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DONNA FRANCESCA
Dorme, poggiata il capo a ’l davanzale |
Donna Francesca, IV.
Disegno di Giuseppe Cellini.
I.
Se dentro i favolosi orti vermigli
adunava la Luna i suoi misteri
(per lei presi d’amore, alti e leggeri
tremolavano in doppio ordine i Gigli),
il capo ergeano su da li origlieri
le Belle, a tesser rai: lungo i giacigli
di rose, propagavansi i bisbigli
richiamanti a l’agguato i Cavalieri.
In quelle notti, o Bella, de ’l lunare
argento una fatal rete voi forse
tesseste con le vostre dolci dita?
Sentendomi da voi tutto legare,
questo ne ’l mio pensier dùbito sorse;
e ancor ne trema l’anima smarrita.
II.
Odor di rose, forse da i giardini
chiusi del Re, venìa confusamente;
e splendea ne la fredda ora, imminente,
la Luna su ’l palazzo Barberini.
Mormoravan con voci roche e lente
le fontane invisibili tra i pini:
or sì or no li stocchi adamantini
oltre i rami balzavan di repente.
Noi, chinati da l’alta loggia, soli,
(ella rabbrividìa) delle fontane
ascoltavamo i languidi racconti.
Non così dolce cantan li usignuoli!
Vago ne l’alba suono di campane
giungeva da la Trinità de’ Monti.
III.
Più chiara su ’l palazzo Lorenzana
la Luna risplendea, Donna Francesca,
quella vostra beltà raffaellesca
guardando con dolcezza quasi umana.
La lontana di Giacomo, a la fresca
serenità, con voce roca e piana
mettea parole, come una fontana
magica de l’età cavalleresca.
Scintillavano l’acque; le figure
prendean vive attitudini, a l’albore
danzando in tondo con rapide fughe.
Per tale ausilio, al fin le vostre pure
labbra io baciai; così vinsevi amore...
Oh fontanella delle Tartarughe!
IV.
Dorme, poggiata il capo a ’l davanzale
de ’l balcon fiorentino,
la Titania di Shakspeare; e un divino
sogno da ’l cuor lunatico le sale.
Una rete d’argento siderale
i suoi capelli accoglie,
e luminose fasciano le spoglie,
dei colubri la sua forma ideale.
Per lei tramano i ragni, su l’opale
de l’aria, le sottili
opere in tra li stipiti; ed i fili
aurei tremano a l’alito immortale.
Così, Donna Francesca, entro il natale
albore di Selene,
ora dormite; e, in torno a le serene
bellezze, io vo tramando il madrigale,
mentre spiran le rose l’aromale
anima ne’ roseti
e li usignuoli i fiumi ed i poeti
cantan la notte augusta e nuziale.
V.
Una notte, com’io l’alta portiera
sollevai piano co’ la man tremante,
presso il gran letto la mia dolce amante
scorsi a ginocchi in atto di preghiera.
Ricorrean ne la stanza ampia e severa,
intessute con rara arte, le sante
Allegorie che l’anima pregante
traevan forse a più gioconda sfera.
Muto io ristetti, come a ’l limitare
d’un tempio; ma il disío tutto s’immerse,
stridendo, in quel misterioso aroma.
Ben, quando (oh notte!) la divina chioma
io le disciolsi e vinta ella m’aperse
le braccia, il letto parvemi un altare.
VI.
Entra l’albore gelido, pe’ i vetri,
ne l’ombra di quel letto ov’ella dorme
stanca di voluttà con semichiuse
le dolci labbra in cui trema il sorriso.
Or la Luna, ferendo ne l’aperto
cofano i bei gioielli, gloriate
opere di sottili orafi, illustra
diamanti, camei, perle e smeraldi.
Splendono le collane, come spire
d’un favoloso rettile sopito;
e paiono viventi occhi i rubini.
