Questo testo è incompleto.





APPENDICE

DI

SPIRIDIONE PETRETTINI CORCIRESE

INTORNO

ALL’IMPERATORE GIULIANO

L’EDITORE



L’ERUDITO signor Spiridione Petrettini nel dare in luce volgarizzate dalla sua dotta penna alcune delle opere di Giuliano1 facea precedere a questo lavoro molti cenni biografici e pur molte storielle notizie intorno alle geste del chiarissimo imperatore, le quali di molto profitto riuscir possono ai bramosi di formarne spassionatamente un retto giudizio, c con severa critica sentenziare sul merito degli encomj prodigatigli, e delle accuse da cui andò, colpa la varianza de’ partiti, la molta sua gloria offuscata. Io dunque osservato avendo che sebbene Zosimo abbia diligentemente atteso, a formarne uno dei più accurati argomenti della sua NUOVA ISTORIA, pure a maggiore illustrazione di esso non ho potuto rattenermi dall’unirvi anche la prefata dissertazione, sperando che molti lettori sieno per accogliere di buon grado questa piccola mia diligenza.




Nullum ingenium fine mixtura dementiæ..



CHE in ogni nobile impresa, in ogni glorioso proposto, tanto l’umana sufficienza non valga che al nascimento di quello, tutto il potere ne tolga alla fortuna, egli è questo antico e comune dettato. Ma che pur degli estinti una sì capricciosa Diva governi l’estimazione e la fama, e che il suo imperio ella stenda sino alla più remota posterità, invisibile giudice e sospirato dei men lieti de’ suoi favori, ciò non si può certo considerare senza maraviglia e cordoglio gravissimo.

Non mai per avventura sortì niuno nascendo un così ardente desiderio di gloria, nè facoltà d’animo e d’ingegno sì straordinarie per acquistarla, non mai niuno far seppe di queste facoltà un uso tanto maraviglioso, e tuttavia non mai forse niuno pervenne alla nostra cognizione con più dubbia fama del principe di cui imprendo a tradurre le Opere. Tanto egli è vero che la virtù stessa riceve la sua ragione dai tempi e dalla fortuna, e che men solleciti delle altrui virtù che degli errori, un solo traviamento basta a farci obliare una vita gloriosa!

Avvegnachè da noi si porti ferma credenza che le azioni ed i sentimenti d’un uomo nella scenica rappresentazione del mondo, discordino assai spesso da quelli della privata sua vita, non pertanto con grande curiosità cerchiamo sempre di questa instruirci, sia che da noi s’ami conoscere le cagioni che l’una valsero l’altra a produrre, o giudicare si voglia del quanto elle disconvengano o no, o più veramente che con non avvertito, ma neppure innocente piacere cerchinsi da noi le vestigia dell’uomo nelle azioni private di colui che più che uomo, a così dire, s’ebbe ad ammirar nelle pubbliche. Ma se questi fu gran principe, illustre guerriero, sapiente magistrato, arguto filosofo; se ristorò un sistema religioso, se questo sistema regolò le sue azioni e vive ancora nelle opere sue, se finalmente, ciò che più imporla, la fortuna gli sfrondò l’alloro che verdissimo pervenire doveva alla posterità, la sollecitudine allora di ben conoscerlo si trasforma in dovere, e quella d’imparzialmente giudicarlo in giustizia. E già un sì ampio corredo di doti segnerebbe per avventura allo scrittore de’ gesti di Giuliano la traccia della sua narrazione, nel tempo stesso che ne stancherebbe la diligenza. Non è però nostro avviso far qui imperfettamente ciò che per altri si fece, se non con animo affatto libero da prevenzione, certo con ingegno e capacità non comune 3, ma poichè egli è pur necessario conoscere in qualche guisa prima l’uomo, poi lo scrittore, e le Opere di Giuliano in singolar modo s’innestano colle sue azioni, basterà a noi qui offerire quella più generale immagine della sua vita e del suo principato, che solo all’uopo presente soddisfaccia. I fatti essendo proprietà comune degli scrittori, e la guisa di scorgerli particolare a ciascuno, noi li considereremo con quella onesta fiducia che è lontana del pari dalla pusillanimità e dall’arroganza, e seguiteremo il nostro autore ne’ suoi traviamenti con la libertà che a noi rende esente da pericolo una così grande distanza d’opinioni e di tempi, e con quell’imparziale sentimento, che norma essendo d’ogni giustizia, non può non essere in singolar modo accetto a chi d’ogni giustizia è fonte ed autore.

Il mondo romano che con sofferente obbedienza, ma con viva sollecitudine veduto avea alcuni anni prima sei principi disputarsi ad un tempo la signoria di lui4, abbandonare finalmente potevasi alla speranza, che una lunga domestica pace, procacciato gli avrebbe la stabile successione della numerosa prole di Costantino. Senonchè questo principe guerriero astuto, privato senza virtù, e di pubbliche virtù simulatore, carattere vario, bugiardo, di parli ripugnanti composto, sondò una nuova capitale, diffuse una nuova religione, perfezionò nuovi ordinamenti politici, il tutto però più inteso ad appagare la personale sua vanità ed a rendere il principato assoluto, che a rassodare la vacillante mole della romana potenza. La stessa sospettosa politica, di cui fu primo institutor Diocleziano, che persuaso avealo ad assicurarsi dell’obbedienza delle provincie col rendere in esse permanenti gli eserciti, a creare le divine gerarchie dello Stato, a scemare il nerbo e la forza delle legioni, a rendere comuni a’ barbari le più illustri dignità della repubblica, la colpevole arte in somma d’indebolire ogni intermedia potestà nella gradazione sociale, e di ogni cosa dividere onde ogni cosa tirannescamente signoreggiare, potè altresì determinarlo a creare, vivente ancora, ne’ tre suoi figli e due suoi nepoti, la rappresentanza di cinque Cesari (5), che con dipendente, ma fermo potere, un’immagine recassero del principe a contenere le estreme provincie dell’impero, ed a deludere o blandire col fasto, o coi favori d’una corte, l’ambizione de’ sudditi.

Avvegnachè i principi romani non avessero una legge di successione, nè si fosse per anco disposto dello stato come di privato patrimonio, tuttavia non avrebbono mancato esempi a Costantino ne’ suoi antecessori, se uopo aver poteva egli d’esempli, che gli dessero autorità a disporre dell’impero per testamento, onde in tal guisa premunire gli eredi da domestici tradimenti, assai consueti in quella stagione, e risparmiare allo stato le calamità della guerra civile, che l’eguale titolo de’ figli e l’eguale de’ nepoti, da ambe parli pressochè da pari forze sostenuto, rendere dovrà inevitabile. Ben presto in fatto dopo la sua morte manifestaronsi i primi, pè andò guari che divampò la seconda. Niuno erede lasciava egli dell’inquieta ambizione e de’ politici e guerrieri talenti dell’autore della loro fortuna, ma ben potè il mondo ravvisare in Costanzo, principe dell’Oriente un imitatore delle sue colpe, ed un emulo della fredda e tranquilla ferocia, che distinsero gli ultimi anni del regno suo. Ornato di qualche qualità di privato cavaliere ma non di veruna che degno il rendesse della porpora, schiavo degli eunuchi, e tiranno orgoglioso dei popoli, sospettoso e crudele per debolezza, simulatore astuto, quantunque, tranne che nel nuocere, instabile ne’ propositi, fece ministra delle sue colpe quella specie di Fede che allora professavasi, e sperando nella carità della Chiesa una pace a’ rimorsi, imbrattò il mondo di delitti, intanto che il riempiè di scismi e di concilj (4).

Non è proprio di questa scrittura la narrazione dei fatti che precedettero la ruina della casa Flavia, nè il dire come Costanzo violasse la fede con cui giurata n’avea la salvezza, e un ministro degli altari offerto siasi a complice d’assassinio, e l’esercito mosso a sedizione dalle arti del suo signore, ed impaziente di farsi un principe grato in una promiscua strage abbia involti sei cugini e due zii di Costanzo (5). Basti a noi solo dire, che l’infantile età, ed i teneri uffizj dell’amicizia (6), poterono a gran fatica rendere sicura la fuga, ed obliato l’asilo di due unici superstiti di si numerosa famiglia, Gallo cioè e Giuliano, nati da Giulio Costanzo fratello di Costantino (7). Sottratti al furor militare; e poichè intanto la cessata sedizione dell’esercito involava a Costanzo l’opportunità della colpa, specie di virtù ne’ tiranni, avvisò che se in appresso uccidere non poteasi con alto di pensata ferocia quella tenera età ed innocente senza rompere ogni verecondia, spegnere però in essa potevasi di leggieri quella miglior vita d’un magnanimo spirito e di una generosa ambizione. 1 reali fanciulli tratti prima l’uno in Ionia, l’altro, Giuliano, in Nicomedia, poscia custoditi nella forte rocca di Macella, antica e solitaria residenza de’ re della Cappadocia, ai piedi dell’Argeo, lontani da ogni libera sociale comunione, privi d’ogni studioso ammaestramento, sottoposti ad ogni più severa e minuta pratica della fede, a quell’austera disciplina di’ vita s’ebbe cura destituirli, ed a quelle massime di cristiana umiltà e sofferenza, che tanto più alte sembrar possono ad infiammarci del desiderio delle palme celesti, quanto più sanno divellerci da quello d’ogni terrena grandezza. Il vescovo Eusebio, colpevole cortigiano e campione astuto dell’Arianesimo, principale autore dell’eccidio della casa Flavia, assunse l’incarico d’instituire Giuliano nel sacerdozio, e l’apostata fu Ἀναγνώστης, o pubblico lettore di sacre Scritture nella chiesa di Nicomedia (8).

Ma Costanzo far non poteva che questo principe vivendo non avesse a sorgere un uomo straordinario: tale creato l’avea la natura, e la fortuna in quel giusto mezzo di presenti sciagure e di luminose speranze avealo collocalo, che, più presto che opprimere, con più ardore sprigiona un animo vigoroso dagl’intoppi delle une. per lanciarlo al conseguimento delle altre. Le avversità che fransero, e guastarono il debole spirito di Gallo „ fortificarono, siccome far doveano, quello robusto di Giuliano. Potè egli alla loro scuola apprendere la per un allo animo malagevole arte, ma necessaria virtù sotto un tiranno, di nascondere i proprj sentimenti, e potè in essa ammaestrarsi a provvedere senza viltà alla propria sicurezza, rispettando il principe nella persona di Costanzo, senza omettere tuttavia di detestare il carnefice della sua casa. Fornito dalla natura di un robustissimo corpo (9), conveniente domicilio di un gagliardissimo ingegno, palesò sino dall’infanzia quel generoso disprezzo de’ piaceri, quell’avidità d’apprendere, quel nobile amore della fatica, quella rapidità nel concepire, nel deliberare, nell’operarc, e quella varia e pieghevole tempra di spirito, per cui nell’età nella quale il più degli uomini fanno le prime lor prove di vita pubblica, potè egli apparire gran principe, illustre guerriero, magistrato, oratore e filosofo.

Un tenero amico però del pari che saggio maestro, consortava la sua solitudine di Macella. Di tutta la paterna eredità, Costanzo non eragli stato largo che del solo eunuco Mardonio (10), antico famigliare della madre sua. Incauto! ch’ei non previde ch’ella ne sarebbe stata la più pregevole parte, e quella a’ suoi consigli fatale, se de’ precetti di lui dovea fortificarsi l’animo di Giuliano. Con raro esempio fra quella asiatica genia, celebre, anche allora che l’animo governando de’ principi romani contribuito avea alla decadenza dell’impero, solo per inique frodi, o per femminili arti e costumi, sembra che l’eunuco Mardonio accoppiasse alle doti di un collo ingegno ed elegante, ogni più bel fiore di morale virtù. Con attenta e paterna cura adoperavasi egli a formare i costumi del reale suo allievo, ad inspirargli l’abborrimento del vizio, l’amore della virtù, l’osservanza del decoro e della modestia, intanto che con lo studio della greca lingua, c de’ Greci scrittori iva inslruendo la sua ragione e rischiarando il suo spirito. Ma il discepolo preveniva di già la sollecitudine del precettore. Quell’insaziabile curiosità che palesato aveva sino dall’infanzia, naturalmente ora conducevalo ad abbandonarsi allo studio della filosofia, che quasi sola in que’ tempi nelle scuole signoreggiava, e siccome essa lotta contenevasi nelle opere de’ Greci, o da Greci viventi insegnavasi5, così ben presto poterono divenire le une la sua prediletta e cotidiana lettura, e formare gli altri l’oggetto del suo amore e della sua riverenza. Nella consuetudine e nelle colpevoli arti di questi, noi dobbiamo cercare altresì le prime cagioni di quegli errori che in appresso sì miseramente il travagliarono, e come non è a dubitarsi che sino dalla sua prima adolescenza mettessero in lui radice i principi della sua apostasia, voglia a noi concedersi di tutto a questo luogo riunire, quanto intorno ad essa dire ci resta.

Il pio e moderno cristiano, che gode del benefizio d’una religione lontana sì lungo corso di secoli dai pericoli e dagli errori, che accompagnarono la sua culla, acceso d’un santo fervore per la morale eccellenza d’una dottrina che raffrena la sua curiosità senza avvilire la sua ragione, e soccorre alla sua presente debolezza col prospetto d’un consolante avvenire, intendere non può che a fatica com’ella non confonda la sua origine con quella della creazione, e come possa essere stata preceduta dalle follie e dalle stravaganze del politeismo. Quindi non può non a grande ira commuoversi se vede chi nato per sua ventura nella via della salute, di propria mano accecarsi per torcere in quella -delle tenebre e dell’errore. Avventurosi di poter dividere con lui i sentimenti della sua pietà, noi osiamo invitarlo ad alcune considerazioni che richiamino il suo sdegno a più cristiana moderazione.

L’apostasia di Giuliano riceve senza dubbio un particolare carattere d’odievolezza da quello splendore di verità che è proprio della religione ch’egli ha abbandonata, ed in tal caso ogni umano ragionamento confondesi nella sublimità della causa. Ma l’osservatore imparziale che vorrà giudicare di quest’azione in sè medesima considerata, mentre egli avrà a deplorare la miserabile cecità del traviato, tanto più vedrassi indotto a riputarla innocente rispetto alla morale, quanto che la stessa Chiesa cristiana se forzar non deve a suo favore, può vedere almeno con compiacenza ricoverar sotto il vessillo della fede i fuggitivi delle altre religioni. Sciagurato, si certo, appelleremo colui che nell’errore vede un tesoro di scienza e di verità, ma se per innocente abbaglio della sua mente, e per intima convinzione dell’animo suo, spera ivi trovar la salute dove altri non dubita della dannazione, in qual guisa il chiameremo colpevole? Egli è vero che il più degli uomini avendo in materie religiose più un convincimento d’abitudine che d’intelletto, noi possiamo non a torto ritenere che l’alto violento di svellere le affezioni, che quasi seconda natura con noi crebbero, proceda assai spesso da motivi di privato interesse e di mondana ambizione, e che colui il quale disconosce in maturità i principi di quella fede che la passata sua vita devono aver guidato, palesa abbastanza eh ’essi non mai guidaronla, e ch’egli sarà per essere tanto vacillante novizio quanto fu falso e sleal veterano. Ma siffatte cagioni che possono in appresso aver confermata l’apostasia di Giuliano, non possono averla determinata nel primo aprile dell’età sua.

Una religione che pel corso di venti e più secoli avea sola, o con lieve differenza di riti, governato le coscienze del mondo antico (11), che con assidue pratiche guidando il credente da’ più minuti e giornalieri negozj della vita domestica, sino a’ gravissimi della pubblica e civile, quella particolar forza esercitare dovea sugli spiriti che di costante e cotidiana abitudine è propria, che ai sensi specialmente rivolta, personificava le passioni nel tempo stesso che lusingavate, e priva di un regolare sistema di dottrina, una gradita libertà di pensiero e di credenza lasciava (12), svelta sì di leggieri essere non poteva da un’altra, non più che un mezzo secolo innanzi divenuta fede dello Stato (13), e che tutta racchiusa nella sublime oscurità delle sue speculazioni, ordinava una illimitata sommessione, un semplice culto, ed il generoso sacrifizio de’ proprj affetti come la sola Ostia propiziatoria di un Dio misericordioso. E veramente, nè l’efficace ed illuminato zelo di Costantino, nè i proibitivi suoi editti, nè il pio furore od i più generali divieti di Costanzo, aveano potuto far sì che aperti non fossero tuttavia i tempj nelle città e nelle campagne, ed il culto degli Iddii non venisse ancora pubblicamente esercitato (14). Il tempo che distrugge ogni cosa, fortifica le opinioni religiose, e l’abituale usanza di un errore, per grossolano ch’ei sia, cresciuto in noi coll’infanzia e da tanti prestigi sostenuto, si converte nella nostra mente, dirci quasi, in una innata verità. Considerazioni di tal fatta, avrebbono, potuto è vero, nel pieno trionfo della Chiesa disporre degli animi moderati e tranquilli ad una reciproca ed egual tolleranza, ma il tempestoso periodo che scorre tra il confine d’una nascente e di una cadente religione, dovea essere di sua natura fecondo non meno di falsi ed incerti credenti (e parrà questa cosa seco stessa ripugnante), che di persecutori e di martiri (15). Or dunque, s’egli è vero, siccome è certamente, che i nostri errori acquistano qualità e ragione dalle opinioni e dalle dottrine che nella età regnano in cui vennero commessi, se le stesse idee del giusto e dell’ingiusto, dell’onesto e del suo contrario, comechè per sè stesse immutabili, ricevono da queste opinioni e da queste dottrine turbazione e cangiamento gravissimo, giudicare con le norme presenti dell’apostasia di Giuliano, sarebbe estrema ingiustizia. Non già colle attuali sue sembianze presentavasi il cristianesimo al mondo pagano. La sua dottrina era ancora materia di controversia, e la sua novità un sacrilego attentato contro l’antica religione dell’impero. Se l’anzianità della fede era la misura dell’apostasia, poteva un pagano rinfacciare a miglior diritto cotale macchia a’ Cristiani, e pio e meritorio riputar poteva Giuliano il ritorno all’antico culto della sua patria, che quello dire poteva de’ suoi maggiori, dal solo suo padre e dal fratello di lui interrotto (16).

Nè i domestici esempli che nell’età prima le nostre affezioni determinano, alti erano per avventura a confermare Giuliano nella sua fede. Un avo che senza impietosire a’ nomi di congiunto, di marito e di padre, fa scorrere il sangue d’un figlio, d’un nipote e d’una moglie innocente, e corre poi in grembo agli altari a patteggiar la salute (17), un fratello a cui la più fervida religione mansuefare mai non seppe la natural crudeltà (18), un cugino che giura solennemente il suo patrocinio ad una numerosa famiglia a lui stretta con ogni più caro vincolo di cognazione, solo per esserne in sicurtà maggiore il carnefice, e uccide a sè lo zio, e il padre a Giuliano, e colle pratiche del tradimento, e colla morte d’un delinquente spegne a quello un fratello, ed a sè stesso un cugino ed un collega all’impero (19), nel tempo stesso che edifica chiese, convoca concilj, e col fervore d’un teologo, e colla sottigliezza d’un sofista presiede a religiose controversie, documenti invero erano questi di cristiana pietà i quali anzichè persuadere, trarre potevano di leggieri la vivace fantasia di un giovanetto ad attribuire ad imperfezione della dottrina, ciò che altro non era che colpa e fralezza di chi esercitavala. E se nel più maturo stato della nostra ragione noi possiamo a gran fatica premunirla contro quella strana mescolanza ch’ella far suole della persona de’ nostri nemici colla natura delle loro opinioni, non è da dubitarsi che una grande avversione pel cristianesimo non s’ingenerasse nell’animo di Giuliano, anche per questo solo che la fede esso era di Costanzo, cioè del personale nemico suo, e del carnefice del promiscuo parentado.

Vedeva egli inoltre la religione eletta a ministra della sua servitù. Il vincitore de’ Franchi e de’ Germani, l’emulo di Marco e di Alessandro a languire destinavasi nella santa oscurità del sacerdozio. Un real giovinetto, che dovea portar seco l‘ambizione e la speranza della sua nascita, non potea senza indignazione considerare che quel vescovo di Nicomedia postogli ai fianchi da Costanzo, dopo essere stato il principale strumento dell’eccidio della sua famiglia, non tanto assumeva ora l'incarico di fare di lui un campione della Chiesa, quanto una vittima della gelosa ambizione del principe, e nella giusta sua ira non poteva non essere indotto a confondere di leggieri la persona del maestro colla fede che per lui insegnavasi. Nè per avventura gli austeri obblighi d’un candidato, le pie, ma severe pratiche dei digiuni, delle veglie, delle preghiere, a cui veniva sottoposto, o gli ardui precetti di umiltà ed abbiezione cristiana, supremo essi conforto di un animo a Dio chiamalo, ma contro cui spesso avviene che temerariamente ritorcasi chi oppresso dall’ingiustizia aspira a liberarsene, più alti erano a confermare una vacillante volontà, ed a trasfondere in lei quella dolce non comandata persuasione, che solo sembra propria d’un libero spirito ed indipendente (20).

Offerivaglisi d’altra parte il politeismo con false sì, ma tuttavia lusinghiere sembianze. Esso traeva un principio di forza dalla sua stessa debolezza. Naturalmente il nostro spirito a tutto ciò che supera i limiti della sua intelligenza assegna una causa soprannaturale, ma tanto più contenta questa causa la sua vanità, quanto che di cosi mista natura ella sia, che divina pur essendo, affatto però non si sottragga alla sua conoscenza, ma il faccia a così dire assistere e partecipare alla creazione. Con piacere la fantasia accoglie la presenza di un Dio visibile nell’astro che crea e svolge ad un tempo sotto gli occhi nostri le maraviglie della natura, e un giovane eroe s’abbandona con piacere alla speranza che il Dio stesso delle battaglie nella corporea sua forma, scenderà nella mischia, scorrerà le fde de’ suoi soldati, e guiderà il suo braccio alla vittoria. Un altro ancora assai più singolare prestigio seguitava quel cullo, per chi cresciuto in mezzo alla filosofica vanità, e tutto acceso d’amore e di riverenza per gli antichi, aspirava ad emularne la gloria: gl’Iddìi del paganesimo animato avevano gli eroi di Platea e di Maratona, e proietto le aquile romane sino a’ confini del mondo, intantochè, sebbene per cagioni d’assai diversa natura, le calamità e la decadenza dell’impero proceduto aveano d’un passo eguale coll’ingrandimento della Chiesa cristiana (21).

Tutto questo però non sarebbe stato per avventura ancor sufficiente a far abbandonare a Giuliano il vessillo della nativa sua fede, se nel non breve soggiorno circi fece nell’Asia minore, dove recossi dopo l’innalzamculo di Gallo suo fratello alla dignità di Cesare, due cagioni non si fossero ivi riunite capaci singolarmente, l una ad indebolire lo splendor della nuova, l’altra a fortificare in qualche guisa la debolezza della vecchia fede. Era quella provincia la principale stanza non meno degli scismi della Chiesa, che della platonica filosofia. I primi suscitando al cristianesimo i pericoli di una profana dottrina, ed avviluppando di quistioni la natura stessa della divinità, smarrire facevano al pio seguace la stabile mela della sua credenza, e lo scisma Ariano negando la divinità del Verbo, crollava da’ cardini la fede ^ l’altra ritenendo le verità della religione naturale, adoperavasi a scemare le stravaganze del gentilesimo, coll’assegnare a tutte le favole un’allegoria. Ma poichè nè atte esse erano ad ordinarsi in un regolare sistema teologico, nè potevasi senza una mediazione sostenere una fede, ricadevasi insensibilmente al cullo degli Idoli, avvegnachè si affermasse non ritenerli che come simboli della divinità a cui erano consagrati. Era questa però una parte, e la più semplice della dottrina. La filosofia, collegatasi coll’impostura, prometteva di rivelarne la più recondita col mezzo dell’iniziazione (22). La moderna Teurgia nelle già celebri caverne di Efeso e di Eieusi, conciliava il personale commercio cogl’Iddìi, procacciava il dono di presagire il futuro, e sospendeva le leggi della natura. Gli Edcsii, i Massimi, i Crisanti rappresentavano allora la scuola di Porfirio e di Piotino, ma poichè ed i principi antecedenti, e Costanzo proibita avevano severamente qualsivoglia spezie di magia, povera di clienti e perseguitata dall’imperatore, languiva la platonica scuola nell’oscurità e nel mistero. Un giovane della fama di Giuliano, e d’un erede presuntivo del trono poteva rialzare il suo credito, e nell’incertezza degli eventi procacciarle altresì un giorno patrocinio. Con piacere awisaronsi i segreti sentimenti del principe, e con piacere fu colta l’occasione di fare acquisto d’un imperiale proselito. Ogni più astuto artifizio fu posto in opera a sedurlo, e l’incauto Giuliano con animo pronto troppo e inconsiderato inciampò nella rete. Egli iniziossi solennemente prima in Efeso e più

Prt fazioni di S. P. alle Op. tc. di Gùìliano. tardi in Eieusi, ed in tal guisa col cullo degli Dei venne eziandio a consentire ai delirj della teurgia. Fino dalla prima sua infanzia la volta de 1 cieli sparsa d’innumerevoli mondi, colpito avea gagliardamente la sua fantasia. Più volte immerso in una cara ebbrezza di sensi, fu veduto solitario ed immoto contemplarne P ineffabile abisso. Quindi anche ne’ suoi traviamenti quella parte d’errore per sè togliendo che ottenere può qualche grazia, siccome quella che più alta sembra ad abbagliare un grande spirito, la sua magia altro non fu che una specie d’astrologia (25), e per grande che debba dirsi il rumore che di essa fecero i nemici di lui, agevole cosa sarebbe, noi crediamo, provare di’ egli noa ebbe orecchj pe’ suoi prognostici che quando furono a quelli della politica e della ragione di stato conformi. Non pertanto mostrò egli talvolta di prestar fede a stravaganze siffatte, e del suo errore parteciparono tant’altri grand’uomini dell’antichità. Diremo noi che fortificato essi non avessero il loro spirito con ogni specie di virile abitudine e di virile disciplina? e la maravigliosa natura di Germanico e di Giuliano, indocile sarebbe stata alle squisite dottrine della perfettibile umanità?

Ma non s’obbliò già di rivelare in quella iniziazione P arcano che più tornare potea vantaggioso ai settarj, nè al principe per avventura si ingrato quant’egli affermar seppe in appresso: gl’Iddìi promettevangli l’impero, ma questa promissione annodavasi alla causa stessa degli Iddìi ^ egli doveva altresì ristabilire il lor culto. Per luminose che a noi si offrano le apparenze dell’innocenza di Giuliano nella tumultuósa sua eietione di Parigi, e comechè non possa rivocarsi in dubbio ch’egli in appresso per semplice smarrimento della ’ sua ragione ogni confine di superstizioso zelo eccedesse, allora pure che i più gravi interessi della repubblica a moderati consigli persuadere il dovevano, tuttavia noi non possiamo credere che a pienamente determinare la sua apostasia, concorsi in qualche guisa non sieno anche i comuni, ma efficaci molivi della politica e dell’ambizione (24). Difficile cosa è immaginare che un nipote di Costantino aspirar non dovesse al trono degli avi suoi, e il sangue fraterno di cui questo circondato avea suo cugino, maggiori spirili onde pervenirvi aggiungere doveva ad un animo vigoroso. Come la palestra l’atleta, un grand’ingegno ama il teatro dove far prova delle sue forze, e la vita di questo principe palesa abbastanza che tanto non aveagli fortificato il petto la filosofia, da produrre in lui quel magnanimo disprezzo degli uomini, che considera la natura delle cose indipendentemente dall’opinione di quelli. Il fanatico zelo di Costanzo dichiarava nemico del suo principe chi nemico era della sua religione, e Giuliano potè osservare con opportunità che questi nemici che nei numerosi seguaci del paganesimo la imprudenza di suo cugino formavasi, assai volentieri seguitata avrebbono la causa d’un principe che la mancanza di figli in Costanzo e l’uccisione di Gallo dovevano far riguardare come l’erede presuntivo dell’impero, ma che non pertanto sino a che Costanzo regnava, sicuro tener non poleasi della vita neppure. Era inoltre il culto degli Dei la religione ancora della più colta e gentile parte della società, e Giuliano forse non durò fatica a persuadersi che nella turba degli oratori, de’ poeti c de’ filosofi, in ogni tempo efficaci strumenti della fama, trovato avrebbe degli utili banditori delle sue virtù. E veramente così secreto non rimase, o più presto non si volle che limaaesse il suo rinunziamenlo alla fede, che tosto non se ne spandesse la fama nelle città e nelle campagne. Nella sicurezza dei privati colloquj confessava Giuliano con ingenuo o simulato candore, che allora solo lieto terrebbesi che potuto avesse giovare alla sua patria ed alia sua religione^ e gl’iniziati, gli amici, i filosofi con cauta, ma assidua diligenza, ripeteano i detti di lui, diffondevano le nuove della sua apostasia, la quale potè ben presto ravvisarsi come un segno innalzato ai desiderj ed alle speranze del mondo pagano.

Sino a tanto che nelle esterne pratiche ei si fosse mostrato osservante della pubblica religione, Costanzo trarre non poteva da’secreti sentimenti di lui, nessun sufficiente pretesto di sdegno. Questa osservanza però era di una inevitabile necessità, e poichè assumer ei non poteva la spoglia del leone, pensò quella vestire della volpe. Pel corso intero di dieci anni, periodo che scorre dalla sua iniziazione in Efeso sino alla sua pubblica professione di fede, cioè sino al tempo che dichiarò la guerra a suo cugino, questo principe mentre ne 1 domestici altari attendeva a sacrificare ai falsi suoi numi, un sacrilego incenso continuava eziandio ad offerire al vero Dio nelle Chiese cristiane, il celebre inglese istorico della decadenza e rovina del romano impero (25) affermò che la moderata indole del politeismo non escludesse l’esercizio di un culto che internamente non approvavasi. Se una falsa religione tollerare sapeva l’ipocrisia, proibivala però, noi crediamo, ben la morale. D’altra parte, la mite natura del politeismo sopportava, a noi sembra, la divozione verso nuove o straniere Divinità, ma allora solo per altro che di natura fossero a quella de’ proprj suoi Iddj somiglianti, e tali che ricevere potessero la cittadinanza del suo Olimpio, della quale quel culto fu sempre liberal dispensatore e presso i Greci e presso i Romani: ma la religione non meno che la politica vietare doveano l’esterne pratiche d’una fede quale era la Cristiana totalmente all’esistente contraria, e di cui appunto la dottrina severa e con altre ad innestarsi ritrosa, era stata principalissima causa a ritardarne il progresso. Giuliano medesimo, pontefice e sapientissimo maestro della pagana teologia, non proibi ai Cristiani d’interpretare nelle loro scuole i libri de’ genti I i (20), fuorchè allegando essere cosa indegna e sacrilega spiegare ad altri degli scrittori che una fede insegnavano che il proprio animo riprovava.

Una si costante simulazione somministrò in ogni tempo materia alle pie invettive de’ Cristiani, e certamente ognuno vorrà riputarla come indegna macchia d’un animo generoso. Senonchè i malvagi principi costringono i sudditi a iniquissimi vizj. Mutansi sotto il loro reggimento le colpe in virtù, e l’ipocrisia si trasforma in prudenza. Pochi uomini vi hanno in ogni tempo che sappiano esitar nella scelta ^ tra il nascondere i proprj sentimenti, e l’annunziare una sterile ed infeconda verità sul patibolo. Non polevasi da Giuliano assumere la nuova senza palleggiare con la vecchia c pubblica fede, e se dconsi compiangere o detestare gli errori di lui, qualche grazia ei trovar debbe presso l’indulgente posterità, se in quella stagione ed appo quel principe e quella corte, usò di un mezzo reo sì, ma con cui solo provvedere poteva alla sua personale sicurezza (27).

