francesca era troppo orgogliosa per mettersi a mangiare col servo inoltre egli aveva disprezzato i fichi, ma per fargli dispetto, com’ella provava dispetto nel vederlo divorare senz’altro i suoi pezzi di lepre, disse che la madre, quando Luca era in vacanze, ogni giorno ammazzava tre polli e con le rigaglie condiva i maccheroni.

Seduto sulla stuoia, il servo si contentava di masticare coi suoi denti canini la lepre dura; per confortarsi meglio, beveva poi dalla bottiglia; e bevi e bevi si fece rosso, allegro, insolente.

— Tu non hai accettato il mio invito perché mi credi un pezzente morto di fame, — disse con una voce che non pareva più la sua. — Ti sbagli, però: se sono servo lo sono per gusto mio: se volessi, domani sarei anch’io padrone.

— Fai male, a non volerlo. Del resto è vero: voi uomini potete diventare ricchi sposando una donna ricca.

— Io non so cosa farmene, delle donne, e specialmente delle donne ricche. Le mando tutte alla concia. Io ho abbastanza del mio.

Francesca guardò la bottiglia già vuota; egli disse: — No, il vino non mi ha dato alla testa come a quelli che non ne bevono mai. In casa mia ce n’è quanto in casa tua.

— E buon pro ti faccia! — esclamò lei, impressionata dagli strambi discorsi di lui. — Se tu hai intenzione di farmi la corte ti sbagli, — pensò avviandosi fuori con la bisaccia in mano: e nonostante il suo coraggio si fece pallida poiché il servo infatti ardiva trattenerla per le sottane.

— E aspetta, — egli gridava, col viso sollevato verso di lei, — non voglio farti male, perdio. E se te lo facessi, — aggiunse con un sorriso diabolico, — forse tuo nonno sarebbe contento.

— Si vede che discorri coi diavoli, — ella disse con disprezzo, frenando lo sdegno e la paura.

— E può darsi. Ma tuo nonno sarebbe contento, ti dico, perché così mi sposeresti, e avreste un uomo in casa, un vero uomo, non un fantoccio di cartapesta come quello che avete.

— Al diavolo chi ti ha scaricato qui, — ella imprecò allora con voce cupa, battendogli la bisaccia sulla testa. — Lasciami andare.

Egli non la lasciava, pur senza toccarle altro che le vesti, ma la guardava di sotto in su con quei suoi occhi neri e bianchi nel viso scuro, che facevano davvero paura.

«Se tenta di farmi del male lo ammazzo, com’è vero Dio» pensava Francesca, che si sentiva una forza terribile nei polsi; e quasi le dispiacque quando egli la lasciò, anzi la respinse, dicendole:

— Sì, sì, sono venuto da Oppia; sotto le rovine esiste ancora una parte del paese, che non si vede, ma c’è. Là vive la mia famiglia. Mio padre è il capo, come a dire il Sindaco del luogo, e mia madre sta tutto il santo giorno a manipolare formaggio, a misurare olio e vino ed altre derrate, tanto siamo ricchi. Volevano farmi studiare, ed infatti ho studiato fino alla terza ginnasiale: ma io odio i libri e le scritture, e sono fuggito di casa perché mi piace la vita libera.

— Tu sei pazzo, fratello caro, — disse Francesca, convinta di questa sua affermazione; tuttavia si mise a discutere con lui. — E tu chiami libera la tua vita? Ma se fai il servo?

— Il servo? Io? Faccio il padrone. Sto qui perché mi piace di starci, ma se voglio posso andarmene immediatamente. Chi mi trattiene? Sto qui, — aggiunse abbassando la voce, — perché sono vicino a casa mia: la notte vado e guardo attraverso le fessure della porta, e vedo mio padre e mia madre: lei piange, per me, perché mi crede sperduto nel mondo a patire la fame, oppure a fare il male; ma io batto con le nocche delle dita alla porta e dico: mamma, invece sono qui, sempre con te. Poi fuggo. Lei crede di sognare, tuttavia si consola.

— Sei ben cattivo, però! Ti maltrattavano, i tuoi genitori?

— La mamma no: la mamma mi trattava come fossi ancora un neonato: ogni soffio d’aria la faceva tremare per me. Il babbo qualche volta mi bastonava perché non volevo studiare.

— E Luca nostro che invece fa il contrario, — ella esclamò sospirando; poi si mise a ridere lasciando vedere tutta la grotta rosea e scintillante della sua bocca. — Ed io che credo alle tue panzane, e ti rispondo sul serio. Va, racconterò tutto al nonno.

— A lui, sì, ho detto le panzane, — egli dichiarò, ridendo anche lui e balzando in piedi. — E te ne vai così, — aggiunse, seguendo Francesca fuori della capanna, — senza neppure guardare la tua roba? C’è una pecora malata: anche il muflone, dopo che è via tuo nonno, è sempre triste. Eccolo, è là, sotto un albero.

Francesca aveva già dato un’occhiata alle pecore assopite all’ombra delle quercie. Anche le altre bestie, i cani, i cinghialetti, il riccio piccolo come una castagna nel suo involucro spinoso, il gatto e le belle cornacchie con la coda aperta a ventaglio, sonnecchiavano qua e là negli angoli dove c’era un po’ di frescura. Solo la pecora malata stava al sole, nello spiazzo davanti alle mandrie, e si aggirava stanca, smarrita, col muso a terra, come non trovasse un posto dove accucciarsi.

— Io direi di ammazzarla, intanto che la sua carne è ancora buona e si può darla ai poveri; se invece muore bisognerà buttarla via, — disse Francesca mentre Luca le toglieva di mano la bisaccia per rimetterla sul cavallo.

— Non muore, non muore, — assicurò lui. — La farò guarire io. Ecco, — disse poi, introducendo nella bisaccia un recipiente di metallo ben chiuso con un tappo di sughero; — questo è il latte munto oggi: portalo a casa, chè può servire per i malati. E questo è il piccolo cacio che ho fatto col latte dei giorni scorsi. La raccolta, adesso, è scarsa.

Francesca lo sapeva: e ricordava che gli altri anni, di quei tempi, i servi si bevevano il poco latte che le pecore davano. Luca, dunque, era un modello di servo: era quasi uno di famiglia: ecco perché il nonno, nel suo vaneggiare, s’intratteneva sempre con lui e solo con lui, come non conoscesse altri al mondo.

Invece di compiacersene, ella provò un senso di dispetto: avrebbe preferito Luca interessato e ladro come gli altri servi: perché? Ella non se ne rendeva conto ancora, ma già era gelosa di lui, dell’affetto che egli destava nel nonno, non per quest’affetto in sé stesso, ma per il pericolo che Luca finisse davvero per diventare il padrone lui in casa Melis.

— E tu cosa mangi, babbeo? — gli domandò, arrampicandosi sul cavallo al modo dei maschi, per dar prova, davanti a lui, della sua forza e della sua agilità. — Ah, già, tu tendi il laccio ai gatti selvatici e te li mangi per lepri. Eppoi vai giù ad Oppia, a cenare coi diavoli.

— Più diavola di te non c’è altri al mondo, — egli gridò, mentre lei batteva il tacco sul ventre del cavallo e partiva di trotto.

Ella si volse e lo guardò dall’alto, come lui poco prima, con gli occhi duri, neri e bianchi nel viso scuro minaccioso.



Appena rientrata a casa cominciò a parlar male del servo.

— A momenti mi bastonava, quell’asino insolente. Avete ragione voi, mamma; le parti sono invertite; i servi oramai sono loro i padroni. Quello, poi, è anche pazzo; ma pazzo maligno.

La madre però non le dava ragione.

— Sei tu, cuoricino mio, che attacchi lite con tutti: e trovi il fatto tuo. — Questo è il compenso per la corsa che ho fatto: trattarmi male, anche.

— Se l’hai fatta, la corsa, è perché ne avevi piacere, testa pazza, — disse Luca che si trovava insolitamente in casa: e Francesca ricominciò a questionare con lui, trattandolo però con disprezzo.

— E vattene, tu! Va per le strade a suonare la chitarra. Con la scusa che studi, vivi alle spalle dei vecchi e delle donne, delle teste pazze anche, sì! Va, è molto superiore a te Luca Doneddu, che ha buttato i libri ai cani e fa il pastore, per adesso, ma poi diventerà il padrone in casa nostra.

Senza perdere la solita sua calma, Luca si contentò di rispondere:

— È possibile anche, se tu lo sposi.

Allora Francesca si mise a strillare, poi si buttò per terra e pianse di rabbia per i maltrattamenti che, secondo lei, le venivano fatti in famiglia: tutto questo però non le impediva di sentire Luca e la madre discutere se al nonno, che aspettava ansioso e già doveva aver sentito il passo del cavallo di ritorno, si doveva dire o no che era stata lei ad andare all’ovile; e già stabilivano di fingere ch’era stato Luca, quando ella si alzò di scatto, corse su dal vecchio e gli disse la verità.


E fu come se d’un tratto ella avesse rotto una catena che, avvincendola, la rendeva proterva e ribelle. Dopo quel giorno fu libera di fare il piacer suo: andava e veniva a cavallo come un maschio; e cominciò a trattare gli affari di famiglia, usando, se occorreva, la prepotenza e il sopruso.

Questo modo di vivere le giovava anche fisicamente: ella cresceva di statura e diventava bella, di una bellezza d’amazzone, con qualche cosa di violento negli occhi e nella bocca infocata, e un segno di volontà nel mento ch’ella sporgeva anche perché il suo collo perfetto sembrasse più lungo.

La gente però la sfuggiva, senza dimostrarlo: ed i giovani, pure desiderandola, pensavano che non l’avrebbero sposata volentieri. Ricordavano anzi una sua antenata che, si diceva, aveva fatto ammazzare e sfregiare un uomo perché da lui abbandonata.

Francesca non si curava di loro; non pensava all’amore; pensava piuttosto al denaro e voleva aumentare il patrimonio paterno.

Si procurò il porto d’armi, e quando si recava all’ovile, con una vecchia rivoltella di famiglia tirava abilissimi colpi contro immaginarî assalitori, ai quali poi gridava:

— E adesso fatevi divorare le viscere dai corvi.

Il nonno, ritornato all’ovile, aspettava con gioia le sue visite, pur fingendo di disapprovarle. Ogni volta era una piccola festa, poiché Francesca spandeva nel luogo deserto un calore di vita, un soffio di poesia famigliare: preparava lei il pasto per i due uomini, portava loro dal paese le vesti pulite e li costringeva a cambiarsi; e se questionava con Luca, non mancava però di fargli, a nome della madre, piccoli regali di sigari o d’altro.

Il nonno sorvegliava i due giovani: si accorgeva che se Francesca era altezzosa con Luca, trovava in lui pane per i suoi denti: poiché egli le rispondeva sullo stesso tono, ed entrambi non si nascondevano la rivalità e l’astio reciproci.

Meglio così. Il vecchio apprezzava Luca e se lo teneva buono per la sua solerzia e la sua utilità; ma non amava i romanzi in famiglia.

Ed ecco invece d’un tratto qualche cosa di straordinario gli accade, a proposito del giovine servo.

Era venuto in paese per la festa di Tutti i Santi, e se ne tornava tranquillo a casa dopo aver ascoltato la messa, quando l’appuntato dei carabinieri gli si avvicinò con molto rispetto e gli disse che il brigadiere desiderava parlargli.

— Dove?

— In caserma.

La caserma era lì davanti, bianca e placida come un convento, e gli stendeva fino ai piedi la scalinata della porta, offrendogli di salire.

Egli salì, scuotendo la testa da un lato come il suo cavallo quando non gli garbava di passare in un luogo: che voleva da lui, il brigadiere? Egli non aveva che rapporti di amicizia, col brigadiere, ma di solito era questi che lo andava a cercare a casa per far visita a lui ed alla sua cantina: mai lo aveva mandato a chiamare.

La sua coscienza era tranquilla, non solo, ma anche sdegnata per l’insolito invito; eppure un’ombra gli oscurava la mente. Pensava a Francesca, ed a qualche sua non impossibile violenza: di altro non temeva, poiché il nipote Luca, già ripartito per la città, era troppo egoista e distratto per commettere del male; le altre donne stavano in casa come i quadri attaccati ai muri, e i due cugini Pirastru, che erano in paese in licenza, li aveva veduti poco prima tranquilli ad ascoltare la messa.

Perché non pensò a Luca Doneddu?

Perché noi siamo sempre lontani, sebbene rasentandola, dalla verità, come l’ombra dalla luce: ed ecco il brigadiere, seduto in posa ieratica davanti alla sua tavola ingombra di carte bianche e colorate, con le sopracciglia fitte ed irte come baffi. La prima cosa che domanda all’amico Ulpiano è il nome del suo servo; poi lo prega di raccontare minutamente come e perché ha preso il giovine al suo servizio: infine gli fa vedere una fotografia e gli domanda se riconosce Luca Doneddu. — Altro che lo riconosco; è lui in carne ed ossa. Ma perché? Di che si tratta?

Il brigadiere tarda a rispondere: è sempre più accigliato e pare che non abbia mai visto né conosciuto Ulpiano Melis e tanto meno la sua cantina.

— Ma si può sapere che ha fatto questo ragazzo? È bravo, onesto, serio: rubato non può avere.

— Ebbene, — dice infine il brigadiere, lasciando cadere dall’alto le sue parole, in modo che il vecchio se ne sente colpito come sia lui il colpevole; — il giovane si chiama Luca Murru: è figlio unico del Sindaco di Posada ed è scappato di casa, naturalmente portandosi via un centinaio di scudi.

— Gesù Signore nostro, — gemette Ulpiano, facendosi il segno della croce; poi si mise a ridere che sembrava impazzito: ricordava tutte le frottole raccontate da Luca ed alle quali, pur diffidando, egli aveva finito col credere.

Subito però si rabbuiò in viso: no, un ragazzo per bene, sano di mente, che aveva studiato, non poteva ingannare in quel modo il prossimo. Doveva trattarsi di un equivoco, o che a Luca, come affermava Francesca, mancasse un pernio dal cervello.

— Sono a disposizione della giustizia, — disse il vecchio prendendo anche lui un’aria da magistrato: — che cosa occorre fare?

— Occorre anzitutto non far sospettare al giovine che è stato scoperto: intanto si avverte subito adesso il padre perché venga a prenderlo.

— Io lo schizzerei subito in prigione: altro che avvertire i genitori. Non ha forse rubato? — gridò zio Ulpiano, infiammandosi di sdegno a misura che ricordava i particolari dei racconti di Luca. — Ah, gli era morto il padre, la madre, il fratello, il bestiame. Tutti morti. E che sospiri, e che faccia tosta da furfante. E lei dice di avvertire che vengano a prenderlo come un bambino smarrito?

Il brigadiere non si scomponeva: sullo scrittoio aveva ben altri drammi da distrigare.


Al vecchio però la cosa appariva terribilmente seria: e se ne fece subito un caso di coscienza.

Non disse nulla in famiglia; ma per tutto il giorno fu veduto aggrottare le sopracciglia, battersi le mani sulle ginocchia e scuotere la testa come avesse un insetto dentro un’orecchia: pensava e ripensava alle panzane del bravo commediante Luca, alla beffa del suo compare di Arbius quando avrebbe saputo la cosa, alla soddisfazione di Francesca che intuiva la verità, ed anche alla noia di trovarsi un altro servo, difficile da trovarsi, non solo bravo e fidato come il giovine mascalzone, ma semplicemente servo. Questa preoccupazione accresceva la sua stizza, se già non ne era il principale movente; perché in fondo egli faceva colpa a Luca di essere Luca Murru e non Luca Doneddu.

Infine, fu una brutta festa per lui, sebbene nel pomeriggio la casa fosse rallegrata dalla visita dei due fidanzati. Erano due bei giovani, non grandi di statura, ma agili e forti come leopardi: bruni, con la sagoma dura del viso rischiarata dalla bocca sensuale e dagli occhi sfolgoranti, si rassomigliavano come fratelli, anche nel modo di parlare ed in quello di mandar giù uno dopo l’altro i bicchieri di vino della valle senza mostrarne danno se non con qualche esagerazione dei loro ricordi di guerra.

Uno di essi, Salvatore, si vantava di aver salvato da morte sicura il suo colonnello ed una intera compagnia di soldati; l’altro, Pietro Paolo, diceva di essere rimasto tre giorni svenuto sotto un mucchio di cadaveri; al quarto giorno s’era alzato vivo e salvo come Cristo dal sepolcro.

Le fidanzate, la madre, Gonaria e lo stesso infermo pendevano dalle loro labbra: Francesca un po’ rabbrividiva un po’ sghignazzava. Il vecchio scuoteva la testa: no, oramai egli non credeva più ai racconti dei giovani.

Verso il tramonto si decise a ripartire, già abbastanza calmo ed abituato all’idea che Luca era quello che era: e quando fu nella capanna, dove il giovine accendeva il fuoco perché le notti erano già umide e fredde, lo guardò, osservandolo bene, con occhi diversi del solito, e non sapendo spiegarsene il perché, invece di sdegnarsi, nel vederlo così tranquillo, fermo, falso, s’intenerì. Era una testa di uomo forte, quella di Luca, un testone di bronzo che quello che voleva voleva: e si poteva sperare più in bene che in male, da lui.

«Questa porca vita è ben curiosa, però», pensava il vecchio. «Noi vorremmo il nostro Luca al posto di questo, e il Sindaco di Posada vorrebbe il contrario. Non si potrebbe cambiare? Se almeno avesse una figlia, quel maccabeo.»

E per la prima volta gli passò in mente il vago progetto di un matrimonio tra Luca e Francesca: avevano quasi la stessa età, è vero, ma anche lui quando si era sposato contava appena due primavere più della sposa.

Speranze e progetti, pur se intraveduti col senso della realtà che li spoglia del loro aspetto d’illusione, di che altro può vivere anche il cuore dei vecchi? E Ulpiano Melis si abbandonò ai suoi sogni, nella sera melanconica, mentre fuori della capanna tiepida i fantasmi e i diavoli dell’antica città ridotta a cimitero danzavano con le foglie morte sospinti gli uni e le altre dal vento che pareva anch’esso uno spirito senza corpo eppure tormentato da opposte passioni: ma già tendeva l’orecchio sembrandogli di sentir arrivare, fra un trotto violento di cavalli, il padre di Luca Murru col fucile ad armacollo ed una frusta in mano.


Aspetta un giorno, aspetta due, il padre di Luca non arrivò. Era un uomo, come il vecchio seppe più tardi, che teneva molto alla sua dignità ed al suo grado; forse perché da semplice rivenditore di buoi diventato ricco proprietario e Sindaco, come tale voleva dare un esempio al paese ed una lezione al figlio: onde la sera del terzo giorno, mentre Luca ed il padrone, dopo aver già raccolto le pecore nelle mandrie, si erano ritirati nella capanna, ecco arrivare il brigadiere in persona, con le sue terribili sopracciglia; ed un carabiniere di scorta, duri entrambi come fatti di legno di sovero.

Luca non s’illuse un attimo: tuttavia non si turbò: solo si spiegò la ragione per cui il giorno avanti il padrone aveva a tutti i costi voluto pagargli quel mezzo anno di servizio, con la scusa che al paese si usava così. Appena vide i carabinieri gli rivolse quindi un rapido sguardo di rimprovero e quasi di disprezzo; e zio Ulpiano ne intese bene il significato. «Se vi ho tradito io, anche voi che siete vecchio e volete passare per uomo saggio, anche voi mi avete tradito.»

— Il padre non viene? — domandò con fierezza il vecchio al brigadiere, dopo che Luca fu interrogato e invitato a partire subito col carabiniere.

— Non viene, — rispose l’altro, gelido.

— Ma lo fate dunque viaggiare a piedi? — ribattè il vecchio, sinceramente sdegnato.

— È forse venuto in carrozza?

— Fratello caro, — disse allora zio Ulpiano, alzandosi quanto era alto davanti al brigadiere e come misurandosi con lui; — io non permetto che il giovine vada via così, come un ladro o come un malfattore. Se ha commesso una cattiva azione abbandonando la sua casa e la sua famiglia, ha rimediato con tutti questi mesi di lavoro e di vita onesta. Oh, un poco di giustizia, al mondo, va bene; ma non esageriamo. Domani faccio venire qui uno dei cugini Pirastru e vado io stesso ad accompagnare il ragazzo a casa sua.

Il brigadiere ascoltava in attenti, come davanti ad un suo superiore; ma quando il vecchio finì di parlare si rivolse di nuovo a Luca:

— È meglio che tu ti prepari subito ad andare: così arriverete che è ancora buio e nessuno si accorgerà del tuo ritorno.

— È vero, — rispose Luca, e staccò dal piuolo lo zaino che conteneva la sua roba.

Il vecchio tornò a sedersi, rigido e di nuovo impassibile: dentro però si sentiva triste, umiliato, e quando Luca si piegò un poco davanti a lui per domandargli scusa di quanto era accaduto, lo congedò con appena un cenno della mano.

Poi, rimasto solo, gli sembrò di aver sognato.


Ma fin dal giorno dopo cominciò a sentire il danno dell’assenza di Luca, non tanto per le fatiche dell’ovile quanto per l’uggia della solitudine.

La stagione era triste; lo stesso belare del gregge aveva un’intonazione disperata; ed egli d’un tratto si sentiva più vecchio di quello che era, indolenzito e stanco.

S’era raccomandato ai cugini Pirastru perché gli cercassero d’urgenza un altro servo, ma nonostante la loro promessa di procurargliene uno e di mandarlo all’ovile, per quanto aspettasse non vedeva arrivare nessuno.

La terza notte dopo la partenza di Luca, accadde poi una cosa strana: attraverso una lieve nebbia che pareva salire dalla terra come un fumo biancastro, egli vide un fuoco brillare laggiù fra le rovine di Oppia; e la mattina dopo, sebbene durante la notte tutto fosse rimasto quieto ed i cani non avessero abbaiato, si accorse che dallo stabbio mancava una pecora.

Viandanti poco scrupolosi, o ladri di professione, avevano bivaccato laggiù fra le rovine, banchettando a spese sue. Ma perché i cani tacevano? Egli non era mai stato superstizioso: non credeva quindi, come altri pastori, che con la forza di parole magiche si potesse impedire ai cani di abbaiare: non era superstizioso; eppure quel fuoco insolito e quella misteriosa sparizione della pecora, gli davano da pensare.

A volte il diavolo scherza con gli uomini, si diverte a far sparire qualche oggetto, fomenta sogni, allucinazioni, sospetti maligni. Egli adesso, per esempio, pensava si trattasse di una vendetta di Luca: Luca, di nuovo scappato di casa, come una volpe fatto il suo covo tra le rovine, avrebbe a poco a poco, sera per sera, distrutto il suo gregge. ricordava la volta che il giovine, camuffato da diavolo, gli aveva fatto paura per scherzo: adesso faceva sul serio: un ragazzo che ruba in casa ed abbandona la madre senza neppure dirle addio, è capace di tutto.

— Ma con me non scherzi, perdio, — urlò zio Ulpiano, facendo le fiche verso le rovine: e non sapeva se parlava a Luca o al diavolo.

