< Il ventre di Napoli
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Cap. II - Quello che guadagnano
I III


II.


QUELLO CHE GUADAGNANO.


Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz’aria, senza luce, senza igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d’immondizie, respirando miasmi e bevendo un’acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le colline: onde il giorno di Ognissanti, quando da Napoli tutta la gente buona porta corone ai morti, sul colle di Poggioreale, in quel cimitero pieno di fiori, di uccelli, di profumi, di marmi, vi è chi li ha intesi gentilmente esclamare: o Gesù, vurria murì pe sta ccà!

Questo popolo ama i colori allegri, esso che adorna di nappe e nappine i cavalli dei carri, che s’impiuma di pennacchietti multicolori nei giorni di festa, che porta i fazzoletti scarlatti al collo, che mette un pomidoro sopra un sacco di farina per ottenere un effetto pittorico e che ha creato un monumento di ottoni scintillanti, di legni dipinti, di limoni fragranti, di bicchieri e di bottiglie, un monumentino che è una festa degli occhi: il banco dell’acquaiuolo.

Questo popolo che ama la musica e la fa, che canta così amorosamente e così malinconiosamente, tanto che le sue canzoni danno uno struggimento al core e sono la più invincibile nostalgia per colui che è lontano, ha una sentimentalità espansiva, che si diffonde nell’armonia musicale.

Non è dunque una razza di animali che si compiace del suo fango; non è dunque una razza inferiore che presceglie l’orrido fra il brutto e cerca volonterosa il sudiciume; non si merita la sorte che le cose gl’impongono; saprebbe apprezzare la civiltà, visto che quella pochina elargitagli se l’ha subito assimilata; meriterebbe di esser felice.



Abita laggiù, per forza. È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa, così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità privata, fluidissima, non arriva a vincere; non la miseria dell’ozioso, badate bene, ma la miseria del lavoratore, la miseria dell’operaio, la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno.

Questo lavoratore, quest’operaio non può pagare un affitto di casa che superi le quindici lire il mese: e deve essere un operaio fortunato. Vi è chi ne paga dieci, chi ne paga sette, chi ne paga cinque: questi ultimi formano la grande massa del popolo. Anni fa, una compagnia cooperativa edificò, verso Capodimonte, un falansterio di case operaie, chiare, pulite, strettine, ma infine igieniche: per quanto restringesse i prezzi, non potette dare i suoi appartamentini a meno di trentaquattro lire il mese.

Nessun operaio vi andò.

Vi andarono degli impiegati con le famiglie, qualche pensionato, gli sposetti poveri, insomma una mezza borghesia che vuol nascondere la sua miseria e avere la scaletta di marmo.

Quel grandissimo edificio resta li, a far prova della miseria napoletana: anzi, anzi, gli scrupolosi e presuntuosi borghesi che vi abitano, punti nel loro amor proprio da coloro che li accusavano di abitare le case operaie, hanno fatto dipingere a grandi caratteri questa scritta, sull’ingresso maggiore: le case della cooperativa non sono case operaie. Iscrizione crudele e superba.

Trentaquattro lire? Queste trentaquattro lire un operaio napoletano le guadagna in un mese: chi porta una lira di giornata a casa, si stima felice.

Le mercedi sono scarsissime, in quasi tutte le professioni, in tutt’i mestieri. Napoli è il paese dove meno costa l’opera tipografica; tutti lo sanno: i lavoranti tipografi sono pagati due terzi meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano tre lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano una a Napoli, tanto che in questo benedetto e infelice paese, è dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri. I sarti, i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati nella medesima misura: una lira, venticinque soldi, al più trenta soldi al giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo. I tagliatori di guanti guadagnano ottanta centesimi al giorno. E notate che la gioventù elegante di Napoli è la meglio vestita d’Italia; che a Napoli si fanno le più belle scarpe e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i più buoni guanti. Altri mestieri inferiori stabiliscono la mercede a settantacinque centesimi, a dodici soldi, a dieci soldi. Per questo non possono pagare più di cinque, sette, dieci lire il mese di pigione — e come la miseria incombe, la donna, la moglie, la madre, che ha già molto partorito, che ha allattato, tutti quelli che dovrebbero lavorare in casa, cercano lavoro fuori.

Fortunate quelle che trovano un posto alla fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come cappellaio, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese, ma sembra loro una fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile si dà al servizio.

La serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un’ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l'uno, e corrono continuamente da una casa all’altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva per addormentarsi subito.

Queste serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza; ma sono esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza, che ispirano. Hanno trent’anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule sei mesi. Non si lamentano, non piangono: vanno a morire prima di quarantanni, all’ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà prese il colera!

E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano.

Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono amate, si sono maritate: dopo, il marito e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono.

Me ne rammento una: aveva tre figli, un piccolino, specialmente, bellissimo. Aveva già due anni e gli dava ancora il latte, non aveva altro da dargli da mangiare; questo bimbetto l’aspettava, ogni sera, seduto sullo scalino del basso. Diceva il medico dell’assistenza pubblica: «levagli il latte che ti si ammala.» Ella chinava il capo: non poteva levargli il latte. Si ammalò di tifo, il bimbo; le morì. Ella mondava le patate, in una cucina, e si lamentava sottovoce: «figlio mio, figlio mio, io t’aveva da accide, io t’aveva da fa muri! O che mamma cana che ssò stata! Figlio mio, e chi m’aspetta cchiù, la sera, mmocc’a porta?

Il lavoro dei fanciulli? Ahimè, le madri sono molto contente, quando un cocchiere signorile vuol prendere per mozzo un fanciullo di dodici anni, dandogli solo da mangiare; sono molto contente, quando un mastro di bottega lo piglia, facendolo lavorare come un cane e dandogli solo la minestra, la sera; la pietosa madre gli dà un soldo per la colazione, la mattina.

Le sarte, le modiste, le fioraie, le bustaie prendono per apprendiste delle fanciullette dodicenni, che sono, in realtà, delle piccole serve e che guadagnano cinque soldi la settimana! Ma, per lo più, queste creature restano a casa o nella strada, tutto il giorno.

Nelle campagne, il figlio è una gioia, è un soccorso, è una sorgente di agiatezza; in Napoli, rappresenta una cura di più, una pena materna, una sorgente di lagrime e di fame.

Sentite un poco quando un’operaia napolitana nomina i suoi figli. Dice: le creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna pietà, con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente, la intensità della miseria napoletana.

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