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O Lavatrici di Minerva, uscite; 1
Odo i sacri cavalli, ecco la diva,
Bionde Pelasghe venite venite.
Le braccia non mondò Pallade in riva,
5Se pria non terse ai corridori i fianchi,
E quando tutta stillante reddiva
Del sangue de’ giganti in Flegra stanchi,
Pria dai gioghi slegò le coppie equine,
E le bocche spumose e i dorsi bianchi
10Lavò nelle correnti onde marine:
Interrompete, Achee, vostro soggiorno,
Il fragor delle rote odo vicine.
Specchi non le ponete o nardi intorno,
Nardi non ama o lucidi metalli,
15Il volto di Minerva è sempre adorno.
Il dì che trasse alle Trojane valli
Non ella i vaghi rai, non Giuno torse
Di Simoenta ai liquidi cristalli.
Gli occhi al miraglio suo Venere porse,
20E una fiata ed altra al crin le mani,
Cento stadi Minerva e più trascorse,
Quai sull’Eurota i due astri Spartani;
Poscia diffusa di liquor d’ulivi
Fiammeggiò come rose e melograni
25Umor dell’arbor sua recate quivi
A Castore diletto, e un pettin d’oro
Da solcarle del crin gli erranti rivi.
Vieni vieni, Minerva: il casto coro
Già delle amate verginelle incede,
30Progenie del magnanimo Acestoro.
Ecco lo scudo, o dea, di Diomede,
Antico rito, di cui fu radice
Il fuggitivo sacerdote Eumede.
Che addetto a morte ver la Crea pendice
35Mosse, e locò l’imago tua su i nudi
Fianchi del monte, che da te si dice.
Vien, dea, che in elmo d’or la fronte chiudi,
E torri adegui alla suggetta arena,
E fragor di cavalli ami e di scudi.
40Non toccate del fiume oggi la piena,
Ancelle, oggi Amimon vostr’urne aggreve,
Oggi di Fisadéa ite alla vena.
Del fiume nò, dei fonti oggi Argo beve,
Pieni d’oro e di fior vengon dai colli
45I lavacri che a Palla Inaco deve.
Allorchè nelle chiare acque s’immolli
La dea, Pelasgo, dal guardar rimanti,
Che dir non gioverà: veder non volli.
Gli occhi che viste avran scinte dei manti
50Le membra della dea, che in rocche annida,
Quest’Argo più non mireranno avanti.
Mentre che Palla all’Inaco si guida,
Vergini, canterò storia non mia,
Ma quale per altrui lingua si grida.
55La madre di Tiresia, che natia
Era di Tebe, a Pallade sì cara
Visse, che mai da se non la partia.
Se veder di Curalio il bosco, o l’ara
Di Coronéa e d’Aliarto vuole,
60Colà dove il Teban vendemmia ed ara,
O la piaggia di Tespi, con lei suole
Di Tiresia venir la madre altera,
Nè feste la diletta nè carole
Se Cariclo non è capo di schiera;
65Ma di lacrime amare un largo fonte
Da sì dolce amistà per nascer era.
Nell’ora che più al Sole arde la fronte
Ponevano le membra in Ippocrene,
Alti silenzi possedeano il monte.
70Tiresia che volgea per quelle arene
Senza più compagnia, che i veltri sui,
Per gran sete appressò le fresche vene,
E cose, che veder non lice a nui,
Lasso! mirò nei desiati fiumi;
75Perchè irata la dea si volse a lui:
O Everìde, quai nemici numi
Han le tue cacce a questa via converse,
Da cui non uscirai con salvi i lumi?
Fur queste voci un vel, che gli coverse
80Ambe le luci; ed ammutia, che a un tratto
La lena il senno e la favella perse:
E la ninfa gridò: dea che hai fatto?
L’amistà dunque delle dive è questa?
L’uno e l’altr’occhio al figlio mio m’hai ratto.
85Hai veduta Minerva senza vesta,
Ma non vedrai più il Sol; montagna addio
D’Elicona per sempre, addio foresta.
Di picciola jattura inegual fio!
Per qualche damma e qualche capriolo
90Gli occhi pigli amendue del figlio mio;
E lamentando in nota d’usignuolo,
Le braccia ai fianchi di Tiresia gira,
E bagna i mesti rai di largo duolo.
Pallade allor per la pietà: ritira,
95Ninfa gentil, ritira le parole,
In cui la lingua t’è scorsa per ira.
Non io Tiresia tuo privai del Sole,
Nè gli occhi altrui rapir m’è dolce frutto,
Ma legge di Saturno così vuole:
100Chiunque ad ammirar sarà condutto
Celeste iddio, che uman viso rifiuta,
Dalla veduta coglierà gran lutto.
Donna, voler di numi non si muta,
A lui Parca girò queste tenebre,
105Soffri tu cosa a te figlio dovuta.
Darebbero agli altar vittime crebre
I genitori d’Atteon contenti
Toccar del figlio le vane palpebre;
Poco gli gioverà valli e torrenti
110Con Diana varcati, erta e pianura,
Aver posti a giacer ferini armenti,
Quando infelice non ponendo cura
Veduta avrà la diva, che si bagna,
De’ propri veltri suoi sarà pastura.
115La madre per foresta e per montagna
Colte avendo le sparse ossa del figlio
Unica fortunata, o mia compagna,
Te chiamerà, che vivo dal periglio
Ritratto l’hai, nè più di tanto offeso,
120Che doppia nube gli sovrasta il ciglio.
Non ti lagnar: io de’ suoi mali al peso
Tal ristoro darò, che il viso spento
Nel lume del futuro avrà racceso;
E saprà dir qual per le vie del vento
125Penna d’augello vanamente nuoti,
O tristo adduca o fortunato evento.
Udiran le contrade de’ Beoti,
Udrà Cadmo i costui carmi divini,
E gli udiran di Labdaco i nipoti.
130Verga gli donerò, che per cammini
L’orme corregga e la veduta bruna;
Del viver gli porrò lunge i confini.
Unico fra gli estinti ombra digiuna
Non sarà di savere, e fia per senno
135Caro a colui, che l’universo aduna. 2
Tacque la diva, e fe col capo cenno.
Tanto privilegiò quest’una Giove,
Che qualità del padre in lei tutte enno.
Senza madre dal capo uscì di Giove;
140Ingannevoli cenni, o Lavatrici,
Il capo mai non accennò di Giove.
Or sì che vien la dea: con voti amici,
Con cantici festivi itele intorno
Voi, che ad Argo bramate ore felici;
145Guardia a te sia del bel paese adorno,
Che sull’Inaco siede, o dea Minerva,
Salve se vai, salve se fai ritorno,
E la fortuna Argolica conserva.