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Prima di questo Ippolito, distinto con l’epiteto di portator di corona (rappresentato nel 428), Euripide aveva scritto e fatto rappresentare un Ippolito velato, che però non riscosse l’approvazione degli spettatori ateniesi, sembra per una sua presunta immoralità. A noi non è pervenuto; ma da testimonianze antiche risulta che in esso Fedra non poneva freno alla sua passione, anzi ci si abbandonava senza ritegno; e alle sue offerte spudorate, il giovinetto si copriva il viso, inorridito: onde il titolo.
I pochi frammenti superstiti — due specialmente, nei quali Fedra esalta la potenza del Dio d’amore, e si dichiara sicura del suo appoggio, — confermano le notizie indirette; ma non ci consentono di ricostruire in maniera un po’ ampia e precisa l’andamento del dramma. Però, secondo ogni verisimiglianza, possiamo farcene un’idea leggendo la Fedra di Seneca. Questa tragedia arieggia molto l’Ippolito portator di corona, e nella linea generale, e anche in molti particolari (p. e. l’azione si apre con una scena di caccia: Fedra nel delirio immagina di errar nelle selve in traccia di fiere: il racconto della morte d’Ippolito è una variazione del racconto euripideo); e, a guardar bene, sembra un rifacimento della tragedia d’Euripide, fatto in maniera da lasciar dominare il tèma della passione di Fedra; come avveniva, appunto, nell’Ippolito velato.
Sempre secondo antiche testimonianze, il poeta avrebbe scritto il primo Ippolito per vendicarsi dell’infedeltà di sua moglie. Ma assai probabilmente la notizia fa parte del bagaglio di accuse e di beffe piú o meno insulse che i pettegoli Ateniesi rivolgevano al poeta per la sua presunta misoginia, e che trovarono un’eco geniale nelle commedie di Aristofane, e massime nelle Rane e nelle Tesmoforiazuse: dove si asserisce che Euripide:
ogni suo dramma, per dispetto, imbastiva
su argomenti ove fosse qualche donna cattiva,
Melanippide, o Fedra.
Un po’, dunque, malignità: un po’ compiacimento per i soggetti lubrici.
Ma entrambe le accuse erano infondate e grossolane. Verissimo che Euripide aveva una special predilezione per le figure femminili: verissimo che provava una propensione, strana a prima vista, per le grandi peccatrici; ma le ragioni erano ben piú profonde che non pensassero i suoi detrattori.
Bisogna infatti non essere artisti, e non pensatori, per non sentire profondamente il fàscino della donna, che tanto piú dell’uomo sembra partecipe del mistero della vita, che sembra quasi immedesimarsi con la forza arcana onde la vita è generata. Le sue membra sembrano tenui, fragilissime, eppure assorbono e contengono allo stato latente le piú arcane e terribili forze della creazione: sembrano le ancelle del piú doloroso ed umile travaglio, eppure in esse è infusa, assai piú che nelle membra virili, una virtú misteriosa, indefinibile e onnipossente, la bellezza, che, se da un lato sembra fòmite al desiderio onde si perpetua la stirpe, dall’altro sublima gli animi a idee nobili e immateriali, e fa intravvedere un mondo soprannaturale e ideale. E i vili meccanici, che nen vogliono vedere altro se non lo stimolo erotico, fanno come chi concepisse il fiore in funzione del fimo, e non il fimo in funzione del fiore.
Se non che, questa creatura, mentre talora, da un lato, sviluppandosi lungo la linea normale d’ascensione etica dell’umanità, giunge a vertici di sacrificio, di purezza, d’eroismo, a cui l’uomo difficilmente perviene (e ce ne sono esempii in Euripide: Alcesti, Ifigenia, Macaria); altre volte, per eccesso di lussuria e di efferatezza, sembra discender piú basso degli uomini, e tornare al piú atroce stato ferino.
