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Questo testo fa parte della raccolta Poesie (Carducci)



INTERMEZZO


1.


Cuore, a che uccelli ne’ miei versi, come
               Quella sgualdrina vecchia
Là su l’uscio, che al vento dà le chiome
               4Grige e al rumor l’orecchia?

Per questa sera il lume in van risplende
               Da la finestra bassa:
Vecchia, rientra, e tira pur le tende,
               8Ché nessun merlo passa.

Ma tu ancor non sei stanco, o mio cuor vecchio,
               O vecchio cuore umano,
Di civettar guardandoti a lo specchio
               12Falso del verso vano?

È un bel pezzo, sai tu?, dal cieco Omero,
               Che tu se’ il caro cuore,
Ed è un bel pezzo pur che fai ’l mestiero...,
               16Via..., di lusingatore,

E anche di metafora, matura
               Per fin ne’ versi miei:
Di che cuor, se non fossi una figura,
               20Cuore, io ti strozzerei!

Ma, già che un tropo sei, come la cetra
               La lira o il colascione
Su cui si può mandar Fillide a l’etra
               24O la riparazione,

E già che la metafora, regina
               Di nascita e conquista,
È la sola gentil, salda, divina
               28Verità che sussista,

Io ti vo’ ballottar dentro un rovescio
               Di strofe belle e brutte
Che vadano a diritto ed a sghimbescio,
               32Metaforiche tutte,

Tutte senza orïente o tramontana,
               Senza capo né coda,
Tanto che la sinistra italïana
               36Al paragon ne goda,

E tutte senza fine e senza scopo,
               Come il mio tedio e il mio
Dispetto che cominciano da un tropo
               40Per naufragare in Dio.


2.


O numi, o eroi, che belli e fieri un giorno
               Vi rompevate il grugno
L’un l’altro! o tori, e voi tra corno e corno
               44Abbattuti d’un pugno!

O terga rosolate e fumiganti
               Lungo il divino Egeo!
Oggi noi siamo a dieta, e sempre avanti,
               48Ci dan questo cibreo:

Questo cibreo del cuore, in verso e in prosa,
               Co ’l solito guazzetto
Di quella sua secrezïon muccosa
               52Che si chiama l’affetto.

Un dí, quando Parigi urlò protervo
               Ne la reggia soletta
Come ansante canea che, preso il cervo,
               56I visceri ne aspetta,

Un buon beccaio rosso ed aitante
               L’entragno d’un vitello
Infilò s’una picca; e gocciolante,
               60Con tanto di cartello

Ove “Cuor d’aristocrate„ in grandioso
               Caratter nero scrisse,
Se lo portava intorno glorïoso,
               64Con le pupille fisse.

Io, se potessi vincer la molestia
               Del grasso e de lo schifo,
Vorrei pigliare il cuor di quella bestia
               68Che ha lungo e nero il grifo

E si distende seria nel pantano
               Con estetica molta
Come fosse un poeta italïano
               72Entro una stanza sciolta:

Su’ l lauro che più lieto i rami spanda
               Al dolce italo sole
Affigger lo vorrei, tra una ghirlanda
               76Di rose e di vïole,

Con la penna d’acciaio d’un cantore
               Da la fronte ideale.
Venite, o buona gente: al cuore, al cuore,
               80Che al meno è di maiale!

3.


Quanto a me, cuore mio, batti pur su,
               Ch’io ti do poco retta.
Ebbi una volta un pendolo a cucú
               84Dentro la sua cassetta;

E lo tenevo in camera; ma, quando
               Mi rompeva insolente
I sonni giovanili, io bestemmiando
               88Molto liricamente

Scaraventavo al vigile scortese
               Due classici latini,
Seneca e Fedro, ristampa olandese
               92De gli in usum Delphini.

Strideva come protestando, e poi
               Il pendolo taceva:
Io, ripigliato sonno, ancora voi,
               96Miei colli, rivedeva,

Miei dolci colli, ove tra’ lauri move
               L’arte serena l’orme,
Ove Lionardo vide il sole ed ove
               100Il mio fratello dorme.

Dorme anzi sera, e dorme a lungo e solo:
               Aulisce il biancospino
Intorno al cimitero, e ferma il volo
               104Cantando un cardellino.

Ma poi svegliati, o confidente cuore,
               Lavoravam di buono,
Ed al cucú pe ’l fluttuar de l’ore
               108Rassettavamo il suono.