Poi andò in esplorazione, laggiù: ma per quanto frugasse non trovò traccia né del fuoco né del banchetto.


Il giorno dopo arrivò finalmente il nuovo servo: il vecchio però si mise la mano sulla fronte come per guardare lontano, tanto il nuovo servo era poco visibile. Era un ragazzo di quindici anni, che ne dimostrava dodici; giallo, gobbino e tutto denti: eppure era quanto di meglio i cugini Pirastru avevano potuto procurargli, senza contare che pretendeva una paga superiore a quella di Luca.

«Pazienza», disse il vecchio a sé stesso; poi cominciò a raccontare al ragazzo le leggende delle rovine di Oppia, e accennò alla misteriosa scomparsa della pecora; ma si pentì subito, perché il servetto si fece più pallido e più gobbo, tutto tremante di paura. Disse:

— Io non ho paura dei ladri: ho veduto anche i banditi, che venivano nell’ovile dell’altro padrone; ma i diavoli li temo, sì. Se vengono qui scappo subito.

Durante la notte infatti non chiuse occhio: ad ogni piccolo rumore chiamava il vecchio e gli domandava spaurito:

— Saranno loro?

Qualche tempo dopo, durante una notte di pioggia e di vento, un’altra pecora fu portata via dalla mandria, senza che i cani abbaiassero: Ulpiano non dubitò più; a fare il colpo non poteva essere stato che Luca.

E un dolore cupo lo prese, non per il danno suo proprio, ma per il male, che il giovine faceva, mettendosi così in una via di perdizione verso la quale egli aveva contribuito a spingerlo.

«Pazienza e prudenza, Ulpiano Melis, pazienza», ripeteva a sé stesso.

Ad ogni buon fine andò di nuovo in esplorazione, questa volta con migliore risultato; sul terreno ancora molle di pioggia si vedeva l’impronta di un piede grande, calzato con scarpe inchiodate: l’orma di Luca.

Il vecchio si chinava a guardare quel segno, e provava un sentimento strano, d’inquietudine più che di sdegno; poiché aveva l’impressione che l’orma fosse ancora quella di uno degli antichi abitanti di Oppia, dediti al culto del male: e tutto intorno quelle pietre corrose circondate di cespugli e di erba autunnale gli sembravano gli avanzi di un cimitero ov’egli si aggirava in cerca di una tomba.

Alcuni scalini ancora ben conservati conducevano all’interno di un recinto che doveva essere stato un tempio: egli conosceva bene il luogo e tante volte, nei tramonti lunghi di primavera, mentre il gregge brucava il fieno roseo e il trifoglio selvatico che fiorivano intorno, egli aveva fantasticato ricostruendo quellemura e con esse tutto un passato grandioso.

La leggenda diceva che la città di Oppia, già grande sotto i Romani, era poi stata sede di vescovi cristiani, ricca di basiliche, di palazzi abitati da baroni e da gente nobile e fastosa: ed ecco ancora una volta egli calpestava l’erba del luogo ove tanta potenza e tante passioni erano sepolte; ma le sue fantasie e le sue considerazioni filosofiche mai lo avevano turbato come la scoperta che, gira e rigira, fece finalmente in un angolo fra gli avanzi di due muri: un po’ di cenere ed alcuni tizzi spenti, ancora umidi della pioggia della notte, nereggiavano in un breve spazio battuto ad uso di focolare, e parevano anch’essi residui di una vita antica come le rovine.

Per quanto si chinasse a frugare e cercare intorno, null’altro rinvenne; solo, nell’andarsene, fra pietre e frammenti di mattoni, vide un anello di ferro infisso in una lastra di granito. Allora ricordò anche la leggenda dell’orco: l’orco sta nella sua casa sotterranea, lasciando emergere a fior di terra l’anello d’oro attaccato al suo orecchio: passa la fanciulla e si piega con sorpresa e con gioia a raccattare il prezioso gioiello: il mostro balza fuori e la trascina nella sua fatale dimora.

L’anello che zio Ulpiano toccò dapprima con timidezza diffidente, poi tirò su con forza per provare se la lastra si sollevava e sotto ci fosse qualche apertura, era troppo grosso, scrostato e arrugginito, per essere l’anello dell’orco; tuttavia la pietra tentennò, ma per quanti sforzi il vecchio facesse non riuscì a sollevarla.

Egli tornò alla capanna, col proposito di ridiscendere con un badile che lo aiutasse nell’opera; poiché aveva l’impressione che sotto la lastra si aprisse l’entrata di un nascondiglio, e che Luca fosse là dentro; poi decise di aspettare e vigilare.

Otto notti di seguito vigilò, con un senso di rabbia e di attesa, non scevro di paura; ma paura dell’ignoto, del sovrannaturale. Da mezzo secolo che era proprietario del luogo e vi abitava quasi tutto l’anno, mai gli era capitata una vicenda simile. Tutti lo rispettavano e rispettavano la sua roba, perché era un uomo onesto, e di solito vengono derubatii pastori che hanno anch’essi l’abitudine di considerare come loro la roba altrui: e se qualche rara volta una pecora o un agnello mancava, veniva preso all’aperto, mai dallo stabbio.

Egli dunque si considerava personalmente offeso dal fatto insolito; ed era deciso a tutto pur di vendicarsi.

Le notti però passavano in una vana vigilanza: notti, meno male, chiare e tiepide, dell’estate di San Martino. Il cielo era sparso di nuvole simili a roccie calcaree, e la luna pareva si divertisse tutta sola a nascondersi, a riapparire, ad arrampicarsi e ridiscendere lentamente in mezzo a loro: e sui prati umidi un continuo alternarsi di ombre e di luccichii azzurrognoli accompagnava il suo gioco.

Mentre il servetto dormiva felice che il padrone s’incaricasse della vigilanza notturna, il vecchio si stendeva davanti all’apertura della capanna, e nel socchiudere ogni tanto gli occhi si sentiva anche lui preso da quell’avvicendarsi di ombre e di luci; odio e senso di sogno, speranza che il ladro si avanzi, desiderio che la notte passi tranquilla.

Nulla di nuovo, infatti, accadeva: un giorno però, verso gli ultimi di novembre, nel ritornare dal paese vide il servetto corrergli incontro spaventato.

«Me la deve aver fatta di pieno giorno, quell’animale», pensò. «Che è successo?»

Il servetto gli correva incontro; ma solo quando furono vicini parlò, sottovoce, ansando.

— È venuto uno, a cercarvi, tutto nero, coi capelli irti. Girava intorno gli occhi in modo terribile; e quando ha sentito che non c’eravate non ha aperto più bocca, ma è penetrato nella mandria, ha guardato le pecore, ha guardato tutte le altre bestie, ha fatto dei cenni misteriosi ai cani, e i cani non hanno fiatato.

— Era lui, — disse il vecchio con voce strana.

— Era lui, sì, — confermò il ragazzo.

— Come lo sai? Te lo ha detto lui?

— Non ha mai parlato; ma si vedeva bene ch’era lui. E se n’è andato via silenzioso. Io tremo ancora. No, padrone mio, non mi lasciate più solo; altrimenti me ne torno a casa mia.

— Scimunito, ma perché? Che cosa può farti, quello lì? Il servetto si dirizzò tanto sulla schiena che non parve più gobbo.

— Che cosa può farmi? Ma non lo sapete dunque chi è?

E poiché il padrone lo guardava un po’ sdegnoso un po’ incuriosito, aggiunse riabbassando la voce:

— È il diavolo in persona.

Ulpiano rise; poi domandò in quale direzione il misterioso personaggio era sparito.

— E dove volete che sia andato? Verso le rovine: là è sparito come una nebbia.

Non c’era più dubbio: Luca, scappato una seconda volta di casa, si aggirava in quei dintorni, e voleva ritornare all’ovile. Il vecchio ricominciò ad aspettarlo, ma con un sentimento quasi paterno, come un suo figliuolo prodigo.


Ed ecco due sere dopo Luca ricomparve. Zio Ulpiano quasi non lo riconosceva, tanto era mutato: pareva un uomo anziano, con gli occhi spauriti, due solchi di sofferenza intorno alla bocca, e tutto l’aspetto stanco, disorientato.

Appena fu nella capanna si lasciò cadere sulla stuoia, e solo domandò dov’era il servetto.

— L’ho mandato in paese. E tu, buona lana, — disse il vecchio, sforzandosi a parer calmo ed ironico; — che sei venuto a frugare da queste parti?

Luca pareva non ascoltasse, tutto ripiegato sui suoi pensieri dolorosi: quando però si fu assicurato che nessuno, tranne il vecchio, poteva ascoltarlo, tirò fuori dalla tasca interna della giacca un pugno di biglietti da dieci lire, e parlando sottovoce cominciò a contarli e a metterli in ordine uno sull’altro.

— Le pecore le ho rubate io, e voglio subito pagarvele: ecco qui. Adesso valgono, lo so; però non importa: ecco qui, prendete.

Il vecchio guardava i biglietti, ma non li prendeva. Solo disse:

— Gesù Signore nostro! Che hai fatto, disgraziato? Sei lì che sembri un cencio.

— Un cencio sono, sì. Prendete.

— Prenderò poi, se mi garba: dimmi intanto che cosa hai fatto. — Nulla, ho fatto. Mio padre voleva mandarmi in una casa di correzione, grande e grosso come sono: e se mi acchiappa mi ci manda di sicuro: ma io romperò tutto, compresa la testa del direttore della casa. Allora ho fatto domanda per entrare volontario di guerra; ma neppure questo mi è concesso. Quindi sono fuggito di nuovo. Che volete che facessi? Mia madre lo sa, e sa che sono qui. Ho trovato un nascondiglio fra le rovine. Veramente lo conoscevo fin da quando ero qui, e forse io solo ne so l’entrata. Le vostre pecore me le sono mangiate là, con molto gusto: ma se devo dirvi il vero, ve le ho prese più per farvi dispetto che per altro: per dimostrarvi, inoltre, che io solo sapevo custodire la vostra roba. Adesso fate pure quello che volete.

— Se vuoi rimanere rimani: non sarò certamente io a farti la spia.

— Resto, sì, se voi siete contento: però mandate via quel gobbetto.

E il vecchio promise di mandarlo via.


Francesca era contenta che Luca se ne fosse andato.

Quando, la domenica seguente, il nonno, tornato in paese, disse di averlo ripreso al suo servizio, ella spalancò gli occhi, si mise davanti al vecchio con una mano sul fianco, l’altra che si agitava minacciosa, e lo guardò come un suo dipendente che avesse fatto qualche grossa mancanza.

— Siete davvero rimbambito, a fare di queste cose che non sono da par vostro. È come tener mano a un furfante, a un bandito. No, — disse alzando la voce; — quello scappato non deve stare in casa nostra, lui che non sa stare neppure in casa sua. E come ha rubato in casa sua ruberà in casa nostra, o finirà col credersi padrone lui. Rimandatelo subito, o io scrivo al padre per avvertirlo che egli si trova qui. Inteso avete?

Era la prima volta ch’ella parlava al nonno in quel modo e con quell’accento; ed egli la lasciava dire guardandola dall’alto in basso; ma finito ch’ella ebbe di parlare, si rivolse alla figlia.

— Anna Maria, — disse con calma; — se non ti ho dato la parte che ti spetta da tua madre è perché ritenevo di essere sempre il capo di famiglia, come s’ella fosse viva e in mezzo a noi: e per me è sempre viva, sì: ma né lei né io, a quanto vedo, contiamo più in casa. Adesso, dunque, provvederemo.

Erano parole terribili, queste, mai pronunziate dalla sua bocca prudente; con esse egli significava che si sarebbe separato dalla figlia e dalle nipoti, assegnando alla prima solo la parte dei beni materni. Ella dunque sollevò il lembo del grembiale e si mise a piangere, mentre la stessa Francesca si sentiva vacillare il cuore.

— Lasciatela dire, padre, lasciatela dire, — singhiozzava la donna. — È una prepotente; è toccata al cervello.

— Ah, no, figlia mia! Quando si arriva a questo punto vuol dire che anche il cuore è guasto; e c’è medicina per tutte le malattie, fuori che per la cattiveria.

Francesca, che si era messa a scopare con furia, quasi per sfogare la sua stizza col pavimento, tentò di continuare: le pareva di poter vincere anche col nonno, o di fargli almeno capire che egli era un uomo debole.

— È che quel furfante, quel vagabondo, vi deve aver fatto qualche malìa.

Il vecchio si alzò, e ripartì senza più pronunziare una parola.



Ma pareva davvero che Luca lo avesse stregato; pensava a lui con tenerezza, quasi con gioia, e diceva a sé stesso:

— Il Signore me lo ha mandato come l’angelo a Tobia, come un compenso alle mie fatiche; ed io dovrei scacciarlo senza ragione? per contentare quella testa matta di mia nipote? Gesù Signore nostro! No, finché Luca vuol rimanere rimanga; se anche lui sarà un ingrato vuol dire che meriterò la sua ingratitudine. Per adesso tiriamo avanti così.

Intanto Francesca e la madre questionavano: e nel pomeriggio, quando giunsero i fidanzati, ai quali fra giorni scadeva la licenza, fu un lungo discutere.

Il nonno se n’era andato senza salutarli, senza neppure ricordarsi che dovevano ripartire, che potevano non tornare.

La madre diceva:

— Io non credo che egli possa tenere la sua minaccia; non è uomo da fare sciocchezze: ma il solo fatto che abbia pronunziato quelle parole, lui così prudente e affezionato, mi fa ancora venir da piangere.

— Piangerete e cesserete di piangere, — sogghignò Francesca: — ma vedrete che egli finirà col lasciare la sua roba a quel vagabondo.

— Accidenti alla roba, — gridò l’infermo dal suo letto; — tu non pensi che alla roba, mentre è ben altro, quello che conta, nel mondo.

— Ah già, — ella pensò, frenandosi a stento dal rispondergli con male parole, — contano i divertimenti e gli stravizi. Per ciò sei ridotto così, vecchio peccatore.

I due fidanzati prendevano la cosa in burla; anzitutto perché il loro carattere era questo, di ridersi e beffarsi anche delle cose più tragiche, eppoi perché non volevano rattristare le fidanzate già abbastanza inquiete per la loro prossima partenza. Uno di loro disse:

— Francesca, piccola strega, ascoltami. Domani andremo all’ovile, prenderemo il ragazzo, lo legheremo, lo butteremo nel fiume: e così, fra qualche tempo, se egli si salverà e tornerà dal nonno, tu ci maledirai.

— E perché?

— Perché fra qualche tempo tu sarai certamente fidanzata con lui.

— Io ti maledico fin da adesso, allora, — ella gridò; e fece le fiche, ma sotto il grembiale, perché ancora aveva un po’ di rispetto per i due fidanzati. — E se non l’affogate voi lo affogo io, — aggiunse sul serio.

Il martedì seguente il nonno tornò per salutare i due cugini: non si parlò più di Luca, in casa, ma come un’ombra lieve si sovrapponeva all’ombra grave che la partenza dei giovani lasciava. Le ragazze avevano gli occhi rossi, la madre piangeva; Francesca, accigliata, si morsicava le labbra per ricordare a sé stessa che doveva tacere.

E un silenzio quasi sinistro, come fosse morto qualcuno della famiglia, regnò nella casa.



Cominciava il freddo; le finestre erano chiuse, il fuoco ardeva giorno e notte nel focolare: le fidanzate cucivano e ricamavano il loro corredo, in attesa del ritorno dalla guerra dei loro cari: cucivano e ricamavano, con la paura che il lavoro fosse vano, ma con la speranza che anche questa paura fosse vana: e qualche lagrima cadeva come rugiada sui fiorellini e le foglie del loro trapunto.

Francesca invece continuava nelle sue rudi faccende: il freddo l’eccitava, le scaldava maggiormente il sangue: era lei la prima ad alzarsi; rattizzava il fuoco spaccava la legna, dava da mangiare alle bestie e spazzava il cortile; poi attingeva l’acqua dal pozzo, e se c’era da fare il pane accendeva il forno e vuotava e impastava in un vasto recipiente di legno la farina lievitata.

La domenica andava alla prima messa, per aver poi il tempo di accudire alle faccende di casa, mentre le sorelle, pur non cessando di pensare ai fidanzati, passavano la mattina a pettinarsi e vestirsi a festa per andare alla messa solenne.

Era poi felice quando cadeva la neve; con una pala l’ammucchiava nel cortile, contro la nicchia del pozzo, elevando una specie di monumento che il gelo marmorizzava e faceva durare tutto l’inverno. Ella ne staccava e mangiava una crosta tutte le volte che usciva nel cortile, o ne formava grosse palle che si divertiva a gettare contro le sorelle, il cavallo, il cane, le povere galline infreddolite. Se non poteva più lanciava i freddi proiettili contro il muro, o ne buttava qualcuno dentro il pozzo, piegandosi a guardare l’agitazione dell’acqua così misteriosamente disturbata.

Una domenica mattina, di ritorno dalla messa, vide Luca seduto davanti al fuoco e la madre che gli serviva premurosamente da mangiare.

Egli la salutò con un cenno del capo. Il nonno, certo, non poteva avergli parlato dell’ostilità di lei; eppure il suo sguardo era diffidente, come se egli sapesse; o il vecchio era davvero così rimbambito da essersi pienamente confidato con lui?

Non sapeva perché, Francesca sentiva di odiare quell’intruso: il solo vederlo le dava un tremito di stizza. Ed ecco che la madre invece lo serviva con premura, come fosse lei la serva e lui il padrone; non solo, ma lo guardava con affetto, quasi con amore. Neppure i fidanzati delle figlie ella usava guardare così.

Francesca andò a spogliarsi e s’indugiò nella sua camera per calmarsi: perché veramente sentiva un ribollimento misterioso, come quello dell’acqua del pozzo quando lei per solo spirito di malvagità la violentava con le sue palle di neve; una voglia pazza di insultare Luca, di appostarsi nel cortile, quando egli partiva, e appunto coi proiettili di neve colpirlo al viso e accecarlo.

Si dava però conto di questo suo furore insensato, e sopratutto ricordava le minaccie del nonno: si frenava, quindi, ma il dover tacere e fingere accresceva il suo sdegno.

Quando ridiscese nella cucina vide che Luca mangiava ancora: aveva buon appetito, il valentuomo, ed anche per questo le riusciva più odioso: lo stesso modo con cui egli mangiava e beveva le dava noia. Per non pronunziare le male parole che le riempivano la bocca di veleno, uscì nel cortile e si mise ad attingere acqua dal pozzo; ma tendeva l’orecchio a quanto Luca diceva.

— Adesso mi cambio di vesti e poi vado a fare una commissione per zio Ulpiano.

— Ah, tu lo chiami zio Ulpiano come siate davvero parenti. Te la darò io la parentela, — brontolò Francesca, sbattendo il secchio per terra: poi vide che egli usciva di cucina, e lo seguì con uno sguardo demoniaco, fra la cui torbida ostilità brillava la gioia di un’idea improvvisa.

Ecco che egli saliva nelle camere di sopra, come uno di casa, portandosi appresso il suo sacco: attraversò la veranda, spinse l’uscio in fondo, ch’era quello di una camera dove si riponevano gli oggetti inutili ed i panni sporchi, e vi si chiuse dentro per cambiarsi.

Francesca domandò alla madre:

— Che commissione deve fare per il nonno?

— Io non lo so: non lo disse.

— Dovrebbe dirlo, però. Che significano questi segreti, queste commissioni misteriose? Il nonno dovrebbe incaricare noi, dei suoi affari.

— Non ricominciare, Francesca, — supplicò la madre. — Sarà forse il tabacco, che dovrà comprargli: o che adesso il babbo non è più padrone neppure della sua pipa?

— Basta, basta! Adesso siete voi che proteggete quel bandito. Ma speriamo lo veda il brigadiere...

La madre, sdegnata a sua volta, rispose che anche se il brigadiere vedeva e riconosceva Luca non ne faceva nulla, perché il padre stesso del giovane sapeva come andavano le cose e ne era contento come se il figlio si trovasse in un monastero.

Francesca fu per urlare; ma si morsicò le labbra, poiché Luca ricomparve sulla veranda. Si era cambiato e sembrava un signore, adesso, coi capelli ravviati e le scarpe nuove. Le donne gli sorrisero con affetto, mentre Francesca, esasperata, correva di nuovo nelle camere di sopra. Andò anzitutto a verificare se l’uscio di comunicazione fra la stanza dove Luca si era indugiato e le camere attigue fosse aperto: era aperto, sì, come tutti gli altri usci interni, ed ella stette un momento appoggiata allo stipite, pensierosa, col capo chino come a guardare fisso qualche cosa ai suoi piedi: non vedeva nulla, però, tranne un suo cupo pensiero; e sentiva dentro un gorgoglìo sinistro, come di un’acqua minacciosa che sale, sale, inesorabile.

In punta di piedi, quasi per non farsi sentire neppure da lei stessa, fece il giro delle camere: l’una comunicava con l’altra, e tutte davano sulla veranda: quella del nonno, imbevuta del suo odore di selvatico, era ancora come quando viveva la nonna, col suo specchietto dalla cornice d’argento, il rosario di madreperla, il cero, l’ulivo e il crocefisso appesi accanto al letto; con le vesti di lei ripiegate entro la cassa che pareva un sarcofago istoriato; e il cassettone pieno di biancheria, di ceri, di reliquie.

Francesca tentò di aprirne il cassetto di sopra, dove il nonno, che ne teneva sempre con sé la chiave, riponeva i denari: ma non le riuscì.

Allora appoggiò i gomiti al ripiano di legno, e il mento alle mani intrecciate: e stette lì, come affacciata ad un abisso che l’attirava con le sue ombre fatali.



La sera stessa, dopo che Luca era già partito da qualche ora, arrivò un ospite; un proprietario dei paesi verso la costa, da lunghi anni amico della famiglia Melis.

Veniva per affari di bestiame, e gli dispiacque di non trovare in paese il suo vecchio compare Ulpiano, proponendosi però di deviare alquanto dalla sua strada, al ritorno, per passare nell’ovile a salutarlo.

Le donne gli fecero grande festa; gli prepararono il letto nella camera degli ospiti; la madre ammazzò una gallina e fece la minestra e poi anche la pasta asciutta, come quando c’era Luca in vacanza.

Pure l’infermo, che di giorno in giorno deperiva e cadeva in un lento sopore di agonia, s’era rianimato: fu lui, anzi, a fare all’ospite una domanda che Francesca voleva e non osava rivolgergli.

— Ditemi una cosa, zio Teodoro: nel venire qui, siete passato per Posada?

— Passato ci sono: perché?

— Non avete sentito dire nulla, a proposito di un figlio del Sindaco, che è scappato di casa?

— Sentito l’ho, e non da oggi, perché a Posada ci vado spesso per affari. Il ragazzo è scappato per andare alla guerra.

— Bella guerra, ch’egli possa morire squartato, — sogghignò Francesca: — egli invece s’è messo a fare il servo in un ovile qui dei dintorni.

— Allora è un maccabèo, in verità. Poiché è un ragazzo ricco, nato per essere padrone, e non servo.