Ma intanto che di tal guisa iva egli traviando miseramente nell’Asia minore, un nuovo ordine di cose raaturavangli i destini. Costanzo clic in addietro sia costretto da’ bisogni dello stato, sia per fornire a Gallo un’occasione di rovina, avealo imprevedutamente creato Cesare pel governo delle diocesi dell’Asia, ora non solo traevagli dal capo la corona, ma in quella terra medesima ancora lorda del sangue (l’un principe e figlio innocente, puniva in Ini la colpa sotto la mannaja del carnefice d’essersi abbandonato alla sua lede ed a’ suoi giuramenti (20). Giuliano cadde in sospetto di connivenza nelle colpe apposte al fratello, e certo spento in lui avrebbesi l’ultimo germe di Costanzo Cloro ed il temuto vindice della sua casa, se la giovine età, le sciagure patite, e la fama delle sue virtù risvegliata non avessero la compassione in quel sesso che sembra e il più pronto a ricoverarla, ed il più accorto in farla ad altri sentire anche in mezzo all’ebbrezza del potere assoluto. L’imperatrice Eusebia, donna d’illustre prosapia, di splendente bellezza, di castità singolare, di colto ingegno, ed elegante, prese ad amarlo con tenera costante affezione, la quale se in appresso da quella sua pura sorgente traviasse, riesce malagevole alla storia di affermare egualmente che di negare. Ella il confortò dc’suoi consigli, procacciogli col marito un colloquio, e Giuliano potè la mercè sua con onesta libertà giustificarsi, ed ottenere di fermar, quasi in onorevole esiglio, la sua stanza in Atene (29).

Contento degli eruditi suoi ozj, traeva egli lieti i giorni in questa che appellava seconda sua patria, e sì lievi cagioni deviano spesso la corrente degli avvenimenti dell’umana vita, che non riesce impossibile a credere che la giovanile ambizione di lui sarebbesi saziata o confusa nella vanità filosofica, se l’operosa sollecitudine d’Eusebia impreso non avesse ad estendere ancora più avanti i suoi benefizj. Cresceva l’impero ogni dì più di pericolo. La morte di Gallo privato aveva l’oriente di un rappresentante imperiale, e il bellicoso Sapore di già ne minacciava le frontiere. I selvaggi Isauri stavano alle porte ed all’assedio di Seleucia, i Sarmati varcalo aveano il Danubio, ed i barbari dell’Alemagna invasa la Gallia. Costanzo, che uscire non poteva (l’Italia, confessò allora per la prima volta di conoscersi incapace a solo sostener tanta mole (50), e la reai Protettrice non ammise di profittar tosto a favore del suo cliente d’una confessione che la sola necessità spremeva dalla vanità del principe. Potè ella fargli considerare, nè inopportunamente, che l’infecondo lor talamo facendo di già ritenere Giuliano come l’erede presuntivo dell’impero, meglio era procacciarsi il suo affetto anticipando con un atto della propria volontà, ciò che la ragione delle cose rendea ormai inevitabile •, chè la dolce e pacifica indole sua promettere in lui poteva un principe grato del beneficio, e la moderazione ed austerità sua filosofica allontanare i sospetti d’un principe ambizioso (31). Costanzo non tardò a veramente o simulatamente persuadervi^ sia intento a macchinare nuove insidie a suo cugino, sia che accordar potesse tal fiala per debolezza ciò che non mai consentilo avria per nobile movimento dell’animo suo, e Giuliano nell’età di ventiquattro anni, tratto da’boschetti dell’accademia, a mutar venne in Milano, in mezzo al fasto ed al lusso d’una corte orientale, il mantello del filosofo colla veste militare e con le insegne di Cesare. Condusse egli allora pure in isposa Elena sorella di Costanzo, per opera e consiglio di Eusehia, onde con nuovo fratellevole nodo vie più stringerlo alla casa imperiale (52). In appresso questa tenera amica e liberal principessa, senza che niuna palese cagione sorgesse di reciproca malevoglienza, fece spegnere nascendo l’unico frutto del loro matrimonio, e con donneschi arlifizj. quale che essere potesse la loro efficacia, procacciò che confortato non fosse più da prole il lor talamo (55). Spiacevale per avventura che l’eredità dell’impero passare dovesse ne’figli di Elena? latta non P avrebbe condurre sposa a Giuliano. L’età non giovane di lei sperar le lece sterili nozze? non è a immaginarsi che la femminile ambizione pigliasse in rotai fatto si incerte misure. Sperò ella co’benefizj coltivare un impudico alletto nel seno del casto Giuliano, che, tranne quella della donna sua, non mai conobbe altra venerea consuetudine, ed amante mal corrisposta ritorse il geloso suo sdegno contro chi il letto ed il cuore di lui divideva, c contro l’odiato testimonio del felice altrui amore? oppongonsi a ciò le concordi testimonianze di lode che della virtù e castità sua fanno gli scrittori cristiani e pagani (34). Ma queste non polrebbonsi per avventura riputar dalla parte de’ Pagani come espresse dal bisogno di conciliarsi appo Costanzo una possente mediatrice di religiosa tolleranza, e dalla parte de’Cristiani come l’ordinario tributo di adulazione verso chi l’animo governa del principe? lasceremo ad altri darne sentenza.

Checche ne sia di ciò, allorchè Giuliano venne istruito per la prima volta della sua elezione, mostrò d’accoglierne la nuova con grande rammarico (35). I benefìzj di Costanzo, i domestici esempj, ed il recente assassinio di Gallo poteano, senza dubbio, inspirargli un giusto timore, ma riesce estremamente malagevole a credere verace l’abborrimento alla porpora in un principe che pervenne all’impero col mezzo d’una militare sedizione. Noi di ciò dovendo altrove favellare, avremo allora I’ opportunità di bilanciar i suoi sentimenti. Debbonsi intanto le sue presènfi ritrosie riputar in parte anche come il mezzo più valido a calmare l’inquieta diffidenza di Costanzo. Poteva Giuliano riporre una giusta fiducia di sicurezza su quella reale necessità che costringeva il nemico suo a seco lui dividere le cure del móndo, e fidare finalmente eragli lecito o nella propria sommersione, od anche in quegli avvenimenti che nella sua nuova qualità di Cesare più dà presso governati avrebbe e diretti.

Da gran tempo la Gallia appellava le cure ed i pronti ripari del suo signore. Costanzo, seguitando l’esempio de’ suoi antecessori, invitato aveva a scendervi i barbari dell’Alemagna onde opporli all’usurpatore Magncnzio; ma essi, poichè servito ebbero il principe, pensarono a stabilirvi)». Fermata la principale lor sede nell’Alsazia e nella Lorena, dopo aver posto a sacco e distrutto quarantacinque Fortissime città, occupavano con colonie lor proprie lutto il vasto tratto di paese che a sinistra del Reno, dalla sorgente alla foce, per quaranta e più miglia s’estende (’), e nuocendo alla libera navigazione del fiume, poneano ad estremo pericolo le restanti Gallie e provincie oltre l’Alpi, che a mezzo di quel transito ritraevano dalla Bretagna gran parte di vettovaglia (56). Allo stesso tempo i Franchi situati più vicini all’Oceano, occnparono la propinqua isola de’ Baturi, e l’antica Tocandria, ossia il moderno Brabante. A 1 ricacciar tanti invasori, ed amministrare una sì sconvolta provincia, destinato venne il giovane Cesare (37).

La narrazione delle guerre galliche s’appartiene allo storico di que’ tempi, e l’osservanza della brevità promessa fa che da noi si debba ogni cosa rapidamente trascorrere. Giuliano scritto n’aveva i comentarj, e nella perdita di sì prezioso documento della sua virtù, il lettore abbandonata ogni altra imperfetta guida, possedè in Ammiano un giudizioso istorico, sebbene turgido e disordinato scrittore, dove appagare la sua curiosità. Sia lecito a noi chiedere solamente per quale incredibile forza d’ingegno, Giuliano, un giovane che non ancora varcato avea il quinto lustro dell’età sua, e che per la prima volta la militar veste indossava, istituito nelle

(’) Questo possedevano di fatto: ma con tc loro scorrerie abbracciavano uno spaiio tre volte maggioreumili dottrine del sacerdozio, cresciuto fra i boschetti dell’accademia cd all’ombra dei pacifici studj, potuto abbia nella battaglia di Argenloro (38), con un esercito di soli tredici mila uomini posti a fronte d’innumerevoli barbari comandati dall’istrutto valore di Cnodomero (59), palesar di riunire in sè l’arte, e i talenti di un antico condottiere d’eserciti, il personale valore d’un giovane eroe, ed emulare in un comune teatro le azioni e la fama del primo e del più illustre dei Cesari? Costretto a scemare a così dire la sua stessa gloria onde soverchia non balenasse agli occhi dell’invidia, a premunirsi dagli aguati de’ satelliti di Costanzo intesi a preparargli opportunità di pericolo e di rovina, tradito a vicenda dalla negligenza de’ suoi capitani e dalla perfidia de’ suoi ministri, che quelli erano del principe, liberò non pertanto in tre successive campagne la Galli» dagli Alemanni, varcò quattro volte il Reno, assicurò le sussistenze delle provincie, debellò i Franchi stimali sino allora per numero c per valore invincibili, e tanto mise ne’ barbari terrore delle armi romane, che più uscire non osarono, finchè ei visse, dai loro boschi (40). Possedeasi sopra ogni credere la malagevole arte di trasfondere nel soldato, non l’abitudine di una servile obbedienza verso il suo capitano, ma sì di quella che generata dal merito, animosa e spontanea va del paro, a così dire, con la volontà. Semplice e popolare nei modi, ed anche de’ più minuti travagli della guerra partecipe,’, liberava il comando dalla superbia che gli è propria, e rendcalo quasi consiglio d’eguale, fermo nella volontà, liberava la domestichezza dal pericolo della disobbedienza. Virilmente ambizioso, e per ambi’ zione d’ogni principesca vanità nemico, accrescevagli pregio nello spirito vivace de’ Galli la stessa negligenza della sua persona, e la Sua stessa singolarità. Sembra che più che altro il rendesse in guerra eccellente, un raro accorgimento nello scegliere quel partito che meno per avventura essere poteva avvisato dall’inimico, ed una incredibile rapidità nell’eseguirlo. Sebbene dall’ardore dell’animo spinto sovente a tutto commettere al> l’evento di una giornata, tuttavia sarebbe assai difficile, noi crediamo, provare ch’egli in uopo alcuno più commettesse alla fortuna di quello che spesso è prudente commetterle.

Ma dopo d’aver domato gli esterni nemici, l’ozio delle stanze d’inverno in Parigi appellò le sue cure all’interna amministrazione della provincia. Un tale arringo comechè più proprio d’un filosofo, non era però dell’altro men grave e difficile a correre. La somma potestà risiedendo tutta ne’ ministri di Costanzo, non era lecito a Giuliano nè vietare il male che pur vedea farsi, nè fare il bene che pur voluto avrebbe. Ristaurò le città distrutte, rialzò le fortificazioni, ritornò il vigore alle leggi, alle curie la dignità e lo splendore, all’industria le ricompense^ ma dove l’ingorde tasse tutto ingojano il privato patrimonio, dove la rapacità de’ gabellieri e la guisa di riscuotere l’imposta, più grave torna a’ sudditi dell’imposta stessa, vana è ogni cura, e spento ogui fonte di nazionale prosperità. Doleano al buon principe le estorsioni di Florenzio prefetto del pretorio (41), che l’incarico riuniva di Conte delle sacre largizioni, o sopraintendente generale dell’entrata e della gabella pubblica. Oppressa veniva per costui opera da straordinarie tasse una provincia a cui le scorrerie de’ Barbari, il distrutto commercio, e l’abbandonata agricoltura, rendevano impossibil cosa il pagamento anche delle consuete. La ferma sua opposizione a tali ladronecci esponevalo all’odio de’ ministri, ed accrescea presso a’ popoli la fama delle sue virtù; senonchè questa già sì grande ovunque spandevasi che più essere ella non poteva, nè per lui senza pericolo, nè per Costanzo senza trepidazione (-42). La malevolenza intenta a spegnere una gloria nascente, adulta, per procacciarle invidia, la esagera. Non più la viltà de’ cortigiani rappresentare poteva Giuliano come il frivolo ed ozioso sofista d’Atene, o il ridicolo soldato che apparve allorchè per la prima volta indossò la militare veste in Milano. Con maggior apparenza di verità raffiguraronsi nel vincitore de’ Franchi e de’ Germani i pericoli d’un ambizioso ridale, e nell’umano principe che alle rapine opponevasi de’ ministri, le arti d’un astuto demagogo intento a guadagnarsi una faziosa moltitudine. Caro a’ sudditi, teneramente amato da’ soldati, cinto già d’una gloria immortale, esso non potevasi, nel loro linguaggio, lasciare al comando d’un esercito vittorioso senza violare i dettami della più comune prudenza. Costanzo naturalmente disposto ad odiare e paventare chi egli aveva offeso, nè mai esitante nella scelta de’ mezzi onde liberarsi de’ suoi timori, di leggieri prestò orecchio a’ loro consigli, e poichè un pretesto ofTerivagli la guerra di Persia, ordinò che quattro intere legioni le più bellicose, e trecento soldati scelti fra tutte le altre ((43) era ’ questo il nerbo e la parte maggiore dell’esercito) raggiungesse in diligenza gli altri eserciti imperiali sulle frontiere dell’Asia.

Non eransi i Galli posti agli stipend) dell’impero che per l’interna difesa del loro paese, e Giuliano data avea la sua fede eli’ essi in nessun tempo valicate avrebbono le Alpi (44). L’ordine di Costanzo esponeva il suo generale alla taccia d’una slealtà vergognosa, abbandonava un’altra volta la Gallia alla balia de’ barbari dell’Alemagna a gran fatica frenati, ed atto era finalmente a nuocere in‘ singoiar modo a’ più gravi interessi della repubblica, la quale venendo per tal guisa a palesarsi negligente de’ patti, respingeva da’ suoi vessilli gli ausiliari e gli amici. Esso inchiudeva altresi la certa sciagura del capitano^ perchè a non l’eseguire sarebbe stato un apertamente ribellarsi, e ad eseguirlo, la perdita della Gallia essendo allora certa, e la sedizione delP esercito molto a temersi, non avrebbe ommesso Costanzo di apporre P una e l’altra a colpa di lui. Non pertanto dopo un lungo ondeggiare tra opposti consigli, Giuliano rappellò l’esercito dalle guarnigioni, manifestogli i comandi del suo signore, e l’esortò alla partenza (45). L’esercito stette ascoltando la nuova con quell’alta tristezza e quel profondo silenzio, che preceder suole le tempeste dell’animo, non meno che quelle della natura. Non si tosto però s’allontanò dal suo capitano che proruppe in aperti e sediziosi lamenti, e que’ lamenti ripetuti vennero da’ cittadini c da’ provinciali che le afflitte guarnigioni seguitavano, e un compianto in breve s’alzò universale. Deplorava il soldato l’abbandono della sua famiglia, il sangue sparso indarno in tante gloriose battaglie, la sicura morte a cui deslinavasi con una sì lunga marcia attraverso gli ardenti deserti dell’Asia, ma più ch’altra cosa la perdita di un generale che sempre lo guidò alla vittoria, e con osservanza l’amò di affetto paterno. Doleansi gli altri delia soprastante tirannide de’ ministri a’ quali in preda i nuovi ordini lasciavanli di Costanzo, della patria già un’altra volta abbandonata alla mercè de’ nemici, e del non più sperato ritorno di tanti preziosi oggetti della loro tenerezza. Alcuni libelli anonimi (46) che vennero a spargersi tra le legioni acrebbero eziandio il disordine.

Rappresentavasi in essi la sciagurata sorte de’ Galli, An. la feroce debolezza e la slealtà dell’imperatore, l’umanità e le virtù del giovine Cesare, avanzo di tanti assassini, e miseranda vittima dell’odio degli eunuchi e de’ favoriti. Raccoltisi i soldati allo stravizzo di uso la sera prima della partenza, il vino riscalda le loro passioni, e il dolore abbandona la sua verecondia. Armati di spade e di faci corrono di notte al palazzo, chieggono con ogni istanza del loro generale, c con alti e ripetuti applausi gridano: Giuliano Augusto. Sbigottito il principe, sdegna que’ sediziosi inviti, ricusa di presentarsi, e paventando la taccia d’usurpatore si ritira nel più intimo recesso della sua reggia, dove sostiene tutta la notte l’assedio. Ma la calca cresce, il suo Giove con un favorevole augurio l’esorta ad accettare l’impero (47), e la mattina appresso con vera o simulata violenza è tratto per le strade di Parigi y e gridato imperatore.

Tale si è la succinta storia della sua elezione. Dove anche, come a noi sembra, andar non possano affatto esenti da sospetti di tacilo assenso i diportamenti di Giuliano, tuttavia la fama e l’onore d’un filosofo uno stringente obbligo a lui davano di distruggere le apparcnze della colpa, e purgarsi della taccia d’usurpazione. Prima d’accingersi alla guerra contro Costanzo appellò egli il mondo intero a giudice della sua causa, ed espose al senato dell’antica capitale, ed alle città tutte della Grecia (48) le ragioni che persuadevanlo a sostenere la sua elezione con l’armi. Il Nazianzeno (49), che scrisse pochi anni dopo la morte di Giuliano, il chiama apertamente usurpatore, e per quanto giusta diffidenza possa inspirarci la testimonianza di un autore che intitola le sue scritture invettive, e fa di Giuliano un Nerone ed un santo di Costanzo, osiamo affermare ch’ella non può qui rigettarsi del tutto senza qualche perplessità. Un principe di cosi artifizioso carattere, sebbene costretto ad assumerlo dalle circostanze, che nasconde pel corso intero di dieci anni la sua religione, induce naturalmente a sospettare della lealtà dei suoi sentimenti. L’iniziazione ai misteri teurgici promesso aveagti l’impero: se tale promessa fu un artifizio della sua politica, desideravalo ei dunque veramente, e se un effetto della sua superstizione, desideravalo ei del pari qual mezzo accennatogli dagli Iddii onde farsi del loro culto il ristoratore e l’apostolo. Prevedere ei non poteva, egli è vero, gli ordini del suo principe, e le cause che trassero a sedizione l’esercito erano fuori della potestà di Giuliano. Coi pochi soldati di Gallia, senza che un nazionale avvenimento sorgesse ad accrescerne il numero ed a riaccenderne il coraggio, pensar egli non poteva d’accingersi a tanta impresa, e contrastare con (ulte le restanti forze dell’impero. Ma dichiaratisi i soldati, e già avvenuta la sedizione, diremo noi che con arte e sagacità non ne regolasse a proprio profitto! movimenti? Lupicino comandante della cavalleria, principale ministro di Costanzo, a cui spettato avrebbe il dissuadere o frenare i soldati, trovossi assente dalle Gallic per ordine del generale (50). Aperto avendo una fiata l’esercito la sua volontà, non lasciavagli più libertà nella scelta la ribellione’, eragli d’uopo o vincere col nuovo, o perire vittima dello sdegno del vecchio principe. Poteva dunque Giuliano simulare insicurezza un’avversione alla porpora, ed opporre una resistenza che, mentre mezzo era validissimo a meglio accendere e confermare i desideri di una disordinata moltitudine, offeriva altresì verso Costanzo una giustificazione non solo onesta ed opportuna, ma atta in singoiar modo a salvare la fama del nuovo Augusto. Non mai si seppe l’autore de’libelli sparsi fra le legioni che sopra ogn’altra cosa volsero a commuoverle, nè per cui mezzo fossero stati diffusi. Non fu, concedesi, per suo avviso che i soldati in partendo pigliassero la strada di Parigi (51), nè ch’ei gli arringasse, ciò che valse a rinfrescare le piaghe e ad offrire nuova esca al tumulto^ ma se pericoloso sembrar poteva un ultimo congresso, pericolosa novità del pari sarebbe stata la partenza d’un esercito usqito di Prefazione di S. P. alle Op, se. di Giuliano. 3 disciplina, sen?.a che avesse a pigliar commiato dal generale ch’ei teneramente amava, e che solo poteva con autorità ed efficacia rappresentargli i doveri dell’obbedienza^ e la dubbia situazione di Giuliano naturalmente il guidava a farsi autore di quel consiglio che senza essere privo di pericolo, meglio tuttavia serbasse le sembianze dell’innocenza. Occorreva allora mettere ne’ soldati obblio del lor capitano, e fidanza di sicurezza per la patria che abbandonavano; erano queste le principali cagioni della sedizione. Ma il principe dissimular nou ne seppe i pericoli, e con affettata popolarità rivolgendosi anche a semplici soldati chiamolli ad uno ad uno per nome, ne distinse i più insigni, ne rammentò i gloriosi lor gesti, e ne rendette in ogni guisa più acerba la partenza (52). La ricordanza de’ fatti non poteva non trarre seco le lodi del generale sotto il cui reggimento erano stati eseguiti: dunque per abbandonare ancora alla rapacità de’ barbari questa terra che chiude ogni nostra speranza tanti travagli sostenemmo? dunque senza l’ausilio di quel capitano clic sempre ci condusse alla vittoria, ci recheremo a sicuramente perire negli estremi confini dell’Asia, c sotto le saette persiane? tale essere dovea il naturale progresso delle loro considerazioni. Ogni più innocente, ed anche lodevole arte con cui rendersi grato all’esercito, sembrare poteva allora sospetta. Consentì non solo che i soldati recassero seco in Persia le loro famiglie, ma accordò altresì a queste l’uso de’ carri militari onde alleviarne i disagi della marcia (53), c la sera medesima del giorno avanti la partenza accolse alla reale sua mensa gl’ufficiali superiori. Ritornarono ivi i consueti ragionamenti, riaudaronsi le illustri imprese e gli onorali travagli, ed il principe con vero o finto dolore ristar non sapeva dal deplorare la trista situazione in cui altri ponevalo, di non aver come degnamente ricompensare tanti insigni difensori della patria, e valorosi suoi commilitoni. Di leggieri la gratitudine espressa da un principe pei servigi che rendemmo allo sialo, induce in noi il desiderio di affrettare l’istante delle ricompense. Congedaronsi essi con ogni segno d’obbedienza ed affetto, ma con interno rammarico, e la sedizione divampò un tratto appresso.

Nulla ominise di fare Giuliano dopo la sua elezione che atto fosse a conservare la pace. L’onore della sua fama, le poche sue forze, e quella specie di propizio destino che nelle guerre civili parea non sapersi scompagnar da Costanzo, persuadere il doveano a ragione ad anteporre la via degli accordi a quella delle armi, e cercar d’ottenere a mezzo del consentimento di lui una guisa di legittimità al suo nuovo titolo. Ma nè le frequenti ambascerie a suo cugino, nè i larghissimi patti a lui offerti, espressi nel suo manifesto, e che confermati veggonsi nella lettera conservataci da Ammiano (54), di sottomettersi cioè in ogni cosa a’ suoi ordini, di somministrare «agli eserciti imperiali de’ giovani barbari, d’accettare un prefetto del pretorio di sua elezione, ed altri somiglianti, valsero sì ch’ei sempre non ponesse come ultimo termine della pace la ricognizione del titolo d’Augusto, e l’indipendente sovranità delle proviucie oltre l’Alpi. L’eloquenza de’ fatti vince quella delle parole. Se vero è, siccome egli ad ogni piè sospinto ripete, che fu a lui giuoco forza cedere all’impeto de’ soldati, se penetrato dal suo dovere sdegnava quella non legale elezione, che cosa poteva vietargli di deporre a’ piedi del suo principe la porpora assunta violentemente? ei non palesavasi reo tranne che allora, quando dichiarava di volerla ritenere con Tarmi, ed il magnanimo rinunziamento non avria potuto non convincere suo cugino, ch’egli godeva in lui d’un fedele e leal servitore. Dove anche sicuro non fosse stato un tale consiglio, non ispettava alla severa virtù di un filosofo T esitare fra i pericoli ed i doveri.

Non pertanto un dirà, se la mancanza di figli in Costanzo, già essere facea Giuliano l’erede presuntivo dell’impero, in qual guisa immaginare che un savio principe voluto abbia con pericolo della sua fama, commettere all’arbitrio della guerra e della fortuna, ciò che poco dopo con onorevole sicurezza il naturai corso degli avvenimenti fatto gli avria conseguire? Ma dove anche sembri che il trono romano una si abbagliante luce sfavillar non dovesse agli occhi d’un giovane principe onde cercar di pervenirvi alcuni anni prima, dove bello non fosse il rapirlo ad un acerrimo nemico, e non sia vero che alcuni magnanimi spiriti amano più presto conquistare la fortuna, ch’essere de’ suoi doni eredi infingardi, Costanzo era ancora nella giovane età di quarantacinque anni, e già il suo secondo matrimonio con faustina dato aveagli una principessa (55).

Assai più malagevole riuscirà, dove un qualche peso avessero queste nostre conghietturc, l’accordare le luminose virtù di Giuliano con la colpa d’usurpatore. Tuttavia a chi essere non voglia persuaso che (’ambizione, quel comune e fatai morbo del cuore umano, spesso rompa i ritegni d’ogni virtuosa abitudine, non mancheranno buone ragioni se non a toglierne, a scemarne almeno la contraddizione. Si potrà affermare che morta già Eusebia (56), il vincolo della promiscua concordia fra i due principi, e l’animo di Costanzo fatto ornai non contesa preda de’ favoriti e degli eunuchi, ommesso non avrebbe di porre a colpa di suo cugino la sedizione dell’esercito, e pronto a dissipare i timori colle uccisioni, rinnovato avria l’esempio di Gallo in Giuliano, senza che questi più confidar potesse nè sull’ausilio della sua reai Protettrice, nè su quello de’ suoi soldati di Gallia, a cui con ingratitudine corrispondeva, allo sdegno abbandonandoli dell’imperatore; che così essendo, proprio doversi dire dell’umana debolezza il rompere in quell’arduo scoglio che formasi dall’ultimo termine dei doveri che agli altri ci legano c dal primo che la natura impone a noi stessi; che la modesta pretensione del principato oltre l’Alpi, ad altro poi non estendevasi che a rinnovare un’antica consuetudine; che s’egli potè credere veramente che i suoi Iddìi l’appellassero a ristorare il lor culto, gl’artifizj onde pervenire all’impero confondonsi negli errori d’ima lagrimevole superstizione, e finalmente che se in un tal fatto così vanno indistinte le sembianze della colpa da quelle dell’innocenza che l’occhio della critica a gran fatica le scerne, possono anche le massime della più servile obbedienza concedere èlla indignala virtù d’un grand’uomo, d’aver finniche cosa intrapreso onde rimuovere dal del mondo un debole e crudele tiranno.

Questi principi entrambo fecero in appresso quanto occorreva, l’uno a spianarsi la strada alla fortuna colla sua virtù, l’altro ad agevolarla al suo nemico co 1 proprj errori. Costanzo accolse le nuove di Gallia con imprudente disprezzo. Anzichè scendere in diligenza a spegnere un incendio nascente, fortificare il Danubio, sua prima e naturale frontiera, e presidiare l’Italia, intento a muover guerra a Sapore, continuò la sua marcia attraverso l’Asia, lieto d’aver ordinalo arrogantemente al suo rivale che rientrar dovesse nel primo suo posto di dipendente ministro, al quale solo patto sarchiargli stato lecito sperare in dono dalla pietà del suo signore la vita. Giuliano d’altra parte frappose ritardi, ricercò con ogni maggior istanza la pace, mise fiducia e negligenza nel suo nemico, ma con grande sollecitudine apparecrhiossi in pari tempo alla guerra. Maturala ogni cosa, e disperando ornai della reciproca concordia, convocò nella piazza di Bellona una militare assemblea a cui lesse le lettere dell’imperatore. Giunto là dove ei promettevagli in dono la vita se deposta avesse la dignità, I’ esercito esclamò: Giuliano Àugusto continua a re. gnare per l’autorità del popolo e della repubblica che hai salvala (57), e Giuliano non tardò a soggiungere, che agli immortali Iddìi, e non al carnefice della sua casa, commessa avrebbe la cura di sè medesimo. Con queste parole egli pubblicò la sua fede, e la guerra contro Costanzo.

Avvisando che la guerra, c spezialmente la civile, rifare devesi cd alimentar con la guerra, e che ad attendere il suo nemico nella Gallia sarebbe stato un confinarsi alle proprie e poche sue forze da opporre a quelle di lutto l’Impero, e un perdere non solo i vantaggi che la distrazione offeriva della guerra persiana, ma quelli altresì che in novità siffatte dallo sbigottimento derivano de’ popoli e dal tumulto delle loro passioni, deliberò di mandare ad effetto una di quelle ardite e magnanime imprese, che gran parte ricavano del loro riuscimento dalla stessa temerità con cui le menti sbalordiscono, e che ne 1 pigri ed infermi governi, ed in quelli spezialmente appo i quali il nemico nè trova, nè trovar può, un nemico in ogni cittadino, rado è che non sortano un esito favorevole.

L’antico lllirio che con nna parte della moderna Austria e della moderna Ungheria, tutto quel vasto tratto di paese comprendeva che chiuso quinci dal Danubio, e quindi dall’Adriatico, sino alle frontiere s’estende della Tracia c della Macedonia, intanto che con la sua posizione mettea un freno alla Germania ed alla Gallia, e rimaneva, a così dire, alla vedetta delle provi ncic orientali, colle sue miniere d’oro e d’argento, e colla grande e bellicosa sua popolazione, il nerbo esso era di quelle d’occidente, e l’inessiccabile fonte da cui traevansi i supplementi degli eserciti. Di tal paese deliberò Giuliano d’impadronirsi penetrando nella sua capitale, e con un esercito di soli ventitrè mila uomini, che tutta formavano la somma delle sue forze, non temè d’accingersi ad assegnare un nuovo padrone al mondo romano. D’"uopo era correre non solo un assai vasto e malagevole tratto di terreno, custodito dai barbari o da guarnigioni nemiche, ma attraversare eziandio nel luugo corso di seicento miglia il Danubio, che una estesa catena opponeva di fortificazioni destinale in ogni tempo a formar linea di difesa e frenare le incursioni de’ Quadi e de’ Sarmati, il principe congregò le sue genti ne’ contorni del paese de 1 Raurachi, la moderna Basilea, ed affine di accrescere la fama delle sue forze e colla prudenza assicurarsi dell’evento, le divise in tre corpi (58), a’ quali tutti assegnò come centro comune di riunione le mura di Sirmio, capitale dell’Illirio. Il primo sotto il comando di Giovio c di Giovino ebbe ordine di marciare colle chiuse sue file c con sospeso passo c prudente per la strada delle Alpi, e lungo restremità settentrionale d’Italia, ad osservare per avventura le forze ch’ella avesse potuto muòvergli contro-, l’altro, guidato da Nevita, prese il cammino della Rezia e del Norico, ossia della Baviera e del Tirolo, a premunirsi in qualche guisa dall’insidie degli Alemanni già da Costanzo invitati a sollevarsi, e riserbo a se stesso il terzo, composto di solo tre mila volontarj, e la parte più ardua c pericolosa dell’impresa, quella cioè di pe-. netrare nella capitale dell’lllirio seguitando il corso del Danubio, c navigando in mezzo alle fortificazioni nemiche) azione di tale e tanta temerità che la testimonianza dell’istoria a fatica ci persuade ch’ella abbia potuto eseguirsi con sì poche forze. Il prospero suo riuscimento non poteva però non dipendere in ogni guisa dalla rapidità de’ movimenti di Giuliauo, c dalla estrema cautela con cui nascosa avesse la sua marcia. Il perchè, abbandonata Basilea, penetrò in un baleno nell’interno della Selva nera od Ercinia, dove celatosi a disegno onde a smarrir venisse la traccia del suo cammino, il mondo per molti giorni ignorò la sua sorte. Dalla Selva nera, sbucando con incredibile sollecitudine a Ralisbona, impadronitosi colà d’una flotta militare che stava a guardia del fiume, imbarcò in essa i suoi soldati, e dopo undici giorni di navigazione giunse sotto le mura della capitale dell’Illirio, innanzi che ivi s’avessero le nuove della sua partenza da Basilea. Premiata in Sirmio la festosa accoglienza del popolo con una giostra di carri, poichè il terzo giorno dopo il suo arrivo le divisioni di Giovio e di Novità venule già erano a riunirsi seco lui, marciò ei senza posa sopra la ricca e popolosa Naisso nella Dazia mediterranea, onde occupare le scoscese gole dell 1 Emo, ossia il celebre passo di Succi, da cui fronteggiansi le provincie orientali, e che nell’estremità dell’Illirio separa quinci la Dazia e la Sardica o la moderna Sofia, quindi la Tracia e la Macedonia, e con la lunga catena de’ dirupati suoi monti sembra destinalo a dividere per sempre i due Imperi.