Questa è, vecchio mio cuor, la vecchia storia,
               Far, disfare, rifare:
Per l’ozio, per la fame o per la gloria,
               112È tutto un lavorare.

È un lavorare faticoso e pazzo
               Da pentirsene un giorno.
Ecco, a metterti in versi io mi strapazzo,
               116E non m’importa un corno

De le tue smorfie, o a la grand’arte pura
               Vil muscolo nocivo;
Ma non so a quanti versi do la stura,
               120E vedrò dove arrivo.

4.


E canterò di voi, gente finita
               Dal pathos ideale,
Che riduceste a clinica la vita
               124E il mondo a un ospitale.

S’alza il poeta a mezzodí, sbadiglia,
               — Buon giorno, o cor mio lasso — ,
Se lo sdigiuna bene e se lo striglia,
               128E se lo mena a spasso.

Dice al sole e a gli uccelli, a l’erbe e a’ fiori,
               Che trova su ’l sentiero:
- Mirate, o creature, il re de’ cuori,
               132Il mio cuore, il cuor vero.

Egli è tenero e duro, e dolce e forte,
               Arïete ed agnello:
Come tortora tuba, e rugge a morte,
               136Peggio d’un lioncello.

Vero è, santa natura, che il mio cuore
               È un po’ delicatuzzo:
Ma io lo tiro su, povero amore,
               140A olio di merluzzo;

A olio di merluzzo, temperato
               Con l’essenze odorose
Che mi mandan la sera co ’l bucato
               144Le vergini e le spose;

Le vergini e le spose del giocondo
               Italico giardino:
Però ch’io sono, e lo sa tutto il mondo,
               148Un poeta divino — .

Sbottonato così, scuote le chiome.
               Guarda i fiori e la mèsse
E gli alberi e gli uccelli e il cielo, come
               152S’egli li proteggesse.

Due rospi intanto a l’orlo de la strada
               Benefici e modesti
Seguitan liberando la contrada
               156Da gl’insetti molesti.

L’un dice — Ne l’età che molte e lente
               Ci passâr su ’l groppone
Vedestú mai, fratel mio pazïente,
               160Un tal fior di cialtrone? —

5.


 Il poeta barcolla e ha il capo grosso:
              L’ulcere del suo core
Ei mette in mostra, come un nastro rosso
              164De la legion d’onore.

— Quest’ulcera è al suo punto — ei dice, e questa
              Mi dee nobilitare.
L’asinità de la vil gente onesta
              168Si sgroppi a lavorare.

Noi angeletti de’ liberi amori,
              Noi liriche farfalle
Create a svolazzar su’ cavolfiori
              172E lambirne le palle,

Oggi al secol del ferro e del carbone
              Mutati in calabroni
Con l’assenzio facciam la reazione,
              176E sputiamo i polmoni.

Cosí, feriti al cuor, figli de l’arte,
              Siamo privilegiati:
Dal facchinaggio uman stiamo in disparte
              180Noi, sublimi ammalati.

 Nostro lavoro è di portare in petto
              La questïon sociale.
O contemplazïon del lazzaretto!
              184Datemi un serviziale....

Un serviziale rosso. Il contadino
              Bea ne la maledetta
Risaia l’acqua marcia: io bevo il vino
              188Per far la sua vendetta.

Canti sol chi la voce ha cavernosa,
              E pèste a la salute!
Fiutate qua, canaglia vigorosa,
              192Quest’ulcera che pute! —

Cosí urla, al mattin scialbo, su ’l canto
              D’una sudicia via;
E tosse e rece fuor del petto affranto
              196Vino, tabe, elegia;

E l’asino, che vien, de l’ortolano
              Lo fiuta con dimesso
L’orecchio, e pensa — O idealismo umano,
              200Affógati in un cesso. —

6.


Io, per me, no, non sono un organetto
              Che suoni a ogni portone
De i soliti ragazzi nel conspetto
              204La solita canzone.

Quando l’idea ne l’anima rovente
              Si fonde con l’amore,
Divien fantasma, e a’ regni de la mente
              208Vola fendendo il core;

E la ferita stride aperta al vento,
              Geme cruenta al sole:
Io non vi gitto le filacce drento
              212Di rime e di parole.

E vommene co ’l mio cuor così fesso
              Per questo viavai;
E il mio canto miglior sempre è quel desso,
              216Quel che non feci mai.