Ma anche lo spettacolo dei mostri femminili è piú interessante che non quello della mostruosità maschile. Nelle donne peccatrici e delinquenti appaiono quasi sempre congiunti, in modo indissolubile, il delitto e l’amore, la furia dello sterminio e quella della creazione. Il pensiero di noi d’oggi corre subito alle magiche scoperte del Fabre sulla vita degli insetti; dove, operando l’istinto vitale nella maniera piú pura e originaria, si vede come siano strettamente congiunte, e quasi in dipendenza l’una dall’altra, le forze della distruzione e quelle della generazione. Tale istinto si maschera via via nelle creature superiori, ma non si spenge mai interamente in nessuna, e sia pure la piú elevata. Nelle grandi peccatrici lo vediamo smascherarsi ed operare sotto i nostri occhi; e rimaniamo affascinati, perché insieme con l’orrore si mescola nella nostra anima la soddisfazione di scorgere traverso ad un lembo lacerato, la verità; e sia pure orrenda. Questo sentiamo noi: questo sentiva, e sia pure con meno chiara coscienza, l’ateniese Euripide: questo era uno dei lati — l’essenziale, credo — della sua presunta misoginia.
Le creature femminili che appaiono come esponenti e simboli di questo cieco istinto, come vissero in tutte le epoche, cosí sono, per fortuna, eccezionali, e poche. Ma c’è un momento della storia di Grecia — il mito, è essenzialmente storia — in cui sembrano moltiplicarsi paurosamente, far gruppo, divenir legge. È il momento piú fiero degli Achei, quando questi forti e crudeli guerrieri, rovesciata la piú pacifica dominazione egea, dalla piccola Creta e da ogni roccaforte della penisola greca, dettano legge al Mediterraneo. E quanto essi valorosi ed efferati, tanto le loro donne belle e lascive: Elena, Clitemnestra, Antèa, Stenebèa, Egialèa, Medea, Pasifae. Belle tutte, di bellezza quasi divina; ma incapaci di porre freno alle loro passioni. La società umana, oramai da secoli, aveva posto agli istinti il freno delle leggi; ma attraverso queste grandi figure di donne sembra scatenarsi una gran ribellione delle forze primordiali insofferenti di ceppi. E uccidono i fratelli, i padri, i mariti; per avere libertà ai loro amori; ma anche per la potenza misteriosa dell’istinto, che vuole confusa con la strage l’opera della generazione.
Queste figure di donne, che erano insieme Dee e fiere, travolte dalla passione d’amore come festuche dal turbine, si imponevano alla fantasia d’Euripide, l’ossessionavano, come Clitennestra aveva già ossessionato il vecchio Eschilo. Scorrendo i titoli delle sue tragedie perdute, troviamo quasi intera la collana delle grandi peccatrici, a cominciar da Pasifae, che s’era data ad una fiera. Di figure integre noi non possediamo se non Medea, che gli riuscí fatta senza attenuazioni né veli; e Fedra, che però nel dramma che possediamo è attenuata, travisata.
⁂
E se tali furono — e difficilmente sapremmo immaginarli diversi — i motivi d’ispirazione d’Euripide, s’intende che per noi sarebbe molto piú interessante conoscere la sua prima Fedra, e non quella che possediamo, ridotta un po’ secondo l’altrui volontà (in arte non c’è di peggio).
Ma non credo riesca impossibile formarcene un idea. Abbiamo già accennato alle somiglianze di situazioni che intercedono fra l’Ippolito portator di corona e la Fedra di Seneca. Ma nel complesso, l’opera del tragediografo latino rassomigliava di piú, evidentemente, al primo Ippolito, che, a sua volta, dové dare piú d’un colore al secondo. Il confronto coi frammenti di Euripide e con le testimonianze degli antichi ce ne dà certezza. Io voglio accennare ad un solo motivo, che però credo capitale.
Nell’Ippolito portator di corona, in un certo momento del suo dialogo con la nutrice, Fedra esclama:
- Di quale amore ardesti, o madre misera!