Ma intanto che l’acquisto di si ricca e bellicosa re^ gione somministrava a Giuliano nuovi mezzi alla guerra, e che la prospera fortuna faceagli correr pronta all’obbedienza l’Italia, la Macedonia e la Grecia, le nuove d’Europa c la ritirata di Sapore richiamavano suo cugino a grandi giornate verso l’occidente. Non si di leggieri però rivolgere poteansi contro il domestico nimico i preparamenti d’una guerra lontana. Mentre deboli guarnigioni stavano alla difesa del Danubio, Costanzo, siccome testè accennammo, stimando imprudentemente che il suo rivale confinato sarebbesi a difendere la Galli,^ a quell’uopo solo formato avea i suoi magazzini militari lungo il Reno, e sulle alpi Cozzie o il Cenisio, e rivolto ogni altro ostile apparecchiamento, dalla diligenza del suo nemico ormai mutato in mezzo d’offesa (59). Giunto egli a Jerapoli, conobbe l’importanza del passo di Succi e mandò ad occuparlo: indarno, esso già tenevasi dal suo attivo e vegliante nemico. Dopo la perdita delPlllirio, le molli comechè numerose legioni dell’Asia, non più aveano a far fronte alle sole e poche forze della Gallia, ma a sostenere l’impeto di nuovi ausiliari, e di un esercito illirico e gallico. Una lunga tuttavia ed aspra tenzone sarebbesi dall’una e dall’altra parte apparecchiata, se l’opportuna morte di Costanzo venuta non fosse a liberar lui, come tutto a credere ci persuade, dalla vergogna di una sconfitta (60), e il mondo dalle calamità della guerra civile. Infermò egli c morì in Mopsucrenc, picciola città della Cilicia appiedi del monte Tauro, dopo quarantacinque anni di vita c ventiquattro di regno. Principe debole e crudele, si potè far mutare d’oggetto la sua ferocia, ma non mai volgere a virtù la sua debolezza: vano e ambizioso senza merito personale, nè la vanita, nè l’ambizione potè mai trarlo a magnanimità, per coscienza di colpe ed imbecille ingegno, superstizioso, perseguitò il paganesimo e fu ad un tempo fatale difensore della Chiesa.

La sua morte lasciò Giuliano solo e tranquillo posseditore dell’impero. Poterono allora i sudditi romani abbandonarsi senza temerità alla speranza d’un felice avvenire. Un giovane principe parea a ragione promettere con la lunga sua vita una lunga domestica pace: un giovane eroe, una valida esterna difesa, e le pratiche virtù del discepolo di Aristotele e di Platone, potevano persuadere che dopo il felice esempio di Marco i precetti della filosofia presieduto avrebbono un’altra volta all’amministrazione del mondo, alla quale egli confessava di non accostarsi che con mano tremante’ e sbigottito pensiero (61). Splendida e passeggierà meteora che in tanto più densa notte ravvolse I’ orbe romano, quanto più viva era stata la luce con cui rischiarato 1 avea! L’imparzialità però dell’istoria obbliga a confessare, che se il trono fu mezzo a Giuliano onde meglio manifestare le sue virtù, fu mezzo esso altresì a meglio palesare i suoi errori. Prima di seguitarlo sulle rive del Tigri e dell’Eufrate, vogliasi a noi concedere alcuni cenni intorno al suo civile governo.

La politica de’ regni antecedenti e quella massimamente di Costantino, separando gl’interessi del popolo da quelli del suo principe, intrapreso avea a chiudere quest ultimo entro il lusso e la pompa d’una esterna grandezza, che se alta essere non poteva a tenere le veci di quel reciproco amore che nasce da muLui servigi, valesse almeno coll’allontanarlo dalla moltitudine a renderlo a lei più rispettabile. Costanzo avvezzo sino dalla giovanezza a tenere una corte in Oriente, quanto più sentivasi a suoi antecessori inferiore nella reale preminenza del merito, tanto più immaginò doversi di somiglianti ausi I j fortificare. L’opulenza della sua corte pareggiava quella del re de’ re, le spese della casa imperiale vincevano le occorrenti a mantenere gli eserciti, c Libanio non sa trovare più adeguata immagine onde esprimere l’infinita turba de’ serventi, de’ favoriti e degli eunuchi, che raffigurandola agli sciami d’insetti che s’alzano intorno alle greggi sotto un estivo sole di Siria. Un principe cresciuto nelle austere discipline della Cinica filosofia, che facea letto del nudo terreno, e la sua ordinaria mensa di vegetabili, che tanto più stimava rendersi degno del personale commercio de’ suoi Iddìi, quanto superando i più stringenti bisogni della natura, meglio ad una specie accostavasi di spiritualità, non potea quella tirannesca e scellerata dispersione della pubblica pecunia non detestare, e non rivolgere le prime sue cure alla riforma della corte. Il suo primo editto fu rivolto a licenziare i serventi tutti e gli eunuchi, ed a rendere il palazzo una solitudine. Non manca chi il biasimi, come s’egli fosse ito in ciò più avanti che il decoro del principe, e l’utile dello stato noi richiedeva (62). Ma Giuliano essendo imperatore, non altro essere stimò che il primo magistrato di quella repubblica, che a Romani meno del dono immeritevoli restituita avrebbe, nè egli ad accecare intendeva gli occhi dell’intelletto, onde riputar necessario quelli prima abbagliare del corpo, ed ammirare, a noi sembra, devonsi più presto le doti d’un principe che di sè inspirar seppe nei soggetti riverenza ed amore, anche senza l’uso d’un volgare artifizio, e di un mezzo, se non colpevole, pure assai diverso da quello del merito. Prova però qualche sua medaglia ch’egli usasse tal fiata del gemmato diademo, e raramente sì, ma forse tollerava d’assumere all’uopo la imperiale magnificenza (65).

Nè meno pressante invito far poteva alla sua sollecitudine il restauramelo delle leggi e la cessazione degli abusi, prevaluti in un regno che quello dovea dirsi degli eunuchi e de’ favoriti. Onde metter freno a questi abusi, istituì in Calcedonia un tribunale di giustizia (64) perchè con una sola ed assoluta sentenza, giudicar dovesse di coloro fra i clienti e ministri di Costanzo che partecipare non potevano della tolleranza, e che ricchi delle spoglie e lordi del sangue de’ sudditi, offendevano tuttora colla loro impunità gli occhi della moltitudine: ed una assai più salutare medicina apprestar volendo, bandire fece in pari tempo quelle innumerevoli turbe di delatori, debole e turpe sostegno della tirannia, che sotto il modesto titolo di Curiosi (65), una rea e rapace curiosità esercitavano sull’onore e sulle sostanze de’ cittadini. Provvide poi all’osservanza delle leggi, e de’ civili ordinamenti, col restituire al consolar potere (66), fallo nome vuoto di sostanza, la sua autorità, al senato della capitale la dignità sua, alle curie provinciali i senatori che le immunità profuse dal regno antecedente aveano ad esse con danno dell’erario sottratto (67)^ ma più che in altra guisa l’imperatore alle leggi sottoponendo, e gl’incarichi esso stesso adempiendo di magistrato con giustizia sì luminosa che estorse le lodi de’ suoi nemici, e con umanità sì singolare, che affermasi non mai la tutelare sua diva Minerva essergli stata tenace del proprio voto onde salvare nei casi dubbi un colpevole (68). Ma la più inslralliva parie della vita d’un principe quella si è certamente che considera P esercizio delle sue passioni abbandonate alla sicura licenza del potere assoluto., e le conseguenze ch’esse ebbero sulla prosperità e sulle sciagure de’ popoli. La principale passione di Giuliano, quella che tutta mutava la vita sua in un solo sentimento e pensiero era la gloria, la seconda, la religione o il ristoramento del paganesimo, e forse parte non era pur essa che della prima, intenta con mentite sembianze a ingannarlo. Se il cangiamento di fede fosse stato in Giuliano la tranquilla risoluzione d’una mente speculativa che elegge la via della sua salute, senza però abbandonarsi ai delirj d’ un cieco fanatico zelo, sembra che quelle stesse umane ragioni che, per avventura, ad accoppiarsi vennero alle divine,

onde determinarlo a procacciarsi nel favore dei vecchi credenti un ausilio contro le arti di suo cugino ed i pericoli della propria privala sua condizione, dovuto avrebbono altresi nella sicurezza del trono persuaderlo a quella imparziale e liberal tolleranza d’atnbiduei culti (poichè ambidue con pari o poco diversa fortuna signoreggiavano), che meglio accordar potesse i doveri della sua coscienza con quelli della sua politica. Ma quali che siano state le remote cagioni che il trassero all’apostasia, la superstizione ben presto venne ad affascinare il suo spirito, e questo a traviare tal volta miseramente il suo cuore. In una sola sentenza crasi espressa la volontà dcgl’lddii nella sua iniziazione: esorlavanlo essi a salire all’impero, ma in egual tempo risolutamente ordinavangli di stabilire il lor cullo) così un mutuo servigio prestavansi la causa della religione, e quella del principe. Se gradiva alla vanità una parte del divino responso, lecito essere non poteva ad un pio credente rifiutar l’altra, e se accettavansi i benefìzj degl’Iddìi, sacrilega cosa era ricusarne i servigi. Ora ristabilire un culto, ed i culti esistenti imparzialmente proteggere, ella è cosa seco stessa ripugnante. Non poteva dunque, noi diremo, la filosofica massima della libertà religiosa, governare di sua natura i consigli d’un principe, che incaricato riputatasi d’una celeste missione per essere di un culto speciale il propagatore. Nè li governò veramente, ma sì potè Giuliano far della tolleranza mezzo di persecuzione, se favellando del suo governo usar deesi tal voce, in quel così odioso significato almeno in che suolsi adoperare dagli scrittori ecclesiastici. Nuova, ingegnosa, ma umana eziandio e di carità piena fu la guerra ch’ei mosse alla chiesa, e tuttavia non mèn grave e funesta di quella che mosso aveanle i suoi predecessori. Assalse le abitudini dello spirito colle armi dello spirito, e cogli umani interessi cercò di nuocere a’ divini.

L’imprudente zelo di Costanzo popolato avea le estreme provincie dell’Impero con gli esiglj de’ nemici della fede di Ario, e degli altri numerosi seguaci di quella fatale moltitudine di partiti e di scismi, che lacerava in quel tempo la Chiesa (09). Cresceva intanto l’Arianesimo protetto dal suo principe vigoroso e robusto, e fecondavansi gli altri favoreggiati dall’oscurità e dal mistero. Giuliano osservato avendo che la persecuzione mentre deturpava la memoria anche de’più gloriosi principi, anzichè indebolire, accresciuto avea cogli onori del martirio lo splendore del cristianesimo, pensò accortamente che estendere i henefizj d’una uni versai tolleranza, e richiamare dall’esigilo i vescovi c chierici delle varie religioni, sarebbe stato un invitarli ad un aperto e comune teatro, atto a meglio produrre in luce la vanità delle loro dispute, e dove nello scontro de’vicendevoli odj sarebbonsi indeboliti tutti, o tulli almeno disonorati i partiti. Quindi dall’ateo Aezio sino ai seguaci della santa fede Nicena, esortati furono i vescovi a rientrare nelle vacanti lor sedi (70), ma in pari tempo un ordine severo commise a’ Gentili di riaprire i lor tempj, e di esercitare pubblicamente il loro cullo (7i). Per l’una parte litiganti che manifestano di nou essere seco stessi bene d’accordo sulle verità che intendono agli altri persuadere, e che la causa divina sottomettono alle umane loro passioni, non potevano non Screditare la lede che da lor professavasi $ per l’altra il pubblico esempio del principe ed il noto suo zelo per l’antica religione, bastava solo a procacciarle proseliti. Indarno gli editti imperiali predicare poteano quella tolleranza (7 2), che non ignoravasi disapprovare l’imperatore nel segreto del suo pensiero. Più un principe comanda coi privali suoi sentimenti che colle pubbliche scritture espresse dalla politica, eia prostrata moltitudine volentieri ricambia mercè una meritoria disobbedienza, l’apparente momentaneo sdegno del suo signore, con una tarda ma reale ricompensa.

Non si proibi a’ Cristiani in modo alcuno l’esercizio del loro culto, ma nou si ommise arte nessuna che governò le umane passioni, e ne fu a vicenda da esse governata. Non depone la naturale fralezza un rredcnte nè la sua positura sodale, e sarà sempre un forte pericolo per la sua beatitudine, la scelta fra le terrene c le celesti corone. Giuliano intraprese a proporre quelle come un anticipato pegno di queste. Le sciagure della persecuzione potevano considerarsi feconde d’eterna glo- ‘ ria non solo, ma eziandio d’un utile celebrità nella vita presente. Può l’umana debolezza compiacersi d’nna tenzone che la solleva sino a militare per la causa del Cielo, ed a scendere sola nell’arringo o cóntro le forze d’un vittorioso partito, o cóntro quelle del principe; ma la fredda tolleranza di un culto che all’abiezione s’accoppia di chi I’ esercita, di leggieri abbandona il credente al vitupero, o avviene almeno che l’immerga in quef profondo obblio, che se eletto non viene dalla volontà, è il più abborrito male del nòstro spirito. Ora a questa meta appunto rivolse gli sforzi Giuliano. Non ignorando che una ignominiosa appellazione ove pur giunga a prevalere, e prevale sempre se proferta è dal principe, può ella sola spargere il ridicolo ed anche l’obbròbrio non meno sulle sette che sulle nazioni, cominciò egli dal distinguere i Cristiani nelle scritture e nei ragionamenti col nome di Galilei (75), ed i Pagani non tardarono a seguitarne l’esempio. Si raccomandò la tolleranza, ma si vieto a’ Galilei l’esercizio d’ogni incarico militare e civile, come non atto ad accordarci colla sofferente natura della loro religione (74). Non ad

essi un editto tolse l’ingresso alle scuole nelle quali colti Prefazioni di S. P. alUOp.sc. di Giuliano. /•. vare il loro spirilo, ma, ciò che quasi importava Io stesso, proibito venne nelle scuole cristiane d’interpretare gli scrittori del gentilesimo (75), perchè disleal cosa era spiegare ad altri una teologica dottrina a cui la propria credenza ncusavasi. Non s’ordinò già di chiudere le chiese, ma si le chiese spagliate furono de’ loro beni, il clero delle sue immunità (7G), ed il culto del suo splendore. L’ariana superstizione premialo avea nel regno antecedente la distruzione de’ tempj, la pagana ordinò in questo a’Cristiani di rifarli a loro spese -, l’una accrebbe olire ogni onestò confine le ricchezze della chiesa c del clero) l’altra quelle de’ tempj e de’ pontefici, e presso un principe che nel palazzo e nella corte trasportalo avea la sobrietà non solo, ma le sozze insegne della cinica filosofia, le spese dfcl culto e de» sacrifizj polcronsi con maligna compiacenza confrontare a quelle occorrenti a suo cugino, onde mantenere gli eserciti degli eunuchi e de’ lavoriti, e le censure meritarono de’ più saggi pagani (77).

Un imperatore filosofo che duolsi di non potere a bastanza signoreggiare con la virtù la fortuna, onde rivolgerla a benefizio degl’nomini, obbliga a ricercare nella sua interna amministrazione l’esempio di una giustizia sempre invitta contro gli assalti delle proprie passioni. Nè è già nostra mente negare che tu’tta la vita sua un si glorioso contrasto non ci presenti, ma che non mai nella nobile pugna vinta la prima non rimanesse, la nostra ammirazione per quest’uomo straordinario non ci persuaderà ad affermarlo. L’eloquente inglese istofico del romano impero, già altre volte da noi nominato (78), affermò essere stata costante - massima del governo di Giuliano l’accordare la giustizia a tutti , i suoi sudditi, ed a’soli Pagani i suoi benefìzj. Dove per vera avesse a tenersi una tale sentenza, potrebbe ella per avventura sembrar giusta altresì. Non è un obbligo il benefizio, e se voleasi far prevalere il paganesimo, una modesta predilezione avrebbe potuto quella appellarsi, richiesi’ dalla politica verso il culto dello Stato. Ma non ricusa benefìzj, viola bensì altamente la giustizia un principe die. per cause spirituali esclude una parte sì grande de’ suoi sudditi dai servigi e dalle ricompense, che il comune patrimonio ibrmano della repubblica, e l’illustre scrittore che fu poi membro del britànnico parlamento, manifestò col suo stesso esempio di conoscere che può un fatai pregiudizio dirigere talvolta anche i consigli di un savio e libero governo (’).

Allorchè la virtù di Giuliano era antidpatamente av• verlita a.temersi in guardia contro le insidie della passione, e invocatasi la sua giustizia a decidere direttamente sulle opposte accuse di ud cristiano e di un pagano, egli entrava in così grande trepidazione d’essere incolpato di parzialità, clic più presto sembrava inchinare alle parti del primo che del secondo. Ma i magistrati potevano senza spiacere al principe, permettersi una più indulgente considerazione a favore de’ Pagani. Gli editti impèriali proibivano a questi è vero severamente di trascèndere a violenze e disordini contro i loro nemici, ma accaduti, l’imperatore conlentavasi

(’) Il tig. Gibbon che fa prima cattolico romano, potei’ prò? testante, c quindi membro del parlamento.. » di rintuzzarli, e di tal modo, come chi una pur necessaria ingiustizia rintuzza, o come padre sgrida i figli non tanto della turpezza d’una colpa, quanto del troppo ’ diligente esercizio di una pericolosa virtù:

Non deesi però tacere che a difesa di Giuliano soglionsi addurre le antiche accuse contro la condotta dei Cristiani, che imprudentemente la moderazione provocavano del loro signore, cnoi per avventura fissando la nostra credenza nel giusto mezzo delle opposte sentenze d’un vinto e d’un vittorioso partito, sperar possiamo di ifon errare gran fatto ne 1 nostri giudizj. Senza dubbio, rendesi malagevole ad immaginare come ne’ seguaci d’una religione tollerata potesse rinvenirsi una sì incauta arroganza, e spesso una sì sfrenata licenza (79); ma arduo riesce dèi pari conciliare con. le massime della libertà religiosa, l’impunità de’delil-. ti de’Pagani di Siria, e d’Alcssàndria (80),, e si dirà troppo aversi alla ragione di stato conceduto nella persecuzione e nell’esigilo del sublime santo e solitario intrepido della Tebaide. - ’

Qual posto dunque conchiuderemo che occupar debba Giuliano fra gl’inimici del Cristianesimo? l’appelleremo col Tillemont in commercio co’ demonj, o con Libanio in istretta consuetudine cogl’ Iddìi (81)? dovrà ’ egli coi birilli, co’Grisostomi, co’Nazianzeni annoverarsi fra i più crudeli tiranni della Chiesa, o cogli scrittori Gentili come il più perfetto esempio di religiosa tolleranza? chi affermasse essere stato Giuliano il più virtuoso nemico del Cristianesimo, non direbbe a nostro dyv,iso cosa assai lontana dal vero. Nocque come nem co, come uomo virtuoso, se la passione qualche rara fiata traviollo, ben presto ritornò egli al dovere. Deesi compiangere il suo errore, ma giudicare della sua virtù dietro questo errore medesimo ^ perciocchè la perfetta tolleranza cancella la qualità di nemico. Ora chiederemo noi francamente^ e chi agitato da un religioso fanatismo, men di quest’uomo allentò il freno alla sua passione, o più,, nella sicura arroganza del potere assoluto, seppe alla virtù sottoporla? esaminasi da noi in presente se nell’atto di svellersi un’antichissima fede, c nella procellosa età delle teologiche controversie, un principe passionatamele religioso, tutti serbasse inviolati i diritti di questa gloriosa figlia della ragione, la libertà dei culti, intanto che indarno speriamo trovarla a noi intorno, noi pure nè superstiziosi, nè tampoco caldi credenti, e beati posseditori dell’accumulato frullo di quindici secoli di civiltà e di cognizioni.

Ma il (ettore già avverte come molle cose, pur degne a sapersi, da noi per amore di brevità si Irasandino, e dorrassi a ragione di questa scrittura siccome scarsa alla materia, soverchia all’uopo presente. Non ci arresteremo noi perciò a lungo nel pur ampio teatro della gloria del nostro autore, quale dee dirsi la guerra persiana, ma dopo averne alcune poche cose accennale, il raggiungeremo al passaggio del Tigri, e sotto le mura di Clesifonte, per ammirarne l’infelice valore, e compiangerne la morte immatura.

Sembra ebe in nessun tempo nè il calore del clima, nè la molle e voluttuosa vita che ne ’è il fatai fruito, così snervassero il militare coraggio de’ Persiani, che corrisponder possa alla sptegievole opinione che di essi • nella nostra mente al loro nome risvegliasi, trasmessa, • \ per avventura, nella moderna educazione dall’eloquenza de 1 primi lor vincitori. Quella guisa di guerra ad essi «

consueta, che alloggiar non lascia il nemico circondandolo di solitudine, la tempra e la forma delle lor frecce a cogliere infallibili, ed a svellersi dolorose.e mortifere, i rapidi assalti, e le rapide fughe della loro cavalleria, assai più degli assalti micidiali per la desp-rità di saet-. tare fuggendo, l’arte di disperdersi in un baleno, e in un baleno ravviarsi e tenere il campo, impressero in ogni occasione grave timore ai Romani, cd’cstorsero spesso la loro lode. 1 Parti, che ora un distinto regno formarono, ora sotto il loro nome, tutto il reame di Persia compresero, abitando la parte orientale dell’Assiria piu presso al confine romano, fornito aveano facile c pronta materia a trent’anni di guerre, solo da alcune tregue interrotte (82), e la prospera del pari che la contraria fortuna di quelle, le geste diLucullo, la rotta di Crasso, la fuga d’Antonio, i trionfi di Trajano, di Vero, di Severo, a cosi alta celebrità innalzato aveano il nome persiano, che il titolo di Paiticp c Persico, annoverare potevasi fra le più gloriose ricompense del valor militare, ed essere avidamente vagheggiato da un guerriero imperatore (85). Qualsivoglia maniera di gloria parca bella agl’occhi di Giuliano: ma o vel determinassero gli avvenimenti della sua vita, o propria ella sia della più fervida ed animosa età dell’uomo, sembra che con maggiore alacrità corresse verso quella deiformi. avvegnachè. come suolsi, ne 1 ragionamenti e nelle • scritture, vantasse’ d 1 anteporre la mite e pacifica del Portico e dell’Accademia. In taluno di quegl’istanti in cui la coscienza del merito estorce alla modestia qualche grata compiacenza delle proprie forze, non esitò d’affermare, e credealo forse veramente, essersi in lui trasfusa per metempsicosi l’anima del Macedone. Un si grand’ospite meglio, Onorare non poteasi quanto adoperando di emularlo nelle imprese persiane, ed un re governava allora la Persia, degno assai più che Dario di venire alla prova -dell’armi col rinascente Alessandro.

L’astuto e bellicoso Sapore dopo i gloriosi assedj di Amida e di Singara, pertinacemente insisteva a molestare colle incursioni degli Arabi a’ suoi stipendj le restanti provincie transtigrane dell’impero, perpetua materia di controversia fra i due popoli. La morte tuttavia di Costanzo lasciato avea le rivali nazioni in una specie di calma, comechè non protetta nè dalla debole guarentigia de’ trattati, riè dalla efficace e reale della reciproca tema. Persuaso per avventura dalle domestiche srie sciagure. (84), o più veramente dalla militar fama del nuovo principe, sembrava il persiano assumere più modèsti consigli, e piegando l’orgoglio d’un re de’ re innanzi alla porpora romana, tollerava di palesarsi desideroso anche della pace (85). Ma nè la conchiasione d’un vantaggioso trattato, nè l’acquisto d’una provincia, poteva essere la meta de’pensieri di colui, che proposta essendosi una guerra persiana come un teatro della sua ambizione, estendeva i desiderj all’acquisto dell’intera monarchia. Ributtate vennero le domande di pace, e quasi sdegnando di scendere a tenzone con uno sprovveduto nemico, imprudentemente invitandolo a pugnare per l’intera salute o rovina, Giuliano dichiarò che consentito non avrebbe in tempo veruno di fare altrove parola d’accordi, trannechè nella reale residenza di Ctesifonte, dqve egli in breve recalo sarebbesi.

Ben presto i fatti vennero ad accopiarsi alle minacce, e le opere ai proponimenti. Eguale a tanto consiglio, un esercito s’allestì in diligenza, il ’più numeroso per avventura, che, dopo quello d’Antonio, condotto in Persia v’avessero in nessun tempo i Romani. Forte di novantacinque mila uomini, eomponevasi esso dal nerbo delle legioni occidentali, comandate pressochè tutte dall’instrutto valore de’ capitani, che sotto’ gli ordini dell’attuale lor principe militalo avevano nelle guerre tedesche. Parecchj corpi d’arabi ausiliarj formavano la cavalleria leggiera, cinquanta navi armate la flotta militare onde proteggere il passaggio dell’esercito pe’ fiumi, altrettante erano le opportune a costruire ponti, mille quelle a trasportare militari arnesi e vettovaglie (86). Apparecchiata ogni cosa, l’imperatore allo spuntare di primavera, abbandonata la sua capitale,.visitato il sepolcro d’Annibaie a Libissa, confortate dalla sua compassione e da’suoi soccorsi le sciagure di Nicomcdia, e disprezzata la molle ed insolente capitile della Siria (8/), che lo sdegno provocare osò del suo principe, raccolse le sue schiere a Jerapoli, ultimo confine romano al di qua della Mesopotamia, e marciò sopra Carrè, celebre


per la sconfitta de’ Crassi. Staccato ivi un corpo di trenta mila combattenti, guidato da Procopio e da Sebastiano, ebbe ordine di avanzare oltre Nisibi, farsi iu esse tornare per I’ Assiria sotto le mura di Gtesifonte, comune centro dove tutti convenuti sarebbono: il restante esercito, abbandonata Circesio o Cercusio, ultima fortezza romana nella Mesopotamia, entrò Del territorio nèmico. Procedeva esso in tre colonne le orme rilesiendo diCiro il giovine. La destra, sotto gli ordini di Nevita, iva radendo il fiume; ed osservando l’armata che saliva l’Eufrate; quella del centro, comandata da Vittore, cpmponevasi della fanteria pesante^ la sinistra colla cavalleria; sotto gli ordini d’Ormisda e di Arinteo, copriva tutto l’èsercito. Mille cinquecento Arabi formavano l’antiguardo, e precedeano ad esplorare e premunir dall’insidie (88). Dagalaifo, ufficiale Gallo, conduceva il retroguardo. Il bagaglio avanzava tra gl’intervalli’ delle colonne. Senza riservarsi un comando o posto particolare, il principe’ era dappertutto (89).

, ’Due reali fiumi, l’Eufrate ed il Tigri, clic da monti derivano dell’Armenia, scorrendo per uno stesso e continuo vasto paese, intanto che indarno fanno tributo delle loro acque alle arenose pianure delja Mesopotamia, con ricca fecondità corrisponde a’ loro doni la felice provincia dell’Assiria. L’esercito però marciando per un tale continente, incontrò e nello sterile e nel ricco paese difficoltà benchè di natura diverse, pure aspre tutte e travagliose del pari. La Mesopotamia opponeva un lungo ardente deserto a trascorrere, difeso da un pertinace nemico, disperso sempre, vinto non mai, e delle fortezze a superare inalzate nelle isole che forma lunghesso l’Eufrate. L’Assiria offeriva sì un ricèo • terreno dove vettovagliare, ma intersecato da innumerevoli canali sgorganti dal Tigri e dall’Eufrate, che, l’arte avea procacciati,? che liberali ora da’ loro ritegni, tagliavano coll’inondazione del paese la marcia all’esercito, de’ disagi a patire intoflerandi da soldati avvezzi al clima d’occidente, e prodotti dall’ardore del. suolo, dalla putrefazione dclje degli insetti che ne derivano, e ad espugnare, Perisaborà e Magomalca, stimate estremamente malagevoli a vincersi, e tenuta imprudente cosa a lasciarsi non vinte. Ammirando noi pertanto con Id storico militare di questa- guerra, l’audacia, laperseve-. ranza, l’industria di que’ soldati pochi mesi prima tumultuanti in Parigi al solo -nome di Persia, ed ora intenti, al cospetto -d’un instancabile nemicq e nel bollente, estate dell’Asia, a ravviare le acque neMorq canali, a rifare le strade, a tragittare in mal sicure zatte le profonde gore dell’Assiria, a scavar mine? ed a superare fortezze, ammirando la virtù del condottiero che come gli talenta la volontà loro governa-, e nel campo divide col soldato i travagli, corre il primo -al pericolo, e trasfonde nell’esercito la sua attività ed il- suo ardore, mentre nel consiglio ne regola con saviezza i movimen. ti, ne descrive il piano degli assedj, la forma degli attacchi, l’opportunità degli assalti.;; l’abbandoneremo incapaci a seguitarlo in così lungo e laborioso cammino, e dopo averlo salutato vincitore nella stupenda oppugnazione di Magomalca, posta presso a’ parchi reali, ed a undici miglia da Ctesifonte, il raggiungeremo irt

acque, e dalla quantità fìnatm’ente due fortezze quest 1 ultima città, eletta dai destini se non ad oseurare la sua gloria, a sospendere il corso delle sue imprese.

