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IX.
LA PIETÀ.
Quando una popolana napoletana non ha figli, essa non si addolora segretamente della sua sterilità, non fa una cura mirabile per guarirne come le sposine aristocratiche, non alleva un cagnolino o una gattina o un pappagallo come le sposette della borghesia. Una mattina di domenica ella si avvia, con suo marito, all’Annunziata, dove sono riunite le trovatelle: e fra le bimbe e i bimbi, allora svezzati già grandicelli, ella ne sceglie uno con cui ha più simpatizzato, e, fatta la dichiarazione al governatore della pia opera, porta con sè, trionfando, per lo più la piccola figlia della Madonna.
Questa creaturina, non sua, ella l’ama come se l’avesse essa messa al mondo; ella soffre di vederla soffrire, per malattia o per miseria, come se fossero viscere sue; nella piccola umanità infantile napoletana i più battuti sono certamente i figli legittimi; di battere una figlia della Madonna, ognuno ha un certo ritegno; una certa pietà gentilissima fa esclamare alla madre adottiva: puverella, nun aggio core de la vattere, è figlia de la Madonna. Se questa creatura fiorisce in salute e in bellezza, la madre ne va gloriosa come di opera sua, cerca di mandarla a scuola o almeno da una sarta per imparare a cucire, poichè certamente, per la sua bellezza, la bimba è figlia di un principe: in nessun caso, di miseria o d’infermità, la madre adottiva riporta, come potrebbe, la figliuola all’Annunziata. E l’affezione, scambievole, è profonda come se realmente fosse filiale; e a una certa età il ricordo dell’Annunziata scompare e questa madre fittizia acquista realmente una figliuola.
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Ma vi è di più: una madre ha cinque figli. Il più piccolo ammala gravemente, ella si vota alla Madonna, purchè suo figlio guarisca; ella adotterà una creatura trovatella. Il figlio muore; ma la pia madre, portando al collo il fazzoletto nero che è tutto il suo lutto, compie il voto, lagrimando. Così, a poco a poco, la creatura viva e bella consola la madre della creatura morta, e vi resta in lei solo una dolcezza di ricordo e vi fiorisce una gratitudine grande per la figlia della Madonna.
Talvolta il figlio guarisce e il primo giorno in cui può uscire, la madre se lo toglie in collo e lo porta nella chiesa dell’Annunziata, gli fa baciare l’altare, poi vanno dentro a scegliere la sorellina o il fratellino. E fra i cinque o sei figli legittimi, la povera trovatella non sente mai di essere una intrusa, non è mai minacciata di essere cacciata, mangia come gli altri mangiano, lavora come gli altri lavorano, i fratelli la sorvegliano perchè non s’innamori di qualche scapestrato, ella si marita e piange dirottamente quando parte dalla casa, e ci ritorna sempre, come a rifugio e a conforto.
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Un caso frequente di pietà è questo: una madre troppo debole o infiacchita dal lavoro ha un bambino, ma non ha latte. Vi è sempre un’amica o una vicina o qualunque estranea che offre il suo latte; ne allatterà due, che importa? il Signore ci penserà a mandarle il latte sufficiente. Tre volte al giorno la madre dal seno arido porta il suo bimbo in casa della madre felice: e seduta sulla soglia, guarda malinconicamente il suo figlio succhiare la vita. Bisogna aver visto questa scena e avere inteso il tono di voce sommesso, umile, riconoscente con cui ella dice, riprendendosi in collo il bimbo: u Signore t’u renne la carità che fai a sto figlio. E la madre di latte finisce per mettere amore a questo secondo bimbo, e allo svezzamento ci soffre di non vederlo più: e ogni tanto va a ritrovarlo, a portargli un soldo di frutta o un amuleto della Vergine; il bimbo ha due madri.
Io ho visto anche altro: una povera donna andava in servizio, non poteva tenere presso di sè il suo bimbo, lo lasciava a un’altra povera donna, che orlava gli stivaletti e lavorava in casa, cioè nella strada. Ella metteva i due bimbi, il suo e quello della sua amica, nello stesso sportone (culla di vimini), attaccava una funicella all’orlo dello sportone e dall’altra parte al proprio piede, e mentre orlava gli stivaletti, canticchiava la ninna nanna per i due bimbi; mentre orlava gli stivaletti, mandava avanti e indietro il piede per cullare i due bimbi nello stesso sportone.
A un’altra donna che stava in servizio, un’amica teneva il bimbo; ma veniva a portarglielo, da molto lontano, per farlo succhiare, sudando sotto il sole, con quel bimbo pesante in collo. L’intervista accadeva sul pianerottolo o in cucina: e accadevano questi piccoli dialoghi:
— S’è stato coieto almeno?
— Coieto sì, ma tene sempe famme.
— Core de mamma soia!
Poi l’allattamento finiva, l’amica riprendeva il bimbo non suo, dicendogli:
— Jammoncenne alla casa, ja’; core de la zia, saluta, saluta a mammà.
E se ne andava tranquillamente senza mormorare, mentre la madre, dal finestrino della cucina, guardava ancora una volta suo figlio.
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È naturale che il popolo non possa fare carità di denaro al più povero di lui, non avendone: ma si vedono e si sentono carità più squisite, più gentili.
Una cuoca si metteva sempre di malumore quando la padrona ordinava il brodo: era soltanto felice quando si ordinavano maccheroni o legumi o risotto, grosse e nutrienti minestre. Fu lungamente sospettata d’ingordigia, sebbene alla sua personcina malandata fosse più necessario il brodo che i maccheroni: in realtà ella dava la sua minestra, ogni giorno, ai due bimbi della portinaia, e preferiva dar loro un grosso piatto, anzichè tre cucchiaiate di brodo: ella — rimaneva senza.