— Voi lo conoscete?

— L’ho veduto una volta, due anni fa: rassomigliava alla madre, che è alta e mora, mentre il padre è piccolino e irsuto come me. Piccolino ma prepotente, oh! Bisogna però aggiungere che nella famiglia ci sono altri stravaganti: uno zio della madre s’è chiuso in casa e da venti anni non è più uscito: un fratello del padre, un prete ricco sfondato, alla sera sta sempre sul campanile della chiesa a studiare le stelle ed i pianeti.

— Anche il ragazzo deve essere toccato al cervello, — disse Francesca come fra di sé. Ricordava le cose che un giorno Luca le aveva dato ad intendere e che tuttavia corrispondevano in qualche modo alla verità.

— Certo, i ragazzi ragionevoli non scappano di casa, sia pure per andare alla guerra. Anch’io ho un figlio, soldato volontario: prima però mi ha chiesto il permesso, e dopo ha mandato sempre sue notizie: è già tre anni che combatte, ed ha due medaglie belle come due lune.

La madre, allora, per paura che Francesca andasse troppo in là con le sue chiacchiere, cercò il modo di deviare il discorso; d’altronde l’ospite, una volta cominciato a parlare del figlio e delle sue gesta, non si ricordò più d’altro: e Francesca non insistè nelle sue domande, ma neppure ascoltava i discorsi degli altri, seduta nell’angolo più scuro della cucina e insolitamente inoperosa e preoccupata. Pensava:

— La famiglia di Luca dice che il figlio è volontario di guerra per scusarlo e salvarsi dalla vergogna della fuga di lui: ma se questo uomo va al nostro ovile lo riconoscerà certamente, e non si terrà la lingua in bocca: il bandito quindi sarà costretto a tornarsene a casa sua».

Ed ogni volta che si trovava a parlare col vecchio zio Teodoro insisteva, insinuante e bugiarda:

— Andate a vedere il nonno, andate: egli ne avrà grande consolazione: anche l’ultima volta che tornò a casa parlava di voi, dicendo che spesso vi vede in sogno. Andateci, zio Teodoro; farete piacere a tutti.

L’ospite quindi, un po’ perché ne aveva il desiderio, un po’ suggestionato da lei, ripartì col proposito di passare nell’ovile: ella attese allora con ansia il ritorno del nonno; poiché il nonno, se zio Teodoro riconosceva Luca, si sarebbe vergognato di tenere oltre il giovine presso di sé.

Ma se le cose non andavano secondo questo suo desiderio? Ella si faceva più scura e triste della sorella Gonaria, quando pensava così. Una preoccupazione grave la fermava per ore ed ore nell’angolo buio della cucina, dov’ella cercava di nascondersi, con qualche cosa di selvatico negli occhi e nelle mani adunche.

— Che, ci hai l’amante disperso in guerra? — le domandavano le sorelle.

Ella balzava imprecando, e andava a nascondersi in qualche altro posto.

Quando il sabato sera il nonno tornò, non avrebbe neppure fatto cenno della visita dell’amico, se l’infermo stesso, che insolitamente s’interessava alla storia di Luca, non l’avesse interrogato in proposito.

Un po’ accigliato il vecchio rispose:

— Sì, compare Teodoro è venuto, ma non s’è impicciato di Luca.

— Avrà finto di non riconoscerlo per non aver seccature, — brontolò Francesca.

— Il fatto non è questo, — disse l’infermo con voce strana; — è che realmente io credo si tratti di scambio di persona. Il figlio del Sindaco di Posada è davvero andato volontario alla guerra: e qualcuno che conosce il fatto finge di essere lui.

— E perché poi?

— Forse anche per sorprendere la vostra buona fede.

— Gesù Signore nostro! — esclamò il vecchio con ironia; — nessuno mi ha mai turlupinato, in vita mia: e adesso che sono vecchio dovrei farmi burlare da un ragazzo.

Francesca fremeva e non poté più frenarsi:

— Intanto la prima volta vi ha burlato.

— Insomma, — disse allora il nonno, con la calma terribile dei suoi momenti di collera, — sempre che torno a casa è la stessa canzone: se avessi preso al servizio un assassino non mi avreste tartassato peggio.

Pensò che aveva fatto bene a non raccontare in casa l’affare delle pecore rubate da Luca; e poiché l’infermo insisteva nel ripetere che forse si trattava non di Luca Murru ma di qualche individuo misterioso, finì col tacere sdegnosamente: anche perché non voleva contraddire l’infelice, vicino alla sua fine.

Francesca, seduta presso la tavola addossata alla parete, guardava con occhi vividi di curiosità il cognato, aspettando che egli precisasse meglio i suoi sospetti: poiché anche lei provava una strana impressione; le pareva di odiare solamente il vero Luca, il figlio del Sindaco di Posada; se invece si fosse trattato di un altro, anche più mascalzone e pericoloso del vero Luca, il suo odio sarebbe caduto. Desiderava quindi che così fosse, per liberarsi dall’ossessione maligna che suo malgrado la possedeva come un demonio: e aspettava che il nonno se ne andasse, per interrogare meglio il cognato; ma quando il vecchio finì di fumare la sua pipa e lasciò il suo posto, l’infermo si era assopito: la moglie, scalza nonostante il freddo, per non far rumore, si aggirava intorno al letto come una farfalla notturna; e poiché il dottore aveva detto che la morte poteva venire da un momento all’altro per sorprendere il malato anche nel sonno, Francesca si ritirò senza parlare.

Nella notte sognò che andavano tutti all’ovile, per la tosatura delle pecore. Era di primavera ed i campi sfolgoravano di rugiada: lei e le sorelle sedevano su un carro tirato da buoi, che il cognato guidava. Si doveva essere allegri. Nel sogno Francesca ricordava che il cognato era moribondo: come dunque poteva guidare il carro? pensava:

— Forse egli si è alzato ed è venuto con noi perché io possa domandargli di Luca.

Ma anche nel sogno non osava; pensando a Luca provava un senso di profonda angoscia, e le pareva che all’ovile, invece della solita festa, li aspettasse qualche cosa di triste, un pericolo misterioso, sovrannaturale, come la minaccia di un cataclisma.

Tutto per colpa di Luca, che egli sia maledetto, che la giustizia lo incateni, ch’egli vada alla forca e i suoi resti siano dispersi dai venti.

Dopo essersi bene sfogata in maledizioni, ella si fece coraggio e domandò al cognato se credeva davvero che si trattasse di una sostituzione di persona.

L’uomo fermò il carro; sollevò il pungolo: e questo pungolo era una croce.

— Si tratta del diavolo stesso in persona, — disse sottovoce volgendo intorno gli occhi che avevano il colore del verderame. — Voi sapete, donne, che il diavolo distrusse la città di Oppia, e per largo giro intorno, fino al nostro ovile, e più in là ancora, il terreno è maledetto. Nelle rovine di Oppia esistono ancora certe buche donde si può comunicare con l’inferno. Di là escono i demoni, per le loro scorribande sulla terra. Per lungo tempo, quando era vivo mio nonno, un diavolo abitò le rovine, fingendosi eremita, e attirava laggiù i viandanti per buttarli vivi nell’inferno in pasto a Lucifero. Troppo a lungo Lucifero ha permesso che la nostra roba prosperasse nel suo dominio: adesso ha mandato un diavolo in forma di Luca, per seminare zizzania nella nostra famiglia.

Francesca si svegliò tutta in sudore, e nascose la testa sotto il guanciale, singhiozzando. Le pareva di essere ferita al cuore e tutta sanguinante: adesso si spiegava ogni cosa: l’odio per Luca, l’istinto del male che la sola presenza di lui sviluppava sinistramente in lei; e sopratutto quella paura di perdizione e quasi di morte che ella sentiva da qualche tempo oscurarle la giovinezza. Si domandò piangendo:

— Ma perché tutto questo succede a me sola: perché? Gli altri di casa gli vogliono bene e sono come affascinati da lui».

Non tutti: il cognato, no, non lo amava: ma il cognato era vicino a morire, vicino dunque alla verità; e per questo egli sapeva il segreto terribile che le aveva rivelato nel sogno. Bisognava interrogarlo davvero, sentire dalla sua bocca viva la conferma del mistero.

— Appena mi alzo, domani mattina, lo interrogherò.»

Non aveva finito di precisare questo pensiero che un grido lamentoso risonò giù al pianterreno della casa, salì, penetrò in tutte le camere, svegliò le cose più addormentate: le donne risposero come l’eco, con altri gridi eguali; gli usci si sbatterono.

Francesca, spaventata ancora dal sogno, si precipitò giù scalza, coi capelli sciolti: e giù nella camera terrena ancora piena dell’odore della pipa del nonno, vide Gonaria buttata attraverso il letto, in modo che il suo corpo e quello del marito morto formavano una croce.

*

Quell’inverno, dunque, fu ancora più grigio e chiuso degli altri, per la casa di Ulpiano Melis. A giorni pareva una casa completamente disabitata; d’un tratto però si sentiva la voce maschia di Francesca che litigava con la madre, o parlava forte col cavallo e con le galline: il silenzio si animava, i ragazzi addossati al portone, sul quale batteva il sole, si scostavano intimoriti, mentre invece l’uomo d’Oliena, che portava sul suo cavallo grigio dal lungo pelo l’otre di vino, violaceo come una favolosa prugna, si faceva animo per picchiare e offrire la sua merce.

Un giorno, tre mesi dopo la morte del cognato, il portone si aprì, e ne uscì Francesca, vestita a lutto, col viso quasi completamente nascosto dai lembi del fazzoletto nero: in mano teneva ostentatamente in mostra il rosario rosso con una reliquia raggiante come una piccola sfera: pareva volesse far sapere a tutti che andava a messa. Arrivata vicino alla chiesa rallentò il passo, e giunto il momento in cui nessuno poteva vederla entrò in uno dei due cortili della parrocchia. Era il cortile, diremo così, di servizio, vasto, quadrato, circondato d’alberi nudi che pareva avessero ciascuno il suo specchio perché ai piedi di ogni tronco stagnava una pozzanghera d’acqua piovana che rifletteva l’albero stesso e le nuvole vaganti sul pallido e agitato cielo di marzo.

Il vero cortile d’ingresso della parrocchia era dal lato opposto, e questo serviva solo al tempo della festa del paese, per legarvi i cavalli degli ospiti: sembrava quindi disabitato; ma al suono dei passi di Francesca una porticina in fondo si aprì e vi si affacciò una piccola vecchia curva su un bastone: con gli occhietti quasi bianchi eppure vivacissimi guardò la visitatrice, e non riconoscendola parve mal disposta a lasciarla entrare.

Anche Francesca non l’aveva mai veduta: la conosceva però per fama, e la salutò con rispettosa famigliarità.

— Zia Margherita, come state? Io sono la nipote di Ulpiano Melis.

Allora la vecchia la fece entrare, non solo, ma subito mise la caffettiera sul fuoco: bisognava onorare la nipote di un uomo come Ulpiano Melis.

Francesca la guardava con curiosità non priva di un certo rispettoso timore; poiché la vecchia, già serva del parroco precedente, che per testamento aveva imposto al successore di tenerla vita natural durante nella parrocchia, godeva fama di fattucchiera: i maligni, anzi, dicevano che il parroco attuale si serviva di lei per certe sue fatture.

— Zia Margherita — disse Francesca, senza perdersi in vane chiacchiere, — ho bisogno di voi. Dicono tutti che siete una santa, e tutti ricorrono a voi nel bisogno. Anche mia sorella Gonaria è venuta da voi per la malattia del marito, e mia cugina Violante per il figlio disperso in guerra. Voi sapete tutto: ed io ho bisogno di sapere da voi una cosa che mi tormenta giorno e notte. C’è nella mia famiglia una persona... ebbene, voglio dirvi tutto, un servo, un ragazzo di buona famiglia che dice di essere scappato di casa sua per i maltrattamenti del padre. Ebbene, questo giovine pare abbia stregato mio nonno, Ulpiano Melis, che gli vuol bene come a nessun altro di noi, e lo tiene come figlio. Guai a chi glielo tocca. Noi abbiamo paura che gli lasci i suoi beni. Capirete quindi come io nutra odio contro di lui.

La vecchia ascoltava, curva sul suo bastone verso il quale tendeva l’orecchio quasi fosse quello e non Francesca a parlare; ma i suoi occhietti albi, dorati dal riflesso del fuoco, fissavano la ragazza senza mai chiudersi. Domandò:

— E gli altri di casa tua?

— Come, gli altri di casa mia? Se lo odiano? No, questo è l’accidente: egli si fa voler bene da tutti. C’è mia sorella Gonaria che dopo la morte del marito si è come innamorata di lui: lo incarica dei suoi affari; e a momenti, quando egli torna dall’ovile, se lo mette in grembo come un bambino. Per tutte queste cose io lo odio; ma non è questo solo; adesso vi dirò tutto. Non so bene neppure io perché gli voglio tanto male, e faccio di tutto per liberarmi da questa ossessione; mi sono anche confessata, ma il vostro parroco s’è quasi burlato di me: mi disse: «Quanti anni hai? Quindici in sedici? Ebbene, alla tua età il sangue fa scherzi, e son tutte fantasie tue che passeranno. Prega e digiuna». Ed io prego e digiuno, ma la tentazione non mi passa. Perché infine, è una tentazione del demonio, ne sono certa. La notte che morì mio cognato sognai che lui appunto mi rivelava la verità; mi diceva che quel servo è il diavolo in persona, venuto in casa nostra per seminare zizzania.

Nel pronunziare queste parole ella rabbrividì: anche la vecchia si sollevò e parve colpita dalla stranezza e dalla gravita della cosa. Col viso angosciosamente proteso verso di lei, Francesca riprese:

— Il nonno dei cugini Pirastru, miei futuri cognati, usa dire che persino Dio si stanca della gente che non fa peccato. Ebbene, zia Margherita, la nostra era una famiglia tranquilla, che non faceva male a nessuno, sempre in pace e d’accordo. Ed ecco che adesso tutto è finito: Dio si è stancato di farci del bene, ci ha mandato il diavolo in casa, ed io ho il presentimento che qualche cosa di triste, d’irrimediabile, accadrà, se non riesco a mandarlo via.

— Bambina, — disse la vecchia, — perché non parli così a nonno tuo? È uomo saggio, Ulpiano Melis.

— Ma se, vi ripeto, sembra stregato? Solo a nominargli quel ragazzo monta su tutte le furie. Se gli parlassi come parlo adesso a voi mi accopperebbe. Zia Margherita? — supplicò poi, nel vedere che la vecchia tardava a rispondere. — Sono venuta da voi con più speranza che dal confessore. Voi mi aiuterete.

— In che senso? È tempo di finirla, con questa storia di credermi una strega.

Francesca le si inginocchiò davanti, facendosi il segno della croce con la sua vistosa reliquia.

— Una strega, voi? Sono venuta da voi come da una santa, invece; perché avete l’età, il senno e l’esperienza; e il Signore vi dà il dono di vedere nei segreti della sorte.

— Va bene, va bene, — disse l’altra, porgendole il manico ricurvo del bastone, come per aiutarla burlevolmente a sollevarsi: — ma, dimmi la verità, tu sei venuta qui con la speranza di ottenere qualche fattucchieria che faccia magari andar quel disgraziato all’altro mondo?

Francesca arrossì: la verità era questa. Tuttavia si sollevò con fierezza e mentì.

— Morire, no: tocca solo a Dio far morire i cristiani; ma allontanare per sempre il giovine, sì.

— Ma non dovrà andare a fare il soldato?

— Chi lo sa? La guerra può finire prima, e lui intanto si farà fare il testamento dal nonno.

— Non credo Ulpiano Melis così idiota; — disse la vecchia, sempre ironica; ma invece di scoraggiarsi, Francesca riprese con più insistenza:

— Ad ogni modo bisogna che il giovine se ne vada. Io non ne posso più. La notte mi sveglio spaventata perché mi sembra di sentirlo soffiare nella mia camera e prendersi beffa di me e di noi tutti. No, zia Margherita, non è dei beni del nonno che m’importa: ne faccia lui quello che vuole; è dell’anima mia che m’importa, perché ho paura di commettere qualche malanno. Sono venuta da voi come dal dottore, — riprese, dopo un momento di ansia, con una voce cupa e sorda che impressionò la vecchia; — lo so, è una malattia, la mia, e voi dovete darmi una medicina che mi guarisca.

Presa su questo tono, la vecchia si intenerì: continuava però ad osservare Francesca con occhi freddi, scrutatori, e trovava invero qualche cosa di strano, di malato, in quel viso pallido stravolto e negli occhi che rifulgevano come fossero di perla.

— Forse hai bisogno che il parroco ti legga gli Evangeli. Il demonio è dentro di te, non fuori di te.

— Non potreste leggermeli voi?

— Io non so leggere, colomba mia: ma, aspetta, ti darò una medaglia buona contro le tentazioni: poi ti dirò come devi fare per salvarti.

Si alzò, e prima di cercare la medaglia mise due tazze su un vassoio e versò il caffè. A Francesca non piaceva molto il caffè; l’accettò per buona creanza, mentre la vecchia sorbiva con voluttà il suo e, forse per effetto della bevanda, diventava più espansiva. Senza smettere il suo accento di sarcasmo, traendo fuori di tasca e palpandole una per una un grappolo di medagliette nere, disse:

— Vedi, colomba, qui sta tutta la mia stregoneria. Io ho avuto queste reliquie dal mio beato padrone morto, che non poteva pagarmi in moneta, tante elemosine faceva. Queste medaglie guariscono tutti i mali: a chi ha fede, però, intendiamoci. Ciascuna di esse è appartenuta ad un santo, o alla madre di un santo. Questa, la vedi? — ma questa non la concedo a nessuno, — è la medaglia del primo rosario inventato, e apparteneva a Maria Maddalena: preserva dalla morte improvvisa e conserva la vista. E, grazie a Dio, vedi, — disse, passandosi la medaglietta sugli occhi; — io ho quasi novanta anni, e ci vedo come ne avessi quindici. Per te ho questa: è la medaglia di San Francesco, contro le tentazioni. San Francesco amava tutte le creature, anche gli uccelli rapaci e gl’insetti velenosi: persino il diavolo, amava. Egli diceva che a furia di voler bene ad una cosa, questa, anche se è cattiva, diventa buona. Il diavolo stesso è soggetto a mutamenti e, con l’aiuto di Dio, può fare anche del bene. Tu terrai al collo la medaglia per sette mesi: dopo me la restituirai: recita un paternostro ogni mattina, allo svegliarti, ed un’avemaria alla notte, prima di addormentarti; medita però ogni parola e pronunziala con fede. E quando vedi il giovane, procura di star zitta e di ascoltare quello che dice lui, e nella tua mente scongiura Dio che il male si muti in bene. Vedrai che il giovane o va via di casa tua o diventa talmente buono che tu finirai col volergli bene.

Francesca ascoltava, dapprima con interesse, poi sempre più annoiata; e finì col guardare sdegnosamente la vecchia: no, ella non voleva la medaglia; non intendeva di convertire Luca, ma di cacciarlo via di casa.

Solo questa speranza la convinse finalmente a prendere la medaglia, alla cui efficacia, in fondo, non credeva.

La vecchia tolse dal grappolo la reliquia, l’infilò in un cordoncino di seta verde che prese dal suo paniere di lavoro, e riprese con voce convinta:

— In ottobre, quando tornerà il fresco, me la restituirai, colomba mia. L’anno scorso la diedi ad una ragazza, promessa sposa per forza dai parenti, che odiava il fidanzato fino al punto di pensare di ucciderlo. Ebbene, dopo due mesi che tenne al collo la medaglia venne a dirmi che s’era innamorata dell’uomo: adesso s’è sposata ed è felice.

Pensierosa, Francesca mise la medaglia e il cordoncino dentro il suo portamonete; poi domandò:

— Voi credete che egli possa andarsene davvero? Io non ho nessuna intenzione d’innamorarmi di lui.

— Egli se ne andrà, se tu gli farai intendere con le buone che questo è il tuo desiderio.

— Sì, tante volte mi è venuta l’idea di pregarlo di andarsene: non ho osato, però. È mezzo matto, quello, o finge di esserlo, e non capisce niente. Eppoi, — ella proseguì, ricadendo nella sua idea fissa; — se egli è quello che io temo che sia, non c’è bisogno di parlargli: quello capisce tutto e fa il comodo suo.

— Metti subito la medaglia al collo, — consigliò la vecchia; — tu ne hai di bisogno.

— Appena sarò a casa la metterò, — promise Francesca, alzandosi per andarsene; — io vi ringrazio molto, zia Margherita: verrò ancora a trovarvi e vi porterò qualche cosa. Ditemi che cosa vi piace. — Io non ho bisogno di nulla, colomba mia. Solo, quando sarò morta dirai in che consistevano le mie stregonerie.

— Voi siete furba», pensò Francesca, nell’andarsene furtiva. — Le stregonerie le sapete fare; ma, dicono, prima vi fate molto pregare. Io non so che farmene, della vostra medaglia: datele ai bambini, le medagliette: troverò ben io, con l’aiuto di Lucifero, qualche altro rimedio.

E lasciò la reliquia dentro il suo portamonete: poiché le piaceva il suo odio e non voleva guarirne.



Da un anno Luca stava al servizio di zio Ulpiano e non parlava di andarsene: tanto meno il vecchio pensava di mandarlo via; solo un giorno, gli disse:

— Luca, tu dici che tua madre sa dove mandarti l’avviso per il servizio militare, quando sarai chiamato. Ma ne sei proprio sicuro? Non vorrei che ti dichiarassero disertore.

— C’è tempo ancora; non vi preoccupate. Se mia madre non manda l’avviso, so io dove e quando presentarmi. Ma lei si ricorderà di me, al momento, non dubitate: ella viene almeno due volte ogni settimana a trovarmi. In sogno, — aggiunse subito, con un lieve sorriso fra beffa e compiacenza, poiché vedeva il vecchio spalancare gli occhi: — sì, in sogno. Allora ella mi racconta tutto, di casa mia, ed io le racconto tutto di me. L’ho sognata anche ieri notte: mi portava le focacce di Pasqua, ma era molto triste. Disse: — Ho un dispiacere, che ti racconterò l’altra volta perché spero che passi. — Ho paura che sia malata: era molto pallida.

Il vecchio provava quasi dolore a sentirlo parlare così: è vero che spesso Luca gli sembrava alquanto idiota, e da qualche tempo a questa parte la sua intelligenza si velava sempre di più, come quella di uno che ha male al cervello. Anche la sua persona si faceva lunga, quasi allampanata, e il viso già ombreggiato di peluria, aveva un’espressione di stupore e di sogno. Lavorava, mangiava e dormiva come prima; ma nelle ore di riposo se ne stava immobile a fissare il vuoto davanti a sé; e quando lo si chiamava si scuoteva come svegliandosi da un grave sopore. Forse era la primavera, forse la crescenza: certo, egli non era più quello di prima, neppure nel dire bugie.