Questa vasta e popolosa città (90), capitale delI’Assiria, e residenza estiva dei re di Persia, giaceva sulla sponda occidentale del Tigri da cui quasi tutta era circondata, rimpetto alla picciola città di Cocche, che a guisa di castello fronteggiavala, situata sulla sponda orientale del fiume stesso. L’esercito venne a prendere posizione in faccia a Cocche -. Noi abbiamo veduto seguitarlo la sua flotta-, e salire l’Eufrate. Questo fiume entrando nell’Assiria, scaricava a Maceprata le sue acque sul Tigri a mezzo di un artificial canale, detto Canale del re, che giungeva sino a Ctesifonte, e scorreva appunto tra Cocche, e la capitale. L’armata, entrata in sì fatto canale, se per esso continuato avesse il suo corsa sul Tigri, le sarebbe slata forza disgiungersi dal suo esercito a cagione dell’, intermedia posizione di Còcche, e sforzare il passo fra la città e la fortezza nemica. Ragioni di una a noi ignota efficacia, debbono avere distolto Giuliano dall’intraprendere.l’assedio di questa ultima, onde alla sua flotta riunirsi, se anche Trajano anzichè oppugnarla, fatto n’avea costruire, un nuovo canale che, lasciandola a sinistra, riceveva Tacque del vecchio per versarle direttamente sul Tigri. Un tal latto però celalo rimanere non poteva a Giuliano, a cui tutta era presente la milizia de’ suoi antecessori nella Persia. Avvegnachè, con infiniti travagli, si rinvennero e si purgarono le antiche tracce di quell’alveo, e scaricatevi le acque dell’Eufrate, la flotta dopo trenta stadj ,di cammino sorlì trionfante sul Tigri. Era questa però la parte più agevole dell’impresa. Occorreva mandare ad effetto lo sbarco, ed eseguirlo vincendo l’opposta corrente del fiume > e la difficoltà di alte ripidissime rive, delle quali stava a guardia un doppio ordine di cavalli e di elefanti. Il principe simulando di volere far stima delle provvigioni, commise pochi giorni innanzi, che vuotar si facessero alcune navi da carico, e siccome quegli che ben conosceva non solo meglio e più risolutamente operare (a moltitudine, quanto più impensatamente è a farlo invitata, ma la gioja altresì ed il tripudio essere in lei spesso tramile al disperato coraggio, coprì il suo proposto d’un impenetrabii.mistero, è il giorno precedente allo sbarcò ^ ordinò una - comune festa e gozzoviglia per tutto l’esercitò. Alla notte di quel dì stesso, appellati alla sua tenda gli uffidali superiori, manifestò loro il pensiero di voler Sforzare il passo del Tigri in quell’istante medesimo. A chi gli rappresenta il pericolo: non iscemerà per tardanza, ei risponde, nè il numero de’ nemici nè la ripidezza delle rive. Nel punto stesso, dato è a soldati l’ordine dell’imbarco, e già alcuni più arditi legionari salgono su cinque vascelli pronti a partire (91). In ua tratto spariscono all’occhio, in un tratto ricompariscono in fiamme sull’opposta sponda del fiume. Il principe mutando l’avversa in prospera fortuna: Soldati, esclama, i nostri compagni, ecco, afferrano la riva; quel fuoco è il segno tra me ed essi convenuto; affrettiamoci ad aiutarli. A queste voci l’armata tutta spingesi a pieno corso sul fiume, il suo unito e rapido sforzo rompe l’impeto della corrente, c in mezzo al piover de’ dardi nemici, al grandinare de 1 sassi, ed all’inferocire degli elefanti, ella eseguisce lo sbarco. L’imperatore conduceva la battaglia in persona. Non appena -calpestato ba egli l’ostile terreno, che ricompone le sue schiere, e colle chiuse sue file piomba a distruggere le nuove forze che l’inimico accampa sul lido. La perdita di soli setlantacinque legionari dall’una, e di presso a sei mila barbari dall’altra, attestò una quasi incredibile vittoria, ed il glorioso riuscimcnto d’uria delle più malagevoli imprese dell’arte militare; l’eseguire uno sbarco in faccia all’inimico, e contro un’inimica corrente, che dalla riva, a cui aggiungere aneli, t’allontana (92).

Ma un così costante favore della fortuna, accennava appunto con la sua costanza il suo termine, e Giuliano sotto le mura della capitale dell’Assiria pervenuto era a quel pieno e splendente" meriggio di gloria, che annunziandone quasi sempre il tramonto, a manifestar viene non meno i limiti della nostra sufficienza, che l’indole della nostra invidiosa natura. La gloria, ella pure, come ogni altra terrena cosa, à voler ch’essa non receda, uopo è che proceda, ma sciaguratamente il merito che basta ad acquistarla, a conservarla non basta. Nuovi nemici contro a’ gloriosi s’accampano; l’insolenza cioè della prospera fortuna, la giunta al colmo invidia degli emuli, e il peso a sostenersi gravissimo della propria.celebrità. Occorre in quelli che lo splendore delle azioni presenti eguagli non già, ma vinca eziandio quello delle passate, per questo solo che passate esse sono, e che la nostra ammirazione, scemando in noi ogni dì più per la famigliarità, a così dire, ed abitudine. ch’ella acquista di quella grandezza, ha d’uopo del pari di ognor più forte luce e vigorosa onde destarsi. Quindi in essi la necessità, affine di soslener l’alto posto, d’abbandonarsi allo stupendo ed all’incredibile, il quale se, come avvenir debbe di sua condizione, fi» che anche un tratto solo fortunato non riesca, ecco nella temerità di un solo passo, lutto a’nostri ocelli oscurarsi il pregio di una illustre e splendida vita. Ogni cosa allora confondesi, e ciascuno nell’esagerazione degli errori di un grand’uomo, cerca un conforto alla propria mediocrità. Colpe divengono ne’ gloriosi i capricci dèi caso, gli imprevisibili eventi, le imperfezioni che disgiunte non vanno nè anche da una eccellente, natura, e sino le cose stesse che celansi alla nostra ignoranza; nè altro clic un’opportuna « desiderabile morte può preservarli a quella seconda vita a cui aspirano, allorchè avvenga che la Cieca fortuna imprenda a ruotar la falce su i loro allori.

’E l’opportuna e desiderabile morte mancò a Giuliano^). Nel considerare questo principe da qui appresso, egli è d’uopo o accagionarlo de’ più grossolani errori, od ogni cosa attribuire, e ninno, noi crediamo, vorrà esitar nella scelta, non meno alla nostra ignoranza de’ fatti, che agli arditi proponimenti di quella virtù che nascondesi alla nostra debolezza. Ei fin- qui rivolge gli sforzi tutti dell’esercito verso la capitale dell’Assiria, e pervenutovi si ritira, e non ne imprende l’assedio: con inauditi travagli e dispendi gravissimi, giunge a traspor (’) Noi vedremo ch’ci la pensava altrimenti, ma la posterità sembra discordare dal suo pensamento. na\igano il fiume, riserva solo dodici navi c pochi viveri, e commette tutto il resto alle fiamme. La stravaganza del fatto porgere poteva materia alla favola, e la favola venne ben tosto ad ornarlo.

il codardo Giuliano di Cirillo (93), l’inverecondo baccante del Grisostomo che offresi per le pubbliche vie con codazzo di donzelli e femmine immonde (94), il tiranno della Chiesa che al suo ritorno di Persia insanguinerà le are de’ suoi numi con vittime cristiane, non è meraviglia che dopo avere assunto ogni più strana e colpevole sembianza, sotto l’eloqueute penna del santo AescOvo di Nazianzo, venga eziandio a mutarsi in un matto e stolido spirito, che incautamente smarrisce entro le reti di un nuovo Zopiro, c meno dell’antico scaltrito. Secondo Coregono, un persiano d’alto affare, simulando d’esscfsi inimicato col suo re, implorò un asilo.. nel campo romano. Ammesso appena alia conoscenza del principe, gli fece considerare quanto inopportuno dovesse.diFsi il consiglio di trarsi dietro, si grande arp ’ mata e vettovaglia, che maestra era di viltà, e rendeva • il soldato più sollecito del ventre che della gloria, e promettendo, come pratico de’luoghi, di condurre egli stesso I esercito in paese d’ogni cosa al vivere necessaria provveduto, potè persuaderlo ad abbandonare alle fiamme ambo le flotte odi- viveri (95).

Un animo generoso, chi ne dubita? aperto è sempre olla frode, ma colui che vinto da volgari arlifizj, non da serie ragioni proceduto fosse a cotanta determinazione, mcn che lode di generoso, taccia di solidamente eredulo procacciata sarebbesi, e la lama d’un grande uo-. mo, allorchè esistono de’ motivi onorevoli a rendere ragione delle azioni di lui, esige da noi a buon diritto che ammettere non debbansi i vituperosi.

Ftì con sagacità osservato (96), che dove venisse a sentenziarsi come lodevole il proposto d’aver abbandonato l’assedio di Ctesifonte, l’incendio della flotta converrebbe quindi giudicarsi necessario. Allorchè Ammiano (97) ci fa sapere che l’abbandono di queli’assedio fu risoluto da nn consiglio. di guerra convocato a tal uopo dal principe, noi non abbiamo mestieri di lunghi ragionamenti per riconoscerne la convenienza. Dubitarne o giudicare altrimenti, sarebbe ’riputarsi, meglio istrutti in tanta distanza di tempi, ed imperfezione di notizie, di celebri liomini dell’arte, spettatori insieme in quella guerra ed attori. E. per avventura, una betachè debole traccia delle cagioni che tale pensamento guidarono^ lasciasi, se male non ci apponiamo, anche da noi ravvisare, il sapersi che nelle guerre an-. tecedenti più volte Ctesifonte sia stati presa e ripresa, lungi dall’indurre perplessità (98), può anzi servire a persuaderci che per questo stesso un principe guerrièro e prudente, qual era Sapore, con particolari difese e. fortificazioni pensato avesse a munire la sua capi- tale. Noi abbiamo già innanzi avvertilo, che il piano militare di Giuliano fondavasi eziandio sull’alleanza dell’Armenia, e ch’egli sotto gl’ordini di Procopio e di Sebastiano mandatoavea un corpo di trenta mila combattenti, tratti dal suo stesso esercito, a congiungersi alle forze dì quel regno, e insieme unito ritornare sotto Ctcsìfonte. Ma il re Arsace mancò alla fede ed all’alleanza, ed i generali romani ritardati da gelosia di comando, indarno furono attesi dal loro principe sotto le mura della nemica capitale (99). Una forte guardia esigeva Tarmata per la sua custodia, a supporsi anche stazionaria sul Tigri, e se posta in movimento, ventimila uomini occorrevano, secondo Ammiano (’), onde rimorchiarla contro la corrente del fiume. A forze di tal modo stremate un altro importante scemamento è da farsi, cagionato dalle perdile inseparabili da ogni esercito, ma piò ancora dai disagi d’una sì lunga marcia, d’iin clima sì ardente, e di una guerra travagliosa e munita. Il perchè, se all’esercito di sessanta mila uomini, che tanti erano rimasi a Jerapoli, vogliansi tali scemanze computare, egli è chiaro che una vasta e popolosa città, circondata dal fiume, e da profonde paludi, difesa da numerosa guarnigione, e riputata insuperabile non meno pel sito che per le sue fortificazioni, dovuto avrebbe, e nel suo assedio occupare la più gran parte di quelle forze, ed una assai ragguardevole nella sua custodia, ove pure fosse stala espugnata. Ma Giuliano, comechè fin qui vincitore in tutti i diversi combattimenti, non ancora per altro scontrato erasi coi grandi eserciti reali, nè pugnato avea per anche in una solenne battaglia campale. Il Persiano, sebbene implorasse la pace, tuttavia con grande sollecitudine preparava a sè intorno i mezzi a più valida difesa, ed a maggior incendio di guerra. Dalle più distanti provincie già a <’) Lìb.,4, c. la.


Prefazione di S. P. alle Off, se, di Giuliano. vantavano a grandi giornate i principi dipendenti, in ausilio del loro signore, e della sua capitale (100), e i Romani potevano ragionevolmente temere di trovarsi chiusi tra la città nemica, ed i nemici eserciti. Abbandonando dunque una laboriosa e difficile oppugnazione, sembrava offerirsi come più salutare consiglio il penetrare nelle fertili provincie dell’Assiria mediterranea, farsi incontro agli eserciti reali, e, poichè negli eserciti appunto risiedono le fortezze, i regni, ed i re, sconfiggerli, e con essi conquistare o frangere almeno la monarchia.

In tale partito, riesce estremamente malagevole immaginare, come un esercito penetrando nel centro d’un vasto regno, dovuto avesse far dipendere la sua salute e trarre le sue sussistenze dalla sua flotta, la quale conservare esso non poteva senza regolar la sua marcia su i movimenti di quella, ch’è quanto a dire, abbandonar la conquista, e limitarsi a camminare lungo i fiumi; e dalla quale eziandio potuto non avrebbe discostarsi per correre il paese, senza perderne la comunicazione, e così abbandonarla all’utile ed alla potestà del nemico (101).

Dove la pusillanime marcia lungo i fiumi, non fosse stata per essere non solo infruttuosa, ma contraria eziandio alla natura d’un’invasione, che ne’ colpi risoluti ed arditi avviene sempre che riponga la speranza del suo riuscimento, il metodo di guerra fin qui da’ Persiani osservato, d’abbandonare il terreno, e ritirarsi ne’ luoghi chiusi e muniti, da cui irrompere opportunamente, convertita l’avrebbe in una scenica, a così dire, militare rappresentazione, e poichè a termine giungere pur doveano le vettovaglie della flotta, sarebbe stato lecito a’ Persiani ridersi del timido conquistatore che, per nulla osare, contentavasi, senza evitar già il suo fato, di lentamente a così dire assaporarlo sonnecchiando presso a’ suoi magazzini. Che se, come accennato abbiamo, occorrevano al dire di Ammiano ventimila uomini onde reggere e trarre quell’armata pel fiume, chi non vede, e sia pur largo ed abbondante il computo che far si voglia, che più rimanere non poteva a Giuliano d’un venticinque, o trenta mila combattenti, co’ quali tenere il campo, tentar le conquiste, assegnare alle conquiste guarnigioni, e far fronte infine a que’ molti e valorosi nemici che lo stesso istorico soldato appella acerrimi bellatores, e che ammaestrati nelle lunghe guerre romane, imitavano gl’invasori nella disciplina e nell’arte? Poichè dunque conservar non poteasi la flotta senza abbandonare la conquista, nè tentar la conquista senza abbandonare all’inimico la flotta sembrar può superfluo osservare che più sano avviso fosse far sì, ch’essa non in altrui mano cadendo, a mutar si venisse in mezzo di proprio danno ed offesa.

Ma non occorre dissimulare che il nostro autore adoperato avendo, benchè indarno, di spegnere un tratto dopo quell’incendio, a biasimar venne egli stesso per tal modo l’opera sua (102), e niuno vorrà negare che nell’eseguire un necessario, ma pericoloso divisamento, proceduto egli non abbia con soverchia fidanza e temerità. Lodevole stimasi l’audacia di un capitano che a liberare da un mal passo il suo esercito, o ad assicurargli una quasi certa vittoria, non teme, dove da ciò l’esito della pugna dipenda, di commettere all’arbitrio della fortuna, odi distruggere eziandio que’ mezzi, che la prudenza teneva in discosto apparecchiali, per una sicura, benchè infelice fuga, così l’esercito stesso sottoponendo alla necessità di vincere o di perire. Ma quanto più estremo è tal passo, ed ardito un tale consiglio, tanto più diligente, a ragione, vuolsi l’opera e lo studio che guidi al prospero riuscimento dell’impresa. I Romani dopo l’incendio della flotta, omai più non potevano che di due cose l’una; o conquistare l’ostile terreno, o in esso miseramente perire; perciocchè nel loro ingresso nella Persia, avendo distrutto e posto a sacco con le messi ogni altra cosa, vano divisamento sarebbe stato in presente il voler ritornare nelle proprie orme. L’Assiria mediterranea offerto avrebbe loro un ricco terreno dove vettovagliare, ma l’ignoranza de’ luoghi, malagevole a intendersi dopo che i loro avi visitato aveano da sì remoti tempi quella contrada, e la imprudente fiducia riposta da Giuliano su alcuni disertori del campo nemico, a’ quali affidò la propria marcia, fatti avendoli inoltrare in un deserto e montuoso terreno, ben presto li costrinse a ritornar lungo i fiumi, dov’essere ancora spettatori di quell’incendio che in breve trarre doveali ad ogni più estrema calamità.

L’ebbrezza della prospera fortuna, che condotto avea sin qui Giuliano a rifiutare ostinatamente ogni onorevole condizione di pace, sembra altresì che il traesse a far poco conveniente stima de’ funesti effetti, di che doveva essere feconda quella guisa di guerra che dal suo nemico Ricevasi, la quale avendo potuto egli riconoscere sino dall’aprirsi della campagna, tanto più ad accusar viene la sua imprudenza. Fino dalle prime i Persiani ricoverando ne’ monti e ne’ luoghi muniti, opposero a’progressi de’Romani la inondazione de’ fiumi e le incessanti scorrerie: sino dalle prime a misura che quelli appressavansi, abbandonavano essi gli aperti villaggi, abbruciavano le messi, distruggevano i bestiami, e circondavano il campo romano di uno spaventoso deserto. Dopo la mancata alleanza dell’Armenia, la invano attesa riunione del corpo di Procopio e di Sebastiano, e l’incendio in ispezieltà della flotta, una tal sorta di guerra inspirare doveva assai gravi timori, e disporre a prudenti consigli.

Ben presto in fatto trovossi cinto l’esercito da ogni più lagrimevole difficoltà. Esso avea distrutto i suoi viveri e la sua flotta, tentata indarno la strada dell’Assiria mediterranea, e perseguitato da un attivo ed instancabile nemico, temeva, a ragione, nella certezza dell’avvicinamento di grandi eserciti, l’ultimo e totale suo eccidio. Iu cosi ardua situazione, e nulla ornai più potendo intraprendersi offensivamente, fu risoluto di declinar verso i monti, e marciando sopra l’Armenia meridionale, recarsi, se fosse stato possibile, a grandi giornale nella Corduena (105), provincia che riconosceva la dipendenza dell’Impero, e sede di quegl’instancabili Carduchi che tanto potuto aveano riuscire funesti ai diecimila.

La prospera battaglia di Maronga (104). seguita indi a settanta stadj di cammino, la prima propriamente campale che accettata avessero i Persiani, rinfrancò lo spirito abbattuto de’ soldati, senza apprestare peròniun efficace alleggiamelo ai presenti o futuri bisogni della fame, che ogni di più infieriva. A somiglianza del Macedone, die negò dissetarsi alla presenza de’suoi soldati di tema che quella vista non fosse per accrescere la sete loro, Giuliano ricusò ei pure i viveri dell’imperiale sua mensa, e li distribuì all’esercito (105). Ma tali soccorsi che la bontà e la politica provavano del principe, niun clìicace sollievo recar potevano alle angustie d’una militare moltitudine.

Quanto piu vasti erano stali i proponimenti, quanto meglio avvisate le speranze, tanto più infelice offertasi al pensiero la presente situazione. Quell’esercito a cui nel suo ingresso nella Persia, poco parea l’acquisto di si vasta contrada se sino alle Indie non estendeva gli ambiziosi desiderj, ora stremato d’ogni maniera, con la fame che il preme, e l’inimico che l’incalza, va cercando una fuga, avventuroso assai se con essa salverà i proprj avanzi. Il forte sebbene e virile spirito di Giuliano non poteva non rimanerne percosso. La sua costanza potè un istante vacillare, e per avventura, il rimordimento della troppa temerità con cui erasi a tanta impresa abbandonato, risvegliò le larve della sua fantasia. Una notte, destatosi dal breve suo consueto riposo a meditare e comporre, come, ad immagine del Magno Giulio, far sempre ei voleva, mentre più intento ha lo spirito intorno ad alcune filosofiche sentenze, ecco alla sua tenda apparire, e lento appressarsi, lento partirsi, quel Genio dell’Impero che a confortarlo a regnare comparso gli era-in Parigi, ma squallido ora tutto, velato il capo ed il cornucopia d’un altro velo e funereo. Un momentaneo stupore il sorprende, ma ben tosto esso fa luogo alla calma con cui un animo forte riceve i decreti del fato, e già ornai adulta la notte, abbandona il suo letto per sacrificare agli Iddìi, gipsta il suo ordinario costume. Una brillante meteora, un fuoco fatuo che parte attraverso dell 1 orizzonte, arresta di nuovo ancora il suo sguardo, e torba il suo spirito: ci vèder crede in quello il minaccevole aspetto del Dio della guerra, che offeso egli avea al passaggio del Tigri (106). Perplesso, interroga della scienza loro gli aruspici etruschi, che a’vertonlo essere canone de 1 libri Tarqniziani (107) P astenersi dal guerreggiare il di che in cielo apparisca un tale fenomeno. Poteva questa fiata l’errore essere utile, ma la divina sapienza che nel secreto del suo pensiero stabilito avea la fine di Giuliano, non permise ch’ei credulo essere allora potesse e superstizioso, con vantaggio uso proprio e della repubblica, e sorto già il dì, levato il campo, il principe marciò alla testa del suo esercito.

La battaglia di Maranga istruito avea i Persiani ad evitare con ogni loro potere lo scontro della fanteria romana in un’azione campale. Alloggiavano essi perciò ora ne’monti, intenti, giusta il loro costume, a molestare con rapide ma lontane incursioni la ritirata dell’esercito, che a cagione dell’angusto terreno ritrocedeva diviso in sci eguali quadrati, allorchè di repente i loro asili abbandonando, mossero con generale assalto ad attaccare ad un tempo il suorelroguardo, l’antiguardo ed il centro. Il principe che obhliatn area la corazza (108), e, quanto a sè, marciava con una fatai sicurezza, all’improvviso annunzio imbraccia lo scudo, e corre con un drappello a rinforzare prima la fronte, • poi il retroguardo, intanto che pe’suoi ordini i addati di leggiera armatura, caricando le spalle del corpo che assalito avea il centro, ed i colpi, assettando ai dorsi de’ cavalli, ed a’ garettoli degli elefanti (’), il volgono in fuga e disperdonp. In questo mezzo le guàrdie, gli amici, i circostanti tutti, avvertono il loro signore ch’egli è senza armatura, e il pregano con ogni più supplichevole modo ad allontanarsi, ed evitare il pericolo della irrompente moltitudine, che mista d’amici ed inimici, da ogni parte in cerca di scampo rovinava. Indarno I dove anzi più la folla s’addensa, dove più il rischio è sicuro, ivi sta l’imperatore.. Accennando, gridando, esorta a perseguitare il nemico, e immemore d’una vita da cui quella pendeva dell’esercito e dell’impero, offre il primo l’inerme suo petto a’ colpi de’ fuggitivi, che pur fuggendo difendonsi, e la freccia di.uri cavaliere vola a traforargli le còste, e piantarglisi nella parte inferiore del fegato. Senza nè scavalcare, nè uscir dalla mischia, Giuliano considera la sua piaga e tenta liberarla dall’arme fatale, ma non altrimenti che un late sforzo riuscito fosse funesto in quella terra medesima ai soldati d’Antonio (108), il bitagliente ferro si gli morde i nervi delle dita, che pel dolore cade dai cavalto

(’) Suffrasjinta. Forse A miniano usa questa parola per denotare la partieolar sensazione di quella parte tutta nervosa. svenato. Tratto nella sua tenda, riceve ivi le cure del suo medico ed amico Oribasio, e non appena ne ha per esse un qualche conforto, che come il vincitore di Lenirà e di Manlinea gridato avca moricnle: dw’è il mio scudo? dove sono Tarmi e il cavallo, ricerca pure Giuliano, e corre all’inimico. Senonchè un tratto dopo le forre già l’abbandonano, e, pel sangue che dalla piaga versa in gran copia, costretto è a ritirarsi.

Compiuto era ornai il corso di si splendida vita. Steso cu d’una pelle di lione, ordinario e solo suo letto, l’imperatore stette aspettando la morte con la calma ch’è propria di una vita virtuosa, di una ferma credenza di ricongiungersi all’eteree sostanze, e di una giusta fiducia di lasciare dopo sè una larga eredità di gloria immortale. I sapienti che accompagnato aveanlo, gli amici, i generali, i semplici soldati circondavano la sua tenda, con dimessi sguardi e doloroso silenzio l’acerbo fato accusando che nel fiore degli anni, nel bel mezzo della sua gloria rapiva in questo maggiore uopo alla patria un cotanto sostegno, un imperatore soldato, un soldato filosofo, un filosofo magistrato, e ad essi il collega de’ privati loro studj, l’amico pronto e caldissimo, l’autore della lor gloria, il sostegno della loro religione. Giuliano solo mantener sembra un imperturbabilecalma. Ei parla della morte (HO) come di un premio che gli Iddìi tal fiata accordano a’ giusti, comedi una desiderabile separazione della miglior parte di noi dalla corporea prigione che la racchiude, come di un debito infine che un leal debitore pagar deve esultando quando a pagarlo la natura l’invita) ma comechè per sè stesso indifferente, il suo cuore fa inganno alla sua ragione, e l’amicizia viene a strappargli una lagrima all’improvvisa nuova della morte del suo diletto Anatolio, maestro degli ufiftzj. Poco appresso, ai circostanti rivolto, « O » miei amici, die 1 egli, o commilitoni, conoscendo che » ogni dolor vince i deboli, ma tutti cedono a’generosi, i ricevo io la morte come un singoiar benefìzio dagli Dei » concedutomi, onde non, col vivere più a lungo, l’animo » soccombere dovesse sotto il peso di gravi difficoltà, o » sotto quello de’miei proprj errori che la passata miavU » ta disonorassero. Tal vissi, che nè pentimento mi turba, » nè ricordanza mi rimorde di colpa commessa, sia nel» l’oscurità dell’estglio, sia nello splendore del trono. » Riputato questo io avendo un’emanazione celeste, libero » lo ho serbato, siccome spero, da ogni macchia e vitu» perio, la giustizia nella guerra, e la moderazione nei » civili ordini della pace osservando. Che se ai consigli » non sempre l’esito e l’utile corrisposero, ciò avvenne » perchè l’impresa è dell’uomo, l’evento è degli Dei. » Considerando la sicurezza e la felicità de’soggetti come » l’unico scopodi ungiusloe legittimo imperio, distrutto » ho colle azioni del mio regno la licenza e l’abuso del » potere assoluto, funesto corruttore degli Stali e de’co» slumi de’citladini. I miei consigli furono sempre di » pace, voi lo sapete, ma quando la patria m’invitò, quan» d’ella m’accennò le sue offese, io di timore ignaro, e » colla obbedienza di figlio aU’assoluta autorità d’una » madre, lieto corsi al pericolo, e ne sostenni con fortez» za il cimento. Non avrò difficoltà a confessarvi che, gran » tempo è già, m’insegnò la Divinazione che morto mi sarei di ferro. Il perchè, venero in adesso e ringrazio Id» dio immortale, che non per le secrete pratiche del tran dimenio, non per gli ordini d’nn tiranno, non per » lunga e dolorosa accerbilà di malattie permette ch’io » muoia, ma sì clic nel mezzo della verde mia gloria, io n abbia potuto meritarmi questa sì splendida partenza » dal mondo: perciocchè ignavia certo è del pari, c l’inop» portuna morte desiderare, e l’opportuna abborrire. Le » forze ornai mi abbandonano.... basterà il detto sin « qui. Quanto al nominare un successore, osserverò un » prudente silenzio. Potrei per ignoranza lasciarne ad» dietro il più degno, e il da me nominato esporre a « pericoli, ove l’esercito noi confermasse. Come buon » cittadino, piaccia agli Iddìi, dirò solo, concedervi dopo » me un ottimo principe! » Terminate queste parole di- An slribuì i suoi averi agli amici, e co’filosoli Massimo e J6S Prisco s’immerse in un lungo ed astruso discorso intorno all’immortalità dell’anima, nel quale, per la commozione che sofferse il suo spirito, essendoglisi riaperta la piaga ed enfiate le vene, morì di soffocamento.

Tal fine ebbp, e tali cose operò questo principe in sci anni di dipendente principato, diciotto mesi di assoluto imperio, e nel breve corso mortale di non compiuti trenladue anni. Nell’avversa fortuna fu superiore alla disgrazia, e nella favorevole alla prosperità. Privato, fu sobrio, casto, pio, liberale, caldo amico (IH), virtuoso filosofo. Principe, dedusse al governo del mondo le lezioni della filosofia, c senza deporrc le oscure virtù del savio, esercitò le pubbliche del trono, e fu intrepido ma umano guerriero, nel consiglio capitano d’antica virtù, nella mischia faticante e valoroso soldato, delle offese della repubblica punitore acerrimo, e delle proprie dimentico, di tenace e ferma volontà ne’ pubblici, e di arrendevole ne’ privati propositi, temuto e riverito principe, modesto e popolar cittadino, magistrato integerrimo, sapiente legislatore, filosofo e letterato insigne, singolarmente proprio in somma a porgere la più alta e sublime idea dell’umana natura, e ad estendere e nobilitare il nostro spirito con la contemplazione delle sue virtù. Non pertanto, questa si egregia virtù potè qualche fiala traviare. Vorremo noi perciò con invida ed avara sentenza (H2) ricusare a Giuliano il titolo di grand’uomo, per abbandonarlo alla men nobile schiera di quelli esseri slraordinarj che ornati di alcune splendide doti, pure la fralezza loro a celare non giungono a chi li considera attentamente? E qual uomo dunque, e di quale età presenta egli una virtù sempre uniforme a sè stessa? dicasi aperto^ se l’appellazione di grande fatta non è per Giuliano^ fatta non è ella per l’uomo.


Questo credemmo a dirsi necessario per la cognizione delle opere del nostro autore, strettamente collegate alla storia della sua vita e del suo regno. Comechè un assai illustre esempio ei palesasse dell’influenza degli sludj sul carattere di un principe, tuttavia nella pittura della vita attiva di chi resse i destini del mondo, non possono essi principalmente occupare la nostra curiosità, e noi distolli dai molliplici aspelli ne’ quali ci fu forza ravvisare Giuliano, polnmmo appena un istante considerarlo nella meno splendida, ma più durevole gloria

di letterato e filosofo.

Chi dall’infanzia sviluppa le proprie passioni, profittar suole per esse di una stagione, che rimane infruttuosa per la maggior parte degli uomini, e quindi è che Giuliano può in noi scemare la maraviglia d’aver tante cose operato in una vita si breve. Quantunque senza scopo nè regola, un’inestinguibile sete di lode palesato avea sino dalla prima sua giovinezza, e poichè l’erudizione e le lettere erano il solo aringo a quella età confacente, tutto ad esso s’abbandonò, e con vivissimo desiderio s’accinse a trascorrerlo. Destava lo stupore de’ condiscepoli e de’ precettori. Ammiravano gli uni che studiosi travagli tenessero a lui veci di puerili passatempi, sorprendevansi gli altri di un tanlo precoce sapere che rendeva ornai quasi inulile il lor iuinisterio. Apprese greche lettere da Mardonio, grammatica da Nicècle di Lacedemone, rellorica da Ecebolo sofista, filosofìa da Massimo, Jamblico e Libanio; ma nato per emulare gli antichi, cercò fra di essi i suoi maestri, e manifestano i suoi scritti ch’ci gli elesse specialmente in Platone ed in Aristotele. Ogni ramo dell’antico sapere, le utili e le amene discipline, la musica, la poesia, l’oratoria, la filosofìa, la teologia pagana e cristiana, lo studio delle leggi, a nulla dire di quello della politica e dell’arte della guerra, tutto era famigliare al pieghevole c fecondo suo spirilo, e di tutta questa scienza sì varia e sì ricca, rimangono a noi onorevoli documenti nelle molte e pregevoli opere sue.

Le cure della guerra, e le vicende della fortuna non ebbero mai forza di scompagnarlo dagli amati suoi studj. Sia che gli sorridesse la vittoria sotto le mura di Sirmio e di Argentoro, o ch’egli andasse pericolando sotto quelle di Ctesifonte, poichè consumato avea il giorno in nna marcia penosa, od in una difficile battaglia, ritiratosi nella sua tenda, e trascorsa ivi qualche ora in un interrotto riposo, destavasi o per meditar con Platone intorno all’immortalità dell’anima e la natura della Divinità, o per distendere elaborate scritture contro le dottrine della nuova fede, o per assegnare nei Cesari il posto di gloria che occupare debbono nel tempo i suoi antecessori nell’impero. Rapido nel concepire, nel ritenere tenace, nella Contenzione instancabile, il suo spirito era atto a varie ed opposte occupazioni ad un tempo, e la facilità stessa che palesava nell’apprendere, manifestavala altresì nel comunicar col discorso, o nel dettare i concetti. Alcune tra le sue opere, sono il frutto di poche veglie frapposte alle lunghe notti de’ due inverni che passò l’uno a Costantinopoli, l’altro in Antiochia. Una sola notte bastò a produrre l’orazione in Deorum matrem, due quella contro Imperitos cune#, tre giorni per l’altra in Solerti regem, poche notti involate alla viva sollecitudine della guerra persiana bastarono all’opera contro i due Testamenti, e poche ore forse a dettare il Misopogono.

