< Ippolito
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Euripide - Ippolito (428 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Secondo episodio
Primo stasimo Secondo stasimo


Dall’interno della reggia giungono le grida di un’aspra contesa.

fedra

Tacete, amiche mie: perduta io sono.

corifea

Che avvien di grave entro la reggia, o Fedra?

fedra

Tacete, voci n’escono: ch’io l’oda.

corifea

Taccio; ma questo è pur tristo preludio.

fedra

Ahimè, ahimè!
Me sventurata! O patimenti miei!


corifea

Che cosa dici? Che grida ti sfuggono?
Di che novella improvvisa, o Signora,
cosí ti sgomenti?

fedra

Sono perduta: a questa porta apprèssati,
e ascolta qual tumulto empie la casa.

corifea

Tu sei lí presso: le grida che n’escono
tu puoi bene intendere.
Oh dimmi, dimmi, che mal sopraggiunse?

fedra

Contro la mia nutrice alte minacce
scaglia Ippòlito, il figlio dell’Amàzzone.

corifea

N’odo la romba; ma chiaro non odo
il grido che a te
arriva, arriva traverso la porta.

fedra

E mezzana d’infamie, e traditrice
del talamo del re, chiaro la chiama.


corifea

Ahimè, sciagura! Tradita tu sei!
Che mai dir ti posso?
Tu sei perduta, svelato è l’arcano.

fedra

Ahimè, ahimè!

corifea

Dagli amici tradita!

fedra

Disse il mio male, e mi perdei: benevola
fu nella cura sua, ma poco onesta.

corifea

Ed or, che potrai fare, in tal distretta?

fedra

Nulla io so, tranne un punto: a me morire
quanto prima conviene: ai mali ch’ora
soffro, la medicina unica è questa.
Fedra si gitta sul lettuccio, e rimane celata agli occhi di Ippolito, che esce quasi súbito, seguíto dalla nutrice, che tenta invano di calmarlo.


ippolito

O terra madre, o tramiti del sole,
di che parole turpi udito ho il suono!

nutrice

Taci, pria che i tuoi gridi, o figlio, s’odano!

ippolito

Tacere, poi che udii simili orrori?

nutrice

Sí, per la destra tua, pel tuo bell’omero.

ippolito

La man discosta, non toccarmi il peplo.

nutrice

In ginocchio t’imploro, oh, no, non perdermi.

ippolito

Se dici che non son tristi, i tuoi detti?


nutrice

Ma non tali che tutti udirli possano.

ippolito

Il bello, è bello innanzi a molti esprimerlo.

nutrice

I giuri tuoi non vïolare, o figlio!

ippolito

Giurò la lingua, non giurò la mente.

nutrice

O figlio, che vuoi far? gli amici perdere?

ippolito

Nessun malvagio amico è mio. Vi aborro.

nutrice

Figlio, perdona: sbaglia ogni mortale.


ippolito

Giove, perché questa magagna rea
degli uomini, le donne, a luce desti?
Se tu volevi seminare il germine
dei mortali, alle donne uopo non era
ricorso avere; ma doveano gli uomini
nei templi tuoi deporre un peso d’oro,
o di ferro, o di rame, e fare acquisto
del seme dei figliuoli, indi, ciascuno
in ragione del prezzo, e in casa vivere
liberi, senza donne. Adesso, invece,
per introdurre il reo flagello in casa,
perduti van delle famiglie i beni.
E che gran male sia la donna, basta
a dimostrarlo questo solo: il padre
che la nutrí, la generò, la manda
fuori di casa, e sborsa anche la dote,
purché libero sia da quel malanno.
E quegli, invece, che in sua casa accoglie
questa genía calamitosa, gode
nel ricoprire l’idolo esecrabile
con gli ornamenti belli, e s’arrapina
intorno ai pepli, misero, e in rovina
manda la casa. Ed è necessità.
Ché, se coi grandi s’imparenta, deve
far lieto viso a un matrimonio tristo.
Se poi buona è la sposa, e son da poco
i suoi parenti, soffocare ei deve
con le belle apparenze i suoi dolori.
Il meglio per un uomo è avere in casa
una donna da nulla, anche se inetta