Langue, da presso, entro la coppa un giglio
in sua verginità, nobile e puro
quale un vaso liturgico d’argento.
VII.
O amica dolce, non sapeste mai
la verace dottrina che ne ’l mondo
il figliuol di Gesù, bello e giocondo
adolescente, a l’ombra de ’l Sinái,
predicava, nel nome d’Adonai,
a le spose ed alli uomini ascoltanti
ed ai compagni efébi, in tra’ rosai,
mentre scendean dal monte i greggi erranti?
Ei, come Ciro figlio di Cambise,
destro era e forte, generoso e parco,
non superato in trarre lancia od arco;
e molte fiere la sua mano uccise,
la sua man degna d’un regale sire,
ben usa a profumar la chioma bionda
di rare essenze che facean languire
le femmine in soavità profonda.
Divino era il suo nome: Eleabani.
Ed era come un olio di viola,
sereno, che ne ’l suon de la parola
si spandesse a lenire i petti umani.
In fondo a l’occhio suo puro e crudele
eran segrete fascinazioni.
Come il santo profeta Daniele,
avrebbe ei vinti a ’l suo giogo i leoni;
e con la voce, cantico di lire,
mansuefatti avrebbe aspidi in guerra.
Or prima, a soggiogar l’anime in terra,
trasse i cuor de le donne a ’l suo desire.
Tutte, da’ bei palagi ove risplende
l’oro, e da’ templi ove la pace dorme,
e da l’umili case, e da le tende
nomadi, e da’ tuguri, a torme a torme,
venivano a ’l figliuol de ’l Nazareno,
al bene amato eroe de la fortuna.
Lui proseguiano a ’I sole ed a la luna;
lui chiedeano, in morir de ’l suo veleno;
lui, ne l’alba, torcendosi le braccia,
invocavan su ’l tepido origliere,
o sognavano, pallide la faccia
tra l’ampia chioma, sfatte da ’l piacere.
Per l’orrore de’ portici silenti
a la fonte, assetata, una Maria,
come il cervo simbolico, venia
e ne l’acqua immergea le mani ardenti.
Quindi, protesa le stillanti mani,
e il ventre, bianco qual coppa d’avaro,
nudata, mormorava: — Eleabani!
Eleabani da la chioma d’oro,
o tu per le cui nembra i rai de ’l sole
una veste han tessuta, Eleabani,
o tu cui ne la bocca come grani
di puro incenso odoran le parole,
tu che de ’l tuo corpo hai fatto vase
a’ balsami celesti ed a’ profani,
o tu che scendi ne le nostre case
qual ne’ campi rugiada, Eleabani,
m’odi: li astri de ’l ciel com’aurei pomi
tremano in tra le foglie a’ melograni;
io son ebra e languisco, Eleabani,
come la damma a ’l colle de li aromi.
Come al vento tra le árbori la damma,
io trasalgo e sobbalzo ai romor vani.
Ad ora ad ora, in ciel vedo una fiamma.
Non tu sei che lampeggi, Eleabani?
Ed egli, avendo ereditato il Verbo,
amò, come Gesù, peregrinare.
Le parabole sue, rapide e chiare,
pungean le menti con lor senso acerbo.
Predilesse i conviti, poi che aperto
ne la fraternità convivïale
è l’animo de li uomini ed un serto
di chiarissima luce il vin spirtale
cinge a le fronti; e predilesse i petti
feminei, de’ lunati omeri il giro,
a segnar come in nitido papiro
evangelicamente i suoi versetti.
Quale un fiume, cui gonfia d’acque il maggio,
da le sedi natali alto discende
e più cresce in sua gioia e con selvaggio
fremito ride e a ’l sol pieno s’accende:
odono i boschi giugner la ruina,
vasti su le pacifiche pendici;
in van lottano; e, presi a le radici,
piomban ne ’l gorgo: tal la sua dottrina
volgea, passando, le credenze e i culti
e risplendea di libertà ne ’l sole.