Scorgesi, a noi sembra, nelle opere del nostro autore un vasto ingegno che feconda ogni benchè sterile ’con pari felicità una grande ed una picciola tela-, un animo sollevato, virtuoso; nodrito di magnanimi sentimenti, che nobilita il discorso, e lo sparge di quel nativo decoro che mal procaccia d’assumere la virtù simulata, una scelta erudizione, un’eloquenza universale condita di certa sua particolar venustà; piena di veneri nell’epistole, di luciauesco garbo e più di aristofanico sale nelle satire, di dignità isocratica nelle orazioni. Non per tanto, ed a malgrado di cotali doti, noi consentiamo all’altrui avviso, e siamo ben lontani dall’immaginare che tutte le opere di Giuliano potessero trovare egual favore in una lingua moderna trasportate. S’aggirano alcune, tali sono le teologico-pagane, intorno a dottrine affatto straniere alle nostre opinioni, e così offronsi ordite della filosofia platonica di que’ tempi, da riuscir oscure anche a chi con attento studio immergere «si volesse in quelle solìstiche investigazioni; altre circa soggetti che l’autore fu costretto dalle circostanze a trattare, come le orazioni in lode di Eusebia e di Costanzo, o sterili per sè stessi, o capaci più presto di filippica che di elogio, ed è forza confessare che dove la materia non orna anch’essa il discorso, stanca pure un grande ingegno che mostrasi costretto a rimanere sempre sull’ali; onde trarre profitto da baje e da frasche. L’epistole però tutte, le due satire, l’orazione agli Ateniesi, quella per la partenza di Sallustio, l’altra diretta ad Eraclio, e diremo ancora il primo dei due panegirici di Costanzo per le bellezze dello stile e le pellegrine notizie che racchiude, queste opere comechè anch’esse non possano non ricevere grandissimo scapilo dalle ragioni sovraccennale, e più ancora dall’ignoranza’ in cui siamo di molle allusioni, dalla squisitezza dei nostri sociali costumi, ed in ispccialità dal nostro presente gusto in letteratura, tuttavia di si egregie doti sovrabbondano, che non possono non renderle ai lettori d’ogni stagione gradite. Queste sono appunto quelle che scelte abbiamo a tradurre; e se le forze dell’ingegno non fossero state al desiderio disuguali, crederemmo non avere speso a ciò intorno un’opera del tutto mal gradita e infelice. Pure se ella non è intesa a soddisfare l’obbligo che all’istituto collegasi della vita; ma a riempiere il meno vanamente che per noi si potesse i privali nostri ozj, sarà risguardata con gentile condiscendenza. Kiserbandoci pertanto di favellare degli altri opuscoli nel secondo volume che compirà la nostra traduzione, occorre far qui qualche cenno di quelli in questo primo contenuti.

Commendevoli per sè stesse, un’assai singoiar pregio ricevono inoltre dalla qualità del loro autore, le tre opericciuole, l’orazione agli Ateniesi per la guerra contro Costanzo, il Alisopogono ossia l’Antiochcnse, i Cesari o il convito degli Dei.

Con la prima di queste, Giuliano che avea già sottomessa, o ricevuta in obbedienza gran parte del mondo romano, sospende il corso delle sue vittorie, e dai suoi quartieri di Sirmio, addirizzandosi al popolo che più era in celebrità di giustizia, invita le presenti e le future generazioni a sentenziare delle cause che persuadevamo a sostenere la sua imperiale elezione con l’armi Sia la vittoria, sembra egli dire, l’unico scopo di un comune soldato. Seginste le armi non sono, se il trono non è la spontanea offerta del popolo, ma il frutto di colpevoli pratiche, una maligna luce riflettesi da quelle e da questo agli occhi di un soldato filosofo. Quale, dunque essere poteva la morale bellezza, a cosi dire, di un componimento a tal fine rivolto? persuaderci, durante almeno la sua lettura, che santa è quella guerra, e che giuste sono quell’armi. Nè mai scrittura attinse sì compiutamente il suo fine. Un retore fatto avrebbe obbliare il soggetto per non occupare il lettore che dei luoghi comuni dell’arte sua, e di una sterile pompa di parole^ ma un modesto uomo e prudente, un grato discepolo (e questo si è il carattere ivi assunto da Giuliano) che si rivolge a coloro ch’egli amò sempre e riverì quai maestri, onde invitarli a riposatamente seco lui deliberare intorno alla giustizia di un comune proposito, adorna della sola materia il discorso, lo scalda di puro e semplice affetto, e con uno stile nè ambizioso troppo, nè troppo dimesso, rammenta sì di essere udito da una numerosa adunanza, ma nè tampoco dimentica ch’ci non favella nè dai rostri di Roma, nè dalla bigoncia d’Atene.

Tutta ornata di una originai bizzaria offresi l’altra operetta, il Misopogono. Giuliano movendo per la persiana spedizione, fermatosi in Antiochia a riordinare le cose d’oriente, e dare tempo ai guerreschi apparecchiamenti, ben presto ebbe a conoscere che il soggiorno della pia e cristiana capitale della Siria, mal convenuto avrebbe al cliente delle divinità gentilesche. Indarno Prefazione di S. P. alte Op. tc. di Giuliano. t» versato egli avea su di lei i benefizj, e con ampliare allora appunto il suo senato, e con soccorrerla di biade del privato suo patrimonio, onde rimediare al caro della vettovaglia di che ella pativa. L’ingrata città, più corrotta che Sibari, più ciarliera e beffarda che Atene, iva di ogni suo male il principe incolpando, e nauseata della severa virtù e de’ semplici costumi di lui, nelle pubbliche vie e ne’ mercati faceva meta di sediziosi clamori il suo governo e la sua religione, e segno a plebee risa e sarcasmi la rozza ed incolta persona sua, l’irto crine e negletto, il non liscialo suo volto, ma più che altra cosa quel si caro a Giuliano niosofico onore del mento. Che cosa farà egli? brandirà la spada della giustizia per trarre vendetta di privata sua offesa? non la impugna il generoso alla vista dell’inerme debolezza. Filosofo in vece, dispregerà il cicalio. della moltitudine, c qualche cosa pur concedendo al privato suo risentimento, opporrà scherni a scherni, moteggi a moteggi, e con ironica pittura che in lui la virtù rappresenti qual colpa, e quali virtù i vizj e le brutture de’ suoi schernitori, li coprirà di vitupero, c piglierà d’essi vendetta non già propria di volgar principe, ma di lepido e festivo scrittore. Questo è ciò che imprende a fare Giuliano nel Misopogono scrittura, noi sapremmo abbastanza ripetere, d’inestimabile pregio se la si consideri in un principe che nella stessa sua ira getta da sè lungi la spada, per non armarsi che della penna, ma lodevole eziandio per sè medesima. E veramente qual soggetto più arido può egli proporsi ad un autore, quanto l’odio che un popolo nutre verso la barba? eppure di quauti opportuni episodii non è nelle sue mani fecondo? quanti diversi caratteri non vi scorgi, e come acconciamente non è ivi l’allegoria da un capo all’altro sostenuta? Osservansi, è vero, in questo componimento le tracce della rapidità con cui fu dettato, e più l’aspreggia l’aristofanica bile che non lo rallegri l’urbano lepore, ma a malgrado de’ suoi difetti, esso è però sempre un’ingegnosa, comechè a nostro credere alquanto esagerata pittura, de’ costumi di Giuliano e degli Antiochesi.

Prima nel merito l’operetta dei Cesari, anzichè in questo volume precedere le sue compagne, contentasi di seguitarle. Il che occorre dire che da noi si fece pensatamente; perciocchè dipingendosi in quelle la vita privata ed i costumi dell’autore, creduto abbiamo che esse potessero in qualche guisa servire di supplemento al nostro Discorso preliminare. La greca mitologia prestò mezzo a Giuliano di tessere in quest’ultima una favola satirico-drammatica, che sebbene in qualche guisa porga un’immagine degli antichi componimenti satiricodrammatici de’ Greci, pure per molti rispetti può dirsi senza modelli, come sin qui rimase senza imitazioni. Nè più nobile, nè più pericoloso argomento poteva essere scelto da un principe. Chi s’alza a giudice degli antecessori, viene a dare sentenza di sè medesimo. Ricorrendo la festa dei Saturnali, tempo non solo di terrena ma altresì di divina letizia, Romolo assunto in cielo col nome di Quirino, convita gl’Iddìi sull’Olimpo, e per natia gentilezza verso i suoi successori, v’appella anche i Cesari, già fatti Iddii a mezzo dell’apoteosi. Non vi mancano tra’ primi con Saturno e con Giove, nè il salso Sileno, nè il giovinetto Dionisio delle grazie padre, e del riso e degli scherzi amatore, e con Cesare, e Augusto, e Marco, e Trajano v’accorrono tra i secondi i Tiberj, i Neroni, i Claudj, i Vitellj e l’altra imperiai moltitudine. Le strane forme in che questa appare, ed i diversi costumi di cui è composta, destano l’umore allegro di Bacco, e quello satirico del capripede vecchio, mordacissimo Iddio che addenta e rode i convitati, e rivelando le interne lor colpe, secondo il proprio istituto scherzando ammaestra, sino a che per comando di Giove, e di lui degno, ordinalo viene che colle norme degli olimpici agoni, un certame d’onore istituir debbasi tra i reali convitati, onde a conoscer s’abbia, ed a premiar degnamente chi fosse per essere giudicato per virtù sopra gli altri commendevole. Udita la voce del celeste araldo Mercurio, che dichiara aperto l’arringo, vi giungono essi l’un dopo l’altro da Cesare sino a Costantino, perorano la loro causa, e la divina Nemesi assegna ad essi le ricompense o i castighi che meritaronsi in vita; ma come a celesti giudicanti convenivasi, più solleciti dell’interno e morale valore, che dell’ambizioso e guerriero, il bellissimo dei premj, la suprema corona della virtù, sembra essere riserbata alla benefica ed operosa sapienza di Marco. È difficile cosa affermare se più in questo componimento abbia parte una gentile fantasia, ed un sano gusto nell’immaginare il quadro, variarlo, scolpire con rapidi colpi tanti diversi caratteri, e disporne in guisa l’ordinanza che vi dominino i più cospicui, c non usurpino tuttavia il posto agl’inferiori-, o veramente l’acume e l’ingegno nel far della storia una scena drammatica, e chiudere i principali avvenimenti che corsero nel giro di quattrocent’anni, entro quasi i cancelli di una consueta teatrale rappresentazione, nella quale tu hai per attori i padroni del mondo, non le interne brutture, coperti col manto della terrena grandezza, ma nelle semplici e naturali lor forme, per giudici c spettatori gli Dei, e per iscopo morale il premio e le pene che essi accordano a’ buoni od a tristi principi. Nè tampoco sì di leggieri può dirsi, se meglio nel suo autore" occorresse la prudenza militare e politica, onde giudicar sanamente di tante azioni e regni diversi, l’eloquenza per arringare con Cesare e con Alessandro, o più presto il lepore e la festiva tempra di spirito per ischerzare piacevolmente con Sileno e con Dionisio, nascondere le tracce dell’artifizio, e spargere da capo a fondo il garbo, la grazia, la giocondità. Fu giustamente osservato che dove non altro a noi rimanesse di Giuliano che i Cesari, basterebbono essi soli a far fede della vastità del suo ingegno e della sua dottrina.

Ma quanto più pellegrine sono le bellezze di un testo, tanto più avvisano della difficoltà di bene ritrarle. Al quale proposito osserveremo, che le altre maniere di stile, come lo splendido, il magnifico, l’affettuoso, quasi dicemmo anche il sublime, meno ritrose si palesano ad essere trasportate da una in un’altra lingua, del lepido e del faceto. Le passioni a cui servono quelle prime forme di stile, non mutano esse col volgere dei secoli, come non muta la natura umana che le produce, da un lai fondo comune una pressochè eguale originaria attitudine. Ma il faceto che ha per iscopo d’istruire rallegrando lo spirito, non d’innalzare il cuore o la mente, fa sua materia gli usi ed i costumi, attinge i colori nella civil società c seguita di questa i cangiamenti, ed ora esulta con Aristofane tra la licenza dei mercati e delle assemblee popolari, ora con Molière tra la gentilezza delle corti e delle conversevoli adunanze, per negare indi a breve tempo capricciosamente al suo autore, que’ pieni c plaudenti teatri che procacciato aveagli sotto il quattordicesimo Luigi. Nè le lingue pur esse da tali vicende si scompagnano. Le sozzure del comico ateniese espresse anche col meccanismo delle parole, non eccilerebbono il riso oggi tra noi, come del pari gl’Iddìi trascinati qua c là sulla scena per occuparli ad ogni più indegno servigio, non troverebbono linguaggio alto ad esprimersi. Il lepido ed il faceto nei Greci manifestasi assortito all’indole de’ loro governi, poichè quindi pur sempre deriva ogni pubblico costume, e da qui prende colore ogni letteratura: libero cioè ed ardito ne’ modi, triviale spesso e popolaresco nelle immagini, di certa naturale sprezzatura nell’andamento, negletto ed insieme rapido, conciso, saltellante nella locuzione. Come sperare di rendere grato un tale lepore all’indole circospetta di popoli sudditi. ed a gentili e contegnose brigate, nelle quali l’artifizioso costume, smarrir fece ogni traccia del naturale carattere? e in qual guisa si potrà ciò ottenere, se esso perdette l’opportunità delle circostanze che lo fecero nascere? e come infine disgiungerlo da quella veste che gli è propria, •

snella e succinta, per opprimerlo col largo viluppo massimamente della veste italiana (’)? pregevolissima si, ma ad un lepore appropriata di affatto diversa natura, ralfinato, signorile, tutto in contegni, lieto delle antitesi e degli equivoci, abbondante nelle parole, e posto in gran parte nelPonor della frase e del periodo? sennonchè qui per avventura, tacciandoci d’arroganza, e la pellegrinila rinfacciandoci, non mancherà chi ci chiami disacconci estimatori di ciò che pure è cagione di illustri contese, onde con più opportuno, sebbene forse con non più modesto consiglio, passeremo a far qualche cenno di chi in questo cammino ci ha preceduti.

Noti sono gli espositori latini delle opere di Giuliano, il Canteclair ed il Cuneo dei Cesari, il Martini del Misopogono e delle lettere, il P. Petavio con fortuna migliore delle Orazioni. A chi ha qualche pratica di questi studj, non è men noto il metodo di tradurre che suolai osservare da’ critici. Fedeli in ogni cosa, ma sopra tutto all’obbligo che sembrano assumere di rendere insopportabile la lettura del loro autore, un’ombra vana, uno scheletro ti presentano, che quantunque serbi finanche i nessi e le giunture grammaticali, nessuna idea può risvegliare del Corpo che ha informato. Nè con ciò è nostra mente nuocere alla riverenza e gratitudine clic debbesi a quei dottissimi uomini, se unico scopo dei loro travagli fu il servire alla critica ed alta erudizione.

(’) Noi favelliamo delle difficoltà in generale, ben lontani dal Voler far qui una applicazione al nostro caso. Non vuoisi però tacere che gl 1 interpreti Ialini di Giuliano, e sopra tutto il Canteclair ed il Martini, spesso assai mal corrispondono alle loro promesse anche quanto all’esattezza ed all’inerenza, e che molti e gravissimi abbagli seppe rilevarne lo Spanemio nella sua edizione greco-latina delle opere del nostro autore.

Il nome del celebre critico ed antiquario tedesco ci conduce a favellare della sua traduzione francese dei Cesari, che sessantanni appresso fu seguitata da un’altra del La-Bletteric, plasmatore, quasi dicemmo, più presto che traduttore, anche di certo suo Misopogono c di alcune lettere. Niuno quanto il primo avrebbe potuto rendere un reale servigio a Giuliano, se alla diligenza rd alla scelta erudizione, accoppiato avesse il gusto ed il criterio di traduttore. Ma il valente critico non intraprese di voltare i Cesari, anche in una lingua non sua, sennonchè come una scrittura, la quale in poche pagine scorrendo le vicende di quattrocent’anni del romano impero, un’insigne e preziosa opportunità offerivagli di sciorinare in commenti e ragioni de’ commenti, una per altro non comune erudita suppellettile. Quindi non compilò ei già le note per servire al testo, ma così tradusse il testo che meglio prestare si potesse alle note, onde venne ad essere, ciò che parrà strauo, per soverchia diligenza infedele, e per soverchia dottrina noioso ed insipido. Ogni parola dell’autore è a’ suoi occhi uu arcano, ogni frase, una allusione. Se ella è vera e reale, ma nel testo appena accennata, gli occorre distenderla e conformarla all’uopo delle note; se ella è solamente possibile, gli conviene tal fiata, per la stessa cagione, acccltarla per vera) ma se il rapido allunghi ed il conciso, ed ammetti per reale il possibile, sarai lodato autore nelle note, ma biasimato traduttore del lesto. In fatto, come chi non l’animo ricrea alla vista di un giardino, ma con importuna dottrina rompe e notomizza ogni fiore, cosi egli quivi ad ogni istante s’arresta, non per rilevare la luce d’un pensiero o la grazia d’un’immagine, ma una recondita notizia, ed un remoto significato.

Pieno di grandi promesse viene appresso l’eloquente biografo di Giuliano, e non può non meritarsi la gratitudine del lettore s’cgli, per quanto ci assicura, durò veglie e fatiche grandissime in confrontar codici, sottoporli al vaglio della critica, ristorare o indovinare lezioni, e tanto tempo spese intorno a poche pagine di traduzione, quanto durò il regno del nostro autore (’). A chi prestar fède gli vorrà, il testo di Giuliano risveglia alla memoria il frutto del colpevole ardimento che partorì il tristo mestiere di traduttore. Questa confusione trova egli sopra tutto nel Misopogono) ma contento di riserbare per sè solo le spine onde r.on offrirci che le fronde ed i fiori, sì diligentemente svanir fa ogni traccia de’ suoi studj nella sua versione, che possiamo essere assicurati ch’egli appunto in quella operetta o non gettò mai l’occhio sul greco originale, o il fece assai sbadatamente. Tranne ben pochi passaggi, il testo di Giuliano, così come leggesi nella edizione dello Spanemio, che servì al nostro lavoro, ci sembra anzi a suificienza


(’) Tempo senza dubbio soverchio quando trattasi di tradurre senza diligenza veruna. corretto. Ma se anche tale esso non fosse, siccome è veramente, e qual uopo di critiche discussioni aver poteva una parafrasi, nella quale i pensieri stessi che sembrano volersi conservare, vestono forma e sembianza diversa da quella che aveano sortito dalla penna del loro autore, e dove continue sono le sostituzioni, le riforme, i troncamenti d’interi periodi, sia perchè il Greco mal potè prevedere quale sarebbe stato il gusto in letteratura della moderna Francia, sia perchè in Giuliano favella tal volta l’apostata, sia infine perchè alla novella come all’antica Antiochia, pule d’irco la barba di un allievo di Diogene? Più rispettivo nei Cesari, perchè a levare una pietra da quell’edifizio tutto -a crollare verrebbe, e più fortunato, perchè altri gli lastricò il sentiero, sebbene assai sovente sfreni ivi pure il cavallo, tuttavia, fattosi guida lo Spanemio, contentasi di tradurre in prosa migliore la milenza e diffusa del critico alemanno.

Non ignoriamo che alzarsi a censori di chi nello stadio ti ha preceduto, è soddisfare quantunque a consueto, pure a scortese non solo, ma ad imprudente costume. Sennonchè quale altra lodevole meta possono in cotali studj i nostri sfòrzi proporsi, tranne quella di avanzare d’un passo chi teco ed a tuoi fianchi corre lo stesso arringo? e così essendo, poichè t’è mestieri far di ciò altri avvertiti, in qual guisa causerai la necessità d’acceunare dove quegli s’arrestò, e dove tu aggiungere con l’animo intendi? Non però chi conosce, o conoscer pensa le sirti dove uno naufragò, ha per questo la sulficienza e la fortuna di evitarle egli stesso. Qual cosa più agevole del ravvisare l’inferiorità di una copia, e quale più aspra e di difficoltà piena del raggiungere le bellezze di un grande originale? diremo solo per norma dei lettori di Giuliano, che se creduto abbiamo di poter, mercè qualche picciola industria di stile, temperare con prudente libertà certa natia negligenza, e talvolta certa ruvida trivialità di motti, nel Misopogono specialmente, che troppo offeso avrebbono uu orecchio moderno, fu altresi nostro principalissimo studio conservare una fedeltà scrupolosa nei pensieri, nelle immagini, ed in tutte quelle parti in somma che I’ essenza costituiscono dello stile, onde, per quanto era in noi, fare in guisa che il nostro autore, a malgrado delle moderne e straniere sue spoglie, pure l’origine e l’antichità a palesare ei venisse; così appunto come ospite il quale, se ’ per lunga dimora fatta nella città nostra, assunse i nostri costumi, tanto però non depose la patria, ch’egli ai nostri occhj in alcun che non la manifesti. £ dove pure questa patria in sè manifesti Giuliano, tanto ornato, crediamo, avverrà ch’ei si mostri, che i pregi

dell’ospite antico procacccranno forse indulgenza all’imperizia del moderno.



NOTE



(1) È nelle mani di tutti la vita di Giuliano dell’abate De La BleterieG 5, scritta con quella piana e mite eloquenza, che procacciano gli studj del suo istituto, e con quella libertà ch’esso può concedere. Non va per altro negato all’illustre untore il merito d’essere stato il primo a rivendicare in qualche guisa la fama di Giuliano, conosciuto sino allora nella volgare opinione col solo titolo di apostata, e vivente nella sola testimonianza degli scrittori ecclesiastici. La verità può naufragare del pari nelle pie declamazioni d’un autore pagano, ed in quelle d’un cristiano, nelle Orazioni di Libanio, e nelle InvettiveG 6 del Nazianzeno, e perciò un giudice imparziale che vede posto a sè innanzi un eguale pericolo, anteporrà la fede dell’istorico, sia esso cristiano o pagano, che non può esagerare senza biasimo, a quella dell’oratore che può con lode esagerare. Ora quanto agli storici, la bilancia tracolla grandemente a favor dei pagani. Oltre il compendio di Eutropio che militò con Giuliano nella guerra persiana, e che conduce la narrazione sino a’ tempi di Valente, oltre le istorie di Zosimo nemico, è vero, de’ cristiani, ma pur degnissimo di studio per essere stato anch’esso commilitone di Giuliano, essi additano in Ammiano Marcellino uno scrittore probo e leale, un critico sagace, uno storico soldato, testimonio oculare delle azioni che descrive, e ciò che più importa, un, direi quasi, cristianizzante pagano, e tale che prestando egli stesso non di rado le armi al contrario partito onde combattere il gentilesimo, fu creduto cristiano veramente, onde non può la fede non meritarsi de’ cristiani. I diciotto libri che di lui ci rimangono, e che terminano con la morte di Graziano c di Valente, non cominciano è vero che col diciottesimo anno del regno di CostanzoG 7, ventitrè anni dopo il nascimento di Giuliano, ma tuttavia tale è la forma della sua narrazione, che tutta o la più pregevole parte essi comprendono della vita del nostro autore.

E se fu in noi pensiero accennare che presso il La-Bleterie la pietà nocque spesso alla critica nelle materie religiose, occorre anche dire che non in esse nocque ella soltanto. Poco contento di aver rappresentato Giuliano in uno sfavorevole aspetto morale, volle far di lui anche un ridicolo personaggio, traendo senza distinzione le notizie della sua vita privata e civile, o da’ profetici invasamenti di S. Gregorio, o da una scrittura burlesca e satirica quale si è il Misopogono. Che Giuliano troppo in sè ritraesse il discepolo della setta Cinica a cui apparteneva, niuno al certo si avviserà negarlo; ma volendo egli appunto in quell’opera dipingere il perfetto Savio della sua scuola, e le austere virtù di lui, onde contrapporlo a’ vizj ed a’ costumi degli Antiochesi, sembra che|bilancia tracolla grandemente a favor dei pagani. Oltre il compendio di Eutropio che militò con Giuliano nella guerra persiana, e che conduce la narrazione sino a’ tempi di Valente, oltre le istorie di Zosimo nemico, è vero, de’ cristiani, ma pur degnissimo di studio per essere stato anch’esso commilitone di Giuliano, essi additano in Ammiano Marcellino uno scrittore probo e leale, un critico sagace, uno storico soldato, testimonio oculare delle azioni che descrive, e ciò che più importa, un, direi quasi, cristianizzante pagano, e tale che prestando egli stesso non di rado le armi al contrario partito onde combattere il gentilesimo, fu creduto cristiano veramente, onde non può la fede non meritarsi de’ cristiani. I diciotto libri che di lui ci rimangono, e che terminano con la morte di Graziano c di Valente, non cominciano è vero che col diciottesimo anno del regno di Costanzo6, ventitrè anni dopo il nascimento di Giuliano, ma tuttavia tale è la forma della sua narrazione, che tutta o la più pregevole parte essi comprendono della vita del nostro autore.

E se fu in noi pensiero accennare che presso il La-Bleterie la pietà nocque spesso alla critica nelle materie religiose, occorre anche dire che non in esse nocque ella soltanto. Poco contento di aver rappresentato Giuliano in uno sfavorevole aspetto morale, volle far di lui anche un ridicolo personaggio, traendo senza distinzione le notizie della sua vita privata e civile, o da’ profetici invasamenti di S. Gregorio, o da una scrittura burlesca e satirica quale si è il Misopogono. Che Giuliano troppo in sè ritraesse il discepolo della setta Cinica a cui apparteneva, niuno al certo si avviserà negarlo; ma volendo egli appunto in quell’opera dipingere il perfetto Savio della sua scuola, e le austere virtù di lui, onde contrapporlo a’ vizj ed a’ costumi degli Antiochesi, sembra che}} non sta da dubitare che gii ultimi tratti che servono a formare la satira ed a esagerare i caratteri, debbano dirsi proprj della natura del componimento, non di quella dei personaggi in esso introdotti. AmmianoG 8 già avvertito avea che ivi i costumi de’ suoi Antiochesi rappresentansi deformi oltre il vero, e noi con giusta illazione dobbiamo conchiudere lo stesso di quelli del nostro autore, senza il quale contrasto di pitture non avrebbe potuto romper fuori la satira. Del resto l’umana debolezza, nella considerazione de’ costami e delle opinioni, sembra consigliarci ad una più prudente indulgenza. Le sette filosofiche non altrimenti che le religiose, inspirarono in ogni tempo nn fanatico zelo a’ loro clienti, e le età successive che s’arrogano il diritto di spargere il ridicolo o il vitupero sulle opinioni e sulle dottrine delle antecedenti, obbliano ebe le loro dottrine e le loro opinioni saranno esse stesse materia di ridicolo e di vitupero’ all’età posteriori.

(2) In Occidente Massimiano, Costantino e Massenzio, in Oriente Gallerio, Massimino e Licinio. An. 308.


(3) Costantino avea avuto Crispo da Minervina, e da Fausta Costantino, Costanzo e Costante. I nepoti erano Dalmazio ed Annibaliano figli di Dalmazio fratello di Costantino. Al secondo di questi fu prima dato il titolo di Nobilissimus, e più tardi quello di Rex, nomi nuovi entrambo nel rango de’ principi romani. Il suo imperio estendevasi sul Ponto, sulla Cappadocia e sulla picciola Armenia. Ammiano fa menzione di questo re favellando di Costantina moglie di lui e figlia dell’imperatore Costantino: aveala, dic’egliG 9, prima data in isposa al re Annibaliano, figlio di Dalmatio suo tetto, ed il sig. di Valois (rt) riporta una medaglia con 1 ’iscrizione Cl. Ilannibaliano Regi.

Giuliano ne’ Cesari, rassomiglia le azioni del regno di sno zio agli orlicini di Adone, proverbio greco, ebe significava cose frivole ed immature, tratto dalle pianticelle che su vasi di varia materia recavano nelle processioni le cortigiane, cqlchrando la morte di Adone. Con la breve vita di quelle piante voleasi alludere a quella pur breve del donzello di Venere. Intorno a Costantino ed alla sua politica. V. Volt. Quest, sur 1 ’Encvclop., toni. il. Montesq. Considèr. sur les Causcs de la grand, des Rum., cap. 27. Gibbo», della Dècadenza ecc. dell’Irnp. Rum., cap. 19 e 20.

(4) Gli stessi scrittori ecclesiastici uon poterono dissimulare tutti i difetti di Costanzo. Chi non seppe in lui trovarne nessuno si è S. Gregorio, che gli largheggia non solo i titoli di grande, di magnanimo, di vincitore de’ barbari; ma di umano eziaudio, di misericordioso e di santo, c non teme appellarlo dieinissimus linperntorum (6). Tra i pagani va pure eccettualo Aurelio Vittore, idolatra che vivuto sotto il suo regno, l’adula bassamente per paura. Veggansi intorno a questo principe i varj tratti di Amili. Lih. 14, cap. 6 c 10. Lih. i 5, cap. 6. I.il). 21, cap. io.

(fi) Giuliano rimosso ogni ritegno appella apertamente suor cugino V assassino detta sua famiglia (c). I due zìi erano, Dalmazio c Giulio Costanzo fratelli di Costantino; ed i cugini nascevano da varie parentele che la politica di questo ultimo fatto avea nascere tra i diversi rami della casa Imperiale, onde perpetuare in essa la monarchia. Il ministro degli altari, di cui parlasi appresso, si è Eusebio vescovo di Nico (a) Comm. in Amm. lib. 1 4 > cap. 5.

(b) Orai. 3, pag. 36.

(c) Jul. ail Allieti. media, famoso capo dell’arianesiino, e ben diverso da Eusebio di Cesarea. Simulò egli per servire a Costanzo, un testamento di Costantino nel (piale il principe rivelava d’essere stato avvelenalo da’ suoi fratelli, e raccomandava a’ figli la vendetta. Una tal nuova diflnsa ad arte nell’esercito, provocò la sedizione che offerse origine a quella tragedia. Accenno questo fatto sulla fede di Filostorgio (n). Esso non trovasi in Auiuiiano, ma la parte dell’o|>era che in ordine cronologico avreblic dovuto contenerlo, non pervenne sino a noi. Consolando per altro due interi capitoli a narrare i vizj ed i delitti di Costanzo, il chiama sterminatore di tutto it suo parentado, ed uomo che per assicurare il suo dominio imitò la crudeltà dei Domiuani, dei Comodi e dei Caligola (b). Carnefice della propria casa l’appella anche sant’Alanasio (c), ed Eutropio (</) autore il dice della sedizione. Se egli avea d’uopo di un pretesto per eccitarla, il carattere di Eusebio era singolarmente proprio a somministrarglielo, ed a rappresentare la parte del dramma attribuitagli da Filostorgio. Del giuramento preso da Costanzo per la sicurezza de’ suoi congiunti, parla lo stesso Atanasio nell’Epistola testè citala, ed a quello sembra alludere il nostro autore allorchè afferma che i giuramenti di suo cugino tanto sono leali che meritano di essere scritti nella cenere (e). Il La-Bleterie si limila a soli sospetti a carico di Costanzo (f), ed il pio Tiraboschi (£) affermando il consenso degli scrittori intorno al reo carattere di questo principe, stima di dover col silenzio rispettare il nome del S. Vescovo di Nazianzo suo panegirista.


(a) Lib. a, cap. 18.

(b) Lib. ai, cap. i5.

(r) Epist. ad Solit.

(d) Brev. n.° X.

(«) E<< lapfxt yfxp’ut. Jul. ad Alhcn.