Zio Ulpiano provava dispiacere a vederlo così: gli sembrava che in fondo alla sua anima Luca nascondesse un mistero, o che meditasse qualche cosa di straordinario e stravagante. O si trattava di una passione segreta? E per chi? Per una delle sue nipoti, forse? Non gli sarebbe dispiaciuto che Luca e Francesca si amassero; ma troppo in tutti i modi si manifestava l’astio della fanciulla, e troppo il giovine la ripagava con la stessa moneta.

— Tu credi ai sogni? Alla tua età io non sognavo neppure, tanto il sonno era profondo. Va’! Se hai bisogno di veder tua madre puoi andare a trovarla. Credere ai sogni è peccato mortale.

— Eppure mia madre deve avere qualche dispiacere, — insistè Luca, con una voce bassa e profonda che impressionava il vecchio per il suo stesso tono cos’è, oggi? Martedì: ebbene, venerdì ella tornerà e mi dirà tutto.

Era un martedì, appunto: Luca era stato il sabato avanti in paese. Il giovedì dopo quel discorso del sogno, vi si recò zio Ulpiano. Quando fu di ritorno all’ovile, era così pallido e sinistro in viso che il giovine lo credette indisposto, o che in famiglia fosse accaduta qualche disgrazia: non essendo però sua abitudine interrogarlo, poiché il vecchio non parlava, continuò nelle sue faccende senza preoccuparsi oltre.

L’altro, intanto, entrato nella capanna, ne aveva chiuso la porta, cosa che raramente faceva: uno sdegno chiuso e un dolore iracondo gli gonfiavano il cuore; i suoi occhi di tanto in tanto rilucevano per la tempesta interiore; ed il suo sdegno crebbe quando, staccato dal piuolo, dove stava sempre appeso lo zaino di Luca, e frugandovi dentro vide che era quasi vuoto, non solo, ma che non conteneva neppure i denari che pochi giorni prima il giovine aveva ricevuto per il compenso del suo servizio.

Allora ricordò che Luca conosceva un nascondiglio impenetrabile fra le rovine, e che era troppo astuto ed abituato alla finzione per non nascondere bene le sue cose.

Riaprì la porticina e sedette fuori della capanna, sul sedile di pietra che conosceva le sue ore di sosta serena dopo le fatiche della giornata: intorno, le cose erano tranquille, e felici; il sole cadeva sull’orizzonte limpido, l’aria quieta odorava di erba, di latte, di stabbio; odore che piaceva al vecchio perché gli sembrava di fecondità. Le pecore e le capre pascolavano verso le rovine, illuminate, le une e le altre, sullo sfondo verdognolo della china, dal chiarore già lievemente roseo del cielo. Un caprone però, staccatosi dal branco come in cerca d’indipendenza, si aggirava intorno alla capanna: grande, alto, con gli occhi selvaggi ed una lunga barba grigia, pareva un vecchio satiro infastidito e in cerca di avventure. Diede infatti una cornata al pacifico cane che tentava di opporsi alla sua scorribanda, poi si avvicinò al vecchio e parve a sua volta osservarne l’insolito aspetto. Ma il vecchio teneva la testa china, e non vedeva, non sentiva che la sua passione interiore; un ribollimento buio, come di mare in burrasca, un sapore di male. Lasciò che Luca andasse a ritirare il gregge, e che si accorgesse della sua preoccupazione: e quando il giovine, a sua volta inquieto, gli domandò:

— Zio Ulpiano, che avete? — sollevò la testa e lo guardò fisso negli occhi.

Luca ebbe l’impressione come di essere preso di mira da un nemico che volesse ferirlo: subito gli venne in mente la madre, il sogno fatto, e sentì l’alito della disgrazia sfiorarlo. Lo sguardo e il silenzio del vecchio gli divennero insopportabili. Gridò, esasperato:

— Che c’è? Perché mi guardate così?

Come se altri potessero ascoltare, zio Ulpiano rispose sottovoce:

— Tu lo sai, il perché.

— Io? Io non so niente. Ditemelo voi che cosa è accaduto. Mi cercano ancora?

— Nessuno ti cerca e nessuno ti cercherà: ma ti cercherai da te stesso, in fondo alla tua coscienza, e Dio voglia che tu possa una buona volta ritrovarti.

Parlava sempre sottovoce, il vecchio, come rivolgendosi ad una persona che gli stesse molto vicina, e che neppure lo stesso Luca potesse ascoltarlo; tanto che questi, appressatosi ancora di più, piegandosi disse con voce supplichevole: — Ditemi di che si tratta, zio Ulpiano mio; ditemi tutto, per carità.

Pareva che egli credesse di aver fatto davvero qualche cosa senza accorgersene, che ignorasse tutto il male dell’azione compiuta, e chiedesse di esserne reso cosciente. Lo sguardo del vecchio allora mutò: si fece quasi pietoso, ma di una pietà nemica.

— Tu non capisci ancora quello che fai: se tu avessi un po’ di coscienza non lo faresti. Disgraziati i tuoi genitori che non hanno saputo educarti; disgraziata tua madre che non ha saputo tenerti presso di sé col suo amore, e ti ha lasciato scappare come una volpe dal covo. E disgraziato pure io che ho creduto far bene tenendoti presso di me: mi figuravo di raddrizzare una pianta storta, stupido che sono. L’uomo che vuol perdersi è peggio di una bestia selvatica: non si riduce mai.

— Ma che ho fatto, perdio? — gridò Luca sollevandosi. E parve più alto, col viso illuminato da una luce di dolore e di sdegno.

Il vecchio era preparato a tutto, poiché troppo bene conosceva gl’infingimenti di lui: tuttavia non osava dirgli chiaramente la verità. Con voce più pacata, senza mai cessare di fissarlo negli occhi, riprese:

— Ascoltami: dimmi che cosa hai fatto tutti questi giorni, da sabato in qua.

— Che cosa ho fatto? Chi se ne ricorda?

— Già, hai tante cose da fare! È vero però che sei come smemorato e dài retta ai sogni.

— Lasciate i miei sogni, zio Ulpiano! — Luca gridò, difendendo una parte della sua vita che apparteneva a lui solo. — Non vi riguardano.

— Mi riguardano, invece; e ti dirò poi come. Intanto dimmi che cosa hai fatto in questi giorni.

— E se non volessi dirvelo?

Il vecchio tornò a sogghignare; ma più che altro d’ironia verso sé stesso.

— Padrone! Era per una soddisfazione più tua che mia. Io il fatto mio lo so.

Allora Luca, un po’ smarrito, e già col presentimento di essere calunniato, rispose più docile.

— Ebbene, ho fatto né più né meno di quello che voi stesso mi avete veduto fare. — No, bello mio. Sabato, quando sei stato in paese, io non ero presso di te.

— Ah, sarebbe in paese, che avrei fatto qualche cosa? Ah, ah, adesso comincio a indovinare. Ebbene, sono stato in casa vostra a portare il latte e il cacio, e mi sono cambiato le vesti: ho messo quelle pulite e lasciato giù quelle sporche.

— Quelle sporche, sì, — gridò il vecchio, irritato dall’accento ironico di Luca.

— Le sporche, sì! Se altro è accaduto, non è cosa che mi riguarda. In casa vostra non sono solo io ad entrare.

Zio Ulpiano abbassò rapidamente gli occhi, per sollevarli più sdegnato ancora.

— Che intendi dire con questo?

— Nulla di più di quello che ho detto.

— Nessuno è entrato in casa mia sabato sera, all’infuori di te.

— Infine, — gridò Luca, che aveva incrociato le braccia sul petto, e stava fermo davanti al vecchio, come esponendosi tutto ai colpi di lui; — qualche cosa vi è mancata di casa, e volete dire che sono stato io. Questo volete dire, zio Ulpiano?

Zio Ulpiano tace: chi tace acconsente. — È giusto! È giusto che si dubiti di me. Io vi ho rubato per gioco due pecore, e questi giochi si scontano. Tutto si sconta, nella vita, è giusto. Io vi ho raccontato qualche fandonia, e tutto quello che vi dico deve essere fandonia. È giusto pure questo. Ed è anche giusto che avendo io riposto ogni fiducia in voi, come in un padre, mi si ripaghi così.

— Gesù Signore nostro, senti chi parla! Ed io, no, non avevo riposto ogni fiducia in te? Io che mi ero quasi inimicata la famiglia per te?

— Allora, — disse Luca con aria di trionfo, — se nella vostra famiglia ci sono nemici miei, non dovete credere a quello che essi vi hanno raccontato di me.

Il vecchio arrossì: in fondo alla sua coscienza un’eco rispondeva alle parole del giovine; ma egli respingeva questa voce come quella dello spirito maligno: e scambiò il misterioso orrore del dubbio con lo sdegno per l’insinuazione di Luca. Urlò, sollevando il bastone:

— In casa mia possono esserci nemici tuoi perché nemici del male.

Luca a sua volta arrossì, come se quella voce tonante lo schiaffeggiasse. Che cosa doveva rispondere? Troppo, da qualche tempo in qua, aveva coscienza della stranezza della sua situazione: e se non cercava di mutare la sua sorte, era per tristezza, quasi per un senso di espiazione, o meglio di disperazione. Gli sembrava di essere arrivato ad un bivio, con la forca di due strade davanti, egualmente per lui oscure e pericolose. Si piegò alquanto, chinò la testa e chiuse gli occhi come per guardare meglio dentro sé stesso. Nulla aveva da rimproverarsi a riguardo del vecchio e della sua famiglia: e se ne sarebbe andato immediatamente se la reticenza di zio Ulpiano a formulare l’accusa non l’avesse trattenuto; ed anche il pensiero che, con l’andarsene, avrebbe dato ragione ai sospetti gravanti su di lui.

Si sollevò di nuovo, calmo e duro.

— Voglio sapere assolutamente di che si tratta. Se ho fatto qualche volta del male l’ho fatto a me stesso: non sono però un malfattore né un ladro. Che cosa vi ho rubato, io? Ditemelo una buona volta: non mi fate andare il sangue alla testa, perché allora sono capace di tutto.

— Fa pure, fa pure: lo sappiamo, che sei capace di tutto. E adesso ti voglio far vedere una cosa: la riconosci?

Era una lettera gualcita, quella che il vecchio gli porgeva, e ancora prima di prenderla, — e non l’avrebbe presa se non ne avesse riconosciuto subito i caratteri, — si sentì battere il cuore.

— Una lettera di mia madre, — mormorò.

La prese e la lesse tre volte. Era in data dell’autunno precedente: la madre scriveva al vecchio dicendogli che sapeva Luca rifugiato nel suo ovile, e lo pregava di darle un appuntamento, o di andare lui a trovarla, se capitava a Posada, per parlare del giovane.

— Ci sono andato appositamente, — disse zio Ulpiano, mentre Luca continuava a palpare il foglio per assicurarsi della sua realtà: — sono andato, ed ho fatto in modo di vedere quella santa donna a insaputa di tuo padre. E lei mi ha supplicato di tenerti presso di me, fino alla tua chiamata per il servizio militare, di farti da padre. Io le ho promesso di farlo, ed ho tenuto la parola.

Più che commosso, Luca si sentiva irritato per quel passo inutile e umiliante della madre. — Mia madre è una santa, sì, ma non capisco perché ha fatto questo.

— Perché temeva che tu andassi a finir male.

— Lo dite voi. Mia madre mi conosce.

— Ti conosce, sì: e adesso ti conoscerà meglio.

— Perdio, basta! — gridò Luca guardandosi follemente intorno; e pareva cercasse qualche cosa per colpire il vecchio: poi buttò la lettera e la calpestò con rabbia.

Allora anche zio Ulpiano si alzò, minaccioso.

— Hai ragione di far così, Luca: sei abituato, a metterti sotto i piedi l’affetto dei genitori. Dico anch’io a te: basta! Mi dispiace per tua madre, ma io non voglio più vederti. Vattene.

— Non occorre dirmelo: se sono ancora qui è perché voglio sentire dalla vostra saggia bocca la calunnia che neppure osate proferire. Ditela, dunque, ditela.

— No. Tu lo sai meglio di me, quello che è avvenuto; solo ti ripeto di andartene.

— No, non vado, — urlò Luca, con gli occhi enormi fiammeggianti: e l’eco del luogo tranquillo ripeteva il grido. — E vi ripeto anch’io che siete un calunniatore.

Il vecchio si sentiva smarrire: gli pareva che gente in tumulto si avvicinasse, protestando l’innocenza di Luca: perdette allora la sua vecchia prudenza. Disse:

— Anche tua madre, dunque, ti ha calunniato, quando mi raccontò delle tue male azioni: il furto a tuo zio prete, prima della tua fuga...

Luca si fece pallido come un cadavere: e veramente la vita gli si era stroncata nel cuore. Ah, anche la madre, adesso, aiutava a lapidarlo. Sentì di non poter più parlare, più sollevare la testa: e quel senso misterioso di espiazione che da qualche tempo sbocciava nella sua coscienza, si sviluppò d’un tratto, lo invase tutto, ardente e terribile come una fiamma.

Dio gli mandava un grande dolore, per castigarlo del male commesso: egli aveva tradito i genitori, e credeva tuttavia di aver trovato una nuova famiglia, un nuovo padre: Dio lo puniva per mezzo di questi falsi parenti.

Ma il suo orgoglio non accettava il castigo. Gli parve di sentir Francesca sghignazzare e pensò di ucciderla: poi ricordò la madre e il sogno fatto.

— Mia madre ha paura ch’io vada in carcere; ma vedrai, mamma, vedrai che non ci andrò. Se lavoravo e mettevo a parte i denari era per restituire quelli dello zio prete, quel pazzo che minacciava appunto di farmi chiudere in prigione per correggermi. So correggermi da me.

Così pensando entrò nella capanna, staccò lo zaino, si accorse che il vecchio ci aveva frugato dentro; e questa umiliazione finì di esasperarlo mortalmente. Vide tutto nero. Lo stesso diniego di zio Ulpiano a precisare l’accusa, il che denotava la ferma convinzione dei sospetti che gravavano su di lui, rendeva più sinistra ed inesorabile la sua pena.

Si levò rapidamente una scarpa; staccò il fucile del vecchio e lo appoggiò al suolo; fissò la bocca della canna al petto, sul punto ove il cuore batteva forte come per chiedere di aprirgli il carcere dove tanto soffriva; e col pollice del piede nudo premette il grilletto.


Da tre giorni egli agonizzava nella capanna, e ancora Ulpiano Melis non aveva fatto parola a nessuno della disgrazia: curava da sé il ferito, con la ferma volontà di strapparlo alla morte; e le ore i giorni e le notti gli passavano in questa lotta inumana, in cui pareva che appunto la sua volontà, più che altro, impedisse all’anima del moribondo di andarsene dal corpo inerte.

Luca non si muoveva e neppure si lamentava: era tutto livido, ma di un lividore secco, freddo. Di continuo il vecchio scaldava i sacchi di lana che servivano da coperte e glieli stendeva sopra a vicenda: poi si piegava sulle calcagna e spiava sul viso di Luca i segni più lievi.

Ma quel viso era il viso stesso della morte; e della morte più triste: la disperazione, il disgusto, l’odio verso la vita e l’amore, il terribile senso del nulla ne avevano succhiato i lineamenti e la pelle; la bocca sola e le palpebre avevano dei movimenti impercettibili, ma locali; la barba cresceva, rendendo più tetro quell’aspetto di martire, come del resto cresce anche sul viso dei cadaveri nei primi giorni dopo la morte.

Eppure zio Ulpiano sperava di salvarlo; poiché la palla, attraversato il corpo, era andata a ficcarsi sul ramo più alto della capanna: il giovine poi era forte e vigoroso, e quando non si muore sul colpo, per le ferite d’arma da fuoco, c’è sempre qualche possibilità di guarigione.

Il vecchio sperava; ma la sua pupilla rifletteva gli occhi morti di Luca, e il suo viso si specchiava in quel viso fatale. L’angoscia nera e il terrore della colpa erano dentro di lui; e gli pareva di avere un ospite misterioso, inviatogli da Dio, ch’egli doveva nutrire col suo sangue, e, se occorreva, con la sua vita stessa.


Al terzo giorno venne la febbre; neppure di questo, zio Ulpiano si spaventò: anzi era un segno di vita preferibile al gelo mortale dei primi giorni: ed anche lui si sentì un po’ scaldare l’anima.

Luca però parve protestare contro il ritorno all’essere: cominciò a delirare e la sua prima parola fu:

— Francesca...

— Francesca, — ripetè un’eco nel cuore del vecchio: e l’angoscia gli scoppiò dentro come un ascesso maligno.

Francesca. Sì, era stata lei a simulare il furto dei denari dal cassettone del nonno, per calunniare e quindi far scacciare Luca. Egli non ne dubitava più; e per suo maggior dolore si accorgeva che, in fondo non essendo mai stato sicuro della colpevolezza del giovine, lo aveva accusato contro la sua stessa coscienza.

Perché? Perché? Egli credeva di risolvere il sinistro problema col pensare che è lo spirito del male a guidare l’uomo nelle sue azioni: ma sull’uomo, anche contro il suo volere, Dio vigila sempre; e Dio gli dava finalmente, con quel filo di vita che restava a Luca, la possibilità di salvarsi anche lui.

Piegato sul ferito, e invitandolo a confidarsi, o meglio sperando di farlo parlare d’istinto, a insaputa di sé stesso, gli domandò sottovoce:

— Che ti ha fatto Francesca?

Luca lo guardava con gli occhi vitrei, senza vederlo, senza sentirlo: e parlava di altre cose, di un sogno nel quale prendeva sempre parte la madre, di ladri che minacciavano il gregge, di un topo velenoso che gli mordeva il petto; poi scacciava con la voce le due cornacchie dell’ovile, che in realtà entravano spesso nella capanna, a curiosare, a cercare qualche pezzetto di formaggio: ogni tanto s’interrompeva come tentando invano di ricordare una cosa, forse quella, ma non pronunziò più il nome di Francesca.

Francesca arrivò il quarto giorno, inquieta perché il nonno non tornava, e ansiosa di sapere le vicende dell’ovile. Lontana dall’indovinare la triste verità, e poiché il vecchio taceva, credette Luca semplicemente malato: anzi fece una smorfia per significare che quella malattia era forse una finzione, e guardò il nonno negli occhi per interrogarlo silenziosamente.

Ed i suoi occhi, sì, fingevano ed erano coperti dal velo del male; non tanto però da non accorgersi che in quelli del vecchio ardeva un’ira cupa, e sotto quest’ira un dolore feroce.

Ed ebbe paura.

— Che cos’ha Luca? — domandò più col respiro che con la voce.

Il nonno taceva; ma era un silenzio più inquietante di ogni recriminazione, eppure ella si fece coraggio.

— Che è accaduto? La mamma e tutti in casa, siamo inquieti e vogliamo sapere qualche cosa.

Il nonno taceva. S’era piegato su Luca e pareva osservasse l’impressione che la presenza di Francesca gli destava: anche lei guardava, e nonostante il turbamento per il dubbio che la sua colpa fosse stata scoperta, anzi a causa di questo, sentiva di odiare il giovine peggio di prima. Era lui la mala radice di tutto; eccolo lì, abbattuto come un demonio vinto eppure sempre dannoso, forse più dannoso di prima; mentre lei aveva sperato di non trovarlo più nell’ovile, eccolo lì, che le impediva il passo, riempiva tutta la capanna e faceva piegare su di lui il nonno come un suo servo.

Ma di nuovo il suo turbamento mutò colore, si fece scuro e misterioso, quando nel riporre le provviste portate dal paese si accorse che quelle della settimana passata erano intatte; il vecchio, in tutti quei giorni, non aveva mangiato né bevuto.

Intimidita, supplicò:

— Nonno, babbo Melis, ma che cosa è accaduto, per carità?

Il nonno non rispondeva, e neppure la guardava più; ma sollevò il sacco, ed ella vide le macchie di sangue sugli stracci che fasciavano Luca.

Dapprima pensò fosse stato il vecchio a ferirlo; poi comprese tutta la verità: le parve che le ginocchia le si sciogliessero; si abbandonò su sé stessa e svenne.

E nel ritornare in sé, il suo più gran dolore fu l’accorgersi che il nonno non l’aveva aiutata, non l’aveva sollevata; forse anche lui credeva ch’ella fingesse. Cominciava anche per lei il castigo.

— Che fare? — si domandò, ancora piegata e come stroncata in ogni membro: ed ebbe desiderio d’inginocchiarsi e gridare la sua colpa; ma non le riuscì; è più facile commettere il male che confessarlo.

D’altronde, a che serviva? Il nonno sapeva già; Luca sapeva anche meglio del nonno; nulla più serviva a rimediare il disastro.

E pensò anche lei di morire, se Luca moriva.



Luca non moriva, ma neppure migliorava: al settimo giorno del suo male ancora non aveva ripreso conoscenza; solo si agitava e delirava, e il vecchio doveva spesso tenerlo fermo perché le bende non si sfasciassero. Francesca tornò una seconda volta, portando unguenti e panni; tornò una terza volta e s’avvide che il nonno non aveva toccato né unguenti né panni. Perché? per disprezzo di lei o dei medicamenti portati da lei? Il nonno non le rivolgeva la parola, e adesso ella aveva una profonda paura di lui: eppure gli si aggirava attorno, timida e triste come il muflone, e osava guardarlo in viso, spinta da un diabolico desiderio ch’egli la percuotesse, che in qualche modo la castigasse; ma sentiva che il peggior castigo era appunto il silenzio di lui; e l’impotenza sua a liberarsi della pena confessando la colpa. Perché il nonno non l’aiutava, sia pure col bastonarla? Le pareva che s’egli l’avesse bastonata bene, fino a sangue, l’avrebbe liberata della sua angoscia.

Tornò una quarta volta e vide Luca colorito in viso: la barba gli era cresciuta sulle guancie incavate, e pareva un altro, pareva un uomo.

Ella ne provò uno strano turbamento: pensò che s’egli guariva si sarebbe vendicato: e senza darsi ragione di quello che voleva, le venne in mente di attaccargli al collo la medaglia della fattucchiera.

Il nonno però vigilava, e non le permetteva di avvicinarsi al ferito: bisognava quindi aspettare, studiare il modo di farlo. Andò dietro la capanna, trasse la medaglietta: eccola sulla palma della sua mano sinistra: e scura, annerita dal sudore di altre passioni come la sua: la testa del santo, incisavi sopra, è primitiva; quasi selvaggia; e gli occhi grandi dalle palpebre grevi, la bocca carnosa, la lanugine sul viso simile a quella del viso di Luca, dànno l’impressione che l’amore di lui per le creature sia tutto amore terreno, ardore di carne, passione d’uomo.

Forse per questo la vecchia del parroco dava la medaglia alla gente che nutriva odio, perché l’odio si mutasse in amore.

Francesca pensava:

«Era meglio, sì, era meglio se m’innamoravo di lui: così questo disastro non succedeva. O meglio ancora se gli attaccavo al collo la medaglietta: se egli s’innamorava di me, forse lo convincevo ad andarsene. Sono in tempo ancora».

