< Il ventre di Napoli
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Cap. VII. L'usura
VI VIII


VII.


L’USURA.


Una povera donna ha bisogno di cinque lire per pagare il padrone di casa, va a cercarle in prestito da donna Carmela che dà il denaro cu a credenza. Prima di andarci esita molto, ha paura e vergogna, ma visto che non può fare diversamente, si decide. Donna Carmela è una donna grassa e grossa che esercita per lo più una professione di lusso, rammenda merletti, trapuntisce le grandi coltri di bambagia che si usano in Napoli, coperte di teletta rossa, ricama in oro sul velluto: infine una professione per la forma, che la lascia godere di lunghi ozii; ma la sua vera professione è il prestar quattrini alla povera gente. Donna Carmela è verbosa e affettuosa in questo primo colloquio con la povera donna: la rincora, la compatisce, se occorre, le confessa di essere stata egualmente alle strette, e la manda via tutta racconsolata, con le cinque lire, vale a dire con quattro lire e mezzo. Il prestito è fatto per otto giorni, l’interesse è di due soldi per lira, si paga anticipato: quindi sulle cinque lire, la povera donna lascia cinquanta centesimi. Gli otto giorni passano, le cinque lire da restituire la povera donna non le ha, allora, tutta rossa di vergogna, prega donna Carmela di contentarsi di un’altra settima d’interesse, cinquanta centesimi: donna Carmela non dice nulla e intasca i dieci soldi. Così passano quattro, cinque, fino a dieci settimane, senza che la povera donna abbia mai potuto riunire le cinque lire; e ogni lunedì le tocca pagare l’interesse del dieci per cento ogni otto giorni: e dopo la quinta settimana donna Carmela è diventata una iena, bisogna pregarla perchè non gridi, perchè non faccia delle scene, essa vuole il suo denaro, vuole il sangue suo, l’interesse non le serve, le servono i quattrini del capitale. Sulla soglia delle porte, nei bassi, alle porte delle officine, ogni sabato, ogni lunedi si ode la voce irosa di donna Carmela: essa dal mattino è in giro per esigere, ricoglie, e fa tremare uomini e donne, con il suo tòno alto e imperioso. In un posto ha da esigere una lira, in un altro due, in un altro cinque: e non osano ribellarsi a lei, non avendo da pagarla, non osano ribellarsi, potendo aver sempre bisogno di lei. Quella donna grassa è implacabile, sa la sua forza, sa la sua potenza: se una serva non paga, essa minaccia di fare uno scandalo con la padrona, se una donna non paga, essa minaccia di dirlo al marito, se un operaio non paga, essa sa l’indirizzo del capo di officina a cui va a denunciarlo. Ella è astuta e cauta, audace e sboccata: ella resta sempre nella posizione di una benefattrice a cui codesti ingrati rodono le fibre e bevono il sangue. E infatti nessuno le dà una coltellata, nessuno la bastona, nessuno la insulta, e quel che è più forte ancora, nessuno ha il coraggio di negarle i quattrini: l’onestà del popolo napoletano non è neppur capace di truffare una usuraia. Non le danno neppur torto nelle sue escandescenze: e cercano sempre di mansuefarla.

Quando una povera donna napoletana ha bisogno di un grembiule, di un vestito, di un fazzoletto da collo, di un paio di camicie, non avendo quattrini per comperarlo, si decide ad andare da donna Raffaela che dà la robba cu a credenza. Quest’altra usuraia prende a basso prezzo tela e percalle e fazzoletti di cotone dei negozi: e li rivende alla povera gente. Ogni oggetto, naturalmente, è pagato molto più caro del suo valore: primo guadagno. Poi, come all’altra usuraia, bisogna pagare l’ interesse del dieci per cento alla settimana sulla somma. Questi debiti, complicati continuamente, pesano sulla esistenza delle povere donne per mesi e mesi: talché, molto spesso, il grembiule si è consumato, la veste è lacera, le camicie sono bucate, la povera donna ne ha pagato tre volte il valore, e il debito rimane sempre uguale; donna Raffaela è furibonda, ella grida come una energumena, vuole strappare dal collo della donna il fazzoletto che le ha venduto, vuole scioglierle dai fianchi il grembiule e va gridando: Chesta è robba mia! Taie arrobbato lu sango mio! Come l’altra, ella finisce per incassare quattro o cinque volte il capitale; come l’altra, ella è necessaria alla povera gente, la quale non reagisce mai contro queste violenze; come l’altra, ella non arrischia mai che piccoli capitali, preferendo di far piccoli e molti affari, dove non vi sono rischi, a grossi affari che offrono sempre dei pericoli.