(/) Vie de Jul., pag. j 8.

(g) Storia, cc., lib. 4, pag 3j5. (6) Secondo Gregorio il celebre Marco vescovo d’A rettila (n) che sofferse la persecuzione sotto Giuliano, fu imo di coloro che contribuirono al suo scampo. Necdum illud adjeci, hunc ex iis unum fuisse, qui sceleratuni iUum et ejcecmndum, tuni cum gcnus ipsiits totum periclitaretur, serva rari!, furi inique subduxerant (b)., Noi avremo occasione di vedere altrove sino a qual termine debba dirsi giusto il rimprovero d’ingratitudine qui fatto a Giuliano.

(7) Giuliano nacqne li 6 novembre 33 1 da Basilina seconda moglie di Giulio Costanzo. E ben grosso il granchio che piglia Suida alla voce Giuliano. Ei lo fa nascere da Dal mazio altro fratello di Costantino, e da Galla che fa matrigna a lui, e madre a Gallo (c).

(8) Può desumersi la vita privata di Giuliano da Libanio Orai. Parent., da Ampi., lib. i 5, cap. 1, 4, 6, e con cauta riserva dall’orazione agli Ateniesi e dal Misopogono.

’(9) Mediocris erat statarie, capillis tamquam pexisset mollibus eie. Uumeris vastis et lati s, ab ipso capite usque ad unguium summitates lineamenlorum recto compage, unde viribus valebat et cursu (d). Ma con occhi assai diversi vedevalo san Gregorio, e ben altro presagiva a Ini quell’infanzia: neque enim mihi bonum quioquam significare videbanlur cervix minime firma, humeri quos subinde agitabat et allollebat, oculus vagus et oberrans, ac furiosum quiddam intuens, pedes instabile s et titubantes, nasus conlurneliam spirans, vultus lineamento ridicula idem significando, risiti protervi et exastuantei, nutiis et renulus omni rat ione carentes, sermo hierens

(a) Città della Siria.

(b) Orat. 3,-pag. 82.

(c) ItoXiattf. O wafafiaìit aw’i A xXftartv aSiXipì «svi (K«r«vr<ia) ’•< Mdf’ts TaXXms 7 ittfi’.

(d) Atmn. lib. a5, cap. 10.

Prefazione di S- P. alle Op, se. di Giuliano. 7 spiritusque intercisiti, interrogationes pracipites et imperita, responsione s his nihilo meliores, alia alias insultantes, non antem graves et constante s, nec eruditionis ordine progredientes (a). Pittura è questa senza dubbio di grande artefice, ma il Santo ritrasse nell’apostata il già posseduto dal demonio.

(io) Jul. in Misopog.

(n) Gli antichi anzi riputarono il paganesimo come la prima religione di cui gli uomini goduto avessero il l>eneficio. Nella sua calla, nell’Egitto cioè, l’origine del politeismo perdurasi nella notte del tempo. I sacerdoti, che rantaransi di remoti ed esatti registri cronologici, affermarono al loro ospite Erodoto (b) che la egiziana teologia distinguerà nell’ordine del tempo tre maniere di divinità; vecchie in numero di otto, tra le quali annoveravasi Pane; nuove che giungevano a dodici, e tra queste una era Ercole; e finalmente altre ancora di più novella creazione da queste ultime generate, tra le quali riveritasi Dionisio. Dalla deificazione di Ercole moderno iddio, c da quella di Dionisio, che detto abbiamo essere ancora de’ più moderni, sino al regno di Amasis, che fu contemporaneo di Solone e di Policrate, contavano essi per la prima un periodo di diciassette mila anni, ed nno di quindici mila per la seconda. Se tale era dunque l’antichità dei moderni iddi! di quel popolo, quale diremo che quella fosse di Pane e de’ suoi venerandi collegbi?

Rimpetto a sì remota origine nuova affatto può dirsi la greca mitologia. Eilla non è che la primogenita figlia dell’egizia, e forse può anche un tale primato contrastarsele, da cni co’ nomi degli iddi! trasferì ai proprj c nuovi suoi Ercoli e Dionisj, l’uso delle processioni, delle sacre radunanze, e di quasi tutti i riti religiosi che il corredo materno forma ta) Orat. 4, pag. ilo.

(i) Lib. i, n.° 44 e >45vano (a). Sembra però che alla gcuilrice rimanesse come proprio e speciale carallere il culto degli animali. Vellejo presso Cicerone (A), ricercando perchè da noi sogliasi rappresentare la divinila sotto umana forma, rinviene sagacemente la causa nell’opinione in cui siamo dell’eccellenza della nòstra sopra le altre specie di viventi, ma rappresentarla Sotto le forma de’ più vili animali, parrebbe al certo l’ultimo termine delI’ umano delirio, se un popolo, allorchè egli stesso c I’ institutore della propria religione, non fosse a credersi che seguitasse I’ impulso delle sue particolari necessità, che è «pianto dire venisse a formare una religione per lui a sufficienza ragionevole. E poichè di sentiero già uscimmo, ci si conceda un cenno su d’un passo, già da altri considerato, di Strahone che molli secoli dopo Erodoto viaggiò fra gli Egizj. Favellando egli dei popoli che posti sono al settentrione del Della, descrive de’ (empj di Bubasto, d’Eliopoli ecc. in cui o non iscorgevasi simulacro alcuno, o essendocene, era esso di forma puramente animale: tufiulacrum vero ani milioni, olii non mi honiinis formimi, seti bestia: alicitjus effictuni (c). Wahurton credette poter tpiindi conchiudcrc che la forma animale, fosse la più antica maniera di rappresentare la di-, vinilà tra gli Egizj. Che che ne sia intorno a ciò, l’asserzione di Slrahone non sembra appieno corrispondere a (pianto tiene riferito da Erodoto, ed ai monumenti del culto egizio a noi pervenuti. Bicordo l’Alicarnasseo delle divinità a testa di animale, od anche a semplice simbolo, come di Giove col capo di Ariele, d’isidc colle corna, di Pane Capripede ec. (il).

(a) Eroi!, lib. a, n.° 4a> 47, 4<> 58, 1 4 r », >40.

(A) De Nat. Dcor., lib. a.

(c) 3’iò’if, ì Km’ai3fèxtfitf$»y, mXXm’lm mXuynt

7)ȓr, pag. 8o5, edit. Casaub.

(d) Erod., lib. a, n.° 4» e 40. ma di forma intera non credo, avvegnachè sia noto «die parecchi animali riferiti fossero appo quei popolo non solo come sacri, ma eziandio come iddi! (a). Questo stesso Diserrasi nell’Osiride, nell’A nubi, e nelle altre tre figure che a testa od a’ simbolo di animale ci rimangono (b), e cosi Api rappresentarasi colla testa di rilello innestata sul corpo umano, non altrimenti che il vitello d’oro degli Ebrei. Forse Strdbone prende ivi la parte pel tutto.

Nè la diffusione del politeismo provasi già meno della sua antichità. Gli Egizj non solo ma i Pelasgi, antichi greci di Arcadia che popolarono Alene, e poscia migrarono in Etruria, prima di quella che appelleremo moderna Grecia, riferivano gl’iddìi del paganesimo, e da essi gli Ateniesi ricevettero il culto di Giunone, di Vesta, e di altre Divinità (c); prima i Lib) adoravano Nettuno, ed i Fenici un tempio additavano in Tiro, esistente da due mila trecento anni sino ad Erodoto (d), mille novecento circa sino ad Omero ed Esiodo, che pur furono i primi ordinatori del greco gentilesimo. Celebri sono gli Dei alati di questi ultimi, e l’Apollo cartaginese e le loro statue di smeraldo (e). Non meno antico, nè diverso è il colto degli Etruschi, sia che ricevuto l’abbiano dagli Egizj, dai Fenici o da’ Pelasgi loro progenitori, e sebbene in qualche barlume della loro, cosmogonia conservatoci da Snida (f) siasi preteso riconoscere de’ vestigi della legge

(a) E sovverebio avvertire che intendiamo forma intera del simulacro del nume a cui il tempio è sacrato; perchè le sfingi ed altri animali scolpiti a titolo di divozione e di ornamento, comuni erano a tutti i tempj egizj.

(б) Winchelman, Storia dell’arte ec,, lib. i, cap. a.

(c) Erod., lib. a, n. 5o.

(il) Lib. a, n. 45 (e) App. Libych-, pag. 5j.

(/) In voce TUjrrrtni.

I Molaica o della stoica filosofia, i loro aruspici, i loro sacri ficj, ed i tanti monumenti delle arti loro a noi pervenuti, troppo attestano che un politeismo quasi affatto al greco somigliante, formava la pratica loro religione (a), onde siavi mestieri rammentarlo. Il resto dell’Occidente, prima dell’anmcnto di Roma, offre osenre e deboli tracce alla storia, ma nnHa meglio prova la diffusione di quel culto, quanto l’aver ella stessa in ogni tempo adottato i numi de’ popoli conquistati; dal che deesi inferire che di natura fossero a quella dei proprj somigliante.

I Persiani sembrano formare nna eccezione nel mondo antico. Non chiudevano essi la Divinità ne’ tempj, e non rappresentavanla con simulacri. Pnre che cosa altro diremo la loro religione che nn politeismo rivolto al culto degli Astri c degli Elementi? e senza dire della moderna sentenza che tutti i culli vuole da tale origine derivati (b), che cosa altro diremo il greco paganesimo spogliato delle favole popolari, che il cullo del Sole, della Luna e degli Astri, considerati come materiali rappresentanti di esseri immateriali (c)? riverivasi però Giove anche da’ Persiani, avvegnachè per questa Divinità essi intendessero la volta de’ Cieli, c con due nomi di nn suono medesimo di Milrns cioè, e di Mithras adoravano col primo Venere, e col secondo Apollo o il sole (rf), sotto la quale appellazione ricevette questo Dio anche la cittadinanza delI’ Olimpo romano (e), e l’uso pur essi aveano dei sacrificj,

(a) Winchelman, Storia deir arte ec., lìb. 3, cap. i, deduce una forte prova dell’origine greca dell’Etruria dai monumenti etruschi che tutti rappresentano o storia greca, o greca mitologia.

(4) È noto essere questo lo scopo dell’autore dell’opera sulla origine dei culti.

(c) Julian. in Cyrill.

(d) Eroe!., Kb. i, n. i3a.

(e) Plutarco, nella vita di Pompeo, afferma che i Romani appresero questo cullo dai pirati sconfitti da Pompeo. Note sono le inscrizioni. — Deo eoli incielo Milhrae, e numiiii inviclo Miihrae. bcnchc direni da quelli de’ Greci e degli Egizj (zi), e la diviu.iz.ione inerente all’crcditariu sacerdoiio de’ Magi, tenera appo dì essi le reci di oracoli.

Maggiori, non solo, ma grossolane tracce di politeismo offrono gli Assiri, sebhcue abitanti lo stesso cielo de’ Persiani. Celebre è il tempio di Giove Belo, ed il cullo che da essi prestnrasi a Venere adorata sotto il nome di Milita, per cui ogni donna babilonese tenuta era a mescolarsi una’ rolla durante il Tjier suo con uomo forestiere (b). Mei tempio di Giove clic sorgeva sull’estrema di quelle torri l’ima all’altra sovrapposte, clic l’idea risvegliano di un osservatorio astronomici», non redensi, è vero, simulacro di nume alcuno, ma i Caldei affermavano che in quella vece il Dio stesso, a somigliamo di Apollo l.icio, visitava ogni notte la sua casa per giacervi con femmina mortale (c), onde statagli apparecchiala mensa c letto d’oro. Un simulacro però d’oro di Giove sedente, con isgabello d’oro, ride Erodoto in altro tempio posto inferiormente nello stesso sacrario di Belo, ed i sacerdoti assicurarono che un’altra statua di Gioie anch’essa e tutta d’oro, alla dodici cubili, erari stata non guari prima in quel sacrario medesimo. Vuoisi dunque da ciò conchiiidere che tempj c simulacri non vietava agli Assiri il lor colto, e forse un cenno essi meritavano da Winchelmann che pur tratta dell’Arte presso i Parti ed i Persi, ed attribuisce alla loro religione, lo scarso progresso che fecero nelle arti del disegno (</).; •

La legge di Mosè intesa principalmente a preservare il suo popolo dalla mescolanza di straniere religioni, gli proibisce il

(a) Erod, lib. i, n. i 4 o.

(i) Erod., lib. i, n. 199.

(c) Erod., lib. i, n. 158 c 1 83.

(d) Winclicl., Storia ec., lib. 1, cap. 5. cullo degl’Idoli dei paesi confinanti (n): regnava dunque appo questi sino da quel tempo l’idolatria. E abborrendo dalle sofistiche ed empie investigazioni degl’increduli, esiteremo dire che vestigi di paganesimo rinvenir si sognò pazzamente anche nella legge medesima di Mosè? la misteriosa natura degli Angeli da essa accennali, non si potè paragonare a quella dei Genj c de’ Semidei della favola? nel celebre passaggio della Scrittura: videnles filli Dei, (Mas hominurn quoti esserti pulchra, acceperunl sibi uxores, ex omnibus quas elegerunt (b\ prima che il concorde sentimento della chiesa promosso da S. Cirillo (c) e da S. Agostino, veduto avesse in esso adombrati i figli di Seth e la prole di Cain, non si lessero accoppiamenti che poterono rassomigliarsi a quelli di Apollo, di Diana e di tant’altri? Nè i misteri della religione rivelala, prestarono minor materia a ree comparazioni. La trasmutazione insegnata dal mistero Eucaristico, non fu ella detta un’immagine della trasformazione di Giove io pioggia, in aquila ecc.? L’incarnazione del Verbo sul banco della Vergine, non una somiglianza della prole del cervello di Giove? la sconosciuta vita che trasse in Giudea il Salvatore, non fu ella paragonala a quella pure sconosciuta che per 1" istruzione degli uomini, trassero nella Troade Mercurio ed Apollo? Valg ano tali cose solo a conchiudere che I’ universalità del politeismo, potè prestare materia ad ogni più strano e sacrilego ragionameulo. i

Prima di abbandonare questa nota venuta ornai a termini di una dissertazione, facciasi anche un cenno intorno allo stato d’idee religiose che nel suo scoprimento offerse l’America; l’infanzia di una moderna società, naturalmente ammaestra

(a) Dav., psal. 1 13, 4 (4) Secondo la Vulgata, (c) Cyrill. in Jul. intorno all’infanzia delle antiche. Il si®. Robertson (a) distingue in queste idee tre ponti, o stazioni diverse, a cosi dire. Le tribù in istato di natura sembravano non avere nessuna nozione di sovraumane potestà che al governo presiedessero dell’universo, quelle in qualche società riunite e che d’un passo allontanate erausi dalla nativa barbarie, riconoscevano nn politeismo puramente a difesa, a cosi esprimermi, o più presto una pluralità di Genj e di semidei a cui attribuivano le calamità della spezie, ed i disordini della natura, e cui imploravano non lauto pel conseguimento de’ beni, che per la cessazione de’ mali; e le tribù finalmente più incivilite, o, a parlare più adeguatamente, meno selvagge delle altre, professavano nn politeismo astronomico, assai somigliante a quello de’ Persiani. In una sola parte di credenza videsi un mirabile consentimento da nn capo all’altro d’ America: la dottrina della vita futura regnava del pari e tra le più barbare, e tra le più incivilite tribù.

Questa successiva mutazione d’idee religiose nel selvaggio può per avventura sembrare propria del suo progressivo dirozzamento. L’universo annunzia una potestà sovrannaturale, ma all’uomo contemplativo. Occorre che lo spirito consideri gli effetti onde conosca la necessità di ammettere la causa (i), e I’ uomo io istato di natura poco diverso dal bruto, trova ancora la sua mente a tale sforzo inferiore. Non così avviene della credenza di una vita futura. Ella è un sentimento del)’animo, non un’idea che proceda dalle operazioni dell’intelletto, una cara speranza infine della sofferente debolezza tanto più propria della vita selvaggia, quantochè questa accresce i mali della spezie, e così strettamente collegala al fa) Storia d’America, lib- 4, pag. 353.

(t) Ripeto qui un’idea del signor Robertson, che somministrò origine alla mia profezia. l’umana natura che, con sorprendente uniformità, trovasi sparsa in tutti i tempi c fra gli uomini tntti del vecchio e del nuovo continente. Seguitando il selvaggio con le nostre conghictture, non appena le sue facoltà usciranno dalla loro più inerte c pigra indolenza, che il vedremo naturalmente rivolgersi a ricercare le cause di quelle tra le cose che lo circondano, che più la sua specie interessano, e colpiscono la sua fantasia. L’abilndine il rendette incurioso dei giornalieri benefizi della natura; e siccome questi non procedono che dal regolare adempimento delle sue leggi, così egli non avrà d’uopo di spiegare a sè stesso che di queste leggi (’eccezioni, cioè i disordini della natura stessa; i quali mentre arrccangli una reale interruzione di l>cni, sbalordiscono anche il suo spirito colla meno frequente loro apparizione, fon il senso quindi coesistente della salute, ma le malattie della specie, non l’ordinario corso del sole od il ritorno delle stagioni, ma la strage del fulmine, la bufera che svelle i nidi della sua cacciagione, lo straripamento de’ fiumi che innondano la sua tana, questo è ciò ch’egli ha bisogno d’intendere, e per cui cerca un riposo all’inquietudine del suo spirito. Creerà dunque egli allora dei numi a quali attribuir possa le ignote cagioni di tali fenomeni, e non potrà essere ch’essi non sieno di una natura malefica, se autori gli si palesano di tanto suo danno. Concepire un essere puramente intellettuale, sarebbe nno sforzo superiore alla capacità del suo spirilo: la sua composizione non potrà essere che il risultamcnto delle sue idee antecedenti. Poichè il mondo visibile gli si offre tutto corporeo, trasporterà questa idea all’iuvisibile, poichè l’amore di sògli rappresenta la propria forma come più prestante di quella degli altri animali, non potrà non accordarla ad un essere ch’egli jlima a sè supcriore, poichè infine egli scorge che dato è anche all’uomo operar qualche cosa, assocerà sè stesso nella sua creazione, e comporrà i suoi numi di quella mista natura che partecipa della sua scienza e della sua ignoranza, di ciò ch’egli intende che in potestà d’uomo sia fare, e di ciò. ch’egli reputa a questa potestà superiore. Popolerà dunque il mondo di genj.e di semi-dei.

Ma alcuni passi ch’egli ancora aranci nel suo dirozzamento la gratitudine, affezione che passando al cuore per mezzo deU’infelletlo, suppone sempre un qualche maggiore sviluppo nelle mentali facoltà, sarà per lui artefice di numi come. Io fu prima il terrore. Migliorando la sua esistenza col suo incivilimento, la sua ragione frenerà lo sbigottimento del suo spirito per gli apparenti disordini della natura, dolcemente arrestandolo sulla infinita sapienza delle sne leggi. Alzerà egli allora lo sguardo alla volta de’ Cieli come alla prima fonte da cni ella disserra i suoi heneficj, e sbalordito atterrandolo, riempierà l’olimpo dì numi. Nel perenne corso degli astri Tedrà l’immagine di una. natura immutabile, nella fecondità ch’essi spargono il portento della creazione, nel riso che la loro presenza diffónde sull’universo, e nell’oceano di luce che li riveste, i degni bcncficj e le degne sembianze di presenti e visibili Divinità. t

(ta) Come il paganesimo noti uvea avuto un primo institntore, così aver non poteva un regolare sistema di dottrina. Nato in diversi tempi dal bisogno e dalla riconoscenza, reggevasi per incerte memorie e pratiche tradizionali. 11 libro di Evemero intitolato Iffa-Avavf’?’ Storia sacra comparso sotto i primi successori di Alessandro, da un passo di Diodoro Siculo conservataci da Eusebio (n), sembra che altro non fosse ohe una colleziono delle iscrizioni fatte sulle tombe degli eroi deificati, e conservate ne’ tempj che sulle tombe stesse inalzatami alia loro memoria, come poscia su quelle de’ Martiri edificaronsi le chiese cristiane.

(a) l’rarpar. Evang., liti. a. (i3) Questo è appena il periodo, o si determini lo stabilimento della nostra fede colla conrersione di Costantino, quale che sia l’epoca in cui si voglia collocarla, o col celebre editto di Milano dell’anno 3t3, il primo che concedette il pubblico esercizio del cristianesimo. Non ancora però era esso, a propriamente favellare, la religione dello stato, e non è inutile osservare che per una contraddizione, che manifesta il bisogno che area la politica di rispettare le consuetudini dell’antica fede, gl’imperatori cristiani sino a Graziano, che fu il primo a rifiutarlo, assunsero e ritennero gelosamente il massimo pontificato. (14) Leggesi nel codice Teodosiano (rt) un editto di Co. stanzo che commette la chiusura de’ tempj e la sospensione de’sacriflcj, sotto pena di morte e perdila di beni, ma è sentimento degli eruditi che sia esso più presto una minuta di legge intrusa nel codice posteriormente (b). Checche ne sia intorno a ciò, se questo editto fu pubblicato, non appare certo che sia stalo eseguito. Quattro anni circa dopo la data di questa legge, l’anno 357, Costanzo visitò l’antica capitale, e da quanto intorno al soggiorno che vi fece tramandarono a noi due scrittori pregevoli ‘entrambi, e posti in poca distanza di tempo I’ uno dall’altro, cioè «I celebre Q. A. Simmaco pretore urbano sotto Teodosio, e lo storico Ammiano, dobbiamo conchindere che, nella capitale almeno, professavasi pubblicamente il paganesimo sino quasi alla fine del quarto secolo. Vero è che quest’ultimo descrivendo benchè distesamente le cose allora operale da Costanzo, non entra ne’ particolari toccati da Simmaco in favore della religione pagana, de’ quali tra poco favelleremo, ma tuttavia accompagna il suo viaggiatore ne’ lempj della dea Roma e di Giove

(a) Lib. 16, n. X, leg. 4 - ’

(/>) Gibb. della ilccad. ec. ilcll im. ii., cap. 17. Capitolino, e il rappresenta compreso ili riferenti pei montimenti della patria religione. Nè il suo silenzio intorno a quei particolari, sembra che indebolir possa la testimonianza di Simmaco; perciocchè non fu già che da Costanzo si giorasse al culto pagano con nuore inslituzioni onde avessero a trovar luogo nella narrazione storica di Ammiano, ma sì col non aver recalo nocumento alle antiche, ciò che naturalmente innestatasi nell’orazione di Simmaco, dirètta ad implorar la tolleranza del culto stesso. Or dunque questi nell’acccnnala orazione (<i) a Teodosio, in cui implora che ristabilito venga l’altare della Villoria nel primiero suo posto della curia romana, e che ad ambi i culti cristiano e pagano sia conceduta una libera ed egual tolleranza, volendo spronare il suo principe con l’esempio della moderazione palesata da Costanzo in quel suo soggiorno, così si esprime: accipiat celernilas veslra alia ejusdem Principi’ facta, qttce in usura drgnius Irahat. JVil ille decerpsit sacrarum virginum privilegio, decrevit nobilibus sacerdolia, Homanis caeremoniis non negavi l irnpensas, et per omnes vias relernae urbis laelum secutus Sellatimi, vi dii placido ore delubro, legit inscriptn fastigiis deorum nomina, percunctalus eli lemplorurn origines, miratus est conditores. Cumque alias religiones ipse sequeretur, has servavit imperio. Da qui dunque veniamo a conoscese che ancora oltre la metà del quarto secolo, sotto il regno di un principe Ariano quale era Costanzo, celebrato come uno de’ più ardenti difensori della fede, l’ordine delle Vestali riteneva i suoi privilegi, percepiva i suoi emolumenti, ed esercitava senza riserve il suo culto, le dignità sacerdotali erano un’onorevole distinzione della nobiltà, le feste religiose celebravansi col solito dispendioso splendore, e le inscrizioni che i nomi esprimevano degl’iddj leggevansi ne’ frontespizj de’lempj. Pio" 1

(a) Epist., lib. X, n. 54. rediamo eziandio per- questa orazione che alla fine del secolo stesso, e dopo la breve, ma non interrotta successione di rar) principi cristiani, poteva un pretore perorare sotto un imperatore ortodosso la causa del gentilesimo, chiedere, come necessario a contenere la fede de’ giudici e dei contendenti, il ristabilimento di un altare nella curia romana, e pretendere pel cadente sno culto quelle ampie concessioni che pongono il tollerato in perfetta eguaglianza del pubblico.

S. Ambrogio, che alcuni anni prima sotto Graziano erasi opposto alle stesse domande di Simmaco, ed a cui non manca chi attribuisca la persecuzione che poscia gli mosse Teodosio, rispose all’orazione di lui con altra diretta al giovane Valentiniano, ed il silenzio di questo santo intorno alle cose attribuite da Simmaco a Costanzo, è una novella prova delia loro veracità; come un’altra ne è del pari quello di Aurelio Prudenzio, poeta cristiano dell’età stessa, che all’orazione di Simmaco rispose con due interi libri di versi. Senzachè riesce soverchio il dire che un pretore di Roma, un uomo della fama e probità di Simmaco, non avrebbe voluto asserir dei falli che, dove falsi fossero, contraddetti li avrebbe la testimonianza del principe a cui, rivolgeva il discorso, non meno che quella dei contemporanei.

Noi non saremo al certo i lodatori nè dei sentimenti, nè dell’eloquenza di Simmaco, troppo vilipesa dal Tiraboschi (<?), ma non sappiamo esimerci dal considerare queste due orazioni, di S. Ambrogio e di Simmaco, sotto un aspetto assai più importante. Delira miseramente il pagano allorchè appella la sterilità dei raccolti e la fame che seguitavali, una punizione degli irati suoi numi pel negletto loro cullo, e per la miseria in che languire laseiavansi i suoi sacerdoti; ma parrà per avventura ch’ei favelli da discreto credente, e da non ispregevole filosofo, allorchè implora dal principe la lolle (a) Storia ec., voi. 3, lib. 4, pag. 4’3 ranza ilielro questa giusta osservazione: elidetti spectanius astra, comune cedimi est, idem nos mundiis involvit. Quid interest, </iia i/uisi/ue prudenti a veruni inquinai? uno itinere non polest pennellili ad tam grande secretimi. A cui il divino Amlirogio con <|iiella gloriosa fermezza che annunzia l’arcivescovo il quale sarà per trarre a pubblica penitenza il suo imperatore, risponde: quoti vos ignoratisi id nos Dei voce cognovinius. F.l quoti vos suspicionibus quterilis, nos ex ipsn sapientia Dei et ventate comperluni habentus. Non congruunt igitur vestra siobi senni, f’os pacati Diis vestris ab imperatoribus obsecratis: nos ipsis imperatoribus a Christo pacati roga mas. Così dun’qne Dio squarciò per Ambrogio la densa notte con cui ricopre ì suoi misteri!

(là) I falsi, coloro che abbracciavano la nuova religione per piacere al principe o per paura di lui, i martiri quelli che preferivano di piacere al ciclo.

(1 6) Sembra in fatto che si voglia maliziosamente far intendere oltre il vero, allorchè si ripete che Giuliano abbia abbandonata la religione de’ suoi avi.

(l^j) Secondo Zosirao (a) la conversione di Costantino non avrebbe avuto effetto che dopo la morte di Crispo c di Fausta. Il passo è notevole per la sua. ingegnosa malignità. Dopo avere narrata I’ uccisione di Crispo, ed il soffocamento di Fausta, l’autore aggiunge: Il orimi ipse sibi consciiis, et preeterea conlemptee sacranientorum religionis: ad flamines accedette admissorum lustraliones poscchat. His respondentibus, non esse traditimi lustrntionis modani, qui tam foeela eluere pianila possel. tFgyplius quidam, ex Hispania Romani delatus palatinisque mulierculis familiaris Jaclus, et ad Constantini colloquiala admissus, sententiam doctrinee chrislianoruni habere vini abolendi quodeumque peccatimi confirmavil, et id

(a) Itisi, nova, lib. a, pag. 180. ipsnm atleo polliceri; nimirum acceptanles earn homines impios, tnojc orimi delido liberaci. Eam orationcm i/iium non gravate Constantinus accepisset, ac palata inissa facerei, percepii iis qua hic /Egyptius offerebal, principimi i hoc deilil, ut divinationem sospettimi haberet. Nani quod ei multa res prospera; per liane priediclie fuissent, eventium/ue re ipsa sortita; verebntur, ne itidein aliis adversus ipsum hanc consulentibus, iti quoil futurum esse t, pradicerefur: atipie hoc Consilio iinpu/siis, ad hiiinsinoili abolendo se convertii. Con la prima parte di questo racconto Zosimo ripete un’accusa fatta al Cristianesimo da lutti i Gentili dell’era sua, e modernamente non obliala. Con la seconda cali assegna alla convcrsione di Costantino delle ragioni che dconsi ritenere false da ogni Cristiano, ma da ogni sensato uomo, non incompatibili eoa la natura umana. Dote anche però non si solesse ammettere la sospetta testimonianza di Zosimo, c certo che Costatilino non ricevette il battesimo che nell’ultima malattia della spiale morì.

(1 8) Intorno al carattere di Gallo può consultarsi Annidano (a), e quan|o alla sua religione S. Gregorio nell’eruzione terza di (pici le contro Giuliano (ft), dove raccontatisi i prodi») avvenuti nella fabbrica del tempio di S. Marna’ martire di Cesarea, intrapresa dai due fratelli. La terra rigettava crollando la parte dell’opera clic facevasi ediGcare dal futuro apostata, paragonata ivi al sacriGzio di Cain; mentre con meravigliosa celerilà sorgeva in alto quella che costruir facevasi da Gallo, accetta al Signore come giusta ed iutera, uon altrimenti che il sacriGzio di Abele: alter ipiidem vere et serio pietatem profilens (quamvis enini natura ferocior ac fervidior esset, vere tamen ac sincere pietatem colebat). Così Gallo non era per S. Gregorio che un ccrvel balzano, orgoglioso, vivace. Fra

(a) Lib. j 4, cap. i c 6. le lettere di Giuliauo re n’ha una di suo fratello scritta dalla sua residenza di Antiochia mentre era Cesare, a lui che trovavasi nella Ionia. Esprime in essa la penosa sollecitudine in cui posto aveanlo le nuore corse dell’apostasia di lui, e l’esorta a perseverare nel suo amore per la fede cristiana. Appare anche da cotal lettera che Gallo era debole e feroce, ma pio.

(19) Gallo, di cui sopra, creato da Costanzo Cesare del1 ’Oriente. Egli era suo cugino, perchè nato da Giulio Costnuzo fratello di Costantino. Il fece morire a Pota nell’I stria, dorè alcuni anni prima Costantino fatto area trucidare I’ infelice.e raloroso Crispo. Anche suo fratello confessa che Gallo era indegno di regnare, ma sostiene che degno egli era di vivere (u). Forse sarebbesi espresso più adeguatamente dicendo, che la insufGcicnza e debolezza sua, permettevano a Costanzo di lasciarlo in vita senza proprio pericolo. Ammiano deplora a questo modo la turpe morte a cui fu fatto soggiacere da suo cugino: et ita colligatis manibus in modtini noxii ciijiisJnm Introni s, cervice nbscissn, ereptaque vultus et capitis

et provinciis formidaturn (b). Il Mazianzeno non polendo in questa occasione evitare la difficoltà di biasimare la condotta di uno dei due principi cristiani, salta il malpasso con bravura di suo pari: àc Casari quidem et imperlimi et vita f inerti accipit: qua mirri interea uccide runt, silenzio premunì, tam ejus grafia qui fedi, quam fjus qui passus est: quorum utriusque pie tate in venerans, temeritatem hnudquaquani laudo (c). Mota, industre parola temeritatem! quanto alla religione di Costanzo V. Amili., lib. 21; Fleury, iiist. Ecclèsiast. tom. 11; ed il P. Maimbourg, Iiist. de l’arianisme.