In fondo però le ripugnava l’idea che egli potesse davvero innamorarsi di lei: preferiva ancora l’odio di lui al suo amore. E sopratutto l’umiliava il pensiero che egli d’ora in avanti l’avrebbe guardata con disprezzo: era questa la vendetta che maggiormente temeva.


Il giorno dopo, per mezzo di un uomo passato per caso nell’ovile, il vecchio mandò a dire alla figlia che si recasse da lui.

— Perché non lo disse a me, ieri? — si domandò Francesca con rabbia e umiliazione; — oh, egli davvero mi disprezza e mi considera come fuori della famiglia.

— Luca si dev’essere aggravato, — mormorò la madre, e sospirò a lungo.

Le donne, in casa, vivevano sotto l’incubo di questo mistero: poiché, tranne Francesca, nessuna di loro sospettava la verità.

La madre sospirava. Ecco che adesso le toccava anche di muoversi; lei che non usciva mai di casa: le toccava di andare ad assistere da vicino al dramma che già tanto da lontano la turbava. Ma era una figlia obbediente e non ricordava di aver mai trasgredito agli ordini del padre: solo suo lamento e protesta, ma coloriti di rassegnazione, erano i sospiri. Sospirando preparò qualche cosa da portare a Luca; sospirando mise la sella al cavallo e si dispose a partire: e più intensi si fecero i sospiri quando Francesca, pregata da lei di accompagnarla, rispose sgarbatamente di no. Ah, non le rassomigliava, Francesca, neppure nel rispetto filiale: pazienza, la vita passa lo stesso.

D’un tratto però Francesca parve pentirsi: andò a mettersi un’altra sottana e si annodò forte il fazzoletto sotto il mento.

— Vengo, mamma. Volete montare in sella, o in groppa?

— In groppa, in groppa, — disse umilmente la madre.

Allora Francesca saltò a cavalcioni in sella; e stringendosi le sottane intorno alle gambe, infilò i piedi nelle staffe, tutti e due nello stesso tempo; la madre le sedette alle spalle, su un panno gettato sulla groppa del cavallo, e si afferrò con la mano destra alla vita di lei, mentre con la sinistra si tirava il fazzoletto sugli occhi, pregando Gonaria di guardare se nella strada si vedeva gente.

Non si vedeva nessuno, per fortuna, e madre e figlia partirono in silenzio, furtive, quasi andassero a compiere un’azione illecita.

Francesca sentiva il corpo esile della madre appoggiarsi alle sue forti spalle, e ne provava un senso di tenerezza, quasi di pietà: ma s’irritava contro sé stessa per questo inutile sentimento: e in cambio ficcava con crudeltà lo sprone sul fianco del cavallo. Il cavallo rabbrividiva e trottava svelto per sottrarsi al tormento: in breve furono quindi in piena campagna, fra i prati fioriti, poi attraverso i pascoli e le brughiere che davano l’impressione del mare.

La madre sospirava; ma c’era pur qualche cosa di dolce, adesso, in questi sospiri che l’aria profumata le coglieva di bocca come baci e trasportava lontano.

— Quante cose mi ricordo, — disse a un tratto, parlando più a sé stessa che alla figlia. — Ricordo quando si veniva col tuo povero padre a passare qualche giorno nell’ovile, ed egli, il mio Paskale, portava per me un guanciale dentro la bisaccia. Anche adesso abbiamo un piccolo guanciale, dentro la bisaccia, e sei stata tu, a pensarci, ma per quale triste uso. Purché quel disgraziato ragazzo non vi lasci l’ultimo respiro.

— Speriamo di no, — disse Francesca con voce grossa; e dopo un momento di silenzio e una spronata al cavallo, riprese: — Mamma, sentite; ieri sono stata dalla vecchia serva del parroco e le ho chiesto una medaglia per guarire le ferite d’arma da fuoco. Me ne ha offerto due: una di San Lorenzo e una di San Francesco: ho preso questa: la metterete voi al collo di Luca.

— Gliela metterò.

Quando arrivarono, la donna si spaventò nel vedere il padre, tanto egli era in quei pochi giorni dimagrito e invecchiato; aveva anche gli occhi strani, fissi e velati di ombra.

Neppure quando si era ammalato il genero di lei, e quando era morto, egli aveva dimostrato tanta preoccupazione.

— Padre! — ella esclamò, senza badare a Luca. — Malato siete?

— Malato non sono, ma neppure sano. Ma non si tratta di me, adesso; si tratta di questo sciagurato. Neppure lo guardi, Anna Maria?

— Lo guardo, lo guardo: vedo che è in cattivo stato. Sembra Cristo coperto dal velo della Veronica: ma che cosa posso farci?

— Puoi fargli da madre. Ah, tu gli hai portato un guanciale; questo va bene; non basta, però; bisogna aiutarmi a salvarlo. Ascoltami, — disse sottovoce, mentre Francesca si dava da fare fuori della capanna; — egli si è voluto uccidere perché io l’ho accusato di aver rubato i denari che mi mancavano dal cassettone in camera mia.

La donna si fece il segno della croce: poi s’inginocchiò e sollevò il fazzoletto che difendeva il viso di Luca dalle mosche: e pareva pregasse come davanti ad un santo martire.

— Forse io sono stato la causa di tutto, — proseguì il vecchio, alzando la voce come per farsi sentire da Luca ed anche da Francesca; — forse mi sono sbagliato nel contare i denari nel cassetto, o li avrò messi in qualche altro posto. Il fatto è che Luca è innocente. Ma egli vuol morire lo stesso: appena ha dato un primo segno di conoscenza, ieri, ha tentato di strapparsi le bende: non bisogna lasciarlo solo, né di notte né di giorno, ed io sono stanco e devo anche badare al gregge. Per questo ti ho chiamato.

Ella sedette sulle calcagna, davanti a Luca, e parve aver preso il suo posto di vigilanza per non lasciarlo più. Con la lieve mano bruna senza più carne, fatta solo di pietà e di tenerezza, ravviò i capelli medusei del ferito, gli toccò la fronte, gli aprì sul collo la camicia troppo stretta.

— Suda, e non è caldo: vuol dire che la febbre non è alta.

Luca teneva sempre gli occhi chiusi; però le grandi palpebre gonfie e dure come conchiglie si muovevano di continuo, senza mai aprirsi, come se gli occhi, dentro, vi si agitassero per le visioni della febbre.

D’un tratto anche le labbra raggrinzite e smorte si mossero, pronunziando parole senza senso né suono: e pareva che egli ne cercasse una da lungo tempo dimenticata: finalmente la trovò, la ripeté due volte, spezzata, incerta, come fanno i bambini che la traggono dall’anima loro la prima volta.

— Mam-ma.

Mamma. La donna trascolorò. Pensò al suo Luca lontano, ai pericoli mortali che, se la guerra continuava, aspettavano anche lui.

— Mi crede sua madre, — mormorò piegandosi sull’infelice; e parve volesse tentare di ridargli la vita col suo alito.


Anche il vecchio poté finalmente addormentarsi.

Francesca s’affacciò alla porticina della capanna e guardò, ancora paurosa che qualcuno potesse impedirle di entrare; poi si avvicinò in punta di piedi alla madre e le lasciò cadere in grembo la medaglietta infilata al cordoncino verde.

Luca stava sempre assopito: solo di tanto in tanto sollevava la mano dimagrita, come facendo cenno a qualcuno di avvicinarsi, poi la lasciava ricadere senza forza sul giaciglio.

E poiché questo giaciglio, macerato dal dolore ardente di lui, puzzava e attirava le mosche e pareva anch’esso malato di una infezione mortale, pallida per la paura che il nonno si accorgesse di quanto ella faceva, Francesca s’inginocchiò accanto a Luca, con le sue forti mani lo sollevò, e aiutata dalla madre sostituì il sacco che serviva da materasso con una pelle di montone pulita: poi sgusciò fuori della capanna con la rapidità silenziosa della volpe, portandosi via il sacco che stese al sole e che fu subito assalito come un cadavere dalle mosche e dalle formiche: infine si buttò a sedere per terra e si mise a piangere.

Non sapeva bene perché piangeva, ma sentiva il sapore quasi voluttuoso del suo pianto, e il gemito sottile che le sgorgava dal cuore le pareva il canto dei grilli nelle notti di luna. Il contegno del nonno verso di lei, l’aver egli chiamato la figlia ad assistere Luca, la irritavano e la mortificavano; ma non per questo piangeva, bensì per un sentimento nuovo, che non sapeva definire, che non era rimorso di dare, oltre il resto, tanta pena alla madre, costretta a starsene lì nella capanna a vegliare un figlio altrui; e neppure pietà e schifo per quel sacco imbevuto del sangue di dolore di Luca, né pietà o raccapriccio per il gemito di lui quando ella lo aveva toccato con le sue mani; ma forse era un pianto di liberazione e di speranza, ed anche di gioia per aver trovato il modo di far mettere la medaglia al collo della sua vittima.


In breve Luca migliorò in modo veramente miracoloso.

Un giorno, d’improvviso, si sollevò da sé sul giaciglio, e guardò di qua, di là, attonito, come svegliandosi da un lungo sonno; poi sbadigliò. Aveva fame. Vide il vecchio che lo osservava sorpreso, e anche lui lo guardò con stupore.

— Zio Ulpiano, siete stato malato?

— Malato sono stato, sì.

La sua voce era tremula, infatti, come quella di un convalescente. Luca sbadigliava fino a tenersi le guancie ferme con la mano: pareva non ricordasse nulla del passato e non avesse coscienza del suo stato presente. Solo, dopo qualche momento, disse, un po’ timido:

— Ho fame.

Il vecchio gli porse la tazza di corno piena di latte: egli la prese e guardò, osservandoli per la prima volta, i disegni primitivi che vi erano incisi: la colomba, la palma, la croce, il cacciatore col corno: poi fissò il latte con nausea.

Di ben altri cibi sentiva il bisogno: di carne sanguinolenta che rifacesse la sua, di pane duro, di formaggio secco e salato, per arrotare i suoi denti, di insalata e di cipolle per rinfrescarsi la gola. Una fame mordente gli attanagliava le viscere vuote: non osava dirlo, ma sbadigliava esasperatamente per dimostrarlo. Come gli animali affamati, non sentiva altro bisogno che di nutrirsi.

Il vecchio giudicò arrivato il momento di dargli soddisfazione, senza però agitarlo troppo.

— Luca, non stare così seduto; rimettiti giù. La ferita non è ancora rimarginata, e può farti male. E dunque ascoltami; tu mi hai dato un gran dispiacere, con quello che hai fatto; il più gran dispiacere della mia vita, dopo la morte della moglie mia. Ma posso dire che ho fatto di tutto per salvarti. Vedi come sono dimagrito? Posso dire che ho dato un poco della mia vita per salvare la tua.

Mentr’egli parlava, Luca si era di nuovo disteso e pareva ripiombato nel grave stato di prima. Ricordava tutto, adesso, e nuovamente voleva morire. Ed era tale l’angoscia del ricordo che le parole del vecchio gli parevano parole di sogno: sì, tutto era ancora delirio; l’essersi sollevato, il sentire fame, la dimenticanza di ciò che era stato, il mentire pietoso di zio Ulpiano.

— Luca, ti ho calunniato: questa è la verità. I denari che mi pareva mancassero dal cassettone della mia camera li ho ritrovati: io stesso, rimbambito che sono, li avevo messi in un altro posto.

— Ne avete ben molti, di denari, che non sapete neppure dove li mettete, — disse Luca. E rise, ad occhi chiusi, con una smorfia che lasciò vedere i suoi denti di giovine leopardo affamato, e fece rabbrividire il vecchio. Ah, Luca non s’ingannava, Luca sapeva la verità, e non solo non perdonava ma forse il suo sangue perduto si era rinnovato in veleno di vendetta. Ma subito il vecchio si ribellò: dopo tutto era affar suo, e poiché Luca riaveva la vita e l’onore non doveva immischiarsi oltre nella faccenda del furto.

Tacque, però: ogni parola non poteva che frugare nella piaga, ben più profonda di quella del corpo, dell’anima del giovine: e questi a sua volta se ne stava fermo sul suo giaciglio, vinto da un solo desiderio: andarsene. Andarsene al più presto, lontano, in un luogo dove nulla e nessuno potesse ricordargli le cose passate. Andarsene, per non uccidere, per non morire.

Ah, in fondo, sentiva bene, adesso, che non aveva voglia di morire: anzi la vita gli scorreva rinnovata nelle vene, come un torrente dopo l’uragano. E aveva fame, e sete, e voglia di amore, e desiderio di correre, di trovare un cavallo selvaggio, di riuscire a prenderlo, a montarci su, galoppare così fino al mare e gareggiando con le onde giungere all’altra riva. Laggiù avrebbe domandato qual’era la strada che conduceva alla guerra. Si sentiva capace di sbaragliare da solo il nemico: voleva saziare così la sua fame di vendetta, e sorgere alto in cima alla vittoria, sfolgorante come il sole in vetta ai monti, per dimostrare al mondo quale era il vero Luca creato dall’errore, dall’ingiustizia e dal dolore.

Adesso la fame e l’impotenza a muoversi gli davano un senso di gioia, quale doveva essere quello dei martiri aspiranti alla gloria eterna: ed era contento di essere affamato per la soddisfazione di non domandare nulla al vecchio.

— Non importa: me ne andrò, e il primo agnello che trovo è mio: lo arrostirò vivo sulle brage e me lo divorerò tutto: gli caverò gli occhi caldi col dito e li manderò giù come acini d’uva nera: sorbirò le cervella come un dolce e il suo sangue come il sacerdote nella messa quello di Cristo; gli leverò la lingua tutta intera e la mangerò in un boccone. E i rognoni che danno forza? In ultimo succhierò la coda, piano piano, suonandola come un flauto di canna.»

Egli si godeva già il pasto mostruoso, crudele e vivificante, con un senso di voluttà carnale, come se sognasse di possedere con violenza una donna; ma ricordava anche, con tenerezza e rancore, la casa paterna, la madre che, se pure non si era eccessivamente curata di lui in altro modo, lo rimpinzava di cibo, gli serbava i bocconi migliori: eppure non desiderava tornare laggiù, di nuovo prigioniero, nella cinta dello sguardo nemico del padre: oh, no, la sua via era scelta: a piedi o a cavallo, in treno o sulle ali del vento, voleva andare alla guerra e fare ai nemici il bel trattamento che si proponeva di fare all’agnello rubato. Il cuore gli batteva forte, di speranza e di attesa, contro le pelli e i sacchi macerati del giaciglio che gli parevano il vello selvaggio del Luca di prima, e dal quale il suo corpo si liberava e risorgeva, rinnovato e fresco come l’asfodelo novello dal suo letto di foglie fracide.


Più tardi, mentre stava così, con gli occhi sempre chiusi perché non voleva più guardarsi attorno, né che i suoi pensieri fossero spiati dal vecchio, sentì qualcuno sedersi accanto a lui, per terra.

Era una donna: lo sentiva dalla leggerezza con cui era entrata e si piegava e dall’odore delle vesti e dei capelli; odore indefinibile che pareva rendesse più intenso e quasi più caldo quello dell’aria primaverile.

Chi era? Francesca? Gli parve di no. Francesca aveva il passo rumoroso, l’andatura e il modo di sedersi quasi violenti; e un odore di maschio, di adolescente che corre e che suda.

Ad ogni modo egli continuò a fingersi assopito: non voleva far vedere i suoi occhi, né veder gli occhi di nessuno; e tanto meno quelli di Francesca; eppure pensava con soddisfazione alla probabilità d’incontrarsi con lei e guardarla con disprezzo, sentirla umiliata, piccola e stesa sotto il suo sguardo come un compagno vinto che, a volerlo, si può bastonare fino a sangue.

La donna seduta accanto a lui non fiatava. Che faceva? Lo osservava? Osservami pure: vedrai i miei capelli inselvatichiti, il mio viso bruciato e nero come dopo un incendio, le mani sporche e le vesti marce come quelle di un vagabondo che ha dormito nelle stalle e nelle caverne: non vedrai i miei occhi ed il mio pensiero; e il mio pensiero è che vi odio tutti, tu e la tua famiglia, e vi maledico tutti, che possiate andar dispersi in polvere ai quattro venti, e con voi la vostra casa dove mi avete preso come in una trappola e dove mi volevate bruciare vivo come un sorcio velenoso.

D’un tratto la donna gli prese una mano, ed egli sentì le dita lisce e tiepide di lei toccare ad una ad una le sue, e come un becco d’uccello piluccargliene le punte.

La donna gli tagliava le unghie.

Allora provò un senso di stupore; poi ricordò che durante le ore d’incoscienza della febbre gli era parso che una donna, la madre, lo assistesse: adesso capiva che non era stato del tutto un vaneggiamento.

Ma non aprì gli occhi.

— Taglia, taglia, donna. Tagliami le unghie, i capelli, la barba: lavami anche la faccia, se vuoi. È dovere vostro di ripulirmi, rattopparmi, dopo che mi avete sporcato e rotto: io vi odio e vi maledico lo stesso.

Finito di tagliare le unghie, la donna gli lasciò ricadere una dopo l’altra le mani, anzi parve rimetterle al posto preciso donde le aveva prese: e stette ferma, senza respiro.

Che faceva adesso? Luca cominciava a stancarsi: sospirò, senza muovere le palpebre, e subito sentì la donna sgusciar via come una lucertola, senza dubbio per paura ch’egli si svegliasse: allora socchiuse gli occhi, senza sollevarli, allungando lo sguardo per terra sin fuori la capanna.

Fuori era tutto verde, un verde dorato dal tramonto, con brage rosse e gialle di fiori.

L’ombra di una donna si allungava davanti alla porta, senza che lei si vedesse: e Luca riconobbe l’ombra di Francesca.


— Luca, — gli disse il vecchio, rientrando poco dopo nella capanna, — non vorresti cambiarti i vestiti? Adesso puoi muoverti, puzzi tutto come un pesce fracido.

— Domani mattina, — egli rispose, senza muoversi, — tanto più che conto di andarmene.

Il vecchio non replicò. Indovinava i pensieri di Luca anche se questi taceva o si fingeva addormentato; poiché, dice il proverbio, il fuoco si sente anche sotto la cenere che lo copre. In fondo zio Ulpiano aspettava che il giovine se ne andasse e il tempo gettasse il suo velo su quest’episodio sinistro della sua vita intemerata: solo gli dispiaceva che se ne andasse così, senza perdonare: ma che poteva farci? Non c’era nulla da fare. E il suo rancore si riversava tutto su Francesca.

Anche lui non perdonava: taceva, ma non perdonava, e oramai teneva d’occhio la fanciulla come una serva sospetta: guai a lei se avesse nuovamente deviato di un solo passo; era pronto a prenderla per i capelli, legarla ad un albero con le corde di pelo che si usano per il bestiame, e frustarla fino a sangue: che le sue grida risonassero per tutte le terre della contrada, ed anche i cani arrabbiati e le faine crudeli in cerca di cibo ne avessero pietà.

Ma Francesca filava dritta, silenziosa, divorata dentro da una passione che il nonno credeva di rimorso e di vergogna.

Si era fatta magra, leggera, e si allungava ogni giorno di più come gli steli dell’avena selvatica: camminava rapida e furtiva, a volte distratta, a volte guardinga e diffidente: pareva sfuggisse sempre un pericolo o meditasse anche lei di fuggire. Aveva qualche cosa del muflone, anche negli occhi tristi, nel modo di guardare lontano con una misteriosa nostalgia di luoghi deserti, di solitudini montane dove si può saltare di roccia in roccia, fin dove queste si sprofondano nel cobalto del cielo; una voglia animalesca di accovacciarsi nei nidi di felci, e di lì balzare in piena libertà alla caccia dei fantasmi dei suoi sogni. Poiché di questi sogni ella non riusciva ad afferrare la realtà, a sapere in che consistevano, che cosa volevano: e il suo tormento era appunto questo.

Adesso che Luca era quasi guarito, il nonno le permetteva di entrare nella capanna anche quando non c’era lui: il desiderio che i due giovani avessero una spiegazione lo induceva anzi a lasciarli soli: vigilava, però, e per paura dell’odio di Luca e di una sua possibile vendetta, aveva tolto dalla capanna le armi e persino i coltelli.

Ma ecco, dunque, Luca era pronto ad andarsene: meglio così; il tempo seppellirà le cose passate, i ragazzi diventeranno uomini, e poi vecchi, e giudicheranno ragionevolmente quelle cose passate.

All’alba si alzò; mise accanto a Luca l’involto della roba pulita che Francesca aveva portato di casa il giorno prima, e la tazza di corno colma di latte, poi andò ad aprire le mandrie.

Cominciava una giornata di una serenità fantastica; la luna pareva non volesse lasciare quel cielo illuminato dalla sua luce di sogno, mentre ad oriente il rosso dell’aurora si accendeva rapidamente.

L’erba era carica di rugiada come se avesse piovuto; ed anche le pecore, nelle mandrie circolari che ribollivano di loro, ne erano umide; la rugiada stessa aveva profumo di latte, e tutto intorno fino in lontananza si spandeva l’odore dello stabbio: odore di vita animale, di produzione e di abbondanza come se tutto il mondo fosse un solo ovile.

Ulpiano Melis si sentiva padrone, in questo mondo, e mungeva le pecore e le capre con un senso di divinità: gli pareva d’esser lui a produrre il latte, che le sue dita simili alle radici del rovere facevano stillare dalle mammelle violacee delle bestie; lui che era più sollecito del sole, e, vecchio, lavorava ancora, mentre molti giovani giacevano come Luca abbattuti dal turbine delle loro male passioni.

Con una spinta fra dolce e violenta mandava via di fra le gambe la pecora un po’ stordita, ne afferrava un’altra, e il contatto del vello ancora intonso gli dava quasi un senso di voluttà, come afferrasse capelli di donna.

Con la coda dell’occhio guardava intanto se Luca si muoveva, se manteneva il suo proposito; ma la porta della capanna restava socchiusa; il muflone e le altre bestie già vagavano qua e là, il gatto si lisciava il pelo fin sotto la coscia protesa, i cinghialetti leccavano le ciotole dei cani: solo Luca non si faceva vivo.

Le cornacchie stesse, sopra un ramo, con le lunghe code che riflettevano il colore iridato del cielo, intonarono un inno selvaggio di gioia: solo Luca pareva morto.



Sotto il suo sacco di lana, Luca sentiva il vecchio lavorare e le cose intorno destarsi con ebbrezza di vita: e provava un po’ di vergogna a fingersi più debole di quello che era. Bisognava affrettarsi ad andarsene davvero, a liberare il luogo della sua presenza.

Si alzò a sedere e gli sembrò di essere forte, di potersi avviare: solo quel senso di vuoto allo stomaco, quella fame alla quale del resto si era abituato, gli dava un po’ di sfinimento.

Cominciò a spogliarsi sbadigliando: il braccio sinistro si moveva con difficoltà, e ad ogni movimento rispondeva una puntura alla ferita rimarginata; tuttavia egli riuscì a togliersi le vesti, dalla cintola in su, e quando fu col petto scoperto si accorse di avere al collo la medaglietta infilata come ad un giunco. La prese fra l’indice ed il pollice e l’osservò da una parte e dall’altra. Chi gliel’aveva messa? Francesca? E perché? per farlo guarire? Sì, San Francesco era il santo di lei; e guarisce tutti i mali: il male di lui, però, nessuno, neppure Cristo, poteva guarirlo.

