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A GIUSEPPE CELLINI
I.
Cellini, erami assai duro ed ingrato
il tempo, quando in cieca ira venia
a ’l grand’assedio de la vita mia
Amore con suo dardo avvelenato.
Ben ora a più gioconda signoria
una donna il mio senso ha costumato,
risuscitando ne ’l mio cor placato
uno spirto amoroso che dormìa.
Con che mitezza accenna la sua faccia,
tra ’l diffuso fiorir de’ ricci biondi,
in un colore angelico di perla!
Ride l’anima mia, solo a vederla;
tal serena bontà fuor de’ profondi
occhi le sgorga, che tutto m’abbraccia.
II.
Amico, le mie tristi passioni
or s’inchinano a lei, non più ribelli;
e volan alto, come lieti augelli,
per gran cieli d’amor le mie canzoni.
Vennero’ a lei le Grazie, in lor guarnelli
semplici a lei portando i rari doni,
come un tempo a Giovanna Tornabuoni
ne ’l bel fresco de ’l nostro Botticelli.
Vennero a lei le Grazie; ed ella, come
Giovanna, porse in atto di piacenza
il grembialetto a le visitatrici.
Ed esse la chiamarono per nome.
E ancora, parmi, de la lor presenza
risplendono le mie stanze felici.
III.
Quando ne la mia casa, ospite caro,
io t’avrò, se non sien duri li eventi,
in questi di settembre allettamenti
che indugiano pe ’l cielo umido e chiaro,
tesser vorrem di be’ ragionamenti,
lungo le vigne camminando a paro,
o, ne l’ombra, Tibullo e Fiacco e Maro
ornar di sottilissimi comenti.
Ampia in torno sarà pace rurale.
Ma i nostri orecchi udranno ad ogni poco
da la pergola escir suoni di lira.
E il sol cadrà su’ monti; e il mar natale
da lungi arriderà tra ’l roseo foco,
sospirando Tibullo da Corcira.