(a) Jul. Ad Athen. (A) Lib. 14, csp. 5. (c) Oraz. 3, pag. 5;. (ao) E questo pure il sentimento Ji La-Blet. V. De Jul. p. ai, e dì Gi bbon De la dècad. etc., cap. ao.

(ai) Udimmo anche modernamente, ed è nolo essere stata altresì in addietro una questa delle accuse fatte al segretario Fiorentino, rinovellarsi la dottrina che lo spirilo della religione cristiana, possa essere poco propizio a nutrire la fierezza dell’animo ed a sollevarlo all’orgoglio delle armi. Che che ne sia di. ciò, la fede potrebbe, noi crediamo, assai di buon grado consentire ad una accusa che sarebbe appunto luminosissima prova, dove di prove ella avesse d’nopo, della sua santità, se l’esperienza non rendesse manifesto che o falsa è l’accusa, o più veramente che ben pochi leali seguaci abbia la religione. Per altro fu questo in ogni tempo il sentimento dei pagani, ma esso prevalse specialmente nel regno del pio successore di Giuliano, che col trattato di Persia venne a segnare il primo smembramelo dell’impero. Una tale sentenza vuole esprimere altresì Simmaco allorchè nella sopraccitata orazione a Teodosio fa dire a Roma: Vìvam more meo </uia libera sum. Ilio cullus in leges meas orberà redegit, hcec sacra Annibalem a trnenibus, a Capitolio Senoria s repulerunt etc. Sotto Arcadio ed Onorio, figli e successori di Teodosio, l’impero venne a farsi preda dei barbari, e pochi anni appresso a miseramente perire. Se qualche ostinato Gentile ancor rimaneavi, qual funesta c luminosa prova non poteva egli allegare della profezia di Simmaco? Benchè Giuliano avesse con l’armi assicurato l’esterno splendore dell’impero, tuttavia a cagione dell’interne piaghe chcstrnggevanlo egli il riputava nella sua attuale decadenza. Tenea per fermo che lo spirito d’intolleranza, e. le guerre religiose de’ cristiani, tratto avrchbonlo al suo totale disfacimento. Così egli scrive ad Arlabio: che tutto nello stalo perì a cagione de’ Galilei, e domanda agli Alessandrini: t/ual

Prefazione di S. P. alle Op, se. di Giuliano. 8 vantaggio ricavato mai avesse la repubblica dalle dottrine di quelli (a)?.

(za) La dottrina di Platone nata 36oanni aranti G. C., dopo la varia fortuna che corso area nella scuola Alessandrina, e nelle posteriori dispute delle sette dei Docili e dei Gnostici, dopo che sotto il regno di Kerva, Dio stesso rivelando all’apostolo S. Giovanni che il Logos crasi incarnato nella persona del Salvatore, degnato area d’imporre un line alle dispute, risorta era con infausto corteggio di grossolane imposture nei platonici del terzo secolo, tra (piali riverivansi corifei e capi-scuola Plotino, e Porfirio suo discepolo, antecessore pur egli e maestro di Jamblico, che fu anlcssrgnano a vicenda della scuola del secolo vegnente. Il sistema religioso di Giuliano nella sua parte speculativa seguitava rispettosamente l’idec del primo maestro. Riconosce egli in questo sistema l’esistenza di una prima causa autrice dell’universo, aheterno immortale, ed invisibile agli occhi dc’mortali. Ogni immediata creazione della sua volontà, partecipa necessariamente degli’ attributi della sua natura. L’anima ragionevole è opera immediata della sua volontà: dunque ella è immortale. La perfezione del mondo fisico esigeva però degli esseri organizzati e caduchi. Se questi fossero stati P opera immediata di Dio, trasfondendo egli, come detto abbiamo, le proprietà della sua natura, gli enti creati sarebbero stati eguali al loro creatore, e la più vile delle cose create eguale a Dio. Fu dunque forza che per lui s’aftidassc un tal ministerio a inferiori potestà. A tale effetto generò egli varj ordini di minori Iddi, immortali si anch’essi, ma non per intrinseca condizione della loro natura; perciocchè tutto ciò ch’è costrutto può essere distrutto, ma pel volere di Dio, il (piale più possente della natura stessa, non può nell’ordine della sua giustizia,

(a) Jul., cpist. n. 7, 4j. permettere la «Istruzione «li ciò clic è alato creato nell’ordine della sua ragione. A queste: subalterne Divinità egli commise la fabbrica del corpo umano, l’anima già essendo stala creata da Dio, e dei tre regni, animale, vegetabile e minerale, e«l a «juesle egli affidò la cura di governarli e riprodurli. Cosi si divisero gli ufGcj Marte, Venere, Minerva ec. Questi Munii possono talvolta visitare la terra, ina il loro abituale domicilio è il cielo. Essi sono invisibili agli occhi de’ mortali, ma simulacri visibili di essi sono gli Astri, eterna fattura pur questi «Iella prima causa. 11 Logos detto dai Platonici e da Giuliano Demiurgo! (a), è uua spirituale intelligenza, un’immagine dell’uiiiversal Padre, una immediata emanazione della sua natura. Egli ha il governo «Ielle subalterne Divinità, le quali sotto il suo reggimento esercitano il loro ministerio; egli classificò il mondo materiale, ed in lui anderanno a riunirsi le anime virtuose. IL Sole occupando nel mondo fìsico il posto ch’egli occupa ncirintellcttuale, ei l’elesse per suo domicilio c per suo rappresentante.

Su questa serie d’Iddii gli uni dagli altri dipendenti, fondavano i Platonici la loro scienza Theurgica. Prelendevasi da essi che col renderseli successivamente propizj, potesse l’anima dell’iniziato salire di grado in grado sino a godere della vista immediata del divino suo Autore, ed ivi assorta nell’abisso del Vero e del Bene divenire Dio ella medesima.

Deduco «piesta sommaria idea «Iella dottrina religiosa di Giuliano dalla sua opera contro la religione cristiana conservataci «(nasi per intero da S. Cirillo, e dalla sua orazione mi reggili Solerti diretta al suo amico Salustio, ma confesso che nè queste opere, nè le moderne esposizioni del sistema (ilatonico hanno potuto così al mio spirito rappresentarlo, che tutto il venisse ad abbracciare chiaramente. Gli attributi’ del

(a) Condito r. Logos confondonsi visibilmente con quelli della prima causa, e gli attributi del Sole con quelli del Logos. Ora questo astro è chiamalo ruyyu’ut del Logos simili nalus, ora considerando

le proprietà dell’immutabile sua natura, trova egli che a ragione è tenuto dagli uomini per un Dio, o per la sede di un Dio #«•» ’«i tti if’ttct ò»»A«C’v (<i).

Oltre le’sovraccennale, l’orazione in Deor uni Mnlrein, dove Giuliano imprende a spiegare la nota c scandalosa favola di Alij e Cibele, già prima interpretala da Porfirio, ed il lungo frammento del discorso intorno ai doveri di un pontefice, possono anche queste opere spargere qualche lume sul sistema platonico di quest’età, e sulle particolari idee di Giuliano. Tali componimenti sono una grande, è vero, ma infelice prova dcll’ingegno e della dottrina del loro autore. Qual vigore di mente non occorr’egli onde in que’ metafisici laberinti mantenere un metodo nel ragionamento? e di quante triste riflessioni non è ella feconda la vista dei penosi sforzi di un grande spirito intento a persuadere alla sua ragione i delirj della sua coscienza, e quella sì stretta colleganza in un sol uomo di grandezza c vanità umana? così intorno a queste materie fu scritta per tutti i tempi la sentenza: Ferdam sapientiarn sapientoni, et priulentiam prudentum abolebo (b).

(a3) Di questa sua inclinazione all’aslrologia così egli stesso ne parla. ltaque quoties in lethereum illuni splendorem conjiciebnni oculos puer, rapi extra se perculsa meni et attonita solebai; atque aileo non illuni tantum defixis infuori oculis optabam, seti etiam noclu, si quando sereno puroque ovolo faras progrederer, cueteris omissis omnibus, solus in cvelestes pulchritudines intentiti hterebam etc. Igitur et in illis contemplandis niinium studii ponere, et curiosus quidam esse videbar: ut me die inondi ex astris peritimi, quamvis adhuc irrida) Jul. in Oprili.

(t) Paul, cpisl. 1 ad Corinth. ’ berbera, non nenia suspicarelur. la reg. Sol. pag. i 3 i. Possono intorno alla magia di Giuliano consultarsi Faucher Mèco, de l’Accad. des Inscript., tom. 34, e la Mothe la Voyier. Art. Jnl. Un insigne esempio che non sempre facesse stima degli augurj, l’offerse nella guerra persiana, allorchè disprezzo i consigli degli aruspici etruschi, i quali assicuravamo sulla scienza loro, ch’era d’uopo astenersi dal combattere il giorno dopo che fosse apparsa nel cielo una meteora.

(24) Che Massimo gli avesse predetto l’impero, l’assicura anche Socrate, Hist. Eccles. lib. 3, cap, 1. Il dotto e Pio Tillemont (a) è condotto a sospettare per un istante che ’.l’ambizione abbia anch’essa potuto concorrere all’apostasia di Giuliano, ma cangia d’avviso sulla osservazione, che già i demonj vedevanlo con particolare affetto sino dall’infanzia.

(a 5) Il sig. Gibbon de la Dècad. eie., cap. » 5.

(26) Jnl. Op. epist, n. 42.

(27) E veramente se le pratiche de’ favoriti e. la debolezza de) principe metteano a pericolo la vita di Giuliano, allora pure che ignoravasi il suo paganesimo, che cosa egli attendersi poteva se deposta avesse.la simulazione? sarebbe anche a dire che questa scabbia deU’animo sino a tanto che non è rivolta a danno altrui, è più schifosa che rea, e che ben diversa è l’abituale simulazione che forma l’essenza di un carattere^ da quella che uno è costretto ad assumere per provvedere alla sua sicurezza.

(28) Costanzo simulò di voler conferire con suo cugino intorno alle cose deli’ impero, e giurò la sua fede per la sicurezza di Ini. Amm., lib. 14, cap. 4. V. anche nota n. 18.

(29) Intorno alle insidie tese a Giuliano, ed intorno alP opera di Eusebia vedi Amm., lib. i 5, cap. 2:

Julianum reoem perductum calunmiarum

(4) llist-de I. 3, Jul. memorabilem postea principem, gemino crimine, ut iniquitàs aestimabat, implicitum: quod a Marcelli fundo in Cappadocia posito ad Asiam demigrarat liberalium desiderio doctrinarum, et per Constantinopolim transeuntem viderat fratrem.

(30) Id ubi, urgente malorum impendentium mole, confessus est proximis succumbere tot necessitatibus tamque crebris, unum se (quoti numquam fecerat) aperte demonstrans. Amm., lib. i5, cap. l. Il Nazianzeno cerca di giustificare appo i Cristiani l’imprudenza di Costanzo ncll’ater tolto dalla oscurità privata suo cugino, senza prevedere che egli dava un nemico alla Chiesa, rappresentando quell’imperatore come uomo di una evangelica semplicità: re»/, ut dicebam, parum cauta est simplicitas, ac benignitati adjuncta est imbecillita!: minimeque is improbitntem sospiratile, cujus animus ab improbilale liber ac purus est. Ornt. 3, pag. 59.

(31) Queis adnitentibus obstinate, opponebat se sola regina. Amtn., lib. là, cap. f. Gli adnitentes sono i nemici di Giuliano, tra’ quali principalissimo I’ eunuco F.usebio prefetto del sacro cubiculo. Vedi allo stesso luogo l’elaborato discorso di Costanzo all’esercito, creando Cesare suo cugiuo.

(3a) Amm., lib. i5, cap. 1 e 17.

(33) Jnter hrrc Udente sorori Constantii, Juliani con j agi Caesaris, Romnm adfectionis specie ductae, Regina lune insidiabatur Eusebia, ipsa quoad vixerat sterilis: quaesilumque venenum bibere per f raudem illexit, ut quotiescumque concepisse t, imniaturiim abjicerel partimi. Nani et pridetn in Gal/iis quum inarem genuisset infantali, hoc perditlit dolo: quod obstetrix corrupta mercede, inox natum praesecto plusquam convenerat umbilico necavit: tanta talisque dili gens opera navabalurne fortissimi viri soboles apparerei. Amm., lib. 16, cap. 6. Non può intendersi quali ragioni movessero il signor Gibbon (34) Il Tillcmont ne ha raccolto diligentemente c|iios(c testimonianze. Fra le orazioni di Giuliano arri una ili lautlein Etisebiae Augnslae. Essa abbonda di luoghi comuni, ma non manca di quella modesta eloquenza ch’è propria del soggetto. Fosse per altro esso sterile, o Giuliano ri si prestasse a mal talento, la maggior parte delle lodi rivolgonsi all’illustre prosapia, i’l alla castità di Euschia.

(35) I suoi timori non erano senza ragione. Era comune arriso che la sua elezione fosse una rete che Costanzo tendeva alla sua inesperienza: illud tamen rumore lenta ubidite jactabatur, quoti Jttlìanus non levntnrus ìncommotia Galli arimi electus est, seti ut posse t per. bella deieri saevissima, rudis etiam Inni, ut aestinmbatur, ac ne sonilum quidem duraturus armorum. Amm., lib. 16, cap. 8.

(36) L’imboccatura «lei Reno oggi più non esiste. Esso si divide internamente in varj rami, e ra a perdersi in parte nelle sabbie.

(37) Le guerre Galliche si accennano brevemente da Giuliano ad Athen., e distesamente da Zosiino lib. a e 3, da Liban., orai. 3: e da Amm., lib. t6, dal cap. 7 al i3, e lib. 17, cap. 1, 2 e 9. Il signor Gibbon ha trattato questo periodo di storia coll’eloquenza e maestria sua ordinaria.

(38) Noi dorremo favellare anche altrote delle geste galliche di Giuliano. Zosimo rassomiglia la battaglia di Strasburgo a quella di Arbella. Descrivevi essa da Ammiano con gonfio stile ma con militare intelligenza nel lib. 16, cap. it e 12. L’esercito romano erasi schieralo in- una collina ricino al fiume. La cavalleria disposta per (squadroni era sostenuta nei fianchi dalla sua fanteria; ma rollane l’ordinanza dall’impeto de’ barbari, ella già abbandonata sarebbesi alla fuga, se Giuliano con virile fermezza ritenendo i fuggitivi non avesse reintegrata la zuffa. 1 nemici assalila aveano anche la riserva, e penetralo sino alia legione della dei Frinirmi, solita ad occapare il centro del corpo di battaglia, appellato nel linguaggio militare di quel tempo, la fortezza. Annoiano così conchiude intorno a questa giornata: caciderunt in hac pugna Romani quidem eext et Iti, rectores vero ijualuor: ex Alemanna vero sex rnillia corporata sani inventa in campo constata, et inaestimabiles nwrfiioruin acervi per timlas fi lanini s ferebanlur. Funi Julianus, ut erat fortuna sui spectatior, ineritisene magis quam imperio potens, Augustus acclamatione concordi tolius exercitus appellatus, al agentes petulanlius milites incre/mbat, id se nec sperare, nec adpisci velie j arando confirmnns. Lib. 16, cap. i 3. Non so se sia stalo notato questo passo da cui raccogliesi che fino da quel tempo l’esercito voleva proclamare Augusto Giuliano. Probabilmente il Principe conoscerà che la cosa era per anche immatura.

(39) Egli area appresa la guerra sotto i vessilli romani, ed area sconfitto a Sens il Cesare Decennio, fratello di Magnenzio, militando per la causa di Costanzo.

(40) Amm., lib. 17, cap. 1 e a.

(41) Amm., lib. 17, cap. 2.

(42) Properanlem Constantium Orienti ferre suppetias, turbato propediem excursibus persicis, ut perf ugae concinenles exploratoribus mdicabanl, urebant Juliani virtutes, quns per

ora gentium diversarum fama celebrior effiindebat stirnu lante praefeclo Florentio. Amm., lib. 20, cap. 3.

(43) Costantino arerà scemato il uumero de’ soldati della legione, che sotto la repubblica era giunto sino a sei mila uomini, ma per quanto piccola essa fosse al tempo di Giuliano, le legioni richiamale formare dorerano la più gran parte dell’esercito di Gallia, almeno di quello che poteva entrare in campagna, se tulle le forte di Giuliano, allorchè mosse per la guerra contro Costanzo, giungevano appena a rentitremila combattenti, il Pancirolo osserva che la legione giunse anche a soli mille cinquecento uomini, ma questo deve intendersi soltanto sotto gli ultimi imperatori. w


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(44) J ni..iti Albcn.

(45) Il convocò presso a Parigi in una terra della PetuInntin, da cui sembra ebe traesse il nome una delle legioni richiamate della de’ Petulanti.

(46) Hocque comperlo apuil Petulantia/n signa, famosum quitlthtm lihellnm homi projecit occulte. Questo libello alquanto diverso da quello di cui parla Giuliano nell’orazione agli Ateniesi, in Ammiano è del seguente tenore: Nos quidem ad orbis terranno extrema ut noxii pellimur et damnati: charitates vero noslrae Alarnannis denuo servient, quas captivitate prima post internecinas liberavimus pugna s. Amm., lib. 20, cap. 4. V. anche Liban.’, Orai. Parent.

(47) Jul. ad Alben. Forse queste visioni erano meno l’effetto della sua superstizione, che quello della sua politica e de’ suoi desiderj. Giuliano a quanto sembra sognava l’impero. Zosimo. lib. 3, omette questi particolari: perruptisque nullo ordine foribus, Caesarem in publicum deducimi et sublimem in scutum quoddam elalum, imperatot ela Angustimi appellante et vi diadema capiti ejus imponimi.

(48) Delle lettere od orazioni dirette alle cit là greche non ci rimane che quella agli Ateniesi che forma parte del nostro volume.

(49) Ac priinum quidem illius arrogantiae atque audaciae facinus filile quoti sibi ipse diadema impostale magnot/ue nomine seipsum ornavi l (quoti non forinone pràedanie sed virtutis praerniunie vel tempuSe vel imperntoris calcitili s largitur etc.) Orai. 3, pag. 61. Non può in fatto affermarsi cosa con maggior sicurezza che qui non sia questa, ma come i divini invasamenti dello spirito di S. Gregorio non soffrono inai il giogo delle prove, così forza è dire che lanciando egli la sua accusa senza nulla toccare nè della sedizione di Parigi, nè dell’antefatto, a così dire del dramma, viene a scemarle la sua storica concludenza, e noi dobbiamo nelle nostre conghietturc più lasciarci guidare dalla natura delle cose, che da ((nella della sua autorità. ’ (5o) Amm., lili. 200, cap. i c 3.

(5 1) Amm., I i li. 20, cap. 3. J ni. nii Atlien.

(j-j) Amm., lib. 20, cap. 3.

(33) Crini familiis eos ad O rieri lem profìcisci praecepit clavicularis enrrns / acuitale permissa. Amm., uhi sopra.

(li/)) Giuliano narra in qnclla lederà gli avvenimenti di Parigi, e<l esorta Costanzo a diffidare dei consigli de’ male’ voli, ed a voler mantenere la promiscua concordia. Sebbene il modo con cui è riportata iu A miniano possa cagionare qualche dubbio; tuttavia la molla diversità di stile che vi si scorge può essere bastevole argomento a ritenerla come originale. Dove ciò sia, ella è il più lungo saggio «Iella latinità del nostro autore clic a noi rimanga, c si distingue in singoiar modo pei pregi di politico artifizio, proprio di tali scritture. Lo stesso islorico soggiunge: Ilis literis junclas secretiorcs alias Constando offerendas clanculo misit objurgatorias. Il signor Giblion, cap. 22, dubita dcU’csisIcnza di qnesl’ultime lettere, c panni a ragione. Lssc sarebbero contrarie a quel moderalo c decente contegno che Giuliano ostentò di mantener sempre verso suo cugino, anche in mezzo alla guerra.

(53) Dopo Lusebia morta l’anno 36o, sposò.Faustina da cui ebbe Costanza, sposa in appresso dell’imperatore Graziano. In una irruzione che i Ound i fecero neU’lllirio sotto Valentiniano, poco stelle che questa principessa non fosse rollila da’ barbari. Recandosi appunto per unirsi iu isposa a Graziano trovavasi ella in un alliergo a poca distanza da Striniti, dal quale potè a gran fatica involarsi.

(56) E poco dopo mori anche Elena, sorella di Costanzo c moglie di Giuliano, legame pur questo che avrebbe potuto rannodare l’amistà Ira i due principi. Fra le orazioni di Libaniii pubblicale (a) dal fitiougiovanui, la settima è destinata

(u) Venezia, 1764, per l’Albrizei. a difendere Giuliano dalle accuse di certi Elpidio e Policle, che di aver procacciata accagionavanlo la morte della moglie col veleno. E soverchio avvertire il silenzio intorno a ciò degli scrittori, ed il lettore istrutto nella storia di questi tempi non si maraviglierà di veder lanciata contro un principe come Giuliano, una calunnia che i suoi più ardenti nemici col non fare neppur menzione di lei, mostrano di disprezzare. Ci basti sapere che gli accusatori erano entrambo clienti di Costanzo, prefetti sotto il suo regno, ariani zelanti a quanto sembra, ed il primo, cioè Elpidio, vile di lìngua come di aspetto, aspeclu vills et lingua. Amm., Uh. 21, cap. 5; ed il secondo, Policle, autore di aminaliamenti e sortilegi. — Lihan., orat. 7, pag. 127. In mozzoni soliti difetti del Solista non manca questo discorso di alcuni tratti assai vivi’ l’ale a noi sembra il seguente: potè dunque, die’ egli, Giuliano ordinare il veleno? Ohi se fatto r avesse non sarebbesi ei poscia svelti gli occhi dal capo onde pili veder non dovesse colui al quale dato uvea colai Online (a)? Non può esprimersi con più forza il rimorso della colpa in un uomo virtuoso.

(57) Vi provincialis, et miles, et reipub. decrevit alidorilas, recrentae quitlem, sed adhuc iiietuenlis redivivos bnrbnròruin excursus. Amm., lih. ao. cap. t 3. Lo stesso autore osserva a questo luogo, che Giuliano poco prima di fare la sua dichiarazione di fede, avea celebrato nella chiesa cristiana la festa dell’Fpifanin. Fi pensa che una si lunga simulazione movesse dal desiderio di rendersi affezionato anche il parlilo de’ cristiani, e crediamo che il lettore non esiterà a seco lui convenire. Utque omnes, nullo impediente, ad sui Jàvorem illiceret, adhaerere cullili cristiano fingebat. F noto che i pa (fl) Pag. 120 va’ io avrò f(irv$A«fo (ìxm ftì xp’ot ir tKvr» litro gani pure festeggiavano I’ Epifania de’ loro numi, ossia la loro.‘fpparizionc in terra, che tanto suona quella greca parola, e che celebri erano specialmente quelle di Mercurio e di Apollo. Forse cadendo circa il tempo dell’Epifania cristiana quella di qualche nume del gentilesimo, potè in tal caso aver avuto luogo la restrizione mentale di Giuliano pretesa dal signor Gibkon, c di cui più innanzi abbiamo favellato. V. intorno all’Epifania dei pagani Spaneim de usu et praestantin numismatumi Discrt. il.

(58) DcscriTcsi la sua marcia da Zosimo, lib. 3, e da Amui., lib. ai. Giuliano, come il palesò altresì nella guerra persiana, fatto area i suoi studj militari sopra Senofonte. V imitazione di Ciro, soleva sempre occupare- un grande spazio di terreno onde accrescere la fama delle sue forze.

(59) Erasi egli impadronito de’ magazzini militari stabiliti lungo il Reno, e appiedi del Cinisio. Jul- ad Alhen.

(60) Così sembra conchiodere Ammiano, ottimo giudice, sebbene la ritenesse per guerra travagliosissima (a). S. Gregorio chiama la morte dell’imperatore opera del veleno procuratogli dall’apostata (5). Se, come dobbiamo credere, lo spirilo dei trapassati è capace di sentimento, ed il peccato d’apostata fosse remissibile, il martirio clic sofferse quello di Giuliano per opera del Nazianzcno, non potrebbe in qualche guisa non avere alleviato il peso della sua dannazione. In qual modo un Santo, un così gran lume della Chiesa, potè lanciare con sicura coscienza un’accusa di parricidio contraddetta dalla testimonianza di tutti gli scrittori contemporanei che di naturai morte fanno morire Costanzo? era d’uopo distruggere l’opiuione invalsa presso i pagani che gl’Iddii stessi promesso avessero a Giuliano l’impero, c che la Divinazione

(a) Lib. si, cap. i3 c 14. (l) Orai. 4, pag. Gl. aprendogli il futaro, acccrlato Io avesse del prospero evento della guerra. Poichè essa terminava naturalmente con la morte di Costanzo, il parricidio convertiva in iscenza la vantata da Giuliano prenozione dell’avvenire: Ut antera afiint, qui vera loqiiunlur, ad tempu s arcano alqiie occulto facinori praesidium adveniens, atipie ad mortene, ciijus ipse architectiis erat, pròperans, conatum interim saura per domesticoriun i/ueiiidam celans. Ita facinus illud, non praescientia seti scientia erat, scelerisque opus, non daemonuni benejìcium: qui quidern quarti in his rebus scili ac solertes sint Persia luculenler ostemlit. Quest’ultimo è un rimprovero fatto ai demonj, ossia agl’Iddi! di Giuliano, che lasciarongli ignorare la propria morte avvenuta in Persia. Ma egli avrebbe potuto rispondere che n’era stato anzi da gran tempo prima avvertito, e che col candore di un pio visionario il dichiarò egli medesimo nel lungo discorso che tenne con gli amici prima di morire, e del quale tra poco favelleremo.

(6 1) Questa esitanza sì salutare ai popoli, e sì onorevole ai principi, quando essa procede non da un debole carattere, ina dall’alta idea die formatisi dei loro doveri, traspare in tutte le opere di Giuliano, ma più chiaramente nella lettera, o più presto dissertazione che voglia dirsi, diretta a Temistio il filosofo, creduto da alcuni l’oratore di questo nome, intorno ai doveri del trono, e la difficoltà di tiene adempierli. Essa è ornata di singolari pregi di stile, d’ingegno e di prudenza politica, e noi la daremo ai nostri lettori nel secondo volume.

(62) Amm., I. 22. A malgrado di ciò Libanio nell’orazione settima sovra citata delle pubblicate dal Bnongiovanni, è costretto a difendere il suo Principe dall’accusa di aver regalato de’ beni a degli Eunuchi-. Combattendo l’accusa appostagli di soverchia liberalità, prosegue: haec ego tuli: gravate quidern, sed tanien tuli. Quippe ncque vera esse certe sciebam,

nei/ue omnium maxima t/naevis largì tus est (a). Queste espressioni sembrano avere un senso indeterminato. Annoiano il commenda per una lodevole liberalità (b).

(63) Julianus ambitioso diademate utebatur lapidala fulgore distincto. Amm., lib. ai. Lo Spartendo ne’ Cesari pr. pag. 71, riporla la medaglia di Giuliano col diadema gemmalo. Costantino fu il primo fra gl’imperatori a distinguersi per le corone, le armille e l’asiatico lusso.

(6/|) Almo., lib. 22, cap. 7; Jul. Epist. n. 23. /termogeni ex praefeclo /Egypti: poichè s’alzano, die’ egli, contro i satelliti di Costan-o molti accusatori, noi abbiamo ilato loro un Tribunale. E ipiesta una prova che Giuliano consentiva ad un esame, che la sua umanità e la sua politica avrebbero voluto risparmiare, più per liberarsi dall’altrui importunità, che per farsi strada alla sua privala vendetta.

(65) Così appellansi le spie imperiali, onorevole nome che porge un’immagine della volpina ipocrisia della corte. Questi curiosi fanno tornare alla mente l’idea dei raccordanti degli Inquisitori di Stalo e del Senato veneziano. Un delatore imperiale, significa quel titolo, non andava già a caccia della colpa, non inquiriva turbando la pace de’ cittadini; era un innocente indagatore, un semplice curioso. Il raccordante veneziano altro non faceva che desiar il sopito pensiero del suo Signore,, nel quale, come in quello del Giove Omerico =1 Ciò ch’è, che fu, che Jia, tutto è presente = nè d’altro può aver d’uopo che d’essere opportunamente sveglialo. Forse per l’antica relazione tra i due popoli, i curiosi di Costantinopoli vennero a mutarsi nei raccordanti di Venezia.

(66) Alle colende di Gennaio Giuliano recossi a piedi insieme cogli altri della corte a fare omaggio ai consoli lievito

(«) Pag. tao.

(b) Lib. a5, cap. 5. 427

e Mamerlino ch’entravano nella loro magistratura: hnmilior Princeps visus est, in officio pedibtts gradiendo ami Uanoratis. Amni., lih. 22, cap. 5.

(67) Oltre i Senati delle due capitali, le provincie, come è noto, avevano anch’esse i loro senati che con inferiore dignità appellavansi Curie. Il carico di Senatore era soggetto ad un particolare tributo detto dai Giureconsulti aururn globale, come il fondo senatorio chiamasi gleba senatoria (a). Quindi Giuliano rammenta agli Antiochcsi (6) come un singoiar benefizio l’aver accresciuto il loro Senato, ed ai Bizantini I’ aver ad essi restituito tutti (pie’membri che sotto varj pretesti, eransi sottratti al loro carico; il che manifesta quanto gravoso esso fosse, sebbene trattandosi del Senato della capitale sembrar dovesse vagheggiato dall’anibizionc. Una legge pure di Giuliano esenta gli Archiatri dai carichi senatoriali a titolo di benefizio (c). Nè pili desiderato era il posto di Curiale; perciocchè dal corpo delle Curie traevansi i Duumviri incaricati a dividere e a riscuotere I’ imposta della provincia.

(68) Era questo il suffragio che la prudenza politica dell’Areopago invocava a favore del reo, allorchè da un solo volo pendeva la sua sorte.

(69) I Donatisti, i Novazioni, i Macedonialti, i Valentiuiani cc.

(70) Caeteris omnibus quia. Constantio vita defuncto, ejecli patria fueranl propter amentiam Galileorurn, txUium condonavi: te miteni eie. (</), volendo onorare Aezio sopra gli altri a cagione della antica consuetudine con lui avuta, gli concede l’uso della pubblica posta pel suo ritorno. Aezio che dal

(a) Cod. Tlieod., bb. 6, lit. a, log. X.

(è) Epist, n. 16.

(c) Epist., n. 30.

(</) Jul. epist., n. 3 i. V. anche Amai., lib. ao, cap. 5 / mestiere di calderaio sali fino al vescovato, meritossi il nome di Ateo non solo dagli Ortodossi, ma eziandio dai Semiariani, specie di prudenti, che come palesa il loro nome, sapeano accomodare la loro coscienza a un che di mezzo tra lo scisma di Ario c la dottrina Niccna.

(71) Auun., lib. 22, cap. 3.

(72) Jul., Epist. n. 7 c 10. Qoesl’iiltiuia all’occasione dei disordini commessi contro Giorgio di Cappadocia.

(73) II Salvatore nato in Hctlcrame, predicò e fe’miracoli in Nazaret di Galilea, ma i recalcitranti Giudei fatto aveano prevalere il proverbio: non vengono profeti da Galilea. Cosi appo i Gentili si usò pei discepoli quella appellazione, parte dal luogo dove il divino Maestro insegnò, parte dalla maligna allusione clic fatta ne aveano i Farisei, e Giuliano non inventò propriamente, ma rimise in moda quel nome allora antiquato.