Egli venerava e rispettava il grande Santo, il Santo bello, ma non voleva nulla da quella gente maledetta. Piano, piano, come per non offendere il piccolo santo che s’era fatto il nido sotto la sua ascella e ne conservava il calore e l’odore, si tolse il cordoncino e l’attaccò alle pietre della capanna.

Nel volgersi per far questo, si vide nudo, bruno, scarno ma col petto largo e senza seni dell’uomo veramente forte: si passò le mani sulle braccia, quasi accarezzandole, poi guardò la cicatrice ancora rossa della ferita che gli ornava il petto come un fiore.

Se ne sentì orgoglioso, come di una decorazione: gli sembrava di aver dimostrato ormai tutto il suo coraggio, di aver giocato la sua vita come da ragazzino giocava le piastrelle: o perdere o vincere.

E aveva vinto.

Tuttavia, irritandosi ancora al ricordo, disse a voce alta:

— Ladro a me? Ladro di casa? Come un topo?

La sua irritazione s’inasprì quando prese l’involto con la roba che odorava di bucato e ne trasse la camicia: ricordava la casa del vecchio, la camera dove si cambiava le vesti, l’iniquo sospetto che egli, profittando dell’ospitalità, fosse penetrato nelle altre camere per rubare.

Gli parve che, con la camicia pulita, lo coprisse un vestito di fiamma, e ricominciò a maledire e imprecare. Poi si alzò e lasciò cadere le vesti dalla cintola in giù; ma le ginocchia gli si piegarono, come se le rotelle vi si fossero infracidite e un tremito di debolezza lo costrinse a rimettersi giù seminudo.

— Malavventurato che io sono, le maledizioni ricadono su di me.

Gli parve di aver bevuto l’acqua amara della cicuta, e stette piegato su sé stesso, in mezzo al cumulo delle sue vesti, con le spalle umide di un sudore di angoscia. Ah, non era il leone che egli si credeva; era un ragazzo malato e malvagio, un miserabile sciacallo che seguiva, appunto come fa questa fiera, il leone della sua fantasia, per cibarsi degli avanzi del suo cibo. I suoi occhi si riempirono di nuvole, e il suo odio si riversò anche su sé stesso.

Il vecchio lo trovò così e indovinò ogni cosa.

— Tu hai bisogno di mangiare, di rinforzarti: se no le tue gambe tarderanno a funzionare. Ti darò un pezzo d’arrosto di agnello.

Luca accettò, con ritrosia e dispetto, ma anche con gioia selvaggia.


Le forze ben presto gli ritornarono. Mangiava e beveva anche di nascosto, portandosi i cibi nell’angolo della capanna come facevano le cornacchie; non per questo l’odio gli passava; anzi egli procurava di rimettersi presto per andarsene. Non senza sorpresa, e quasi con dolore, si accorgeva però che le forze rinascenti in lui pareva venissero a mancare a zio Ulpiano: di giorno in giorno il vecchio deperiva: le sue mani tremavano nel porgergli la tazza e il tagliere; la sua voce era tremula e incerta; tutta la sua figura si affinava, si piegava e pareva rimpicciolirsi come in una lontananza misteriosa. Luca pensava:

«Sono le mie maledizioni: il vampiro del mio rancore gli succhia il sangue; dovrei essere contento».

Eppure contento non era, sebbene in fondo non credesse alla potenza delle sue imprecazioni. Zio Ulpiano soffriva per il dispiacere delle cose accadute: era un vecchio superbo, che ci teneva, all’onore suo e della famiglia, e le tristi cose accadute gli avvelenavano l’anima e il corpo.

— Anche per lui è meglio che me ne vada presto; quando non mi vedrà più non ci penserà più. Dopo tutto è vecchio e mi ha fatto del bene.

Così pensava Luca, ed era soddisfatto dei suoi buoni sentimenti; ma ecco una sera, proprio di nuovo alla vigilia del giorno stabilito per la sua partenza, una cosa strana accadde d’improvviso nell’ovile. Dapprima una, poi tre, poi venti pecore si ammalarono, di un male sconosciuto: si gonfiavano, e pareva lo facessero apposta, poi cadevano in un sopore che resisteva ad ogni scossa.

— Che abbiano mangiato qualche erba velenosa? — diceva Luca, che, già completamente guarito, aiutava il vecchio a raccogliere il gregge nelle mandrie.

— Mah!

— Io non ho mai veduto un male simile. E guardate come hanno la bocca, dentro, tutta gonfia e livida. Che l’acqua del fiume sia infetta? Quei furfanti di pescatori di trote usano adesso la dinamite.

— Mah!

Il vecchio non pronunziava che questa sillaba desolata, nell’accento della quale però vibrava il dubbio, anzi la certezza della causa del misterioso male.

«Egli sa che maledico lui, la sua famiglia e la sua roba. Sì, è la mia maledizione», pensava Luca.

E si sentiva le dita fredde, e aveva paura di pensare, di guardare dentro di sé: poiché provava una sinistra soddisfazione per quello che avveniva, e il suo cuore, infetto oramai di un male livido come quello del gregge, nonostante le proteste e il buon volere della coscienza, continuava a maledire.

Anche una capra cadde da un albero sul quale si era arrampicata e si ruppe una gamba: il vecchio, poi, entrato sul tardi nelle mandrie, trovò altre pecore ammalate. Senza scomporsi, come se avesse da lungo tempo preveduto il guaio, disse:

— Bisogna separarle: è una peste, una stregoneria.

Luca si alzò e lo aiutò a far uscire dalle mandrie le pecore sane. Era una notte di luna, tiepida, luminosa. Le pecore tentavano di sbandarsi, di andare al pascolo come nelle notti di estate; Luca le respingeva col vincastro, le costringeva ad entrare nella mandria separata da quella delle bestie malate; e gli pareva, in mezzo al loro gruppo agitato, fra le ombre azzurre che si movevano sullo spiazzo chiaro di luna, di combattere con le nuvole.

Così aveva sognato nel delirio del suo male; e il suo cuore singultava di uno strano grido simile a quello del cuculo fra le rovine, che piangeva e nello stesso tempo si beffava del suo pianto.

Tutta la notte fu una confusione, un turbamento d’incubo; il vecchio sembrava calmo; però non stava fermo un momento; usciva, rientrava, pareva provasse un gusto malvagio ad annunziare a Luca che altre bestie si erano ammalate; e il giovine pensava:

«Io devo andarmene; andarmene lontano, nel più profondo dell’inferno come quei giovinastri di Oppia. È la mia presenza che spande qui la peste».

Verso l’alba il vecchio si assopì: nel sonno — o fingeva di dormire? — disse con la sua voce rude di un tempo:

— Se te ne vai proprio adesso, sei davvero un miserabile.

A Luca parve fosse la sua stessa coscienza a parlare: e rimase.



Quella strana malattia del gregge durò tutta la primavera e parte dell’estate: si seppe di poi che era una specie di nefrite e che non le sole pecore dell’ovile Melis ne erano infette: ad ogni modo Luca rimandava di giorno in giorno la sua partenza, deciso a restare finché il vecchio avesse bisogno del suo aiuto. E ne aveva bisogno davvero, poiché un malore sottile, dal quale pareva lasciarsi vincere senza reagire, abbatteva anche lui, Ulpiano Melis il forte. Era una decadenza improvvisa, un rilassamento fisico ed anche un lieve spegnersi dell’intelligenza; cosa questa che impressionava Luca più che se il vecchio si fosse gravemente ammalato.

Per giornate intere non si scambiavano parola, sebbene assieme assistessero le pecore malate, alle quali bisognava portare il nutrimento fin dove giacevano inerti e gonfie come quando dovevano partorire: assieme dormivano e mangiavano, nella capanna che pareva un grande nido entro il quale gli uomini, come gli uccelli, non avrebbero dovuto che amare e cantare: eppure sembravano ignoti l’uno all’altro, come i vagabondi che portano negli occhi la polvere delle strade maledette del peccato e si ritrovano negli asili notturni.

In fondo Luca soffriva più di quando era malato. Il dolore del vecchio saziava il suo odio: dolore fatto più duro per la mancanza di notizie di uno dei cugini Pirastru, che si temeva fosse morto. Più che mai il giovine desiderava andarsene, ma si sentiva inchiodato alla stessa croce che credeva di aver sollevato lui con le sue maledizioni: e i giorni passavano, anche nell’ansia e nella tristezza, passavano egualmente, l’uno dopo l’altro. Maggio coi suoi lunghi crepuscoli è finito, giugno riempie di rosso e di viola i prati e riporta le notti calde che richiamano il gregge al pascolo e il pastore alla veglia ed ai sogni.

Alla metà di luglio arrivò Luca lo studente, che mantenne la promessa di far visita al nonno nell’ovile.



Arrivò una mattina presto, a cavallo, con un grosso rotolo di tela grezza legato sull’arcione ed al quale si appoggiava come a un davanzale.

La sua presenza parve, come sempre, spandere un senso di gioia, di vita nuova, nel paesaggio antico e immobile, al quale le rovine davano un colore leggendario: la luce del mattino si taceva più radiosa perché arrivava lui: gli uccelli sul sovero davanti alla capanna e persino le cicale nei cespugli infiammati di ginestre raddoppiarono il loro canto. Anche i cani abbaiarono in modo diverso del solito, e le cornacchie emisero il loro caratteristico fischio di gioia col quale salutavano il bel tempo: tutto per quel moscardino vestito come un cavallerizzo alla moda, stivaloni, frustino, cravatta svolazzante, berretto che ravvivava la freschezza del viso e degli occhi dove il mattino stesso s’era rifugiato.

Il nonno lo aspettava, e nel baciarlo arrossì di felicità, ma non gli riusciva di scherzare, come gli anni passati; mentre Luca pareva non si accorgesse, o fingeva di non accorgersi, della decadenza di lui; e senza ricordarsi che la madre lo aveva avvertito e pregato di essere gentile col servo, il quale stava sempre sulle mosse per andarsene, gli diceva con tono di comando:

— Tira giù quest’affare e cercami quattro pertiche forti e dritte! Marcia!

— Che, sei diventato mercante di tela? — domandò il nonno, ritrovando un poco del suo antico buon umore.

— Vi farò vedere io che cosa sono diventato, babbo Melis, — egli rispose, piegato a slegare il rotolo, al quale erano attaccati, come alle vele delle barche da pesca, grossi anelli, corde e carrucole.

— Ho capito, — disse l’altro Luca, tra il curioso e il beffardo, — è una tenda.

— È una tenda, sì. La pianteremo qui, sotto il sovero, e faremo il campo e le manovre, io e te, Pantalèo, visto che fra poco, per quanto giovani e spensierati siamo, ci toccherà di farlo sul serio.

L’altro Luca sollevò la mano gridando:

— Eia, eia, alalà!

Il vecchio si oscurò in viso. Il nipote non se ne accorse, tutto occupato a rizzare la tenda: e quando questa, con la sua brava cupola e la porta e il finestrino, fu piantata sotto l’albero severo e potente che pareva la guardasse con degnazione, non negandole la sua ombra e il suo sostegno, vi cacciò dentro il muflone ch’era venuto a curiosare, poi invitò il nonno a visitarla.

Il nonno scuoteva la testa, senza muoversi, piuttosto infastidito per lo spazio che la tenda gli toglieva davanti: e neppure si rallegrò nel sentire che il nipote voleva passare qualche giorno nell’ovile. — Verrà anche il mio amico Battistino Pisuddi, e forse verranno anche i figli del Segretario e porteranno da suonare. Allegro, babbo Melis. Perché questa faccia, Gesù Signore Nostro? Ah, — esclamò d’un tratto, nell’accorgersi che il viso del nonno si contraeva con dolore e sdegno; — mi sono dimenticato di farvi vedere una lettera. Dove l’ho cacciata?

Da un fascio di giornali e carte che gli gonfiava la saccoccia trasse la lettera: era del fidanzato della sorella; il quale finalmente scriveva da un campo di concentrazione in Austria, dove si trovava prigioniero: stava bene; solo si vergognava di essersi lasciato prendere vivo, e pregava di mandargli un pacco di pane.

Il nonno tremava, ma come il sovero al vento dolce della sera; tentò di sgridare Luca per aver tardato a dargli la buona notizia, — finché si è vivi e si ha fede in Dio tutto va bene; — le parole però gli cadevano senza forza dalla bocca, e il nipote non pensava certo a raccoglierle.

Solo la tenda lo interessava, per il momento; e poiché il nonno non si decideva a visitarla vi fece entrare i cinghialetti, le cornacchie curiose che già ne beccavano i lembi con furia, i cani ed anche l’agnello ritardatario destinato ad esser vittima della sua visita: poi chiuse l’apertura, e dentro vi fu un baccano da arca di Noè.

— Così vedete cosa c’è dentro e non mi seccherete più, — egli disse alle bestie; poi, mentre il nonno rileggeva per la terza volta la lettera consolatrice, annunziò che la madre lo aveva incaricato di un altro messaggio.

— C’è uno, un individuo, disgraziati lui e la sua progenie, che vuole in moglie Francesca.

— Chi sarebbe?

— Eh, non lo ricordo.

Ah, Luca, Luca! Quando metterai giudizio e ti interesserai ai fatti della casa e della famiglia? Il nonno cominciò ad irritarsi davvero; le sue rampogne prendevano forza, ma era una forza inutilmente sprecata: Luca non se ne curava, saltellando intorno come l’uccello della buona ventura.

— Si può almeno sapere se Francesca è contenta?

— Non lo so. Chi ne sa niente, di quella capra? Solamente so che chi la sposerà avrà da tribolare, in questo mondo, sebbene adesso ella abbia cambiato un po’ d’umore; non grida più, va tutte le mattine alla messa e continua tutto il giorno a farsi il segno della croce. Ma è l’età: a sedici anni tutti abbiamo attraversato una crisi di misticismo. Non è vero, Luchè?

L’altro Luca si contentò di sorridere, con degnazione e beffa: ben altra crisi egli aveva attraversato, a sedici anni. E profittò dell’ingiunzione dello studente, di sorvegliare la tenda perché le bestie non vi entrassero, per entrarci lui e abbandonarsi ai suoi pensieri.

Chi poteva essere il pretendente di Francesca? Egli provava una certa stizza a pensare Francesca sposa e felice.

«Sta fresco davvero, l’uomo che si lega quella catena al piede. Specialmente se ci ha denari nel cassettone. Ma chi può essere quel mammalucco? Giovane o vecchio?»

Tutti i giovani validi del paese erano alla guerra: non poteva essere che un anziano, forse un vecchio addirittura. Sì, ci voleva proprio un vecchio per quella capra, come la chiamava lo stesso fratello, un uomo d’esperienza e di pazienza, che non si lasciasse turlupinare da lei.

Egli sogghignava e faceva diaboliche smorfie; ma non poteva pensare ad altro che a questa faccenda.

Anche il vecchio ci pensava e ripensava: chi poteva essere il pretendente? E non sapeva se rallegrarsi o inquietarsi per l’avvenimento.

Il nipote, poi, occupato a raschiare una moneta trovata tra le rovine, che risultò essere un soldo del 1913, per quanto di nuovo interrogato, fu nella impossibilità di dirne nulla: non si ricordava; in ultimo, dopo uno sforzo straordinario della memoria, disse:

— La mamma veramente non mi ha detto chi è il pretendente, ed io non gliel’ho domandato.

Di nuovo il nonno si sentì caldo di sdegno; tuttavia scosse la testa e si contentò di sospirare:

— Oh, Gesù Signore Nostro!

Verso sera Luca, pallido e stanco e col male di testa per la troppa aria presa, annunziò che doveva ripartire. Sbadigliava come l’altro Luca quando aveva fame, e pensava alla vecchia casa del nonno come ad un palazzo di Roma.

— E questo impiastro, allora, cosa lo hai messo a fare? — domandò il vecchio, battendo il bastone sulla tenda. — Per le faine e le volpi?

— Può servire per voi. Anzi, voglio dirvelo, adesso, l’ho proprio comprata per voi: si sta più al riparo che nella capanna. Tornerò, del resto; se vengono gli amici tornerò anche domani. E se non la volete voi, la tenda, la cedo a Lucheddu: così si abituerà per quando andrà alla guerra.

Luca arrossì di gioia, e per la gioia morsicò la pertica della tenda: poi si mise a gridare, come richiamando qualcuno in lontananza. L’eco rispondeva: e pareva la voce del nemico che accettava la sfida mortale. Allora anche Luca il signore si rianimò: anche lui tese le braccia, come scoccando una freccia da un arco selvaggio, e si mise a gridare:

— Eia! Eia! Alalà!

— Viva l’Italia!

— Vittoria! Vittoria!

Il luogo pareva diventato un campo di battaglia: le bestie si nascondevano, i cani abbaiavano; le cornacchie, sebbene impaurite, rispondevano con stridi belluini. Ed anche il nonno si sentiva battere il cuore, di orgoglio, di coraggio, di certezza che i giovani guerrieri avrebbero vinto la battaglia.


Poi riaccompagnò il nipote in paese. Luca Murru ne aspettò con curiosità il ritorno per sapere chi era il pretendente di Francesca: ma il vecchio non disse nulla, ed egli si guardò bene dal chiederglielo. Dopo tutto, che gliene importava? Compassionava e derideva in cuor suo il disgraziato pretendente, e del resto s’infischiava altamente di Francesca, dei suoi amori, delle sue maledette vicende. Che vadano alla forca, lei e tutto il resto del parentado.

Ed ecco il giorno dopo Francesca venne all’ovile, con un’altra ragazza sua vicina di casa. Sedute sullo stesso cavallo, che facevano trottare pazzamente, ridevano e gridavano, allacciate l’una all’altra per sostenersi.

Poiché da molto tempo Francesca non si era più lasciata vedere, Luca ebbe l’impressione che la visita di lei avesse uno scopo; che ella ostentasse un’allegria esagerata per farsi notare da lui: e provò quindi un senso d’irritazione e di sdegno ancor più vivo che per l’innanzi.

— Dovresti tacere e abbassare gli occhi, ed anzi cercare di seppellirti, davanti a me — , pensò, guardandola severo.

Ella non pensava ad abbassare gli occhi, e tanto meno a seppellirsi; ma sfuggiva lo sguardo di lui ed anzi fingeva di non vederlo neppure. Con l’amica andò subito a visitare la tenda del fratello, dove avevano preso domicilio i cinghialetti ed il gatto, e vi stettero dentro un bel po’, continuando a strillare e ridere come si facessero il solletico; poi d’improvviso ne uscirono spaventate, gridando che c’era dentro una tarantola.

Il nonno doveva essere infastidito di tutto questo chiasso, perché nel fumare la pipa sputava di frequente, cosa che non faceva mai.

Luca a sua volta fingeva di non interessarsi alle ragazze; suo malgrado però le guardava, come attirato dal rosso dei loro corsetti fiammeggiante tra il verde del prato e degli alberi, e pensava che l’amica di Francesca aveva un fratello militare, venuto ultimamente in licenza, un piccolo proprietario, padrone anche di un negozio di stoffe. Fosse questo il pretendente? Non era di buona famiglia, né molto ricco, ma bello e libertino, e le donne se lo contendevano come un marchese. La sorella gli rassomigliava, alta, olivigna, con la grande bocca ardente: per questo forse Francesca le mostrava tanta preferenza e le si gettava addosso con passione; e per questo il nonno era scontento.

Anche lui, Luca, era scontento: la vista delle due ragazze, la loro gioia, la loro intimità, lo stesso colore delle loro vesti, tutto gli dava gelosia e noia: sopratutto lo irritava la bella fanciulla mora che pareva venuta d’Oriente e delle donne orientali aveva la mitezza e l’ardore.

Neppure presso il vecchio ella trovò grazia, quando gli si avvicinò con la dolcezza timida del muflone, e come ad insaputa di Francesca gli disse:

— Zio Ulpiano bello, siete arrabbiato perchè noi si ride troppo? È la nostra età, la primavera. Anche voi scherzavate come i piccoli agnelli, a sedici anni: ve lo ricordate ancora? Zio Ulpiano mio, — proseguì, piegandosi davanti a lui in atto di preghiera, — se vi domando una grazia, me la concedete? Di lasciar venire con me Francesca alla festa di Sant’Elia?

Il vecchio rispose duro:

— No. Francesca è in lutto.

Allora Luca vide la bella fanciulla sollevarsi rispettosa e tornare da Francesca: e Francesca d’un tratto farsi triste: per il rifiuto del nonno, o per altra ragione?

Invano la compagna cercava di stuzzicarla ancora; d’improvviso anche lei s’immelanconì. Sedute all’ombra del sovero aspettavano che il sole calasse, per ripartire; e non scherzavano, anzi sembrava che non avrebbero scherzato mai più in vita loro.

Era l’ora del riposo meridiano. Il sole, in mezzo al cielo abbagliante, pareva si fosse fermato per dominare e possedere meglio la terra stordita dal suo splendore; l’erba luccicava d’oro, il verde degli alberi si scioglieva dell'indaco degli sfondi. Il gregge meriggiava nel bruno— azzurro delle ombre, ed anche il vecchio, i cani, il muflone e le cornacchie con la lunga coda chiusa come un ventaglio, sonnecchiavano beati.

Solo due agnellini che parevano di zucchero, due ritardatari, scherzavano sotto il sovero, rincorrendosi in circolo, saltando l’uno sull’altro e leccandosi a vicenda.

Tanta era la letizia del loro gioco che Francesca si mise a ridere; poi si rifece ancora più triste. Luca la guardava di nascosto; e quell’improvviso ridere di lei ch’era stato come il riflesso del giuoco degli agnelli, gli diede una impressione di stupore: gli parve che il viso di Francesca gli apparisse solo in quel momento; ed era un viso sfolgorante che rifletteva davvero la felicità e la bellezza dell’ora, ma anche qualche cosa di più divino, come se l’anima di lei si fosse rivelata nuda e palpabile.

Altre volte, però, egli ricordava confusamente di averlo veduto, quel viso di sole: dove? non sapeva: forse dentro l’acqua del fiume, quando appunto il sole vi si specchiava attraverso gli oleandri in fiore; forse in fondo al prato quando la luna sorgeva rosea tra i vapori glauchi della sera, e tutta la terra era una preghiera di ringraziamento a Dio; forse nell’occhio stesso degli agnellini quando cominciano a poter correre fra l’erba e sentono la prima gioia di vivere.

Come il selvaggio affascinato da una musica d’amore, si trascinò vicino alle ragazze e domandò all’amica di Francesca:

— E tuo fratello che fa?

— Fa i suoi affari, — rispose lei, e toccò la compagna col gomito.

— È vero che si deve sposare con Francesca?

Francesca sollevò gli occhi con stupore e con sdegno, ma anche con dolore, e lo guardò; ed anche lui la guardò; e parvero ferirsi fino al profondo dell’anima. Ritornata allegra, l’amica disse:

— Quale Francesca?

— Questa qui.

