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PER LA MESSE
I.
Quando il tuo corpo d’Ebe, alto, ridente
ancor d’infanzia e già schiuso nel fiore
de la prima bellezza adolescente,
sorse avanti improvviso (era l’odore
pe’ i ricolti sereno), la vivente
ubertà de’ capelli a ’l fulvo ardore
de le spighe così naturalmente
si giunsi e così vergine il candore
del sol ne l’innocenza del mattino
arrise, ch’io tremai. Non forse tu,
risorta da la terra genitrice,
eri un’iddia de ’l buon tempo latino?
E non venivi ai popoli datrice
d’una nuova più forte gioventù?
II.
Sia con l’uomo la pace e la giustizia.
Tace, inerte nel sonno, la pianura
sazia di luce e pingue di dovizia
oppressa da l’immensa genitura.
Argentëi de’ venti a la blandizia
li olivi custodiscon la matura
copia. Fáusto il ciel brilla; e un coro inizia
i gravi offici de l’agricultura.
E si svolge così, ne la profonda
serenità de la tua luna estiva,
l’inno del pane, o madre terra esperia;
come quando per Cerere feconda
il mite canto arvalico saliva,
regnando Nunia con la ninfa Egeria.
III.
Or falcian diecimila braccia umane
la messe del frumento. Come antiche
are sacrate a deità pagane,
su i rasi campi sorgono le biche;
e lietamente l’uomo a le fatiche
piega la forza de le membra sane,
però che ride in cima de le spiche
a l’uom l’augurio de ’l futuro pane.
Guarda da l’alto su la rusticale
opera il Sole, dio benigno e grande
a cui sacro è ne’ solchi ogni covone.
E ne la pia letizia cereale
per me la tua geòrgica si spande,
o Publio Vergilïo Marone.