11 Samosatcnse, che pur vivea sotto il regno di Adriano, chiama nuch’esso S. Paolo il Galileo del gran naso e della fronte calva.

S. Gregorio afferma (a) che con una legge espressa ordinato l’ahhia Giuliano; novandum cognomenlunt censuil, Galileos prò Christianis noniinans, atipie ut ita vocaremur, publica lege decernens, ma sembra più proprio del suo sistema di persecuzione supporre che confermata venisse quella consuetudine più dall’esempio del principe, e da quello della corte, che per P effetto di una legge.

(74) E per altro notevole l’epistola ai Iiizanzj, ove dice di aver loro restituito ed i duumviri Patrizj sire in Galileorum religione m se dederint, sive alimi i/uidvis gesserinl (b). Cosi non può dubitarsi che nell’esercito che condusse in Persia non rifossero anche de’ cristiani. Anteporre ad essi negli incarichi pubblici i gentili era mia massima che apertamente

(a) Orai. 3, psg. 72. (A) Epist. n. 20. predicava la ina politica, ma a quanto sembra essa area alcune eccezioni, o certamente non era confermata da una legge.

(73) Se bene arriso, l’eruditissimo Tiraboschi verte in errore allorchè distingue dall’editto una lettera di Giuliano intorno a tale proposito, riportando come di qnest’ultima le sentenze che appartengono al primo («). L’abbaglio mosse in lui per awentora dal vederlo inserito nell’edizioni col titolo di Epistola, sotto il qual nome impropriamente lo sono eziandio alcune altre ordinanze di Giuliano. Osserveremo pure di passaggio ch’egli accorda all’autore due anni di regno, mentre questo non oltrepassò i diciollo mesi.

IVoi pure tratti dall’altrui esempio abbiamo qui asserito che tanto valesse questa legge, che un’aperta proibizione fatta a’cristiani di frequentare le scuole; il che se può essere stato vero nell’effetto, non lo è certamente nel senso letterale della legge. Perchè in fatto non si avrebbe potuto concepire una maniera d’insegnamento totalmente scevro di materie religiose? perchè la chiesa che lant’insigni uomini e prima, ed a cpiel tempo possedevasi, non avrebbe composto pei fedeli un’istruzione nel senso della religione medesima che professavano, e che adessi di professare era lecito? l’eloquenza dei Rasilj, dei Grisoslomi, dei Nazianzeni non poteva essere proposta per modello al pari che quella di Demostene e di Cicerone? e che cosa vietar poteva ai cristiani, conservando la loro credenza, di frequentare le scuole dei pagani? si dirà che in queste non avrebbesi omesso di sedurre le menti de’ giovanetti onde trarli al culto degli Iddii, e noi non vorremo negarlo. Ala per la stessa cagione crederemo che professori cristiani i quali spiegassero i libri dei Gentili, sarebbonsi astenuti dallo spargere di ridicolo quelle già per sè stesse ridicole Divinità? e la riverenza che ilevesi

(a) Storia della letteratura ec. lib. 4 - pag. 377.

Prrfiaionc di S.P. alle Op. se. di Giuliano. 9 al culto pubblico, avria questo potuto tollerare anche sotto pò principe più moderato di lui? chi non crede agli Iddìi, non ispieghi i libri che predicano la loro fede. E questo il solo divieto portato dalla legge. Ogni altra cosa non racchiusa tra i due termini di quella proposizione, è conceduta. Nè può negarsi che a non considerare l’insidioso scopo che ad essa viene attribuito, onesta e morale non sia la cagione che in apparenza almeno sembra determinarla. Perchè, in fatto, un uomo che pubblicamente professa di non credere una dottrina, la spiegherà ad altri pubblicamente? se fa questo onde renderla spregievole, egli è sleale verso il suo principe, egli è un perturbatore dello stato che quella dottrina riverisce. Che cosa direbbesi se in un paese del cristianesimo, un seguace dell’Alcorano predicar volesse pubblicamente la sua legge? se ei limitasi ad essere semplice espositore (e chi questo vorrà immaginare in un fervido credente?) egli è reo verso sè stesso, egli patteggia con la sua coscienza che riprova i detti del suo labro.

L’editto si rivolge ai soli retori e grammatici, e dove ciò non fosse, come è dall’editto stesso manifesto, verrebbe ad esserlo eziandio per l’autorità di Ammiano (n), il quale poichè biasimandolo lo ricorda, non avrebbe nè omesso di notare qoella maggiore estensione che si pretende ora ad esso conferire, nè taciute altre ordinanze proibitive, se vi fossero state, per l’insegnamento di altre facoltà. Con l’autorità del Crisostomo (b) si pretese negato anche a’ medici l’esercizio della loro arte. Tuttavia esiste un editto dell’autore (c), già altrove da noi ricordato, col quale gli archiatri dell’impero, siausi essi pagani o cristiani, ricevono in grazia della divina

(a) Lib. 11, cap. io, e lib. a5, eap. 4 (б) Hom. 4o.

(c) Epist. n. 18. lor arte il beneficio d’essere dispensati dai carichi senatoriali. Poichè nel nostro secóndo volume dovranno trovar luogo ambedue questi editti, ci permetteremo allora d’aggiungere incorno ad essi alcune riflessioni.

(76) Jnl. Bostriensis Epis., n. 5 a. Le immnnità clericali erano state stabilite da Costantino.

(77) Superstitiosus magù <fuam sacrorum legitimus observator, innumeros tine parsimonia pecudes mcetans, ut sestimarelur si reverlisset de Parthis boves jam defuluros. Annoiano, lib. a 5.

(78) Il signor Gibbon della Decad. ec., cap. a 3.

(79) Insigni esempi! sono l’incendio del tempio d’Apotlo nel sobborgo di Dafne in Antiochia, da Giuliano attribuito ai cristiani, la distruttone del tempio della Fortuna in Cappa 1 docia, e di quello di Cibele nella città di Possene, la sed»ciosa insolente con cni trasporlaronsi le reliquie di S. Babila, la condotta degli Ariani in Edessa contro i Valentiniani, ossia i proseliti dell’eresiarca Valentino, i disordini commessi in Calcedonia ec. Jnl. epist. n. 40, ed in Misop. Intorno ai costami ed al carattere dei vescovi del quarto secolo reggasi la pittura che di uno di essi ne fa Eusebio. Hist. Eccles., pag. 281. Nello stesso secolo S. Damaso non giunse all’episcopato romano che per ona strada di sangue.

(80) Arimi., lib. al, cap. 12. Jul. epist. n. co. Il celebre Giorgio di Cappadocia primate dell’Egitto, e serbato a più gloriosi destini, poteva del- pari che i suoi ministri meritarsi la morte dagli Alessandrini, ma un principe impaniale non si sarebbe limitato a frenare con semplici ammonisioni dei delitti che la reità del personaggio contro cui erano stati commessi, non ne scemava punto l’atrocità.

I talenti, il virile carattere e la popolarità di Atanasio, non meno che l’assoluto imperio ch’egli esercitava verso i numerosi seguaci della fede nicena, avrebbero potato, meritar )’attenzione di ogni principe prudente, anche non animato dall’odio di religiosi partiti. Egli erasi mostralo pericoloso a Costantino, area forzato Costanzo a ritornarlo alla sede arciTescorile di Egitto, sotto l’alternalira di un’aspra guerra con suo fratello in Occidente, ed insegnato arca col proprio esempio nei deserti della Tebaide, che può talrolta la forza dell’opinione contrastare non senza frutto con quella dell’armi. Dopo l’uccisione di Giorgio profittando dell’editto di Giuliano che restituirà i rescori alle vacanti loro sedi, Atanasio rientrò in quella di Alessandria. Giuliano pretese che l’editto liberasse dall’esigilo senza porgere diritto alla Sede. Questa è la cagione che allegasi nell’ordine che gli commette di sgombrar daU’Egitlo, ma dalla lettera al prefetto Ecdizio, dove ducisi che non ancora sieno stati eseguiti i suoi ordini contro il rescoro, e da quella con.cui risponde agli ortodossi d’AIessandria che ricercavangli, a quanto sembra, il ritorno del loro primate, è chiaro che l’ingiusta eccezione che dal principe per lui facerasi, era un’onorevole testimonianza dell’operosa sollecitudine e delle umane arti di Atanasio per la diffusione della fede. Jul., epist, n. 6, 26, 5». Che poi Giuliano tramasse altresì contro la sua vita, lo afferma il Crisostomo e vi consente il La-Blelerie (a), e se il primo lanciando un’accusa che, come onda dal margine, rimbalza dal carattere di questo principe, vedesse in un apostata un assassino, ed il secondo alla sua sentenza aderendo, soddisfatto abbia ai doveri di critico, lasceremo ad altri il giudicarlo.

Non a torto viene biasimata l’ingratitudine di Giuliano verso Marco vescovo d’Aretusa, uno di coloro che a detta di S. Gregorio (b) ebbero parte nel sottrarre la sua infanzia dai pericoli del tumulto militare del palazzo, e che ora soffriva

(a) Vie de Jul., pag. io3. (’) Orai, 3, pag. 5a. contribuire alle «pese pel rifacimento di un celebre tempio che egli stesso, prevalendo l’Ariancsimo, distrutto avea con lino zelo che meritò anche la censura de! Cristiani. La giustizia per altro ci obbliga ad osservare, che Giuliano ordinando il ristoramento del tempio, non ne segue che ordinata abbia la persecuzione di Marco, la quale eseguirasi lontana dalla sua presenza, dai Pagani di Siria con quell’indiscreto Terrore che suole essere proprio de’ clienti del principe e dei settarj religiosi; ma che poterà a lui dispiacere, o che piacendogli, avrebb’ei forse voluto non pertanto moderare. Non cercarasi da Marco che un obolo, un menomo che, un seguo infine di obbedienza; ma egli gioiva delle sue pene, e insultando i suoi persecutori gustava anticipatamente gli onori del martirio. Sia lode a lui come vescovo, ma se non può negarsi che Giuliano costringendo a rifare i tempii mal corrispondeva alle massime della tolleranza religiosa da lui vantata, se forzando la cristiana pietà del suo antico benefattore ad un atto a cui ripugnava la sua coscienza, male egli adempiva ai doveri della gratitudine, forza è convenire altresì che la condotta di Marco propria era a conciliar fede alle calunnie de’ nemici della Chiesa, che come desiderosa accusavanla del sangue de’ suoi martiri, e ch’egli mostrava d’ignorare non meno i dettami della prudenza, che i doveri d’uomo in politica società costituito; i quali esigono da lui una rispettosa osservanza pel cullo pubblico, in tulle quelle cose alle quali non ripagna, è vero, la coscienza, ma la coscienza assistita dalla ragione. Un obolo contribuito poteva fraudare il vescovo della celebrità della persecuzione, ma non punto mutare una forte, illuminata e bene sicura credenza.

(81) Gl’Iddìi di Libanio non erano diversi dai demonj del Tillemont. Era opinione della Chiesa che quegli Angeli quali come ribelli alla volontà del Signore erano stali pfecipitati nell’inferno, venissero tuttavia nella terra per procacciarsi alleanza di scelleraggini, e trarre al loro partito le menti inesperte. Erano questi che sotto il nome e gli attributi di Giove, di Mercurio, d’Apollo ec., aveano esercitato le varie funzioni del politeismo, e sedotto gli spiriti sino alla venuta del Salvatore. S. Giuslino (a) ha potuto credere che dal loro commercio con femmine mortali fossero nati i giganti. Così Ani/tèit Genius, Deus ec. de’Gentili, che riceveva da un epiteto la benefica o malefica natura, col prevalere del cristianesimo conservò solo la seconda, e gli Dei ed i Genii rimasero diavoli.

(82) Questa è la durata che assegna alle gnerrc parliche Giuliano nei Cesari, dove Alessandro rintuzzando Giulio che impiccioliva le geslc persiane di Ini, risponde, che non dovevano poi dirsi sì spregevoli i Persiani, se dopo tre secoli di guerre non avevano potuto i suoi Romani sottomettere neppure il picciolo paese de’ Tarli. Lo Spanetnio (b) prova che il computo è esatto, comechè quel periodo rimanga interrotto da alcune tregue.

(83) Sebbene Ammiano affermi che la guerra persiana fosse stala necessaria a vendicare le passale offese, pure non dissimula che l’ambizione più ch’altro potè determinare il suo eroe: ornamenti s illuslrium gloriarum inserere Partici cognomenturn ardebat. Lih. 22, cap. 12. Lo stesso autore aggiunge: sciarli obtrectantes non Julianum sed Constantiurn ardores Particos succendisse, quum Metrodori mendaciis avidiits act/uievit, ut duduni relulimus piane. Lib. 25, cap. 6. Ne’ libri che ci rimangono non seppi rinvenire la più estesa narrazione qui promessa. Ccdreno nella sua Synopsis Jlistorica narra sotto

(a) Ces. de Jul. pag. 184, Brinar, n. 626. (l<) Apoi., 1, pag. 24. storiella seguente. Metrodoro, che era un filosofo, essendo andato, secondo quest’autore, nelle Indie per istruirsi, accolto ivi ospitalmente dagli abitanti, invece di acquistare l’altrui, pensò di Tendere la propria sapienza contro un’infinita quantità di gemme e di perle. Fatto ricco, solendo, come accade, ritornare in Europa, il re indiano commise alla sua fede un gran tesoro di pietre preziose con cui presentare a suo nome Costantino, ma il filosofo, giunto ebe fu in llizauzio, affermò che quelle crangli state infoiale dai Persiani nel suo cammino, e regalò l’imperatore come di altre sue proprie. Questi, che al dire di Giuliano era di sua natura trapelila o banchiere, udita la nuora, ricercò con ansietà ed alterezza la restituzione del rubamenlo a Sapore, ma non avendo potuto ottenere da lui neppure risposta, risolse di portar la guerra nella Persia. Di tal modo ella sarebbe stala ereditata da Costantino a Costanzo, e da questo a Giuliano. Le parole sopra riferite di A miniano palesano al certo, che qualche cosa se non tra Metrodoro e Costantino, tra quegli c Costanzo ti corse di assai a questa somigliante. Se così è, ecco, ore d’uopo ri fosse, una unova prova che la selvaggia fiera, la (piale, secondo Aristotele, sta a guardia del trono, non sana mai le partite coi debitori.

(84) I Romani sotto Costanzo avcangli poco prima trucidato I’ unico figlio da essi fatto prigione nella battaglia di Singara. Se egli è vero che il diritto delle genti si stabili in F.uropa per opera del cristianesimo, Costanzo area ancora pochi cristiani ne’ suoi eserciti, o quella fu un’eccezione.

(85) Amm., lib. a 3, cap. 4.

(86) Mille erant onerariae naves ex diversa trabe conlextae commcatus abunde ferente s, et tela, et obsidionales machinas: quinrpiaginta aliae bellatrices, totìdemque ad compaginandos necessaria; pontes ec. Amm., lib.? 3, cap. 2. Zosimo dice settecento quelle da carico. (87) Nicomedia era slata distrutta dai tremuoti, e Giuliano si mostrò commosso alle sciagure di quel paese che aveva accollo ed allevalo la sua infanzia. Quanto all’ insolenza degli Antiochesi che prestò origine al Misopogono, dovremo fame menzione più innanzi nel nostro discorso.

(88) Excursalores quingentos et mille prieire dispostiti qui cautius gradientes ex atroque Intere, tiidemque a fronte ne quis repentinus irruerel prospeclahant. Ipse vero medio pedites regens, quod erat totius roboris firntamenlum: dextra legiones aliquas curii Nevtia supercilia fluminis prrestringere jussit Euphratis; corna vero laevum etc. Il centro era sotto lo speciale comando di Vittore, ma quando uopo alcuno non chiamava altrove Giuliano, egli solea trovarsi alla testa della colonna • di mezzo. Poco più rimane a fare in questo luogo all’espositore che seguitare Ammiano con diligenza, ma non debbo tacere che la lucida pittore che di questa guerra far seppe

il signor Gihlion, ha potuto singolarmente istruirmi.

(89) Descrivevi la marcia dell’esercito, e la conquista delle fortezze di Analo, di Titillila, di Acajalca, di Perisabora e di Magomalca in Ammiano, lib. 24, dal cap. al io.

(90) Il Kazianzeno che destina la quarta delle orazioni contro Giuliano alla narrazione dell’infelice esito della guerra persiana, volendo far conoscere che gli errori di lui erano opera del divino consiglio, che ad essere fabbro Iraevalo della propria rovina, trovasi costretto a deporre un istante lo stile profetico per assumere il descrittivo, nel quale riesce egualmente ammirabile. Ctesiphon enim arx firma est, captuque haud facilis, muris cocto lattee condirti, et alta fossa, pah 1strique ac limoso amne communita. Jlanc porro arx quoque altera firmiorem reddti (Chochen appellimi) pari tarn naturae quam ariti praesidio constructa, alteri arci ita conjuncta, ut unius tantum civtiatti speciem amine prabeant, quippe quae fluminis tantum divorilo inter se dividantur. Pag. 104. Vedi anche Amm., lib. 34, cap. 7. (91) Sublato vexillo, ut jussum est, e volani e con speda quinque subito naves: et quum ripus jarn adventarent,fncibus et omni materia qua alitur ignis, petitee assitluis jactibus, cani militibus jam conflagrai seni, ni veloci vigore pedoris excitus Imperniar signum sibi datum nostros, quoti margines jam tenerent, ut mandatum est, erexisse proclarnans, classali oinneni properare citis remigiis adegissef. Alimi., I ih. 24, cap. 10.

(92) Il passaggio del Tigri, c lo scalamento del canale descriresi da Zosimo, lib. 3, e più distesamente da Allindano, lib. 24 e da Greg. Ort., 4, pag. 106.

(93) Cyril. in Jul., lib. 10.

(94) Giuliano poterà seguitare le processioni di Venere c

celebrare le feste di lei, come pio pagano c sommo pontefice, ma il Grisostomo sembra fargli di ciò una colpa di mal costume. Il La-Bletcrie (a) cita io prora l’autorità di Ammiano, ma tralascia di osserrare con lo stesso autore (b), che questa era una calunnia imentata dai cristiani d’Antiochia. Ecco come S. Gregorio si esprime iotorno ai costumi di un principe che tenne la castità per sorrana rirtù, e che giusta il concorde sentimento degli storici pralicolla con monastica sererità. Propinationes porro, et pocula, quibus meretrices palaia publiceque poscebat, vicissimque poscebatur, mislerii obtentu petulan lem libidinem obvelans, quis non laude et admiratione prosequalur (e)?.

(95) Io traduco (d) quasi ad lileram le parole che S. Gregorio mette in bocca al Persiano. Quid, inquii, imperatori quid tam ignavum atque imbecillum de tanti momenti negotio

(a) Vie de Jul. pag. 347.

(b) Amm.,lib. 33, cap. 13.

(c) Orat. 4, pag. no.

(d) Orat. 4, pag. io 5.

Prefazione di S. P. atte Op. se. di Giuliano. consilium initis? Quorsum hoc navale frumenlum, ac superfluutn onus, ignavia magistrum? Nihil enim ad expugnandum difficilius, nihil pervicacius est, quam venter, sitamque in manibus habere spem salutis. Quocirca, si quid me audies, nauticum hunc apparatum valere jubebis, languoremque ex eo ad fortissimum hunc exercitum reileuntem eie. Nè Giuliano ti mostrò punto esitante a si buone ragioni, onde S. Gregorio ripigliando il tuono profetico: Naves ignis con/lagrabat: fru mentum nullum erat: ac risus insuper accedebal etc. Perchè dunque il La-Bleterie (a), ed il tig. Gibbon mettono in bocca al Persiano una lunga ed artifiziosa aringa, dove trovansi riunite le reali ragioni che indussero Giuliano ad abbandonare la flotta alle fiamme, da lui espresse già in Ammiano ed in Libanio, le quali rendendo meglio ordita la rete tesa dal barbaro, rendono altresi più verosimile la credulità di Giuliano, ed il racconto del Nazianzeno? di questo racconto, non solo non fa cenno alcuno Libanio, ma nè Zosimo, nè Eutropio, che militarono con Giuliano nella guerra persiana. Quanto all’autorità di A. Vittore addotta dal La-Bleterie, a noi basta sapere ch’egli è il panegirista di Costanzo.

(96) Gibbon, de la Dècad. etc., cap. 34.

(97) Digesto itar/ue consilio cum primatibus super Ctesbphontis obsidio, itum est in voluntatem quorundnm,Jacinus audax et importunum esse noscentium id aggredì, quod et civitas silu inexpugnabilis dejendebalur, et cum metuenda moltitudine protinus Rex affare credebatur. Aulii., lib. 33, cap. n.

(98) Il sig. Gibbon, cap. 34, sembra restare sospeso da questa difficoltà.

(99) Amm., lib. aa, cap. 11.

(100) Amm., lib. 34, cap. 13.

(101) Giuliano stesso ne adduce sommariamente le ragioni

(a) Vie de Jul^pag. 47 < • Storia della Decad. ce., cap. af. m A miniano: idque ut ili ter puf aitai ordinasse ne relieta classis usui hostibus foret, aut certe, ut ab expeditionis primordio factum est, armatorum fere eiginti millia in trahendis occuparentur iisdem navibus, et regendis. Lib. 24, cap. n.

(102) Dein cum nietuens sibi t/uistfiie mussare t, rnomtraretque perspicua veritas quoti repulsus forsitan additate vel altitudine montiuni, ad aquas redire non poterit miles; tortique perfngve faterentur se fefellisse, concursu maximo extingui jusste sani flammee. A min., lib. 24, cap. 1 2. Le parole tortique, peifugte aperte etc. parvero una novella prova del racconto di S. Gregorio intorno agli artifizj del Persiano, e poichè in fatto esse non sono che una generica espressione, si stimò di veder in questo passo una lacuna. Noi non sappiamo ravvisarla, nè ci sembra ebe altro si possa da esso conchiodere, tranne che Giuliano fidasse con soverchia temerità sulla guida di alcuni disertori del campo nemico; il che ancora è ben diverso dalla goffa mellonaggine attribuitagli dal Nazianzeno.

(103) Amm., lib. 24, cap. 12. ’

(104) Amm., lib. 25, cap. 1.

(105) Libane, orat. io. Amm., lib. 25, cap. 2.

(106) Giuliano dopo il passaggio di questo Some volle render grazie a Marte con un sacrifizio di dieci tori, ma nove di questi, male immolati, spirarono prima di giungere all’ara, e le viscere del decimo offersero tristi augurj: quibus visis exclamavil indignalus acriter Julianus, lovemque testatus est, nulla Marti jam sacra faclurtun. Amm., lib. 24, cap. 1 1, e lib. 25, cap. 1. La superstizione tormentavaio ora colla ricordanza del sacrilego giuramento.

(107) Tarquitianos forse da Tarquilius savio etnisco, o scritti al tempo di Tarquinio, ma in tal caso Tarquinianos.

(108) Qua conci! us elude, oblitus lorica;, sculo inter tu multimi adreplo properans ullimis ferire suppetias. Annoiano, lib. 25, caj). 3.

(109) IMutti. in Ant.

(110) Vedi il iuugoe filosofico suo discorsolo Aminiano, lib. a 5, cap. di cui noi abbiamo solo riportalo le principali senleuze. Si è dello che la morie di Giuliano sia una studiala imitazione di quella di Socrale. Una così splendida imitazione della virtù è tanto vicina alla virtù stessa, quanto la disposizione di sempre mordere le azioni di un grand’uomo è vicina alla malignità, e diremmo ancora alla grettezza dell’animo. Che gli uomini muoiano virtuosamente e fortemente, e il facciano poi per senso proprio, o per imitazione, ciò poco rileva. Delle tante cose riferite da S. Gregorio intorno alla morte di lui, una sola ne trasceglieremo,.diti hujusmodi quemdam ile eo sermonem commemorarti: cimi in sublimem quemdam tumulimi ascendisset, ut velut e specula exercitum oculis usurparci, quantusque bello superfuisset, cognosceret, magnasque copiar, speque sua ampliores vidissel: quarti grave et indignum fuerit, dixisse, si hos omnes ad Romanorum terroni reduxerinws, quasi videlicet ipsis saluterà in fidente ni. Quibus verbis comrnotum militerà quemdarn, iraque proecipitem aduni, nulla salulis suoe habita ratione, in ipsius viscera gladinni adegisse. Dio di misericordia! ed in qual guisa permettere hai potuto che tanto I’ ira trascendesse in uno de’ più nobili sostegni della chiesa, sino a fare ch’egli ponesse in bocca d’un tal principe una sentenza che non osarono profferire nè i Ceroni, nè i Comodi, nè i Domiti, mi, nè quant’altri mai furonvi più scellerati principi che a noi ricordi la storia? Per altro i Persiani rimproveravano ai loro nemici di aver ucciso essi stessi il proprio imperatore, e che dal loro campo fosse parlilo il mortifero dardo. Annoiano (lib. 25, cap. 8) nel riportare questa opinione de’ Persiani osserva un circospetto silenzio, e Libanio dice apertamente che fu ucciso da un dardo romano. Un apostata avrebbe forse potuto essere una vittima gradita al vero Dio? in medio relint/uemus.

(ni) Per servire all’amicizia fu veduto intraprendere lunghissimi viaggi, e potè in lui notarsi come una onorevole debolezza la soverchia fiducia che negli amici solca riporre. Ammiano si propone di consecrare un capitolo ai difetti del suo eroe, ma dopo aver fatto qualche cenno della sua superstizione, come amante che vinto è dalla forza del suo affetto, cangia il biasimo in lode, nè più sa trovare in Giuliano che splendide ed eroiche virtù.

(uà) Questa è l’opinione di La-Bleterie, a cui fa plauso il signor Gibbon, singolarmente intento a piacere ai Francesi suoi contemporanei.

FINE.

  1. V. Edizione dei fratelli Sonzogno. Milano, 1822.
  2. Anno 354
  3. [p. 442 modifica]È nelle mani di tutti la vita di Giuliano dell’abate De La BleterieG 1, scritta con quella piana e mite eloquenza, che procacciano gli studj del suo istituto, e con quella libertà ch’esso può concedere. Non va per altro negato all’illustre untore il merito d’essere stato il primo a rivendicare in qualche guisa la fama di Giuliano, conosciuto sino allora nella volgare opinione col solo titolo di apostata, e vivente nella sola testimonianza degli scrittori ecclesiastici. La verità può naufragare del pari nelle pie declamazioni d’un autore pagano, ed in quelle d’un cristiano, nelle Orazioni di Libanio, e nelle InvettiveG 2 del Nazianzeno, e perciò un giudice imparziale che vede posto a sè innanzi un eguale pericolo, anteporrà la fede dell’istorico, sia esso cristiano o pagano, che non può esagerare senza biasimo, a quella dell’oratore che può con lode esagerare. Ora quanto agli storici, la [p. 443 modifica]bilancia tracolla grandemente a favor dei pagani. Oltre il compendio di Eutropio che militò con Giuliano nella guerra persiana, e che conduce la narrazione sino a’ tempi di Valente, oltre le istorie di Zosimo nemico, è vero, de’ cristiani, ma pur degnissimo di studio per essere stato anch’esso commilitone di Giuliano, essi additano in Ammiano Marcellino uno scrittore probo e leale, un critico sagace, uno storico soldato, testimonio oculare delle azioni che descrive, e ciò che più importa, un, direi quasi, cristianizzante pagano, e tale che prestando egli stesso non di rado le armi al contrario partito onde combattere il gentilesimo, fu creduto cristiano veramente, onde non può la fede non meritarsi de’ cristiani. I diciotto libri che di lui ci rimangono, e che terminano con la morte di Graziano c di Valente, non cominciano è vero che col diciottesimo anno del regno di CostanzoG 3, ventitrè anni dopo il nascimento di Giuliano, ma tuttavia tale è la forma della sua narrazione, che tutta o la più pregevole parte essi comprendono della vita del nostro autore. E se fu in noi pensiero accennare che presso il La-Bleterie la pietà nocque spesso alla critica nelle materie religiose, occorre anche dire che non in esse nocque ella soltanto. Poco contento di aver rappresentato Giuliano in uno sfavorevole aspetto morale, volle far di lui anche un ridicolo personaggio, traendo senza distinzione le notizie della sua vita privata e civile, o da’ profetici invasamenti di S. Gregorio, o da una scrittura burlesca e satirica quale si è il Misopogono. Che Giuliano troppo in sè ritraesse il discepolo della setta Cinica a cui apparteneva, niuno al certo si avviserà negarlo; ma volendo egli appunto in quell’opera dipingere il perfetto Savio della sua scuola, e le austere virtù di lui, onde contrapporlo a’ vizj ed a’ costumi degli Antiochesi, sembra che|bilancia tracolla grandemente a favor dei pagani. Oltre il compendio di Eutropio che militò con Giuliano nella guerra persiana, e che conduce la narrazione sino a’ tempi di Valente, oltre le istorie di Zosimo nemico, è vero, de’ cristiani, ma pur degnissimo di studio per essere stato anch’esso commilitone di Giuliano, essi additano in Ammiano Marcellino uno scrittore probo e leale, un critico sagace, uno storico soldato, testimonio oculare delle azioni che descrive, e ciò che più importa, un, direi quasi, cristianizzante pagano, e tale che prestando egli stesso non di rado le armi al contrario partito onde combattere il gentilesimo, fu creduto cristiano veramente, onde non può la fede non meritarsi de’ cristiani. I diciotto libri che di lui ci rimangono, e che terminano con la morte di Graziano c di Valente, non cominciano è vero che col diciottesimo anno del regno di Costanzo2, ventitrè anni dopo il nascimento di Giuliano, ma tuttavia tale è la forma della sua narrazione, che tutta o la più pregevole parte essi comprendono della vita del nostro autore. E se fu in noi pensiero accennare che presso il La-Bleterie la pietà nocque spesso alla critica nelle materie religiose, occorre anche dire che non in esse nocque ella soltanto. Poco contento di aver rappresentato Giuliano in uno sfavorevole aspetto morale, volle far di lui anche un ridicolo personaggio, traendo senza distinzione le notizie della sua vita privata e civile, o da’ profetici invasamenti di S. Gregorio, o da una scrittura burlesca e satirica quale si è il Misopogono. Che Giuliano troppo in sè ritraesse il discepolo della setta Cinica a cui apparteneva, niuno al certo si avviserà negarlo; ma volendo egli appunto in quell’opera dipingere il perfetto Savio della sua scuola, e le austere virtù di lui, onde contrapporlo a’ vizj ed a’ costumi degli Antiochesi, sembra che}} [p. 444 modifica]non sta da dubitare che gii ultimi tratti che servono a formare la satira ed a esagerare i caratteri, debbano dirsi proprj della natura del componimento, non di quella dei personaggi in esso introdotti. AmmianoG 4 già avvertito avea che ivi i costumi de’ suoi Antiochesi rappresentansi deformi oltre il vero, e noi con giusta illazione dobbiamo conchiudere lo stesso di quelli del nostro autore, senza il quale contrasto di pitture non avrebbe potuto romper fuori la satira. Del resto l’umana debolezza, nella considerazione de’ costami e delle opinioni, sembra consigliarci ad una più prudente indulgenza. Le sette filosofiche non altrimenti che le religiose, inspirarono in ogni tempo nn fanatico zelo a’ loro clienti, e le età successive che s’arrogano il diritto di spargere il ridicolo o il vitupero sulle opinioni e sulle dottrine delle antecedenti, obbliano ebe le loro dottrine e le loro opinioni saranno esse stesse materia di ridicolo e di vitupero’ all’età posteriori.
  4. [p. 444 modifica]In Occidente Massimiano, Costantino e Massenzio, in Oriente Gallerio, Massimino e Licinio. An. 308.
  5. Che scrivevano cioè ed insegnavano grecamente, benchè non tutti i platonici fossero greci.
  6. Anno 354


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Note

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