Allora Francesca si sollevò come una vipera: la sua voce sibilava.

— Chi te lo ha detto?

— Chi se ne ricorda? Tutti lo dicono.

Ella si fece aggressiva: si protese, con le mani pronte a graffiare. — Tu sogni, fratello caro; o inventi le cose. O parli coi fantasmi e coi diavoli tuoi fratelli.

Egli rispose calmo e serio:

— Allora tutti fratelli siamo. Ma perché ti sdegni tanto? Non è un bel giovine Giambattista Corrias?

— È troppo bello, anzi, per me. Tu però inventi le cose; tu le inventi.

Ella aveva ragione; ma insisteva troppo; e lo sguardo dei suoi freschi occhi bruni scintillanti d’oro, era troppo feroce per sì piccola cosa.

Umiliato e col sangue in sommossa, Luca tuttavia la fissava con fiero cipiglio, e fra di sé diceva: «ringrazia il cielo che sei donna; altrimenti sentiresti come sono insuperabile nel regalare pugni e schiaffi».

Ma poiché Francesca continuava, per farla finita egli si volse dall’altra parte, si stese supino, con le mani sotto la nuca, e chiuse gli occhi.

— E che sia lui o un altro, che m’importa, infine? Lasciami in pace, — gridò, e strinse i denti, deciso a non più parlare. Anzi avrebbe voluto addormentarsi, per non sentire più la voce di lei che gli pungeva e gli frugava il cuore come un becco d’aquila. Ma ella non intendeva di lasciarlo in pace: egli la sentiva agitarsi appunto come l’aquila molestata nel suo nido di roccie; e aveva l’impressione che da un momento all’altro gli si dovesse davvero gettar sopra e sbranarlo.

«Vieni, vieni pure», disse fra di sé, morsicandosi la lingua per frenarsi.

Ah, come gli sarebbe piaciuto lottare con lei, rotolare assieme avvinghiati sull’erba e tra i cardi spinosi, morderla e schiacciarla come una mandorla fresca.

Ella continuava, irritata e implacabile:

— D’ora in avanti tu mi farai il santo piacere di non immischiarti più nei fatti miei, e sopratutto di non inventare le cose. Io sono appena nata (— Poverina — egli sogghignò — ), e non penso a maritarmi: ma se ci pensassi non domanderei consiglio a te. E tu, Maria Lia, quando vedi tuo fratello, glielo dici pure, che non sono stata io a vantarmi ch’egli mi vuole sposare.

— Magari tu lo volessi, — esclamò la ragazza. — Lui per la gioia ballerebbe sulla punta di un ago.

Francesca si rifece seria, triste, quasi sinistra. Con voce mutata, un po’ rauca per la commozione, riprese:

— Né lui mi vuole, né io lo voglio. Io, del resto, ce l’ho già il fidanzato. Ma è lontano, e non so se tornerà mai: da tanto tempo non mi scrive: forse è morto. Però non importa; io l’amo sempre come se mi fosse vicino, e ne vedessi gli occhi: e lo aspetterò tutta la vita, se occorre, e anche se egli non tornerà e non ci vedremo più mai, ci sposeremo dopo morti: allora non ci lasceremo più per i secoli dei secoli.

Amen, — disse Maria Lia ridendo; ma era un riso serio, come attraversato da un brivido di dolore.

Anche Luca aveva voglia di sghignazzare e dire parole sporche; eppure le cose dette da Francesca gli destavano un misterioso turbamento nel cuore e nei sensi: non sapeva perché, ma gli sembrava ch’ella accennasse a lui. Perché? per burlarsene? Egli non sapeva: ma fosse anche per burla, desiderava ch’ella continuasse a parlare.

Ella continuò: pareva ripetesse una di quelle canzoni d’amore che si cantano al suono appassionato della fisarmonica, nelle sere di carnevale, quando già si presente nel sangue la primavera, e tutto, anche la morte, sembra bello e divertente.

— A volte mi pare davvero che egli sia morto, ma che il suo spirito vaghi sempre intorno a me: e per questo non provo dolore, anzi mi piace sia così, perché così ci intendiamo meglio, mentre quando ci si vedeva in persona non si faceva che contrastare. Egli mi credeva cattiva, e cattivo lo credevo io. Lui credeva che io mi beffassi di lui, ed io credevo che lui si beffasse di me. Così, invece, di lontano, e specialmente da quando temo che sia morto, ci vogliamo più bene. Io so finalmente chi è lui, e lui finalmente sa tutto di me, il bene e il male, e prende solo il mio bene, come io prendo il suo: è infine come quando si è fidanzati in sogno.

— Oh, a me non vanno, queste storie, — disse Maria Lia buttando qualche foglia addosso a Luca, il quale pareva si fosse addormentato; — a me l’amore piace di persona: vedersi, toccarsi, sentirsi ben vivi e ben caldi.

Luca si rivolse per terra e nascose il viso sull’erba per soffocare una risata che gli scoppiava in bocca suo malgrado sul suo dorso però passava come l’increspatura di un’onda: poiché le parole di Maria Lia, che davano corpo a quelle di Francesca, aumentavano il tumulto del suo cuore.

— Eppure lo dice anche la canzone, — riprese la strana fidanzata, scuotendo la testa appoggiata al tronco del sovero e parlando davvero come in sogno; — son belle le cose lontane, le stelle in cielo, i bastimenti in mare, gli uccelli che volano alti sulle nuvole. Io penso a lui quando vedo queste cose; e quando soffia il vento mi pare sia lui a dirmi parole d’amore; e se sono stanca e mi riposo, mi pare sia lui a sedermi accanto; e quando cammino, cammino sempre con lui; e parliamo, e non più questioni sorgono fra di noi. Così cammineremo fino alla morte.

— E lascia queste cose, — ribattè Maria Lia; ma anche la sua voce era turbata. — Egli tornerà, vi sposerete e riprenderete le questioni. Perché vuoi che non torni?

— Non sono io che lo voglio; è la sorte.

— Ma, parli sul serio, Francesca, o ti burli di noi? Francesca non rispose. Teneva sempre gli occhi chiusi: d’un tratto però li riaprì: e vide che anche Luca riapriva i suoi: si guardarono ancora, spinti da una forza interiore alla quale non potevano resistere; ed entrambi si scolorirono in viso, tramortiti dalla rivelazione del loro amore.



Francesca tornò a frequentare l’ovile, sebbene si accorgesse che le sue visite non piacevano al nonno. Il nonno la sorvegliava più di prima, non le lasciava modo di avvicinarsi a Luca: e del resto anche Luca la sfuggiva.

Era diventato un po’ strano, come nei giorni prima della disgrazia; se ne andava lontano, fino alle rovine, e più in là ancora; teneva il sacco sempre pronto per la partenza, ma non partiva mai.

Il vecchio lasciava fare. Solo, un giorno che Luca disse di volersi recare in paese, egli non nascose la sua contrarietà Luca andò lo stesso: d’altronde, come impedirglielo? I loro rapporti erano mutati, e né l’uno si considerava più padrone, né l’altro più servo: tuttavia non riuscivano a separarsi.

Quando zio Ulpiano tornò in paese, domandò alla figlia:

— Che ha fatto Luca, l’altro giorno?

La donna non ricordava bene: il giovine aveva mangiato con loro, in famiglia, poi era uscito.

— Mi ha riportato una medaglietta che gli avevo messo al collo quando lo assistevo; e mi disse ch’era venuto apposta per questo.

— Solo per questo? Nelle camere di sopra non c’è stato?

La donna, poiché oramai si sapeva il mistero della disgrazia di Luca, lo guardò sorpresa.

— Perché? Vi manca qualche cosa ancora?

Il vecchio s’irritò, come un tempo, quando si parlava di Luca.

— Ecco, subito! Con voi donne non si può dire una parola che subito architettate una storiella da focolare4. Io non ho detto che mi mancasse qualche cosa: ho domandato se Luca è stato nelle camere di sopra.

La donna fece un gesto con la mano, per placarlo: in quegli ultimi tempi egli era diventato molto irascibile.

— Sì, mi pare che ci sia stato: sì, deve esserci stato, perché Francesca mi disse che ha portato via la sua roba.

Questa notizia parve soddisfare e nello stesso tempo contrariare il vecchio. Egli aveva veduto, nella capanna, il sacco di Luca completamente pieno: segno di prossima partenza.

Era tempo di finirla, sì. Non disse altro, in casa, ma andò dai suoi amici e dai parenti alla ricerca di un servo; e trovò un vecchio bisognoso, ancora in forze, che gli promise di entrare al suo servizio verso la fine di settembre.

Tornò quindi all’ovile soddisfatto, quasi allegro, come da molto tempo Luca non lo vedeva più; si mise anche a chiacchierare con lui, a confidargli di nuovo i suoi affari di famiglia.

— Hai veduto come si è ingrassata Gonaria? Sembra una ragazza di vent’anni, più bella delle sorelle che da quando fanno all’amore sono come succhiate dal vampiro.

Credendo di fargli piacere, Luca disse che forse la vedova pensava a riprendere marito; zio Ulpiano invece si sdegnò.

— Non è una femmina sciocca e dal sedere ardente, mia figlia Gonaria; non ha acqua in testa invece di cervello: pensa a ben altre cose più serie che non sia l’amore, ed è abbastanza ricca per non aggiogarsi un’altra volta. Ha raccolto cento cinquanta quarti5 d’orzo e ottanta di frumento: glieli ha requisiti il Governo, è vero, ma ha preso tanto da vivere con lusso per tre anni interi.

Egli parlava con stizza, tuttavia: Luca a sua volta tentò di placarlo, con accento, però, suo malgrado ironico.

— Lo so, lo so che siete tutti ricchi; tanto che non sapete quanto possedete.

Alludeva al disgraziato incidente del furto? Il vecchio credette così e s’irritò maggiormente, ma senza far vedere il fondo dei suoi pensieri: continuò quindi a parlare dei suoi affari con ostentazione. — Sì, anche il nostro raccolto è stato buono: sebbene quei ladri di mezzadri non diano mai la parte giusta, le camere in casa sono piene di frumento; sembrano barche pronte a partire. Se mia nipote vuol mandare pacchi di pane al fidanzato prigioniero non si prenderà in prestito certo il grano: se Dio vuole, può mandarne a mille prigionieri.

— Meno male che c’è il vostro Luca che pensa ad alleggerire il peso di tanta abbondanza.

— Gesù Signore Nostro: questo è vero, — ammise il vecchio. — Qui tu hai ragione, e quando uno ha ragione io non sto a contrastargliela. Luca è un pozzo senza fondo. Sai quanto ha pagato quello straccio lì, quella capannuccia di tela? Ottanta scudi, belli come ottanta stelle. E l’ha presa a credito: e Pantalone paga. Ma se non viene presto a levarmela di davanti agli occhi la butto giù a colpi di bastone.

Sornione e beffardo, Luca riprese:

— Ma se l’ha comprata per voi! Eppoi è buona per i cinghialetti e per le cornacchie che vi si arrotano il becco.

— Egli ha promesso di venire qui in agosto a passare qualche giorno con noi. Se non viene, ti assicuro io che quello straccio va in aria come un pallone volante.

— È buona per fare dei sacchi: possono servire per il frumento, poiché ne avete tanto.

A zio Ulpiano dava noia quel modo di parlare di Luca: guardò lontano e disse:

— Anche dalle parti tue il raccolto è stato abbondante, quasi favoloso: un mio compare, che è venuto una quindicina di giorni fa in paese, disse che non si era mai conosciuta tanta abbondanza. Certi proprietari hanno raccolto più di mille quarti di grano. Uno di questi è babbo tuo.

Luca si sentì battere il cuore, ma poi s’irrigidì. Che gl’importava delle ricchezze paterne? Egli era come un angelo decaduto, uno che volontariamente ha emigrato dal paradiso terrestre: e non voleva rimpiangere nulla, fisso ad una meta sua particolare, dove egli doveva ritrovare per forza sua propria quanto aveva abbandonato.

Domandò con arroganza:

— Chi è questo compare che conosce così bene gli affari del mio babbo? Ma zio Ulpiano — non sapeva precisamente neppure lui il perché — era spinto a pungere il giovine.

— È compare Teodoro Podda, l’avrai sentito nominare. È passato una volta anche di qui, mesi fa, ricordi? È ricchissimo pure lui: ha un figlio solo, e lo vuole ammogliare con Francesca nostra.

— Ah, — disse Luca con voce mutata, — è questo il pretendente del quale vostro nipote non ricordava il nome?

— Questo è.

— E il giovine è alla guerra?

— Sì, ed ha già preso due medaglie: adesso verrà in licenza, e, certo, verrà anche a trovarci in paese.

Luca non replicò subito: stralunò un po’ gli occhi, poi domandò con voce alquanto strozzata:

— E voi siete contento?

— Contento sono. È giovane valoroso, figlio unico, amante della famiglia. Francesca non ha che da varcare la soglia di quella casa per essere felice e comandare come una regina. E comanderà, sì, te lo assicuro io.

Dopo un primo senso di angoscia, Luca si riebbe e guardò il vecchio con insolenza: aveva voglia di fargli qualche smorfia e di cavare la lingua, come da bambino a quelli che lo indispettivano. Ah, tu, vecchio, vuoi pungermi, tu vuoi ancora farmi del male: adesso ti restituisco il colpo.

— Bisogna vedere se Francesca lo vuole.

Il vecchio parò freddamente il colpo.

— Lo vorrà, lo vorrà. Ha la testa troppo quadrata per non volerlo. Eppoi non sempre si è disposti a lasciarle fare tutto quello che a lei piace.

Luca allora non ribatté: anzi alzò le spalle con un gesto che da qualche tempo gli era abituale, e col quale pareva tentasse di allontanarsi di volo dalle cose che lo circondavano e l’opprimevano. S’allontanò, infatti, a lunghi passi; che gl’importava, dopo tutto, degli affari di zio Ulpiano e della sua maledetta famiglia? Era uccello di passaggio, lui, e non si curava che delle cose sue.


Ma quella è una cosa sua, la più sua di tutte le cose del mondo, com’è dell’uccello di passaggio l’aria senza la quale non può volare. Egli potrà andarsene, raggiungere i confini della terra o le vette della gloria, ma la troverà sempre sul suo cammino, qua e là, su e giù, ai quattro termini dello spazio, intorno e dentro di sé, respiro e vita sua.

Si buttò sull’erba, al sole, e gli parve di stringere al suo corpo il corpo nudo, caldo e tremante di Francesca.

— Francesca, cuore mio, perché adesso tuo nonno non vuole che ci amiamo? Sono ricco anche io, anche io figlio unico, e se voglio posso prendere, e le prenderò, non due ma sette medaglie. Non gli ho dato prova del mio coraggio? Non ho morsicato al cuore la morte? perché dunque non vuole?»

La voce di Francesca gli risponde col mormorìo dei soveri, appassionata e triste:

«Per quella cosa, amore mio.»

«Che gl’importa? Eravamo ragazzi, senza senso, col desiderio chiuso come la mandorla acerba. Ci sembrava di odiarci, mentre ci amavamo. Tu stessa l’hai detto, quel giorno, qui seduta sotto il sovero; dicevi: "egli mi credeva cattiva, ed io lo credevo cattivo; e ci maltrattavamo a vicenda. Ma adesso che ci conosciamo, lui sa tutto di me ed io so tutto di lui".»

Ricordava parola per parola la canzone d’amore di Francesca, e si strofinava gli occhi chiusi sull’erba per rivedere gli occhi di lei. Li rivedeva: oro, tenebre, tutto il verde della primavera, tutta la luce liquida delle notti di luna. Amore, amore! E gli pareva che un vento irresistibile li portasse via, assieme, congiunti in un possesso ch’era una vertigine quasi mortale.


A volte credeva ch’ella gli avesse fatto una malia. Quella medaglietta che s’era ritrovato al collo, quel diabolico piccolo San Francesco così diverso dalla tradizione, che doveva essere un santo lussurioso e protervo, lo aveva risanato dalla sua ferita per aprirgliene un’altra ben più insanabile.

E di giorno in giorno il suo male cresceva: il desiderio gli gonfiava le labbra, gli spalancava le narici come al puledro in amore: allora mordeva la scorza del sovero come il bambino a cui devono spuntare i denti morde il suo anello d’osso; e batteva e divideva le bestie che si accoppiavano.

Ma non era solo uno spasimo fisico; era anche un anelito dell’anima solitaria che cercava la sua compagna. Una notte di grande luna lo svegliò una voce che gli parve venisse dal fiume; era fresca, liquida, modulata come il suono di un flauto: s’alzava e si abbassava in archi scuri eppure lucenti, che aprivano come le porte misteriose di un palazzo incantato: là dentro c’era Francesca, che lo chiamava, che lo voleva, che sarebbe morta se egli tardava a raggiungerla. Coperto di un sudore di tormento e di gioia, strisciò fuori della capanna e andò giù, fino alle rovine. Gli pareva di attraversare a guado il fiume: realmente sentiva i piedi bagnati di rugiada, e muoveva le braccia come dividendo la luce equorea della luna.

D’un tratto però si fermò e si scosse: pareva un sonnambulo che si desta con paura. Era la realtà, che gli faceva paura. Poiché la voce dell’usignuolo sul sovero, adesso pareva lo irridesse e lo richiamasse indietro.

Tornò indietro; raccolse alcuni sassi e li lanciò con l’abilità di un fromboliere contro il sovero: l’usignuolo tacque; ed egli si mise a piangere.

Mai aveva pianto così; neppure al momento di uccidersi: e le lagrime calmarono il suo spasimo, con voluttà angosciosa, come se egli avesse posseduto in sogno Francesca.

Allora cominciò ad aspettarla, deciso di rivelarle il suo amore. Verso l’ora in cui ella era solita arrivare andava fino al sentiero e scrutava le lontananze. Ogni punto nero gli sembrava lei: e di nuovo l’allucinazione lo riprendeva: ecco ch’ella appare all’orizzonte, dove tutto è soffuso d’azzurro: è a cavallo, e il cavallo stesso ha un colore azzurrognolo, mentre la confusa figura di lei arde di rosso e di arancione. I suoi occhi riflettono, come sempre, il verde e l’oro del tramonto, e basta che si volgano a quelli di lui per succhiargli l’anima fino alle radici. Ma il cavallo, invece di andare avanti, sale, come il favoloso cavallo alato delle storie da focolare. Ah, Luca, infelice ragazzo fatturato, tu scambi la tua diletta con una nuvola della sera.



Il vecchio pareva non si accorgesse delle stramberie di Luca, e, dopo la sera delle confidenze, non gli parlava più dei suoi affari di famiglia. Anche lui, però, dimostrava una certa attesa, come aspettasse la venuta di qualcuno forse del pretendente di Francesca. Guardava sempre verso il sentiero, e non si allontanava mai dalla capanna.

Luca, in fondo, non s’illudeva: il vecchio vigilava ostile e inesorabile, pronto a troncare con la mazza l’amore suo e di Francesca, come egli rompeva quello delle bestie. E gli augurava in cuor suo mille accidenti, o almeno che si ammalasse di nuovo, come lo scorso anno, di un male non grave che però lo costringesse a tornarsene per qualche giorno in paese. Allora Francesca verrebbe: ma come diverso da quello dello scorso anno sarebbe l’incontro!

Egli rabbrividiva al solo pensarci; poi sospirava: no, la sorte si prende sempre beffa di noi, e ci offre le occasioni alla rovescia.

Ed anche quel suo sacco pieno, appeso al piuolo della capanna, gli pareva si burlasse di lui come una faccia grottesca gonfia di riso: Quando si parte, Luca? Aspetti proprio che ti mandi a chiamare il Re?

E pensando che Francesca non sarebbe venuta mai più, canticchiava la nenia antica della fanciulla che promette al suo spasimante di andare a trovarlo:



Cando as a bider sa ua
chin fiore in gennarju,
cando as a bider porcarju,
fattende casu porchinu,
cando as a bider caminu
in sor mares de Casteddu;
tando as a battire aneddu
pro isposare cun me,
cando as a bider su Re
colende in Monte— Leone,
cando as a intender anzone,
faeddende in casteddanu,
cando su puzone pranu,
at a esser cussuzzeri,
cando sa mela piperi
in prona si det bortare,
cando as a bider su mare,
cambiadu in litu ’e rosa,
cando as a bider a Bosa
de su tottu cambiadu.
Coricheddu, coro amadu,
chi t’isetto donzi die.

6 Gli ultimi due versetti, coi quali la fanciulla finisce di straziare l’innamorato, poiché li intona con beffa, come sia lui a cantarli, ricadevano sul cuore di Luca singultanti e accorati.



Francesca non veniva. Certo, era il nonno, quell’orco feroce, a proibirglielo; ma forse era anche il caldo. Un sole ardentissimo incendiava la pianura; da mesi non pioveva, e dove non arrivava la frescura delle ultime vene del fiume, o l’ombra costante dei soveri non conservava l’erba fresca, la terra sembrava coperta di spine, anelante anch’essa ad un alito amico che la rinfrescasse. Passava di tanto in tanto un po’ di vento, ma era come il respiro di un padrone malevolo che ispeziona i suoi servi: caldo ed umido, aumentava la sofferenza della terra, degli uomini e delle bestie.

Anche l’acqua del fiume veniva meno di giorno in giorno; Luca doveva condurre lontano il gregge per pascolarlo ed abbeverarlo; ed egli era contento di allontanarsi dal vecchio, ma sentiva come il peso di un enorme strascico, nel portarsi appresso quel nugolo di bestie, che, comprese le capre vivaci col loro maschio sempre furibondo di amore, andavano col muso a terra, stordite e silenziose come in funebre pellegrinaggio. Gli pareva di essere senza pensiero come loro, come loro spinto da una fame e una sete crudeli, col sole che gli si posava sulla testa con la sua raggiera infernale. Si sentiva come fatto lui stesso di fuoco, ed anche il pensiero di Francesca svaporava sciolto in quell’incendio del quale invece ella era in grande parte causa.

Per confortarsi, pensava alle marcie che avrebbe dovuto fare da soldato, e gli sembrava di allenarsi: il sudore allora gli era di refrigerio; serviva di unguento ai foruncoli di giovinezza che gli coprivano le spalle: ed egli si drizzava in punta di piedi, col collo già di uomo forte e la nuca possente solcati da rivoli di sudore; roteava il vincastro come una spada da condottiero e s’immaginava di condurre dietro di sé, trainato dalla sua forza e dal suo ardore, non un gregge assetato e puzzolente, ma un esercito vittorioso.

Ed ecco il letto bianco del fiume, che invita al riposo ed al piacere come un letto nuziale. Le vene e le conche dell’acqua celeste riportano la gioia anche nelle vene e nella testa degli uomini e delle bestie; gli oleandri in fiore, col loro profumo dolce— amaro, ricordano la passione che è vita e morte assieme, e l’usignuolo ne traduce con le sue note l’armonia fatale. Luca si buttava all’ombra degli arbusti tutti rosei di fiori, beveva piegato l’acqua corrente; si bagnava il viso, le mani ed i piedi. Allora aveva l’impressione fisica che le sue membra si spegnessero lentamente, divenissero del colore dell’acqua e della rena: il pensiero di lei tornava infatti sfolgorante, ed egli provava anche un senso di gratitudine, poiché gli pareva fosse lei sola a procurargli il refrigerio delle ombre, dell’acqua, dell’anima e del corpo.