Questo cor, questa piaga e la filaccia
              Vuol dir, lettor mio buono,
Che di tropi barocchi anch’io vo a caccia
              220E che un poltrone io sono.

Il primo è da gaglioffi, ma il secondo
               Un buon mestier mi pare.
Io non pretendo illuminare il mondo,
               224Né il buffon gli vo’ fare.

Or, l’una cosa o l’altra si propone
               Chi scrive al tempo nostro.
Faccia chi vuol l’apostolo o il buffone;
               228Costa poco l’inchiostro,

E la parola meno, e l’onor nulla,
               E la menzogna è il vero,
E tutto è falso. Oh via, che mai mi frulla
               232Adesso nel pensiero?

Io sento in me qualcosa di Nerone,
               Ma piú puro e giocondo:
Non sangue o teste, io voglio, in conclusione,
               236Vo’ schiaffeggiare il mondo.

Detto fatto. Ogni strofe, alta, animosa,
               Vola via senza guanti;
Ogni strofe è uno schiaffo a, qualche cosa:
               240Avanti, avanti, avanti.

7.


Potessi pianger sur un campanile
               Come il mio dolce Edmondo,
Sí che scendesse il pianto mio, gentile
               244Battesimo, su ’l mondo!

Arido mondo, che non crede a nulla,
               Né meno a le guanciate!
Per disperazïon fino Fanfulla
               248Mi s’è rifatto frate.

Fra’ cavalier gerosolimitano.
               Monta Bucifalasso,
E contro ogni baron poco cristiano
               252Tiene, sfidando, il passo.

Pe ’l medio evo il passo ei tiene, al ponte
               De l’asino: cimiero,
Due belli orecchi d’asino la fronte
               256Ombrano al cavaliero,

Vóto di penitenza ond’ei racquista
               La salita al Calvario:
Però che un tempo ei fu razionalista
               260E rivoluzionario.

Or ne lo scudo porta iscritto — Dio,
               Il re, la donna mia —
Non senza qualche medievale e pio
               264Error di ortografia.

Ahi fra’ Fanfulla! non son piú quegli anni,
               Sfiorí la primavera:
Non cantan piú cuculi, i barbagianni
               268Guardan la tua bandiera.

Non piú la gente cerca in Dio conforto,
               O del diavol si accora:
Ahi, Pantalon de’ Bisognosi è morto,
               272Ed Arlecchino ancora.

I preti han guasta la Vergin divina
               Per fin dentro le chiese:
Päol Ferrari diede a Colombina,
               276Pur troppo, il mal francese.

Quanto al re — frate mio, vi vengo schietto —
               Questa è l’età de l’oro;
Quanto al re, l’hanno dato a Benedetto
               280E si ammiran tra loro.

8.


Va’, ditirambo mio triste e giocondo,
               Vola dove ti frulla.
Nulla tu cerchi per l’immenso mondo,
               284E non ci trovi nulla.

Nuova terra altri chieda o nuovo polo
               E lontani orizzonti:
Sol ch’io potessi riposare il volo
               288Su’ miei paterni monti!

Al sol che tra le selve snelle mira
               Co ’l tremolar de’ raggi,
Nel suol molle di musco che respira
               292Desii di fior selvaggi,

Giacciono i sogni miei, fanciulli stanchi
               Che s’addormîr piangenti:
Cantan tra verdi faggi e marmi bianchi
               296I ruscelli e i torrenti.

Per quell’angol di terra, ecco io darei
               Quale piú benedetto
Lembo di cielo occorra a’ versi miei
               300Quando faccio un sonetto;

E ci fare’ un sonnetto. A l’ombra amica
               De le memori piante
Mi cullerebbe ne la strofe antica
               304La rima miagolante.

gravi rime sbadiglianti in are,
               O tenui rime in io,
Dite voi com’è dolce riposare
               308Su ’l terreno natío.

I patrii sassi vi pungon le schiene
               Con accoglienza onesta,
Ed i mosconi de le patrie arene
               312Vi fan dintorno festa.

Zu, zu, cari mosconi. Come stanno
               Le vespe e i calabroni?
Ci fûr di molte vipere quest’anno
               316Giú pe’ patrii burroni?

E gli amici? e i parenti? Oh nuove gioie!
               Oh quanti fidi cuori!
Oh bel portare a spasso le sue noie
               320Tra cotanti sudori!

9.