Alla sera, quando vanno via, tutte le serve portano un fagottino degli avanzi del pranzo, quando la padrona ha la bontà di darglieli: e non servono per sè, sono per un fratellino, o per un nipote o per una madre vecchia o per qualche povera donna che non ha altro.
Nessuna serva mangia mai tutto quello che le date: tre quarti, una metà, talvolta tutto è destinato a un’altra persona.
E gli ammalati degli ospedali, la gente carcerata, trovano sempre una sorella, una zia, una comare, un’amica, un’amante che si torturano una settimana, per poter comperare al giovedì o alla domenica quattro aranci da sollevare la sete dell’infermo o della inferma, che lavano di notte, in fretta e in furia, la camicia del carcerato per potergliela portare il giorno seguente, lavata e stirata.
Bisogna andare a vedere che cosa sono le porte degli ospedali, nei giorni di visita: e che folla femminile vi si accalca, pallida e ansiosa! Io ho visto una moglie a cui il marito era morto all’ospedale, in un giorno, andare dal direttore da quanti medici di cui potette avere l’indirizzo, dalla direttrice delle suore, dalle suore, dagli inservienti, e piangere e pregare e scapigliarsi e scongiurarli, in nome di Cristo, che non le squartassero il marito. L’idea della morte la sopportava, ma l’autopsia la esasperava.
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Nessuna donna che mangi, nella strada, vede fermarsi un bambino a guardare, senza dargli subito di quello che mangia: e quando non ha altro, gli dà del pane. Appena una donna incinta si ferma in una via, tutti quelli che mangiano o che vendono qualche cosa da mangiare, senza che ella mostri nessun desiderio, gliene danno parte, la obbligano a prenderlo, non vogliono avere lo scrupolo.
E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio, da quella gente povera: chi dà un pezzo di pane, chi due o tre pomidoro, chi una cipolla, chi un po’ d’olio, chi due fichi, chi una paletta di carboncini accesi: una donna, per fare la carità in qualche modo, lasciava che una mendicante venisse a cuocere sul proprio fuoco, sul focolaretto di tufo, il poco di commestibile che la mendicante aveva raccattato. Tanto avrebbe dovuto perdersi, quel resto di fuoco, dopo la sua cucina; era meglio adoperarlo a sollevare una miserabile.
Un’altra faceva una carità più ingegnosa: essendo già lei povera, mangiava dei maccheroni cotti nell’acqua e conditi solo con un pò di formaggio piccante, ma la sua vicina, poverissima, non aveva che dei tozzi di pane secco, duro.
Allora quella meno povera regalava alla sua vicina l’acqua dove erano stati cotti i maccheroni, un’acqua biancastra che ella rovesciava su quei tozzi di pane che si facevano molli e almeno avevano un certo sapore di maccheroni.
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Una giovane cucitrice era stata a Gesù e Maria, l’ospedale, con una polmonite; poi si era guarita e pallida, esaurita, sfinita, era venuta via. Pure l’ospedale, per assisterla ancora in vista di una tisi probabile, le concedeva; ogni mattina, quattro dita di olio di fegato di merluzzo, che ella doveva andare a prendere lassù. Ella capitava ogni mattina, col suo bicchiere, sino a che fu rimessa completamente in salute: e allora le dissero che non le avrebbero più data la medicina. Ella si confuse, impallidì, pianse, pregò la monaca che per carità non gli sospendesse quell’olio — e infine fu saputo che di quell’olio ella si privava per darlo in elemosina a una povera donna — la quale, per miseria, superato il naturale disgusto, lo adoperava a condire il pane o a friggerci un soldo di peperoni.
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E ancora un altro fatto mi rammento. Un giorno, al larghetto Consiglio, una donna incinta, presa dalle doglie, si abbattè sugli scalini e sgravò nella strada. Il tumulto fu grande: ella taceva, ma per pietà, per commozione molte altre donne strillavano e piangevano. E in poco tempo, da tutti i bassi, da tutte le botteghe, da tutti i sottoscala, vennero fuori camicioline e fasce per avvolgervi la povera creaturina e lenzuola per la povera puerpera. Una madre offrì la culla del suo bimbo morto; un’altra battezzò il bimbo, facendogli il segno della croce sul visino; una terza questuò per tutte le case del vicinato; una quarta, serva, si offrì e andò a fare il servizio per la povera puerpera. La moglie del fornaio divise il suo letto con la puerpera: e il fornaio dormì sopra una tavola per dieci giorni, avendo per cuscino un sacco. E quella miserella piangeva di emozione, ogni volta che baciava suo figlio.
COMMIATO.
Qui finisce questo breve studio di verità e di dolore. Esso è troppo piccolo per contenere tutta la grande verità della miseria napoletana: troppo piccolo, sia permesso dirlo, per contenere l’umile e forte amore di un cuore napoletano. Opera incompleta di cronista, non di scrittore, uscito come un grido dall’anima, valga come ricordo, valga come preghiera. Serva per pregare chi può, per ricordare a chi deve: non abbandonate Napoli, ora che il colera è finito. Non la abbandonate di nuovo, presi dalla politica o dagli affari, non lasciate che agonizzi di nuovo questo paese che tutti dobbiamo amare. Fra le belle e buone città d’Italia, Napoli è la più gentilmente bella, la più profondamente buona. Non la lasciate povera, sporca, ignorante, senza lavoro, senza soccorso: non distruggete, in lei, la poesia d’Italia.