Come il fiume in sua via reca virgulti,
pur recava d’amor nuove parole.
Egli ammoniva: «O giusto, è breve l’ora.
Ne la tua servitù sii paziente.
La pazienza è l’immortal nepente
che afforza i nervi e l’anima ristora.
Come in un tempio, ne ’l tuo cor ricevi
l’alto Ideale che de l’uomo è figlio.
E sappi in quel che mangi e in quel che bevi
trovar l’ambrosia e il nettare vermiglio.»
Ed ammoniva: «O donna, o Vaso insigne
de la dolcezza ed Arca de l’oblìo,
versa a li uomini il vin che già il Desío
cantando ricogliea ne le tue vigne.
Fa che soave il tuo spirito ceda
a l’alitare d’ogni passione,
come la tibia d’oro ove un’auleda
prova a diletto sua lene canzone.
Ama il tuo sposo ed ama il tuo figliuolo
ma fa che il beneficio tuo si spanda
pur su colui che in carità dimanda
una stilla d’amore, umile e solo.
E tutto diverrà per t’onorare
Mirra, Olibano, Incenso e Belzuino;
e saliranno come ad un altare
i cuori a te, con giubilo divino.
La carne è santa. È l’immortale rosa
che palpita di suo sangue vermiglia.
È la madre de l’uomo ed è la figlia.
Ed è quella che sta sopra ogni cosa.
Ella racchiude, come un’urna aromi,
tutte le voluttà, tutti i dolori.
Ha l’ardente opulenza ella de’ pomi,
ha la soavità casta de’ fiori.
Quale a notte in un tempio una fontana
mormora ascosa e dà voci di lire,
fa il sangue in lei pe ’l ritmico fluire
una musica assai dolce e lontana.
La carne è santa. Guai a chi non piega
l’anima innanzi a lei; però che tristo
egli l’essere suo nega, e rinnega
il suo divin maestro Gesù Cristo:
Gesù che, fatto carne, in su la croce
morì ne la montagna solitaria,
Gesù che, fatto carne, ebbe in Samaria
verso la donna così mite voce.
Gesù che, fatto carne, arse d’amore
vedendo un giorno in su la via fiorita
la Magdalena, e lei pregò d’amore
e me condusse a questa dolce vita!»
Tali cose ammonia, tra la comune
giocondità de ’l vino, in su la chiara
mensa. E le perle de la sua tiara
splendeano vagamente come lune.
Il cenacolo avea forma di lira.
Quattro colombe d’or con ali tese,
in alto, tra le frange di Palmira,
a invisibili fili eran sospese.
Due dromedari, avendo in su la schiena,
otri forati ed una campanella
di fino argento sotto la mascella,
spargean su’ marmi essenza di verbena.
In torno, i domitori-di-cavalli
efebi, sollevando in tra le mani
vasi che rendean suon come timballi,
beveano salutando Eleabani.
Bevean, coperti di carbonchi, in torno
satrapi enormi da la barba d’oro
il chalibon, rarissimo tesoro,
in un corno sottil di liocorno.
I dottori, i grammatici, i salmisti,
ed i leviti, i giudici, li scribi,
e i mercatanti, e i musici, commisti,
disperean su la mensa i rari cibi.
Le vestimenta lor, tinte di fuchi
preziosi, brillavan di lontano.
Alcuni, taciturni, aveano strano
aspetto di carnefici o d’eunuchi.
Ma le femmine cinte di ghirlande,
con denti bianchi come il gelsomino,
rideano tra ’l vapor de le vivande,
suggean da coppe di smeraldo il vino.
Il lor nitido riso giungea grato
ai cuori, come un verso numeroso.
Stendean le braccia, con un grazioso
gesto, a mostrare il cùbito rosato;
e prendean su la mensa i cedri, i fichi,
e le mandorle, i datteri, le olive.