Non contro te suoni maligno il verso,
               Terra a cui non risposi
Amor già mai, cui sol vidi traverso
               324I sogni lacrimosi

De l’infanzia. O sedente al tirren lido,
               Poggiata il fianco a i monti,
A dio, Versilia mia, ligure lido
               328Di longobardi conti!

Se da le donne tue maschia dolcezza
               Tenne il mio tósco accento,
Io non voglio i tuoi marmi, o Serravezza,
               332Per il mio monumento

Pe ’l monumento che vo’ farmi vivo,
               Lungi da la mia culla
Cerco altri marmi mentre penso e scrivo,
               336Che non costano nulla.

Altrui le glorie. O dïamante bianco
               Entro gli azzurri egei,
Paro gentil dal cui marpesio fianco
               340Uscían d’Ellas gli dèi,

Tu, che tra Nasso ove Arïanna giacque
               In seno al bello iddio,
E Delo errante dove Febo nacque
               344Nume de’ greci e mio,

Archiloco vedesti a i giambi ardenti
               Sciôr fra i tuoi nembi il freno
E de’ tristi alcïoni in fra i lamenti
               348Ir l’elegia d’Eveno,

A me d’Italia Archiloco omai lasso
               Ed Eveno migliore
Dona, Paro gentil, tanto di sasso
               352Ch’io v’intombi il mio cuore.

Questo cuore che amor mai non richiese
               Se non forse a le idee
E che ferito tra le sue contese
               356Ora morir si dee,

Vo’ sotterrarlo, e mi fia dolce pena
               Ne l’opra affaticarmi:
O Paro, o Grecia, antichità serena,
               360Datemi i marmi e i carmi.

10.


Marmi di Paro in fulgidezza bianca
               Splendenti a la marina,
Come la falce de la luna stanca
               364Nel ciel de la mattina;

Carmi di Lesbo sussurranti al vento
               Su molte isole intorno,
Come d’Apollo il grande arco d’argento
               368Nel ciel di mezzogiorno;

Ricoprano il mio cuore irrigidito
               Da i cristïani tufi,
Circondino il mio cuore istupidito
               372Da i romantici gufi.

Breve su ’l morto ed ultima s’intoni
               La canzone di doglia,
Mentre ne l’Odi Barbare deponi,
               376Musa, la fredda spoglia.

— Ahi Lino, ahi Lino! è il mio cuor trapassato,
               Come te, ne l’estate:
Non giunse a la vendemmia: l’han sbranato
               380Molte cagne arrabbiate.

Ió Peàn, ió Peàn! ma e’ rivive
               Di morte oltre i confini
Sott’altro cielo e in piú benigne rive:
               384Taccian tutti gli Elini. —

Sepolto or giace in cotest’ urna paria
               S’un travertin del Lazio:
Nel bianco un’orma di parïetaria
               388Segna l’antico strazio.

Intorno al fregio l’édera seguace
               Co ’l verde che non muore
Par che nel freddo de la nuova pace
               392Ombri l’antico ardore.

Tra ’l sasso e l’urna una lucertoletta
               Esce e s’affige al sole:
È la mia vecchia gioventú soletta
               396Che sogna e non si duole.

Ma dietro, in fondo, un bel teschio di morto
               Ride il suo riso eterno:
A quei che vengon per recar conforto
               400Ride l’ultimo scherno.






NOTA






Intermezzo o intermedio dicevano i cinquecentisti italiani un breve divertimento di canzonette e balletti figurati, dato tra l’uno atto e l’altro delle rappresentazioni drammatiche; e intermezzo metaforicamente chiamai io questa serie di rime che doveva nel mio pensiero segnare il passaggio dai Giambi ed Epodi alle Rime nuove e alle Odi Barbare. Per ciò che è cantato nel capitolo 2, professori e abati, verseggiatori manzoniani e spie libelliste, signore letterate e cocottes devote, mi vituperarono poeta del maiale; la calunnia, al solito, fu stupida, e non c’è altro che da commiserare la grossolanità della incultura letteraria, cotennosa in Italia anche nelle classi strigliate. È superfluo notare che le strofi 4 e 5 del capitolo 10 alludono ai canti di tristezza (Αἲ λίνος, elini) e di allegrezza (Ιη Παιάν, peani) del popolo greco, deploratorii quelli della morte d’un simbolico giovinetto Lino, celebrativi questi della efficacia gioiosa di Apollo: cfr. Ott. Müller, Storia della letter. Greca, cap. iii.




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