In questa tragedia il tèma rimane appena accennato; ma non dové essere cosí nell’Ippolito velato. Di quelle creature bellissime, solari e nefaste, Pasifae, la figlia del sole, che, trascinata dalla folle furia dei sensi, discendeva sotto il livello umano, turpemente imbestiandosi, era il simbolo piú pauroso e luculento; ed era madre di Fedra. Una suggestione cosí profonda non poteva sfuggire al sensibilissimo Euripide. Ed è quasi matematicamente sicuro che il tema di Pasifae dove aver una gran parte, dove dominare nel primo Ippolito.
E dòmina nella Fedra di Seneca. Dice la nutrice (174):
- Prodigia totiens orbis insueta audiet,
- natura totiens legibus cedet suis,
- quotiens amabit Cressa?
E Fedra (127):
- Nulla Minois levi
- defuncta amore est, iungitur semper nefas.
E ancora, piú precisa (115):
- Genetrix, tui me miseret: infando malo
- correpta pecoris efferum saevi ducem
- audax amasti; torvus, impatiens iugi
- adulter ille, ductor indomiti gregis....
- sed amabat aliquid.
E da questo influsso materno, Fedra fa derivare, fatalmente, la propria colpa:
- Fatale misera matris agnosco malum:
- peccare noster novit in silvis amor.
E il tèma è discusso a fondo: la nutrice istituisce un parallelo fra la colpa di Pasìfae, e quello, secondo lei piú grave, della figlia (687):
- O scelere vincens omne femineum genus,
- o maius ausa matre monstrifera malum,
- generatrice peior! Illa se tantum stupro
- contaminavit et tamen tacitum diu
- crimen biformi partus exhibuit nota
- scelusque matris arguit vultu truci
- ambiguus infans: ille te venter tulit.
La conclusione è tratta da Ippolito (559):
- Sed dux malorum femina: haec scelerum artifex
- obsedit animos, huius infestis stupris
- fumant tot urbes, bella tot gentes gerunt,
- et versa ab imo regna tot populos premunt.
- Sileantur aliae: sola coniunx Aegei
- Medea reddet feminas dirum genus.
Difficilmente si saprebbe immaginare una tirata da misogine piú euripidesca di cosí. E tutti gli altri brani ricordati, suonano, ad un orecchio esercitato, come altrettanti echi di Euripide. E il loro complesso, insieme con molti altri luoghi della tragedia latina, èvoca una speciale atmosfera, che certo dominò la sensibilità di Euripide, e dové dare il carattere al suo primo Ippolito.
⁂
Nel secondo Ippolito, questa atmosfera andò quasi interamente dispersa. E la nuova Fedra non è piú la vera Fedra: è una figura ingentilita, e, in conclusione, sbiadita.
E, specialmente, composita.
C’è una donna trascinata da una passione fatale, che però sa resistere, e resisterebbe sino alla morte, se non intervenisse l’esortazione, galeotta, ma ispirata a reale affetto, d’una persona cara. Cede allora, pur continuando a reluttare; e quando il tentativo fallisce, trova il coraggio di togliersi la vita. Non è, ripeto, la Fedra della tradizione; ma è pur sempre una figura che attira il nostro interesse, o almeno ispira la nostra pietà.
Se non che, tutto è poi sciupato dalla lettera calunniosa. Il particolare della calunnia, tipico ed immutabile nella leggenda della donna adultera, conveniva alla Fedra della tradizione, ma non conviene a questa Fedra raffinata e purificata; e insozza d’una turpe macchia una figura d’altronde gentile e ideale.
A parte ciò, la tragedia che, conforme al titolo, s’impernia piú sulla figura d’Ippolito che non su quella di Fedra, è costruita con senso di misura e d’equilibrio perfetto, ed è animata da cima a fondo dall’ispirazione e da un alito finissimo di poesia; e a buon diritto fu sempre annoverata fra i puri capolavori d’Euripide.