Ne ’l bacio offrian, con belli atti impudichi,
la molle polpa su le lor gencive.
— Or mangiate e bevete, e di piacere
inebriate il vostro cuor mortale;
chè da l’ebrezza a Dio l’inno risale,
grato, come l’odor da l’incensiere —
diceva Eleabani. Ed era immune
il cuor suo da l’ebrezza ed era chiara
la sua voce; e splendeano come lune
ferme le perle de la sua tiara.
VIII.
— Francesca, o amica, o trepida colomba,
perchè piegate voi su ’l seri la testa,
pallida udendo il tuon de la tempesta,
che improvviso ne l’anima rimbomba?
Perchè torcete ne ’l dolor le mani,
le care mani, i fior gracili e snelli,
che pur ieri sapevan, con si piani
blandimenti, solcare i miei capelli?
Francesca, o amica mia, perchè piangete?
Le vostre membra treman così forte,
e così roca su le labbra smorte
vi muor la voce, ch’io non ho quiete. —
Ed ella: - lo guardo nel cuor mio; che, ardente
come una lampa, i tutto avviluppato
da una spoglia di serpe, transparente,
su cui l’orrido Inferno è figurato.
IX.
Come a notte in un tempio una fontana
mormora ascosa e dà voci di lire,
fa il sangue in noi pe ’l ritmico fluire
una musica assai dolce e lontana.
Veramente io non so quali parole
il buon sangue ne ’l capo mi favelli
volgendo sue misteriose ambagi;
ma ben io so che mai gighe o viuole
ornaron di più vaghi ritornelli
serenate d’amor sotto i palagi.
Canta, o buon sangue! Ed i pensier malvagi,
tutti, qual vin, da l’anima discaccia.
Nel mezzo del mio cor ride una faccia,
guardando la vendemmia allegra e sana.
X.
Se pure il verso mio, Francesca, è reo
d’aver la vostra naturai piacenza
ritratta intiera, in un lavacro, senza
la casta zona e senza il conopeo,
fu tempo già che Fra Bartolomeo,
pingendo i Protettori di Fiorenza,
la Nostra Donna in sua gentil movenza
ritrasse ignuda in mezzo a ’l gran corteo.
Or dunque se il buon frate di San Marco,
il quale è assunto ne reterne stelle,
ebbe per l’opra sua cotale ardire,
non io potrò ne ’l verso mio scoprire
de ’l vostro sen le due beltà gemelle
e de le late spalle il candid’arco?
XI.
Quando su per le scale ampie d’argento
la Reina salìa verso l’altare,
levata li umidi occhi a ’l Sacramento,
pallida e fredda, se volea pregare,
dava il bianco metallo un vibramento
sonoro in ritmo a li urti de ’l calzare:
tutte le scale come uno stromento
si mettevano in gloria a risonare.
O Francesca, così la vostra bionda
bellezza da ’l disio chiamata ascende
or de’ miei versi il mistico edifizio.
Fremono a i vostri piedi, con un’onda
di suoni, i versi: e a ’l culmine vi attende
tra i profumi de l’urne il sacrifizio.
XII.
Aveva un tempo il cardinal Grimani
ne ’l breviale suo, fino tesoro,
un’image ove molti angeli in coro,
ceruli e biondi, da’ bei volti umani,
su li omeri o su le agili ale d’oro
o su l’èsili palme de le mani
offrian cinte de’ nimbi cristiani
l’anime de li Eletti al Signor loro.
Ignudo erano l’anime: più bella
tra l’altre una figura feminina,
ne la sua dolce nudità, salìa.
Amo io così raffigurarti, o pia
Sposa, lungo l’azzurra erta divina,
su l’ali d’una candida angelella.
O del Signore ancella,
soffuso di pudore il vivo giglio
de le tue membra apparirà vermiglio
e per tutte le anella
fiammeggerà la celebrata chioma
simile ad una gran face d’aroma.