e sempliciona: le saccenti aborro.
Deh, mai, mai quella donna in casa mia
non entri, che presuma oltre il suo sesso!
Ché la malvagità suscita Cípride
di preferenza nelle scaltre: invece,
di semplicetta nell’angusta mente
meno ha ricetto la follia d’amore.
Né mai dovrebbe alcuna ancella presso
stare alle donne, ma le mute gole
sol delle fiere, sí che non potessero
ad alcuno parlar, né voce intenderne.
Ché le persone tristi intrighi intessono
in casa, e fuor li portano le ancelle:
come ora tu, ribalda vecchia, vieni
a me, per far del talamo intangibile
del padre mio, mercato: ond’io con fluida
acqua mi monderò, dentro le orecchie
la verserò. Come alla taccia posso
di tristizia sfuggir, quando mi sento
per gli orrori che udii, contaminato?
O donna, e tu sappilo bene: salva
ti fa la mia religïon: se, còlto
di sorpresa, giurato io non avessi
pei Numi, stato io non sarei, che tutto
al padre io non svelassi. Or dalla casa,
finché Tesèo lontano è dalla patria,
io me n’andrò: sarà muto il mio labbro.
E con mio padre tornerò, vedrò
come potrai fissarlo in viso, tu
e la signora tua, saprò per prova
l’audacia tua, sino a qual punto arriva.
Alla malora! D’odïar le femmine

io mai non sarò sazio, anche se dicono
che mi ripeto sempre: anch’esse, dico,
sono sempre perverse. O le ammaestri
alcuno ad esser sagge, o sia concesso
a me, che sempre contro esse mi scagli.
Parte.

fedra

Antistrofe
Ahi, triste sorte misera
della donnesca vita!
Quali arti usar, che dir, poiché di sciogliere
questo nodo ogni speme è omai vanita?
Su me piombò giustizia.
O terra, o luce, ove fuggir lo spasimo?
Come, o diletta, il mio cordoglio ascondere?
Qual dei Celesti mai, quale degli uomini
assistermi vorrà? Di mia nequizia
complice farsi chi vorrà? La doglia
che la mia vita affligge, è troppo dura:
piú che ogni donna me preme sventura.

coro

Ahi, ahi, tutto è perduto, e vane furono
di tua ministra l’arti: or tutto è male.


fedra
alla nutrice.

O trista fra le tristi, o degli amici
sterminatrice, che m’hai fatto? Un folgore
t’avventi Giove, il mio parente, e in polvere
ti strugga. Preveduto il tuo disegno
io non avevo, non t’avevo detto
di tacere il segreto ond’ora io muoio?
Ma tu non ti frenasti; e senz’onore
ora morrò. Ma concepire devo
nuovi disegni: ché costui, con l’animo
dall’ira inacerbito, svelerà
al padre, in odio a me, l’astuzia tua,
al vecchio Pítteo svelerà gli eventi,
ed empierà di vergognose ciance
tutta la terra. A te la morte, e a chi,
per eccesso di zel, reca agli amici
recalcitranti un disonesto aiuto.

nutrice

Regina, a buon diritto il danno biasimi
ch’io ti recai: ché il duolo onde sei morsa
la ragione t’offusca. Eppure, anch’io,
se lo concedi, replicar potrei.
Io t’ho cresciuta, a te sono devota;
e pel tuo morbo un farmaco cercando,
quello trovai che non bramavo. Se
m’avesse arriso l’esito, fra i saggi
sarei cantata: ché secondo il volgere
degli eventi, si piega il nostro spirito.


fedra

È giusto questo, soddisfar mi può,
che m’hai ferito a morte e ne convieni?

nutrice

Troppo si ciancia. Io non fui saggia. Eppure
c’è modo ancora di salvezza, o figlia.

fedra

Taci, piú non parlar: tristi già furono
i tuoi primi consigli, e mano desti
a un’opera funesta. Adesso vattene,
e pensa alla tua sorte: alla mia, bene
provvederò da me. Voi, di Trezène
bennate figlie, a me che ve ne prego
questo accordate: sopra quanto udiste
qui, distendete del silenzio il velo.

corifea

Dei mali tuoi, lo giuro per Artèmide
figlia di Giove, io nulla svelerò.

fedra

Te ne ringrazio. Ora, io, solo un rimedio,
con la mente scrutando, ho ritrovato

per la sciagura mia, tal, che onorata
dei miei figli la vita io renderò,
ed io dal male ove caduta sono
avrò sollievo. Mai non macchierò
la progenie di Creta; e non andrò,
dopo vituperosi atti, al cospetto
di Tesèo, per salvar sola una vita.

corifea

T’accingi forse a un male irrimediabile?

fedra

A morire. Ma come, avviserò.

corifea

Non dir tristi parole!

fedra

                                   E tu non darmi
tristi consigli: ch’io, la vita mia
oggi lasciando, farò lieta Cípride
che mi distrugge. Da un amore amaro
vinta sarò; ma la mia morte un male
per altri anche sarà, ché dei miei mali
non vada altero; ma, partecipando
questo morbo, a far senno apprenderà.
Si fa ricondurre entro la reggia.

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