< Il ventre di Napoli
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Cap VIII. Il pittotesco
VII IX


VIII.


IL PITTORESCO.


Alla mattina, se avete il sonno leggiero, fra i tanti rumori napoletani, udirete uno scampanio in cadenza che ora tace, ora incomincia dopo breve intervallo: e insieme un aprire e chiuder porte, uno schiuder di finestre e di balconi, un parlare, un discutere a voce alta dalla strada e dalle finestre. Sono le vacche che vanno in giro per un paio d’ore, condotte ognuna da un vaccaro sudicio, per mezzo di una fune: le serve comprano i due soldi di latte, attardandosi sulla soglia del portone, litigando sulla misura; molte per non aver il fastidio di far le scale, calano dalla finestra un panierino dove ci è un bicchiere vuoto e un soldo, e da sopra protestano che è troppo poco, che il vaccaro è un ladro e fanno risalire il panierino con molta precauzione per non versare il latte; poi sbattono rabbiosamente le finestre.

Queste vacche si fermano innanzi a ogni porta, nel loro giro mattinale: dove le serve dormono ancora, il vaccaro grida forte acalate u panaro; se non sentono, batte forte il campanaccio della vacca. È un quadro pittoresco, mattinale: quelle vacche tutte incrostate di fango, quel vaccaro dalle mani nere che sporcano il bicchiere, quelle serve scapigliate e discinte, quelle comari dalla camiciuola macchiata di pomidoro.

L’altro lato del quadro è nel pomeriggio; dalle quattro alle sei, uno scampanellìo acuto e fitto: sono le mandre di capre che scorrazzano per tutte le vie della città, ogni branco guidato da un capraro con un frustino.

A ogni portone il branco si ferma, si butta a terra, per riposarsi, il capraro acchiappa una capra, la trascina dentro il portone per mungerla innanzi agli occhi della serva, che è scesa giù; talvolta la padrona è diffidente, non crede nè all’onestà del capraro, né a quella della serva; allora capraio e capra salgono sino al terzo piano, e sul pianerottolo si forma un consiglio di famiglia per sorvegliare la mungitura del latte.

Il capraro e la sua capra ridiscendono, galoppando, dando di petto contro qualche infelice che sale e che non aspetta questo incontro: giù, alla porta è un combattimento fra il capraro e le sue capre per farle muovere, fino a che queste prendono una corsa sfuriata, massime quando si avvicina la sera e sanno che ritornano sulle colline.

In tutte le città civili, queste mandre di bestie utili ma sporche e puzzolenti, queste vacche non si vedono per le vie: il latte si compra nelle botteghe pulite e bianche di marmi.

A Napoli, no: è troppo pittoresco il costume, per abolirlo. Nessun municipio osa farlo. La gran riforma, in venticinque anni, è stata che non potessero girare per le strade i maiali, come era prima permesso.



Un’altra cosa molto pittoresca, è il sequestro delle strade, fatto per opera dei piccoli bottegai o dei venditori ambulanti. Che quadri di colore acceso, vivo, cangiante, che bella e grande festa degli occhi, che descrizione potente e carnosa potrebbero ispirare a uno dei moderni sperimentali, troppo preoccupati dell’ambiente! Per via Roma, la più importante strada della città, il tratto da San Nicola alla Carità, fino alle Chianche della Carità, vale a dire, due piazze, due lunghi marciapiedi, sino alle otto della mattina è abbandonata ai venditori di frutta, di erbaggi, di legumi, un contrasto di fichi e di fave, di uva e di cicoria, di pomidoro e di peperoni, e un buttar acqua, sempre, uno spruzzare, uno scartare la roba fradicia; dopo le otto, quel tratto è un campo di battaglia di acque fetenti, di buccie, di foglie di cavolo, di frutta marcite, di pomidoro crepati, tanto che, come la mano fatale di mistress Macbeth, che tutte le acque dell’Oceano non potevano lavare, quel tratto di strada, via Roma, malgrado le premure degli spazzini, non arriva mai a detergersi.

Intanto il grande mercato di Monteoliveto, lì presso, resta semi-vuoto, con la malinconia dei grandi fabbricati inutili; quello di San Pasquale a Ghiaia è addirittura chiuso; il venditore napoletano non vuole andarci, vuol vendere nelle strade.

Tutto il quartiere della Pignasecca, dal largo della Carità, sino ai Ventaglieri, passando per Montesanto, è ostruito da un mercato continuo. Ci sono le botteghe, ma tutto si vende nella via; i marciapiedi sono scomparsi, chi li ha mai visti? I maccheroni, gli erbaggi, i generi coloniali, le frutta, i salami, e i formaggi, tutto, tutto nella strada, al sole, alle nuvole, alla pioggia; le casse, il banco, le bilancie, le vetrine, tutto, tutto nella via; ci si frigge, essendovi una famosa friggitrice, ci si vendono i melloni, essendovi un mellonaro famoso per dar la voce: vanno e vengono gli asini carichi di frutta; l’asino è il padrone tranquillo e potente della Pignasecca.