Le agenzie private di pegni e spegni sentano l’usura organizzata in un modo legale. Queste agenzie non sono, come negli altri paesi, succursali del Monte di Pietà, che debbono conformarsi alle tariffe del grande istituto di misericordia; ma sono speculazioni debitamente autorizzate e viventi con capitali proprii. Per lo più sono esercitate da donne, profondamente sottili nella loro volgarità e nella loro ignoranza, e vengono messe su con pochi capitali. Anzitutto, in queste agenzie, l’oggetto è depreziato vilmente, specie se non è oro: e il primo guadagno è su questo. Vi si paga un fantastico diritto di registro, poi un tanto per la cartella, poi l’interesse anticipato per un mese, tutto questo così complicato, così bene salvaguardato, così apparentemente legale, che questa agenzia esige il cinque per cento d’interesse al mese, senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi. So di una moglie d’impiegato che dovette impegnare il suo unico vestito di seta, il vestito delle nozze, che era costato duecentocinquanta lire, in una di queste agenzie tenuta da una grossa donna Gabriela; n’ebbe trentasei lire, di cui ritirò soltanto trentuna, lasciandone cinque per l’interesse, la cartella e il diritto di registro. Per sei mesi, tremando che non le vendessero il suo vestito e non avendo le trentasei lire, le toccò pagare, ogni mese, cinque lire, vale a dire che restituì i quattrini presi: al settimo non ebbe neppure quelle cinque lire e il vestito fu venduto. Accorse, per vedere almeno di prendere il di più, poichè il vestito era nuovo e si era dovuto vender bene: invece era stato liberato per trenta lire, almeno così apparve dal libro. Ebbe poi il piacere d’incontrare donna Gabriela al teatro col suo vestito indosso e carica di ori e di gioielli, ricomprati all’agenzia. Poichè molte di queste donne amano sovraccaricarsi degli oggetti che hanno in deposito e più di una popolana vede passare l'impegnatrice che va alla passeggiata, portando al collo il laccetto d’oro che ella ha dovuto impegnare, alle orecchie gli orecchini di una vicina, e sulle spalle il mantello di velluto della signora del terzo piano: e dietro le porte, dietro le finestre, quando l’impegnatrice passa, vi sono dei sospiri repressi, delle lagrime inghiottite, dei pallori subitanei: l’impegnatrice sembra un idolo indiano, a cui si sacrifichi oro e sangue. Alcune impegnatrici più astute e più calcolatrici, impegnano di nuovo, ma al Banco, gli oggetti di oro e di valore, guadagnandoci ancora, poichè il Banco dà onestamente il terzo del valore ed esse neppure il quinto: così aumentano i loro capitali e mettono gli oggetti al sicuro.

Ma perchè — si domanda — la povera gente non si rivolge ai due Banchi dello Spirito Santo e di Donnaregina? Perchè si fa spogliare da queste agenzie? Gli è che a questi Banchi governativi il tramite è molto lungo — e molta gente non ha pazienza, non sa come fare, vuole sbrigarsi presto, è presa da una necessità urgentissima e preferisce entrare in una delle prime agenzie che trova, dove la servono subito, senza formalità e senza molte parole; gli è che in questi Banchi governativi la pubblicità è sempre grande, e una persona timida vi arrossisce di vergogna e preferisce entrare nella penombra discreta delle agenzie private, dove tutto sembra fatto con una grande segretezza; gli è che il venerdì ed il sabato, perchè il popolo napoletano deve giuocare al lotto, ha giuocato, la folla è così grande che i Banchi governativi non bastano più e il popolino si riversa nelle agenzie private. Ora, calcolate. Ogni vicolo ha la sua donna Carmela, ogni strada ha la sua donna Raffaela, ogni angolo di piazza ha la sua agenzia autorizzata; e in certe strade nere, ogni tre botteghe s’impegna. Calcolate, moltiplicate, moltiplicate, pensate alla miseria, pensate al lotto: da un lato l’avidità e la furberia: dall’altro l’onestà e l’ingenuità. Di questo cancro, l’usura, che tutto alimenta, agonizza in una infelicità infinita la gente napoletana.

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