Ma di giorno in giorno, col crescere della passione, scemava la speranza di soddisfarla. Così cresceva l’ardore solare e si consumava l’acqua del fiume. Gli stessi oleandri si appassivano, gli uccelli migravano verso i monti; anche nell’ovile le bestie selvatiche, le cornacchie ed il muflone, durante la giornata cadevano in un sopore che pareva la malattia del sonno. Le pecore si ammalavano di nuovo sul serio, ed il vecchio pensava al modo di emigrare anche lui con loro, verso i monti, per salvarle.

Solo per Luca non c’era più speranza. Francesca non sarebbe venuta mai più, ed egli aveva paura di andare da lei; paura di essersi illuso, e ch’ella lo cacciasse via, lui con le sue fantasticherie, come egli cacciava via i nugoli di moscherini che lo torturavano: o finiva col credersi davvero il misterioso fidanzato, di là dei sogni e dei desideri carnali, del quale aveva parlato Francesca.

— Sì, sì, me ne andrò, lontano, nei campi della morte, e quando cadrò ferito, col mio sangue scriverò il tuo nome sulla pietra. Così qualcuno te lo verrà a dire: e tu mi aspetterai, allora, come io ti ho aspettato adesso; mi aspetterai per tutta la vita, e solo dopo la morte c’incontreremo. Amen.



Deciso ancora una volta ad andarsene, pensò di lasciarle davvero un ricordo tangibile che le parlasse di lui e della sua passione. Questo ricordo non poteva essere che un piccolo dono, da portarsi addosso, in seno, in tasca, in modo ch’ella non lo lasciasse mai e non lo dimenticasse. Dapprima egli pensò, per sedurla di più in questo incantesimo, ad un talismano; ad una medaglia; ad un anello; poi ad un coltellino a serramanico. Ma no; erano cose, queste, usuali, da comprarsi; ed egli voleva donarle un oggetto nuovo tratto dalla natura, poiché non poteva strapparsi il suo stesso cuore e offrirlo a lei come i cuori d’argento che si depongono ai piedi della Madonna.

Si guardò attorno e ricordò che col sughero, che è la scorza flessibile del sovero, si possono fare tante cose mirabili: persino scarpette e fazzolettini ricamati. Prese dunque il coltello affilato che serviva a squartare gli agnelli, e intagliò e fece schizzare a pezzi la prima ruvida e grigia corteccia dell’albero che aveva sentito la canzone d’amore di Francesca: sotto apparve il sughero, sanguinante come una carne scorticata. Egli ne tolse un quadratino, e sul tronco ripose la corteccia staccata, come a coprire una ferita che gli faceva male agli occhi. Poi mise il sughero a bagno, in una ciotola che nascose: zio Ulpiano non doveva accorgersi di nulla: o meglio era lui che amava compiere in segreto, come un sortilegio, la sua opera misteriosa.

Due giorni e due notti ci pensò: di notte sognava di fabbricare strani amuleti di ocra e di pietra, o di trovare fra le rovine, antichissime armille e scatolette d’osso lavorato.

Durante uno di questi sogni gli balzò in mente l’idea netta di quello che veva fare: si svegliò con gioia, come l’artista che ha trovato il seme della sua opera; e mentre beveva il latte dalla tradizionale tazza di corno di bue che il vecchio teneva cara come un vaso sacro, ne esaminò i disegni. Erano sempre gli stessi, immobili eppure come danzanti intorno alla tazza, per il roteamento che egli le faceva eseguire. Il cacciatore col corno richiamava i cervi e i daini della foresta, non per ammazzarli ma per invitarli ad una festa di primavera: poiché anche il cacciatore era innamorato, e la stessa colomba che veniva appresso, primitiva nel disegno tanto da sembrare un pipistrello bianco, era meno mite e commossa di lui. Ed ecco la palma, che è segno di pace e di altezza, e la croce che indica i quattro punti cardinali della vita: la nascita e la morte, l’amore e il dolore: infine veniva il cuore, ferito eppure esultante, con la fiamma alimentata dal suo centro, dove forse si nasconde Dio: riappariva il cacciatore che inseguiva quel cuore irraggiungibile, del quale era innamorato poiché lo credeva quello di una fanciulla, e che per la sola gioia del suo amore richiamava i cervi e i daini della foresta, gli agnellini del prato, e gli uccelli del cielo a far festa con lui.

Nella capanna c’erano altre tazze di corno più piccole, tutte col fondo di sughero; fra le altre una piccolissima, che non serviva a nulla. Luca la cercò, la portò via con sé; con sé prese il quadratino del sughero, divenuto giallo, morbido come di gomma; e quando fu solo, col gregge che succhiava il seno del fiume, mise la tazzina sulla palma della mano e la guardò attraverso la luce come fosse di cristallo. Di cristallo non era; ma così lavorata e levigata dal tempo che pareva d’avorio grigio, con ombre d’argento; tratta forse dal corno di un vecchio ariete che per tutta la sua vita non aveva fatto altro che godersi la natura e l’amore.

«E tu andrai nella tasca o nel seno di Francesca; e da giovine ella ti conserverà come ricordo d’amore, e da vecchia trarrà ancora da te momenti di piacere; e vorrà che tu sii sepolta con lei, nella sua tasca, o nel suo seno, dove io ti ritroverò quando, dopo morti, io e lei ci incontreremo per non lasciarci più. Amen.»

*

Adesso egli recitava le sue strofe d’amore come preghiere, sebbene in quell’amen ci mettesse un po’ d’ironia, verso il destino e verso sé stesso: poiché l’uomo che veramente ama non dispera che alla superficie della sua anima.

Col suo coltello a serramanico, puntuto e arrotato come uno stiletto, egli dunque spaccò l’orlo della tazzina, poi ne ritagliò intorno un pezzo, in modo che la ridusse non più alta di tre centimetri: dal quadratino del sughero ricavò infine il tappo, che levigò e disegnò ricopiando quello che formava il fondo della tazza.

Ridotta così, questa non era più che una scatoletta alquanto ovale, che adesso bisognava decorare.

Altri due giorni egli impiegò per finire l’opera. Trovò il modo di scavare il tappo e farlo aderire attaccato alla scatoletta come un coperchio; infine cominciò ad incidere sul corno la teoria delle immagini significative. L’ultima notte, egli aveva sognato di ritrovarsi nella casa dello zio prete, che era piena di mobili antichi: stava seduto su una cassa nera; e qualche cosa di triste doveva accadergli; ma si ribellava al presentimento, e voleva di nuovo fuggire, fuggire per sempre. Chi glielo impediva? Non sapeva, ma era come legato, e per la rabbia si piegò, tentando di morsicarsi i piedi per svegliarli dal loro sopore. Nell’atto si accorse che la cassa era coperta di misteriosi disegni: ed ecco adesso li ricordava e cercava di riprodurli.

L’immancabile cuore fu il primo; invece della fiamma egli però vi fece fiorire una rosa. Rosa, cuore di primavera, immagine della bellezza di Francesca, fiorisci dalla radice del mio cuore, e porta all’amata il saluto e l’augurio di una eterna giovinezza. Amen. Poi disegnò, sempre incidendo il corno con la punta del coltello, un vaso: le anse erano due colombe che vi si abbeveravano. Coppa d’amore, anche questa, dalla quale egli non avrebbe mai più bevuto, come adesso che amava Francesca. Anche sulla croce che seguiva si posavano due colombe col ramo d’olivo nel becco: poiché il messaggio di lui era fatto anche di pace. Pace a te, o fanciulla, anche se tu non mi ami e non mi amerai, anche se ne amerai un altro: pace a voi due e alla vostra generazione. Il vero amore è fatto così. In ultimo veniva un agnello, che egli tentò di copiare dal vero: e questa era la sua firma: l’agnello, simbolo di sacrifizio d’amore. Amen. Poi tinse le sue miniature col succo della noce.

Quando l’opera fu finita, egli si fece il segno della croce, senza sapere che aveva riprodotto i simboli della fede, portati da Dio sulla terra. Una gioia profonda gli rischiarava l’anima; eppure, mentre ammirava sulla palma della sua mano la scatoletta, che gli pareva grande e solenne come un tempio, si mise a ridere, di piacere, sì, ma anche per quel senso d’ironia che accompagnava le sue esaltazioni. Gli sembrava di vedere Francesca, vecchia, curva sul bastone: i denti le erano caduti come i semi dal fiore spogliato; i suoi occhi s’erano nascosti entro due grotte brune: eppure di tanto in tanto, dalla profondità del tempo, essi raggiavano ancora quando le dita di lei aprivano la scatoletta e portavano un pizzico di tabacco al naso.

Poiché l’amore e l’arte di lui avevano proprio creato una tabacchiera.



E adesso egli era deciso di andarsene. Mise la tabacchiera nel suo sacco, pensando al modo di farla pervenire a Francesca senza più lasciarsi vedere da lei, e legò forte il fagotto perché il vecchio si accorgesse che egli era pronto a partire.

Era dunque l’ultimo giorno, quello: per l’ultima volta condusse il gregge al fiume, camminando stordito e di nuovo oppresso da una tristezza mortale. I prati di stoppie, di là dal fiume, gli parevano i campi gialli della luna, dove tutto è morto per l’eternità.

Addio, addio. Non gli dava più sollievo neppure il pensiero di andare alla guerra e vestirsi di gloria, poiché doveva spogliarsi del suo vestito d’amore.

Addio, addio. Tutto oramai è inutile per lui sulla terra; tutte le strade conducono alla stessa meta, e l’unica cosa, forse, è di ritornare nella sua funebre casa e deporre la testa sul grembo della madre come il bambino morente.

Eppure... Allucinazione o realtà? In fondo ai prati di stoppie, come sull’arco d’oro della luna sorgente, sboccia un’apparizione. Era Francesca, a cavallo. La sua figura svaporava nera nella grande luce, come appunto al chiaro di luna, ed il cavallo luccicava: era sudore, ma pareva argento.

Luca osservò subito ch’ella veniva dalla parte opposta d’onde usava arrivare. Perché? Perché ella giungeva di là, dall’orizzonte dove salgono le nuvole, come se arrivasse dal mare?

Fermo, tutto in sudore, egli si sentiva struggere: ancora un momento e sarebbe caduto sul greto del fiume come una goccia d’acqua.

Perché Francesca veniva così? Dopo il primo stordimento egli lo capiva bene, questo perché. Francesca aveva svoltato per i prati, perché sapeva d’incontrarlo e così sfuggire alla vigilanza del nonno: era più furba e ardita di lui, Francesca bella, ed egli ne provò un senso d’orgoglio, come s’ella fosse un’eroina.

Ma quasi volesse ancora prendersi gioco di lui, arrivata a poca distanza, ella lo salutò con la mano e accennò a proseguire verso l’ovile. Al suo passaggio le pecore si sbandarono, ed ella passò in mezzo a loro, davvero come un’eroina attraverso un esercito in fuga: ma poi parve riflettere; scivolò di sella e condusse il cavallo ad abbeverarsi.

Luca seguiva i movimenti di lei, con occhi or corrucciati ora sfolgoranti di gioia.

— Sai che mi sono perduta, cercando il fiume? — ella disse, ridendo lei stessa della sua bugia: la sua voce però risonava un po’ rauca, come quel giorno quando ella parlava del suo amante lontano.

— Che caldo, — disse poi, buttando in aria il fazzoletto. — Mi pare di aver attraversato l’inferno viva.

Si piegò per lavarsi: le sue trecce umide di sudore parevano di giunchi neri, sopra la nuca dorata sulla quale Luca avrebbe voluto a sua volta piegarsi per placare la sua sete insostenibile.

Senza sollevarsi, ella si asciugò il viso col grembiale, e guardò Luca come dalla profondità di un fiume che non era quello arido ai suoi piedi, ma un fiume grande, luminoso e travolgente.

Egli non vide mai più in vita sua occhi simili: gli dicevano: vieni, prendimi, andiamo assieme travolti, onda fra le onde, nel gorgo di luce che ci condurrà alla gioia eterna: vieni, siamo gli occhi stessi dell’amore, del sogno che si tramuta in realtà: gli occhi stessi della vita, gli occhi di Dio.

Affascinato, egli si avvicinò e le mise una mano sulla spalla calda; poi si piegarono entrambi sul letto bianco del fiume, tra i giunchi che li salutavano complici e ridenti, in mezzo ai cespugli, alle bestie, alle cose tutte che parevano sciogliersi in una passione comune.



Il nonno lasciò che Francesca, arrivata poco prima del ritorno di Luca dal fiume, si desse un gran da fare per trattenersi il più tardi possibile nell’ovile.

— Fa pure, fa pure, ragazza: è giusto che tu spazzi la capanna, e cerchi di far bello e pulito il luogo dove vive e pensa a te il tuo diletto; arriverà bene il momento di andartene: e quando tornerai un’altra volta, forse non sarai così solerte, perché l’oggetto delle tue premure sarà andato a casa del diavolo.

Il momento arriva e Francesca se ne va, con aria un po’ stanca, insolitamente seria e composta sul cavallo paziente che cammina con la testa bassa piegata a sinistra come per guardare la sua ombra obliqua.

Anche il vecchio guarda la sua ombra obliqua che gli pare rifletta davvero l’anima sua in quel momento; poi si raddrizza e pensa che è giunto il momento di riprendere la linea d’un tempo.

E subito chiamò Luca.

Luca si era nascosto: aveva paura del vecchio e aspettava che un po’ d’ombra cadesse su quell’infinita luce del tramonto e velasse anche il suo viso, che egli si sentiva ardere e splendere simile al sole.

La voce che lo chiamava gli parve dura come quella del destino: tuttavia si presentò subito, e si accorse che zio Ulpiano lo guardava con freddezza crudele, osservandolo attraverso la luce per cercare il punto dove colpirlo meglio.

Egli però era pronto.

— Luca, — disse l’altro, mettendosi a sedere davanti alla capanna, — ho da parlarti.

Alzando la voce, riprese:

— Luca, ricordi quando ti sei presentato la prima volta? Quante bugie mi hai rifilato! Speriamo che adesso sii più veritiero.

— Ve ne ho dato già prova, di essere veritiero, — Luca rispose; e si sollevò su sé stesso, riprendendo fierezza. — E allora, dimmi, perché tieni il sacco sempre pronto per andartene?

— Perché volevo giusto andarmene.

— Volevi? E adesso non vuoi più? Perché?

— Dipende da voi. Io sono rimasto per riconoscenza, perché vedevo che c’era bisogno di me: e aspettavo che me lo diceste voi, di andarmene.

— Ebbene, sì, è giunto il momento: vattene.

Luca impallidì, di sdegno, ma ancora più di passione, e sopratutto di orgoglio. Tuttavia disse, calmo:

— Era meglio che me lo diceste prima di oggi, di andarmene. Sì, zio Ulpiano, me ne vado: ma se Dio vuole tornerò, e presto.

— Tu non tornerai mai più in casa mia, Luca. Io non ti voglio male, e ti auguro anzi ogni bene. Va, torna da tua madre, e rimani una buona volta in casa tua, finché la patria e il destino non ti chiamano. E sopratutto non pensare più a tornare qui.

— Ma, infine, si può sapere che male vi ho fatto e perché il vostro affetto s’è mutato in rancore? Anche l’altra volta... Al ricordo dell’altra volta, il vecchio smise la sua aria un po’ forzatamente bonaria, e divenne quasi feroce.

— Non parlare di quello! — gridò, ma già Luca era pentito e sentiva uno strano tumulto in cuore, come se l’odio, l’angoscia, il rancore sepolti in fondo a lui dalla nuova passione, si sollevassero, mischiandosi a questa, e tentando di soverchiarla.

Il vecchio riprese, di nuovo dominandosi:

— Che cosa mi hai fatto? E me lo domandi? Rispondi tu, piuttosto, ad una mia domanda: dove sei stato, oggi?

Luca non rispondeva; non perché volesse nascondere la verità, ma per non esasperare il vecchio; solo, quando questi ribatté: — non dirai che questa volta i miei sospetti siano infondati; — rispose con semplicità:

— Sposerò Francesca.

— Tu non la sposerai, no: questo volevo dirti.

Luca abbassò la testa: per l’umiliazione del rifiuto, o per nascondere il balenio fra sdegnoso e beffardo dei suoi occhi? Poi domandò:

— Ma perché? — Perché così dev’essere. Perché tu e lei siete due anime cattive, e da voi non può nascere che male. Va; l’Anticristo, nascerebbe da voi.

— Siamo ragazzi, zio Ulpiano, ed io devo ancora fare la guerra, che mi raddrizzerà la schiena.

Così ribatteva Luca, e pareva beffarsi del vecchio; ma in fondo sentiva un vago terrore: forse zio Ulpiano aveva ragione, ma troppo tardi parlava.

— Sì, Luca, voi siete ragazzi ed io sono vecchio; ma appunto per questo so come vanno a finire certe cose. Ti ricordi la leggenda di Oppia? Le vedi ancora le rovine, che pare brucino ancora? I vecchi avevano tanto lavorato ad accumulare ricchezze, che i giovani venivano su rammolliti dal benessere e dal troppo amore dei loro parenti. E cercavano il diavolo, cioè il male, per ozio, per stanchezza del loro benestare. E il male li vinse e distrusse la città. Tu sei uno di quelli. Hai lasciato la tua casa, hai rubato, sei andato verso le tenebre. Male ho fatto, io, ad accoglierti, dopo che ho saputo chi eri: ed ho anch’io scontato la mia parte. Tu hai attaccato il tuo male in casa mia, senza volerlo, certo, ma lo hai attaccato. Non nego che Francesca, parliamoci chiaro, non partecipi alla tua natura; ma se tu non venivi, se lei non ti avesse creduto il diavolo in persona, non avrebbe fatto quello che ha fatto. E quello che è stato non lo cancella neppure Dio: neppure il tuo sangue, Luca, ha potuto cancellarlo. E appunto perché c’è di mezzo il sangue, e il delitto, voi due non potete unirvi.

Luca ascoltava, abbassando sempre più la testa, ritraendosi in sé, come se le parole del vecchio lo lapidassero: pareva intendesse la ragione. Umilmente disse:

— Va bene: ma vi farò poi vedere che v’ingannate. La vera storia di Oppia è altra, e il diavolo non ci ha a che fare...

— Gesù Signore Nostro!

— Lasciatemi parlare, zio Ulpiano; tanto devo andarmene. Me ne andrò, diventerò pure io uomo... e allora...

— Allora un corno! Tu seguirai la tua via, e noi la nostra: e quando tu sarai uomo, Francesca sarà anche lei una buona madre di famiglia, e non si ricorderà più di te. — Va bene, va bene, — ripeteva Luca: e parve rassegnato al suo destino.

— Allora, Luca, senti: è bene che tu te ne vada via subito. Io non ti scaccio, bada; aderisco semplicemente al tuo desiderio, poiché per andartene tu dici che aspettavi una mia parola. E ti parlo ancora come avevo promesso a tua madre: ti parlo come un nonno. Puoi prendere uno dei miei cavalli: me lo rimanderai poi a tuo comodo, con uno dei servi di tuo padre; sarà questo, anzi, un segno che tu hai ripreso il tuo giusto posto nel mondo. E mi saluterai tua madre.

Luca parve disposto anche ad accettare il cavallo, perché volse istintivamente gli occhi a guardare il prato dove le bestie pascolavano tranquille sotto lo splendore del tramonto.

Il vecchio non cessava di osservarlo, e gli sembrava di vederne i pensieri come se la testa di Luca fosse di cristallo.

— Ma bada, oh, ragazzo, non ti venga in mente di andare a casa mia, di parlare con Francesca e rimanere d’intesa con lei: allora diventiamo nemici davvero, e sarà lei, quella capriola, a scontare tutto in una volta.

Luca parve raccogliere e nascondere il suo sguardo, e di nuovo piegò la testa: una lieve ansia gli gonfiava il petto: infine si scosse, ritrovò tutta la sua volontà, il suo orgoglio, la sua coscienza. Disse:

— Io non voglio il vostro cavallo. Come sono venuto me ne andrò: e dove andrò questo non vi riguarda.

Entrò nella capanna, prese il sacco, se lo caricò sulle spalle: e provava un senso di gioia selvaggia, di forza, di liberazione, come se partisse di nuovo da un luogo dove era soggetto, dove anche i suoi buoni propositi venivano scambiati per progetti di male e quindi frustati e legati.

Il vecchio lo aspettava di fuori; volle liquidargli il conto, e credeva che Luca rifiutasse i denari: Luca invece li prese, senza contarli, se li cacciò in tasca con indifferenza, poi si aggiustò il sacco sulle spalle e fu pronto per andarsene. Ma prima si drizzò davanti al vecchio, col viso verso occidente, alto e rigido come un soldato deciso a compiere il proprio dovere. Disse:

— Zio Ulpiano, voi non sapete tutta la verità: io e vostra nipote ci siamo presi.


E credette che al vecchio venisse un colpo mortale, poiché lo vide farsi gonfio e pavonazzo in viso, e poi trascolorarsi come un cadavere. Ma subito zio Ulpiano si riprese; i suoi occhi sfolgorarono di collera, il suo grido cupo ed ampio parve un boato.

— Vattene!

Luca obbedì: ma andò in paese e domandò la mano di Francesca alla madre di lei.



Col tempo, il vecchio si placò. Seduto davanti alla capanna, fumava la pipa e guardava la tenda di Luca che serviva di nido ai due giovanissimi sposi. In cima alla tenda vedeva spuntare come da una montagna la grande luna d’autunno, color del miele, ma con la bocca sogghignante; e anche lui pareva sogghignasse, mentre storceva la bocca per succhiare meglio la pipa, pensando che nella vita la cosa più inutile è l’esperienza dei vecchi.



Qualche mese dopo Luca partì per la guerra: ma da questo punto la sua storia rientra nella grande Epopea che aspetta il suo grande poeta; il piccolo poeta del dolore e dell’amore ha qui finito la storia di Luca e di Francesca.

  1. Ancora una volta si avverte essere uso sardo dare il titolo di “zio„ alle persone anziane del popolo.
  2. Il delfino.
  3. Se sei cosa buona, vai in buonora;
    Se sei cosa cattiva, vai in malora.
  4. Favola
  5. Quarto d'ettolitro
  6. Quando vedrai la vite – fiorire in gennaio – quando vedrai (il) porcaro, – facendo cacio porcino – quando vedrai (una) strada – sui mari di Cagliari; – allora farai venire l'anello, – per sposarti con me: – quando vedrai il Re, – passando in Monte-Leone, – quando sentirai (l')agnello, – parlare in cagliaritano; – quando l'uccello piano (?) – sarà consigliere, – quando la mela appiola – in prugna si muterà; – quando vedrai il mare, – mutato in prato di rose: – quando vedrai Bosa – del tutto cambiato. – Cuoricino, cuore amato, – che t'aspetto ogni giorno.
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