Qui il romanzo sperimentale potrebbe anche applicare la sua tradizionale sinfonia degli odori, poichè si subiscono musiche inconcepibili: l’olio fritto, il salame rancido, il formaggio forte, il pepe pestato nel mortaio, l’aceto acuto, il baccalà in molle. Nel mezzo della sinfonia della Pignasecca, vi è il gran motivo profondo e che turba; la vendita del pesce, specialmente del tonno in pieno sole, su certi banchi inclinati, di marmo. Alla mattina il tonno va a ventisei soldi e il pescivendolo grida il prezzo con orgoglio: ma, come la sera arriva, per il declinare dell’ora e della merce, il tonno scende a ventiquattro, a una lira, a diciotto soldi; quando arriva a dodici soldi, la gran nota sinfonica del puzzo ha raggiunto il suo apogèo.

La Pignasecca non può mai essere pulita; nessun municipio ha mai osato dichiararla via di sbarazzo. Il quartiere del Sangue di Cristo, detto piuttosto sanghe de galline, per rispetto al nome del Redentore, se ne ride del municipio.

Del resto, tutto questo è bellissimo pel pittore e pel novelliere.



Nulla più pittoresco che la strada di Santa Lucia, di esclusiva proprietà dei signori pescatori e marinai, intrecciatori di nasse e venditori di ostriche; nonché delle loro signore mogli, venditrici di acqua sulfurea e di ciambellette, cucinatrici di polipi e friggitrici di peperoni; nonché dei loro signori figlioli, in numero indefinito, nudi e bruni come il bronzo.

In quella strada, all’aria aperta, tutto si fa: il bucato e la conserva di pomidoro, la pettinatura delle donne e la spulciatura dei gatti, la cucina e l’amoreggiamento, la partita a carte e la partita alla morra. La strada di Santa Lucia appartiene ai luciani, che fanno il loro comodo. Le quattro viottole cieche che salgono da Santa Lucia verso la collina, valgono i fondaci del quartiere Mercato, per il luridume: i cavalcavia uniscono le case pencolanti e sbuzzanti, le cordicelle vanno da un balcone all’altro, un lumicino innanzi a una Madonnina nera illumina soltanto la viottola, dove va a cadere tutto il sudiciume di quella gente.

Non vi è più marciapiede, verso il mare: i luciani se lo pigliano tutto, per le nasse e per le fiasche dell’acqua sulfurea. Nell’estate, anzi, dormono sul marciapiede o sul parapetto e brontolano contro colui che osa passare e svegliarli. Verso le case, non ci si accosta nessuno: lì, per scherzo, volano i torsi di spighe e le buccie dei fichi, e le cantine mettono le tavolelle pei bevitori, nella via.

I luciani sopportano che il tram passi per la loro via, ma ci bestemmiano contro, spesso e volentieri, poichè è una usurpazione della loro strada: le venditrici di acqua sulfurea paiono tanti uomini vestititi da donne, con gli zoccoli dal tacco alto, la gonna corta legata sullo stomaco, le rosette di perle sostenute con un filo nero all’orecchio, perchè non si spezzi il lobo pel peso. Sono naturalmente rissose e brutali: vi danno a bere l’acqua per forza, litigano ogni minuto fra loro, rubandosi gli avventori. Sono indomabili: per poterle governare, il delegato del quartiere deve essere anche un luciano, che le pigli a male parole. Una volta, due di esse bastonarono fino all'estenuazione una guardia municipale che voleva loro assegnare una contravvenzione: è vero però che il giorno seguente si quotarono per aiutarne la madre vecchia, mentre il figlio era all'ospedale.

Ma Santa Lucia, tutta pittoresca, resta sempre fuori delle leggi d'edilizia e d'igiene: è un borgo fortificato.

Forse il colera non vi avrà fatto strage: vi è il mare e vi è il sole. Ma che mare nero, untuoso! Ma qual putrefazione non illumina quel sole!



È pittoresco per un amante del colore, veder girare, di sera, per via Roma, un carretto disposto a mensa, su cui, in tanti piattelli, vedi dei castelletti di fichi d’India, sbucciati: un uomo spinge il carretto, una lampada a petrolio vi fumiga, il carretto si ferma ogni tanto. Riparte, lasciando talvolta dietro di sé le bucce spinose e sdrucciolevoli.

È drammatico assai, per un novelliere, girare dopo mezzanotte: e trovare degli uomini che dormono sotto il porticato di San Francesco di Paola, col capo appoggiato alle basi delle colonne: degli uomini che dormono sui banchi dei giardinetti in piazza Municipio; dei bimbi e delle bimbe che dormono sugli scalini delle chiese di San Ferdinando, Santa Brigida, la Madonna delle Grazie, specialmente quest’ultima che ha una scala larga e certi pogginoli ampi: nel centro di via Roma.

Può piacere all’uno e all’altro, che giusto a due passi da via Roma, vi sia il Chiostro di San Tommaso d’Aquino, dove non ci sono più monaci, ma che è un piccolo fondaco, una piccola Corte dei Miracoli con le sue viuzze nere, i suoi budelli, le sue vinelle, e le sue botteghe brulicanti di ombre e le sue case brulicanti di poveri e d’infelici.

Ma in realtà è molto triste, molto crudele che tutto questo esista ancora, e che creature umane lo subiscano e che uomini di cuore sopportino che questo sia.

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